Irrational Man

Woody Allen tra filosofia e delitto in un film scritto e diretto con la solita sapienza del genio di Manhattan

Abe Lucas è un professore di Filosofia, arriva in un college di quelli da sogno, dalle parti di Providence, a Rhode Island. Si porta dietro una grande fama di donnaiolo e di scrittore maledetto, ha un approccio singolare e affascinante con i suoi giovani studenti, immediatamente diventa il centro di quella piccola comunità un po’ provinciale e anche ninfomane.

Inizia così “Irrational Man”, il film numero 45 del regista newyorchese, che varcata la soglia degli 80 anni ha ancora voglia di stupire, raccontando il solito, inestricabile mistero della mente e dell’amore.

Un mistero che genera qualche volta, spesso nei film di Allen anche la morte. Si perché     il giallo, dopo i primi momenti commedianti e divertenti si impadronirà presto della scena, un “delitto e castigo” che non è una novità nella filmografia del regista , se solo si guarda a ritroso a “Crimini e misfatti” e a “Sogni e delitti”. Abe è depresso, alcolista e impotente e per questo cerca una nuova vita, non solo attraverso una nuova cattedra di prestigio, ma appunto, ideando quello che nella sua mente dovrà esser il “Delitto perfetto”. Che poi, come ci ha spiegato tanti anni fa il maestro del brivido Sir Alfred Hitchcock perfetto non è mai.

Ed in effetti questo piccolo gioiello cinematografico fa il verso ma si potrebbe dire meglio, rimanda a grandi classici, dal già citato Hitch a “Will Hunting” o anche, seppur con variabili complicanze amorose a “L’attimo fuggente”. Ma qualcuno, i più attenti, troveranno anche un omaggio sorprendente e spiazzante a “Il vedovo” di Dino Risi, del resto non è un mistero l’amore che Woody nutre per la commedia all’italiana di quegli anni, specie in quella che ha tra gli attori uno dei suoi miti assoluti, il nostro Alberto Sordi.

Comunque su tutto, su ogni battuta del film si staglia imponente la Filosofia, soprattutto, par di voler dire l’autore, la sua inapplicabilità nella vita di tutti i giorni.

Kant appare come il protagonista occulto del film, la voce narrante di ogni azione e reazione, che si svolgono sempre tra le mani, le parole e lo sguardo sfuggente di Joaquin Phoenix, perfetto in ogni movimento, imbolsito eppur proprio per questo ancora più efficace nel suo trapanante lavoro di seduzione che opererà in ognuno degli altri protagonisti, tutti comprimari, ma tutti molto bravi proprio perché capaci di lasciar spazio al mattatore Phoenix, “The Master” per rimanere in punta di citazione. Bene molto bene anche Emma Stone, nella parte della romantica “Lolita” Jill, complice ma non troppo del (finto) misogino Abe.

Un film bello, con una meravigliosa sceneggiatura e con una fotografia, quella dell’ormai sempre presente Darius Khondji, all’altezza delle opere migliori di Woody Allen, che seppur ottuagenario ha ancora molto da raccontare.

Mauro Valentini