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I have a dream… qualche anno dopo!

Che succede quando un uomo decide che quando è troppo è troppo?

Un quesito che Martin Luter King si pone in un momento di crisi e di dubbio e che porta lo spettatore a chiedersi “e ora cosa succederà?!”, nonostante sappiamo, dalle pagine di storia, come andarono le cose. La potenza di questo film è, infatti, non tanto nel racconto di ciò che accadde a Selma, bensì nell’umanizzazione di un uomo che ha incarnato il simbolo della libertà di espressione, manifestazione e del diritto alla dignità umana di ogni individuo.

Ava DuVernay riesce a coinvolgerci pienamente raccontandoci di un uomo, della sua famiglia, dei suoi amici e compagni, dei suoi ideali. Non assistiamo ad una visione idealizzata di King, non vediamo solo il reverendo che pronuncia discorsi capaci di riunire folle di ogni religione, stato sociale o colore, ma ne seguiamo le tormentate notti nelle quali solo un canto d’amore per Dio ne può alleviare la sofferenza. Assistiamo alla difficoltà di una donna nell’amare incondizionatamente un uomo che ogni giorno rischia la sua vita e quella della sua famiglia, il quale, allo stesso tempo, ha i suoi segreti e le sue ombre.

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Nella prima scena King, interpretato magnificamente da David Oyelowo, e la moglie Coretta, Carmen Ejogo, sono ad Oslo e si preparano per la cerimonia di consegna del premio Nobel per la pace assegnato al reverendo nel dicembre 1964. Già dai primi minuti incontriamo un personaggio attento all’apparenza, nell’accezione più positiva che questo termine possa avere. E’ infatti preoccupato di essere vestito troppo bene e di fare la figura del riccone che va a ricevere un premio mentre tanta gente combatte ogni giorno la sua lotta. Questo è il King con cui abbiamo a che fare, non solo un predicatore protestante, ma anche uno statista e soprattutto uno stratega e politicante.

Siamo nella prima vera del 1965 e il dottor King chiede al presidente di fare una legge federale che consenta il rispetto del diritto costituzionale di votare delle persone di colore. Ciò gli viene ripetutamente negato, a quel punto decide, con il suo movimento, di andare a Selma, in Alabama. Patria, quest’ultima, di un razzismo radicato a tal punto da rendere impossibile ai suoi cittadini di colore di accedere alle liste di voto. Il reverendo punta sui media e sulla presenza, durante le marcie pacifiche organizzate, di giornalisti pronti a raccontare e fotografare qualsiasi atto, da ambo le parti. È questo uno dei punti più interessanti del film, l’utilizzo della televisione per sensibilizzare l’America rispetto ad un tema tanto scottante e, per molti, scomodo. Tanti i volti noti che hanno partecipato sia come attori che come produttori. Da una commuovente Oprah Winfrey nei panni di una signora alla quale per l’ennesima volta viene negato il diritto al voto, un cattivissimo e irreprensibile Tim Roth nella parte del governatore Wallace, il sempre emozionante Cuba Gooding Jr,  nel ruolo dell’avvocato Gray e un camaleontico Giovanni Ribisi, che come sempre ci sorprende in parti che solo lui può rendere interessanti, se pur con personaggi non proprio splendidi. Il presidente è interpretato da Tom Wilkinson, il quale è nel cast di un altro film in gara agli Oscar come miglior film dell’anno.

Selma è un film con un montaggio, alcune volte, quasi da documentario, ci sono anche scene vere di registrazioni dell’epoca. Si capisce perchè sia in lizza come miglior film. Toccante il coro originale registrato durante la vera marcia di Selma che si sente durante i titoli di coda.

Molte le scene emozionanti e altrettante quelle che possono suscitare profonda rabbia e incredulità mista ad un insopportabile senso di impotenza.

Alla produzione spicca il nome di Brad Pitt accanto a quello della Winfrey. Tutti questi nomi, e questa intensa partecipazione da parte di grandi attori, fa pensare che l’America questo film lo abbia proprio voluto, e che in fondo, come recita il trailer, questo è un film necessario e, aggiungo io, uno di quei film dei quali c’e’ ancora bisogno.