ADAGIO di Silvia De Felice

Adagio

di Silvia De Felice

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

Rapsodia Edizioni

 

Catastrofe può essere un virus, un terremoto, una guerra, ma può essere anche un amore finito male, un sogno infranto, una malattia o la morte; la catastrofe, qualunque ne sia la natura, cambia la nostra vita e la stravolge per sempre.

 

Mentre l’Adagio suonato dalla London Philarmonic Orchestra riempiva morbido la stanza illuminata dal sole, Elizabeth posò la tazza di tè sul tavolino, appena in tempo perché non cadesse. Da diverse settimane, ormai, le mani le tremavano tanto da non riuscire quasi a controllarsi, fece piano, non voleva turbare i sonni tranquilli di Mila. La gatta le riscaldava le gambe e l’anima, mentre lei osservava per l’ennesima volta quei campi verdi e sconfinati, quei cespugli di rododendro dove da bambina tante e tante volte si era nascosta con Arthur e John. Era abituata a stare da sola; in un’epoca in cui le massime aspirazioni di una donna erano il matrimonio, una famiglia numerosa e un marito, lei al contrario gestiva la sua vita senza dipendere da nessuno. Era sempre stata di corporatura robusta, ma era ben proporzionata, e aveva un viso molto femminile, incorniciato da folti capelli color del rame. La debolezza che provava ormai da tempo le aveva tolto quel sorriso con cui ammaliava le persone. La malattia negli ultimi mesi la stava logorando e presto, anche solo per nutrirsi, avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di qualcuno, e questo lei non lo avrebbe mai accettato né permesso.

“Cara, vecchia amica mia” disse, rivolgendosi alla gatta, “quando ero giovane pensavo che avrei girato il mondo, e invece sono rimasta qui. Credevo nel grande amore, e quando arrivò Marc ero sicura che fosse lui, quel grande amore. Erano svanite tutte le mie manie di indipendenza, pensavo solo a lui, vivevo nell’attesa del suo ritorno, pendevo dalle sue labbra. Stenti a crederlo, vero? Eppure è così: ero capace di costruire una staccionata, dipingere la facciata di casa, smuovere pietre enormi per creare aiuole di fiori. Invece con lui perdevo le forze, ero una stupida donnetta innamorata. Sapessi, cara la mia gattona, sapessi di cosa la tua padrona è stata capace, tanto tempo fa…”

Finita la musica, Elizabeth era rimasta sulla sua vecchia bergère ormai logora ad aspettare il tramonto del sole, dopo di che si era sforzata di preparare la cena. Ormai non aveva più fame, mangiava per abitudine e per dare, con i pasti, un ritmo alle sue lunghe giornate. Quando iniziarono a cantare i grilli, fece il giro della casa per controllare che porte e finestre fossero chiuse, spense le luci e salì in camera da letto, confidando in un sonno senza incubi. La sua era, purtroppo, una speranza vana. Da parecchio un unico incubo disturbava il suo riposo notturno. La scena era sempre la stessa: si trovava al buio, sulle scale che portavano giù in cantina, lei scendeva, gradino dopo gradino, e tremava sempre di più, il flebile rumore che le pareva di sentire aumentava fino a diventare un rantolo. Quando poi arrivava in fondo, e faceva per aprire la porta e accendere la luce, qualcosa o qualcuno le si avventava addosso e all’improvviso si svegliava, madida di sudore.

La mattina dopo, Elizabeth venne svegliata dalla gatta che voleva uscire, quasi non riusciva a ricordare cosa avesse fatto la sera precedente, cosa avesse mangiato per cena e a che ora si fosse messa a letto. Sorrise laconicamente al pensiero che anche la sua memoria, sinora fin troppo pronta, stesse perdendo colpi. Con grande sforzo si mise seduta sulla sponda del letto, fece tre grossi respiri e si alzò in piedi. Il risveglio era il momento peggiore della giornata, il suo corpo provato si rifiutava di obbedirle e i dolori erano tanti. Con il passare dei minuti i suoi muscoli si scaldavano e le fitte causate dai movimenti divenivano più sopportabili. Scese la scala che portava al pianterreno tenendosi aggrappata al corrimano, alla fine del quale era appoggiato il bastone che le permetteva di camminare.

Elizabeth entrò in cucina e aprì la portafinestra che dava sul giardino per far uscire Mila, la temperatura era gradevole e decise di servire la colazione in veranda. Una colazione speciale! Mise a scaldare l’acqua per il caffè e lentamente preparò la tavola: apparecchiò con la tovaglia bianca e le tazze in porcellana che le aveva lasciato sua madre, poi tirò fuori dal forno un dolce preparato con fatica il giorno prima e prese dal cassetto della madia le posate in peltro. Fiori non servivano: i cespugli di rose del suo giardino erano stracolmi di boccioli, avrebbero fatto da contorno anche senza reciderli, il loro profumo arrivava fino alla veranda. A breve sarebbero arrivati Arthur e John, ma lei aveva bisogno di riprendere fiato: quelle piccole attività le avevano tolto le forze. Quei due uomini per lei erano più che fratelli, eguali nell’affetto che le dimostravano sempre, ma così diversi nel corpo e nello spirito. Arthur era mingherlino, aveva lo sguardo curioso e la mente sempre alla ricerca del perché della vita. John, un omone dai pochi capelli, aveva un sorriso tenero e lo spirito di chi sa che la vita non finisce con la morte.

Elizabeth si appoggiò dolorante sul dondolo lasciandosi andare ai ricordi. In pochi attimi ritornò a quando era poco più di una bambina, l’estate alle porte e le scuole appena finite. Stacey’s Lane era una stretta strada privata che portava alla grande casa dove viveva con sua madre; Arthur e John abitavano a poche centinaia di metri. La  mattina, appena si svegliava aveva un unico pensiero:  vestirsi, mangiare un paio di biscotti e uscire a giocare con i suoi compagni di avventure. S’incontravano quasi tutti i giorni, a volte portavano qualche panino e rimanevano fuori fino al tramonto, con buona pace delle loro mamme, che avevano smesso da tempo di sfinirsi per chiamarli, tranquille che, al più tardi per cena, li avrebbero rivisti.

Il rumore di una macchina la svegliò da quel leggero dormiveglia a cui si era abbandonata. I suoi uomini erano arrivati, non voleva farsi trovare semisdraiata sul dondolo. Si sbrigò ad alzarsi non facendo troppo caso alle fitte che avvertiva, si sistemò i capelli d’argento e andò loro incontro sorridendo.

“Che belli che siete!” disse felice mentre li abbracciava.

“Elizabeth, mia cara, come stai?” le chiese John.

“Bella sei tu, come sempre!” fece Arthur, tendendendole la mano.

Entrarono e si diressero sulla veranda che dava sul giardino dietro casa. I due uomini avevano la sua stessa età, ma sembravano più giovani, il fardello che portavano nel cuore era meno pesante di quello di Elizabeth, e non aveva tra l’altro minato il loro fisico. Si sedettero intorno al tavolo apparecchiato ed Elizabeth servì loro il caffè.

“Devo ammettere che mentre vi aspettavo mi sono quasi appisolata sul dondolo” disse loro, ridendo, e aggiunse: “Ho sognato quando ci siamo ritrovati qui il giorno in cui siete ritornati a Wanborough, e tutti i segreti che mi avete rivelato”.

“Mi sembra ieri che la mattina appena alzati ce ne scappavamo a gambe levate da casa per avventurarci nei campi” proseguì John, mentre sbocconcellava il dolce. E aggiunse: “A te proprio non piacevano le bambole, preferivi le avventure e inventavi sempre viaggi fantastici!”

“Vero” si intromise Arthur, “partivamo con gli zainetti pieni di cibo, e le nostre mamme neanche si preoccupavano: sapevano che saremmo ritornati prima di buio. Sono stati anni bellissimi, peccato essere diventati grandi”.

“John, ricordi quanto rimasi stupita quando a Oxford decidesti di dedicare la tua vita a Dio e poi tornare proprio qui, a Wanborough, per essere la nostra guida spirituale?” domandò Elizabeth, e aggiunse: “Quando vidi che portavi quella catena con il crocefisso, rimasi senza parole. Proprio non me lo aspettavo”.

“Già” ammise l’amico sorridendo, “avevi una faccia!”

“E quando vi raccontai che avevo una storia d’amore con un uomo?” proseguì Arthur, “Ve lo ricordate? Calò un silenzio di tomba, ebbi paura che non mi avreste più voluto bene, e invece siete stati splendidi, volevate addirittura conoscerlo, che lo portassi qui a Wanborough. Figuriamoci! Ci avrebbero banditi tutti quanti, se non addirittura lapidati”.

I tre si guardarono sorridendo. La primavera inoltrata, il verde dei campi seminati, i fiori e il canto degli uccelli fecero da sottofondo per qualche minuto alla colazione e ai loro pensieri.

I due uomini aspettavano pazienti, la loro amica aveva qualcosa da dire, ma non volevano forzarla. Sapevano che era qualcosa di importante.

“Che ne dite se facciamo una passeggiata?” propose Elizabeth.

“Te la senti?” le chiese John.

“Sì” rispose la donna, e aggiunse: “Con voi al mio fianco, posso affrontare tutto”.

Arthur le prese uno scialle e s’incamminarono lenti verso i campi dove erano stati centinaia di volte da bambini. Lui aveva scoperto lì la sua passione per la medicina. Osservava curioso tutti gli insetti e i piccoli animali, se ne trovava di morti li apriva con il suo coltellino e cercava di scoprire il segreto della vita.

I tre camminavano piano, lei faceva un po’ fatica, le fitte le toglievano il fiato. Ma sopportava in silenzio, voleva godersi quei momenti. I suoi due cavalieri chiacchieravano, erano molto conosciuti e stimati nel villaggio; un medico e un sacerdote, in tanti si rivolgevano a loro per curare malattie del corpo e dello spirito. Anche Elizabeth non era da meno: negli anni di prosperità che erano seguiti al secondo dopoguerra, lei era stata una delle prime insegnanti di quel piccolo borgo, che pian piano era diventato un paese; quanti ne aveva cresciuti di bambini! Molti, poi, se ne erano andati, ma tanti erano rimasti, e quando la incontravano non scordavano mai di ringraziarla per la pazienza con cui si era dedicata a loro.

Dopo un po’ di cammino arrivarono al grande albero che si trovava quasi alla fine della proprietà. Era incredibile come ancora fosse perfettamente visibile l’incisione a forma di cuore con all’interno due lettere: una E e una M.

Nonostante nessuno di loro avesse fatto il minimo accenno a quel cuore, Elizabeth ebbe un sussulto, John la strinse e Arthur la guardò con tenerezza. La donna sfiorò quelle lettere e i ricordi riaffiorarono.

“Il giorno che ho conosciuto Marc ho subito pensato che fosse l’uomo della mia vita, quando poi l’ho rivisto la seconda volta ne ero già perdutamente innamorata. Come ho potuto essere così cieca e sorda da non capire che mostro fosse? Qualunque storia mi propinava io gli credevo, e perdonavo, aspettavo, speravo” iniziò a ricordare la donna. “Mi ripeteva in continuazione che era il lavoro a tenerlo lontano da me, che presto avrebbe sistemato tutto e sarebbe rimasto. Ogni volta che ripartiva mi diceva che sarebbe stata l’ultima, dovevo solo avere pazienza, avremo presto costruito la nostra famiglia. Gli ho sempre creduto, fino a quel maledettissimo giorno in cui si rivelò per quello che effettivamente era: un maledetto bugiardo”.

Elizabeth con un filo di voce ricordò ai suoi amici della mattina in cui lei gli aveva aperto la porta di casa. Era felice, fremeva nel dirgli della bella novità: dopo diverse settimane di ritardo del ciclo, aveva scoperto di essere incinta. Era sicura che questo suo regalo avrebbe finalmente convinto Marc a fermarsi a Wanborough, lui l’amava e un figlio sarebbe stato il coronamento della loro storia d’amore.

“Credetemi, quando gli  comunicai la notizia, si trasformò: gli tremavano le mani, lo sguardo era diventato cupo e la voce roca. Un gelo mi avvolse all’improvviso, ebbi un capogiro mentre lui sbraitava, e persi i sensi”. Raccontava quei fatti come se i suoi due compagni di vita non sapessero già, come se non fossero a conoscenza della catastrofe che di colpo si era abbattuta su di lei. Mentre parlava, John le passava delicatamente le dita tra i capelli d’argento, e Arthur le teneva stretta la mano. Era una donna forte, lo era sempre stata, tranne quel giorno in cui le terribili parole pronunciate da quello che pensava essere l’amore della sua vita l’avevano abbattuta. Elizabeth aveva telefonato ai suoi due amici, che erano subito accorsi e l’avevano trovata seduta a terra, gli occhi pieni di lacrime, tra le gambe una pozza di sangue. Arthur l’aveva visitata e il responso l’aveva quasi annientata: non solo era stata abbandonata dall’ uomo che amava, ma aveva anche perso suo figlio. Elizabeth non voleva più vivere. I giorni successivi erano stati molto difficili, lei si rifiutava di mangiare e bere, voleva solo dormire. I due amici avevano cercato in tutti i modi di consolarla, le parlavano di come avrebbe trovato un altro uomo, migliore, che l’avrebbe amata veramente. Lei non li ascoltava, aveva lo sguardo perso nel vuoto e a volte nel sonno, sentivano che si disperava, mormorava scuse incomprensibili. Dopo giorni di digiuno, accudita da Arthur e John, Elizabeth aveva ripreso a nutrirsi e in poche settimane si era ristabilita. All’inizio dell’anno scolastico, Elizabeth era stata pronta a riprendere il lavoro. Dentro di lei, però, era rimasto qualcosa che l’avrebbe corrosa per sempre, un segreto che non aveva potuto rivelare a chi le aveva sempre voluto bene. L’insegnamento e le gratificazioni dei suoi studenti l’avevano aiutata a vivere, ma un male si era insinuato dentro di lei, subdolo, lento, inesorabile.

Gli anni a venire erano in qualche modo trascorsi: John spesso andava a Londra per incontrare i suoi superiori, voleva rinnovare la canonica e aveva bisogno di fondi. Arthur, invece, a Londra non era più tornato; soltanto in quella città avrebbe potuto continuare la sua storia d’amore, ma ciò lo avrebbe obbligato a lasciare Wanborough e anche Elizabeth. Non ne avrebbe mai avuto il coraggio, aveva quindi soffocato i suoi desideri fino, in parte, a dimenticare.

“Cosa avrei mai fatto senza di voi? Mi avete aiutata senza battere ciglio, mi avete protetto e dato da mangiare affinché non mi lasciassi morire, mi avete consentito di continuare a vivere”.

“Era il minimo che potessimo fare per te” disse John, e proseguì: “Se solo avessimo avuto il coraggio di dirti cosa sospettavamo di lui quando ce lo facesti conoscere, forse…”

“Dai, sediamoci un po’, sei stanca, riprendi fiato” disse Arthur, e l’aiutò a sedersi sul prato, poi ad appoggiarsi con la testa sulle sue gambe. La giornata era splendida, Elizabeth aveva bisogno di parlare, di liberarsi, e i suoi due amici erano gli unici che potevano capirla e rasserenarla.

I tre erano seduti sul prato sotto il grande albero quando iniziò a cadere una fine pioggerella primaverile.

“Andiamo a casa prima che diluvi” disse John.

“Sì, va bene” rispose Arthur. Si rivolse a Elizabeth dicendo: “Mia cara, su, alzati”.

La donna obbedì, ma quando era quasi in piedi una fitta lancinante la fece piegare in due; la prontezza dell’amico impedì che cadesse. Arthur guardò John, erano impalliditi entrambi. Sapevano molto bene della malattia, sapevano che le condizione di Elizabeth si sarebbero aggravate molto quasi all’improvviso, senza alcun preavviso; sapevano che da un momento all’altro la loro amica avrebbe perso forze e conoscenza, ma non erano ancora pronti a lasciarla andare. Il medico aveva interpellato decine di specialisti, scritto lettere, consultato testi di medicina sperimentale; le risposte avute non avevano lasciato spazio alla speranza. C’era, inoltre, un fatto molto importante che incideva sull’evolversi implacabile della malattia, era un fatto che loro non riuscivano in pieno a comprendere: Elizabeth era stanca di vivere e non lottava.

Dopo qualche minuto lei sembrò essersi ripresa, e con un sorriso disse: “Ragazzi, torniamo in veranda, altrimenti ci bagneremo. Io ora sto bene, datemi le vostre braccia per camminare meglio”.

Si diressero verso casa. Fecero appena in tempo ad arrivare che venne giù un forte sgrullone. Il temporale durò poco, e le gocce d’acqua sospese nell’aria, aiutate dai raggi del sole crearono uno splendido arcobaleno. Elizabeth si era accomodata sul dondolo, la gatta sonnecchiava e lei ammirava quei sette colori nel cielo. Arthur e John le sedevano vicino su due poltroncine in vimini un po’ consunte; aspettavano che lei parlasse. In cielo ora splendeva un bel sole, le rose profumavano e le foglie dei cespugli splendevano bagnate. A chi avesse osservato da fuori, quella scena sarebbe parsa quasi un quadro di Monet.

Dopo un po’ Elizabeth guardò amorevolmente i suoi due uomini e disse: “Lo so che non volete, lo so che non siete pronti, ma io lo voglio. Io sono pronta. Ho resistito e lo sapete, l’ho fatto per voi, perché mi volete tanto bene e non volevo farvi soffrire. Ma ora basta, sono stanca, sono ancora lucida, ma non so fino a quando potrò esserlo. Sono stata un peso per voi per gran parte della nostra vita, non voglio esserlo più. Prima, al grande albero, ho creduto fosse arrivato il momento, non riuscivo a respirare, la vista mi si era annebbiata e le gambe non reggevano più. Io, Elizabeth, la vostra Elizabeth, non diventerò un vegetale che anela un soffio di vita sulle vostre spalle. No, non lo diventerò!”

Arthur e John non riuscivono a proferire parola, la guardavano con gli occhi gonfi, deglutivano per non far uscire le lacrime. Elizabeth prese Mila sulle sue ginocchia. Accarezzandola maternamente, continuò: “Arthur, caro amico mio, hai portato quello che ti avevo chiesto?”

John ebbe un brivido, appoggiò con forza entrambe le mani sulle ginocchia per fermare il tremolio delle sue gambe. Il medico mormorò un sì debolissimo. Qualche settimana prima, quando ancora riusciva a camminare più a lungo, Elizabeth era andata allo studio di Arthur, aveva aspettato che i suoi pazienti fossero andati tutti via, ed era entrata. Cercando di apparire serena e ferma più che poteva, aveva chiesto al suo amico medico di aiutarla a morire. Lui aveva fatto finta di non capire, poi si era opposto, l’aveva implorata e supplicata, ma lei era stata irremovibile. Gli aveva chiesto qualcosa che potesse farla andare in un sonno profondo dal quale non si sarebbe più svegliata. Nel momento in cui gli aveva detto che si sarebbe rivolta a sconosciuti se lui non l’avesse aiutata, Arthur aveva ceduto. L’aveva riportata a casa ed era corso in canonica: non poteva portare quel peso da solo. Lui e John avevano fatto insieme tutte le ricerche per riuscire ad avere quanto richiesto dalla loro amica, e avevano trovato qualcosa che l’avrebbe addormentata tranquillamente come avrebbe fatto un qualsiasi normalissimo sedativo, ma lei non si sarebbe più svegliata.

Nelle settimane successive, Elizabeth sembrava quasi migliorata; andavano spesso a Stacey’s Lane e la trovavano sempre fuori in giardino: una volta che tagliava le rose appassite dai cespugli, un’altra che leggeva un libro sul dondolo con Mozart, Bach o Chopin in sottofondo, un’altra ancora che si azzardava a passeggiare quasi fino al grande albero. Lei li accoglieva sorridente, sembrava felice; Arthur e John non potevano sapere che le fitte erano sempre più frequenti, che le gambe di Elizabeth cedevano e le mancava il respiro. In loro presenza, Elizabeth era stata bravissima a fingere. Arthur e John non sapevano che nel suo passato era successo qualcosa che lei non aveva mai confidato a loro due. Un pomeriggio, però, li aveva chiamati al telefono e li aveva invitati a colazione per il giorno successivo. Alla fine della chiamata, aveva detto ad Arthur: “Porta con te ciò che ti ho chiesto”. Lui aveva tremato e capito. La mattina, quando era passato alla canonica per prendere John, non aveva avuto neanche la forza di salutarlo, lo aveva guardato sofferente e non c’era stato bisogno di parole.

“Elizabeth, cara, vuoi salire in camera da letto? Ti aiutiamo noi” disse John ad un certo punto, con un filo di voce.

“No, voglio rimanere qui in veranda, sul mio dondolo. Desidero che il mio ultimo sguardo prenda tutto insieme, una fotografia di ciò che più ho amato nella mia vita: voi due, i cespugli di rose e anche quelli in fondo di rododendro, Mila, i prati dove siamo stati tanto felici”. Poi proseguì: “Nel cassetto della scrivania troverete una lettera: ho lasciato a voi questa casa e la proprietà, vorrei che ne creaste un rifugio per giovani donne sole con un bambino da crescere, donne che come me si sono illuse o sono state ingannate dall’amore, ma al contrario di me hanno potuto far nascere la creatura che avevano in grembo”.

Fece poi un gran respiro e aggiunse: “Quando non ci sarò più, dovrete scendere in cantina, spostare quel vecchio divano marrone che era di mia madre e sollevare le assi del pavimento. Troverete un tappeto, arrotolato, ve ne dovrete liberare subito. Avvolti in quel tappeto ci sono i resti di colui che mi ha rovinato la vita”.

I due uomini balzarono in piedi. Erano senza parole. Gli occhi spalancati, non riuscivano a credere alle loro orecchie.

“Ma che dici, Elizabeth!” urlò Arthur. La gatta corse via, impaurita.

“Che tappeto? Di quali resti parli? Che cosa stai dicendo?” chiese John mentre stringeva in maniera convulsa il crocefisso che portava al collo.

“Sedetevi” disse lei, “vi porto un po’ d’acqua e vi racconto”.

I due uomini si guardarono, erano smarriti, poi la seguirono con lo sguardo e aspettarono che tornasse in veranda con dei bicchieri e una caraffa. Continuarono a fissarla, sbigottiti, senza proferire parola e portandosi l’acqua alla bocca in modo meccanico. Ad entrambi tremavano le mani. Elizabeth si sistemò sulla poltrona e iniziò a rivelare quanto aveva taciuto per anni e anni.

“Il giorno maledetto in cui rivelai a Marc di essere incinta, dopo aver ascoltato le sue accuse e sopportato tutta la sua ira, l’ho aggredito quando si era ormai girato per uscire per sempre da casa mia. Non mi ero neanche resa conto di aver preso in mano l’attizzatoio che era appoggiato al camino. Mentre era di spalle, l’ho colpito con tutta la forza che potevo. Non lo uccise il colpo in sé, ma il fatto che Marc, cadendo, aveva sbattuto la testa sul gradino. Passato un primo momento di disperazione, non so in che modo trovai la forza per avvolgerlo nel tappeto dell’ingresso e trascinarlo per le scale fino alla cantina. Qui c’erano delle assi del pavimento che avrei dovuto sistemare da anni, ma non lo avevo mai fatto. Questo mi tornò utile: le spostai, sotto c’era spazio a sufficienza per nascondere un cadavere. E così feci. Mi ricordai che avevo conservato dei sacchetti di calce avanzata da alcuni lavoretti svolti in precedenza. Misi un po’ di quella calce intorno, sopra e sotto al tappeto che avvolgeva il corpo. Lo sforzo era stato tale che, una volta tornata di sopra, ebbi delle fortissime fitte al ventre. Dopo pochi istanti sentii del liquido colarmi tra le gambe. Riuscii a telefonarvi prima di accasciarmi sul pavimento, proprio dove poi mi avete trovata”.

Arthur e John erano ancora senza fiato, si guardarono smarriti per qualche istante, poi le si avvicinarono e l’abbracciarono forte. Elizabeth si lasciò stringere per qualche istante, poi si sciolse dal loro abbraccio, li guardò con affetto e disse: “Ora è giunto il momento. Aiutatemi ad andarmene”.

 

foto da Comfreak by Pizabay

 




LA STANZA DEI BOTTONI di Cristina Cortelletti

La stanza dei bottoni

di Cristina Cortelletti

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Marco contrasse il viso stanco allo stridio della serranda che finiva di avvolgersi nel cassonetto. Doveva lubrificare le guide di ferro, pensò, l’avrebbe fatto l’indomani. Erano le 19,30 e aveva promesso a Sara di cucinare le linguine al limone per cena.
Dalle vetrate in fondo al capannone si intravedeva in tutta la sua bellezza l’ultimo crepuscolo di settembre, e Marco si incantò a guardare le sfumature rosa. Penetravano la spessa coltre di polvere che ricopriva i vetri. Quel frammento di natura era una di quelle cose per cui valeva la pena trattenersi al lavoro fino a tardi.

Sulle pareti in penombra le crepe avanzavano inesorabili, rendendo la superficie una scorza avvizzita. Marco s’incupì constatando che le mura non mentivano, stava invecchiando anche lui. Il capannone, insieme alla portineria e alla torre quadrangolare, faceva parte di un vecchio polo industriale, costruito negli anni Sessanta. Un’unica grande costruzione comprendente tre edifici a schiera, con mura portanti comunicanti; all’interno del capannone c’erano quattro grandi pilastri sui quali poggiavano le capriate in cemento a sorreggere la copertura curva. Sulla parete destra erano posizionati i macchinari principali per la produzione, compresa la grande pressa che occupava un terzo del capannone e invadeva parzialmente il camminamento pedonale: bisognava avanzare a zig zag.

Marco avanzò a naso, l’odore dell’olio da taglio impregnava l’aria in corrispondenza della cesoia, sulla quale lampeggiava la piccola luce rossa che era tornato a spegnere. Notò sul pavimento le due chiazze nere che aveva dimenticato di pulire. Le schivò, sperando che dopo la riparazione che lo aveva impegnato tutta la giornata, il macchinario non perdesse più olio. Gli borbottò lo stomaco e si ricordò delle linguine che aveva programmato di cucinare per cena. Avrebbe fatto una sorpresa a Sara.

Marco accelerò il passo, girò la manopola, il led si spense e nel capannone tutto assunse un aspetto dormiente. In quel momento sentì l’ululato sommesso della colonna sonora de Il Buono, il Brutto, il Cattivo, abbassò lo sguardo verso la parete in fondo al capannone e vide lo spiraglio di luce che filtrava dalla piccola fessura vicino al pavimento. La stessa feritoia dalla quale proveniva la musica.

“Ciao Tuco” gridò Marco tendendo inutilmente l’orecchio, difatti non ebbe risposta. Marco guardò l’orologio, non aveva molto tempo, ma decise comunque di passare in portineria a salutare Tuco. Aveva soprannominato Tuco uomo nuvola perché era impercettibile, sfuggente e soprattutto indecifrabile. Aveva avuto il posto di custode notturno, in quanto unico candidato con un requisito fondamentale: non dormire mai. Di lui si diceva che era stato membro dell’Agenzia, designato all’effrazione di siti potenzialmente pericolosi e poi congedato per disturbi mentali. Dopodiché era scomparso.

Marco costruiva serrature di sicurezza antiscasso e Tuco rappresentava l’antagonista per eccellenza; fu così che tra i due iniziò una fortissima competizione. Marco s’era imposto di costruire delle serrature che resistessero all’abilità manuale di Tuco. Di giorno le realizzava e la sera le lasciava in portineria. Tuco le testava e poi la mattina, prima di andare via, le metteva in un sacchetto che appendeva al portone del capannone. I primi tempi Marco trovava nel sacchetto tutte le serrature divelte, e impegnò tutto il suo ingegno per costruire ingranaggi sempre più sofisticati e combinazioni cifrate che le rendessero inattaccabili. Fino a quando una mattina trovò nel sacchetto tutte le serrature intatte, guadagnandosi l’apprezzamento di quell’introverso e nebuloso custode. Sorrise, ripensandoci.

Da qualche mese aveva iniziato a lavorare sull’idea di Tuco, e non aveva più orari. Sara condivideva lo stesso entusiasmo, ma ultimamente si lamentava dell’ossessione che lui rasentava per quel progetto. Un’idea ardita per lei, ma non per Marco, che s’era messo alla prova per vincere la sfida più difficile di tutte: quella con se stesso.

S’incamminò senza esitare verso la porticina di servizio sul retro del capannone, superò il tavolo da lavoro, scantonò la pila di pallets che, come tutto, intorno alle pareti si ergeva fino al soffitto a volta. Si fermò subito dopo la pressa.
“Tuco!” disse, provando a girare la maniglia della porticina.

“Cosa vuoi?”
“Finire il lavoro” rispose, pentendosi immediatamente.
Sara stavolta non l’avrebbe perdonato. Il tono della musica si affievolì. Qualcosa nella porta scattò diverse volte, il battente girò cigolando sui cardini e si aprì. Lo investì un’aria satura di canfora e dell’inconfondibile odore dei fagioli al sugo in barattolo della Star. Marco detestava i cibi in scatola, rabbrividì.
“Credevo non venissi stasera” disse Tuco.
“Voglio finire il lavoro prima che arrivino gli ospiti” rispose Marco.
Tuco gli fece cenno di stare zitto.
“Gli uomini si dividono in due categorie, quelli con la pistola carica e quelli che scavano; tu scava!” riecheggiò la voce di Clint Eastwood.
Illuminato dalla luce calda della lampadina, Tuco sembrava più smilzo e più vecchio, teneva la testa sprofondata fra le spalle e lo sguardo incollato alla TV. Tra la barba rada e incolta facevano capolino delle piccole briciole, e tutto intorno c’erano mosche e tafani. Un duello tra desolazione e solitudine.
“Non hai una bella cera” disse Marco.
“Sono appena uscito dall’ospedale”.
“Ho sentito dire che ti hanno tolto un pezzo di fegato”.
“No… è andata bene”.

L’aveva scampata per un pelo. Gli spari rimbombarono, il Biondo aveva reciso con una pallottola la corda al collo del Cattivo, che saltava sul cavallo e scappava.
Tuco vedeva tutte le sere lo stesso film. Spinse verso Marco una scatola di legno piena di sigarette.

“Prendi” disse.
“No” rispose Marco, facendo un cenno con la mano. Aggiunse: “Ora no”.
Tuco si sedette davanti al contenitore di latta pieno zeppo di fagioli al sugo, senza distogliere lo sguardo dal televisore.
“È ora di cena” disse portandosi il cucchiaio alla bocca.

“Finiremo stasera?” chiese Marco.
Non ebbe risposta. Poteva farcela, pensò, picchiettando l’avampiede a terra; in fondo tutto era pronto, sarebbero bastati pochi minuti e avrebbe raggiunto Sara. La lentezza lo metteva a dura prova: sin da quando aveva imparato a camminare, a Marco piaceva correre. Per lui il tempo che passava infruttuoso era sprecato. Mentre aspettava che Tuco finisse, si guardò intorno. La portineria non aveva finestre e in tutte le pareti, grezze e aggredite da colature giallastre, si annidavano tante varietà di insetti, soprattutto falene. Restò sorpreso nel vedere che, mentre tutto ciò che riempiva la stanza era interamente ricoperto di polvere e briciole, il pavimento era pulito nonostante fosse usurato.
Cercò con gli occhi la fessura sul muro e poi puntò lo sguardo in basso sulla parete in fondo, dove c’era l’armadietto arrugginito, e la vide. La fessura era comunicante con il suo capannone in prossimità di quella che aveva definito la stanza dei bottoni, precisamente l’area tra la pressa e la troncatrice.
Tutte le sere da quella fessura filtrava la musica di Morricone che si diffondeva nel capannone, rimbalzava sulle pareti e si amplificava nella volta. Le note degli ottoni e dei violini si espandevano fino a riempire tutta l’aria. Tuco non poteva essere un burbero animale se la musica lo afferrava a tal punto, pensò.
“Ecco, prendi” disse Tuco versando il caffè nelle solite tazze.
“Buono come sempre” rispose Marco sorseggiandolo. “Dobbiamo sbrigarci” proseguì, “ci resta poco tempo”.
Tuco, con fare calmo, accese una sigaretta e soffiò il fumo, che salendo scomparve nell’oscurità; prese la lista sulla parete di fianco al televisore e fece cadere a terra la puntina con la quale era fissata. Marco si chinò per raccoglierla e vide una nuova fessura sul muro, identica all’altra. “Accidenti!” esclamò tirandosi su a fatica.
“Cosa ti preoccupa?” chiese Tuco.
“Inizio ad essere vecchio per queste cose, e non dormo da troppe ore”.
“Non lamentarti” disse Tuco, “non è tardi”.

Pigiò il tasto del VHS sul telecomando e sullo schermo comparvero numerosi lepidotteri che volavano al rallentatore. Entrambi osservarono lo schermo, si scambiarono un’occhiata e annuirono.
“Ti aspetto di là” disse Marco aprendo la porticina.

Rientrò nel capannone, le sfumature incupite del tramonto avevano ceduto al buio; attese che gli occhi si abituassero e si diresse verso la pressa, dopo pochi passi si trovò nella stanza dei bottoni. L’odore di muffa si era intensificato negli ultimi giorni. Sulla parete comunicante con la portineria erano fissati degli argani a manovella, ai quali erano collegati dei cavi di acciaio che si allungavano verso il soffitto e si incanalavano nelle piccole carrucole ancorate alle travi. Ogni cavo scendeva parallelamente alla parete e si fermava ad una altezza diversa dagli altri. Alcuni terminavano con una lamina di acciaio, altri con una molla fissata ad un piccolo moschettone. Marco scrutò il marchingegno tenendo in mano la pulsantiera del comando a motore e corrugò la fronte, qualcosa non gli tornava. Per un attimo si scoraggiò. Lo scosse il pensiero di quanto avesse lavorato per trasformare il marchingegno degli ingranaggi da un progetto teorico in realtà tangibile.

Si focalizzò nuovamente sulla parete, ripassò mentalmente lo schema del circuito raccomandandosi ad ogni singola vite, alla quale aveva affidato una grande responsabilità: non allentarsi. Aveva scongiurato il rischio di mandare in frantumi l’ingranaggio, ma gli ospiti erano furtivi e si mostravano in giro raramente; mentre di notte erano alacri lavoratori, di giorno era difficile capire cosa facessero: un sabotaggio non era da escludere.

Quando Tuco aveva iniziato il lavoro di guardiano notturno, gli ospiti erano già lì, e in tre mesi era riuscito a studiarne le abitudini, condividendo con loro il cibo, la musica e le notti. Poi un giorno propose l’azzardato progetto a Marco, che accettò senza pensarci. Da quel giorno ci si erano dedicati, impegnando tutte le loro conoscenze per riuscire a realizzare un’opera di straordinaria architettura.

Marco strofinò le mani umidicce sul gilet, le tempie rigonfie scandivano i battiti.
“Ora ho capito” esclamò Marco ad alta voce, tenendo d’occhio la parete.
Lasciò la pulsantiera, prese quattro tavolette di legno e fissò su ognuna un rocchetto di plastica che avvolse con del filo di rame; prese due piccoli magneti, li forò e li mise all’interno di ogni rocchetto, poi fece passare trasversalmente nei fori un tondino di ferro, che collegò con il mastice alle manovelle di tutti gli argani. Si asciugò la fronte con il dorso della mano. “Giusto in tempo” disse con le labbra socchiuse, e inspirò soddisfatto.
“Tuco!” gridò Marco.
Tuco guardò l’orologio, selezionò sulla TV il fermo immagine con decine di falene immobili che riempirono lo schermo e mise il telecomando in tasca. Gettò nel secchio il barattolo vuoto dei fagioli, prese una tazza, la riempì di acqua e canfora, e la posizionò sul pavimento davanti alla fessura che stava sulla parete in fondo alla stanza. Si diresse verso la porticina, si voltò per accertarsi che tutto fosse a posto ed entrò nel capannone.

La lucetta calda della portineria che filtrava dalla fessura nel capannone si rifletteva sulla lamiera argentata della pressa, diffondendo un fioco bagliore nella stanza dei bottoni. In quel luogo tutto prendeva forma e vita. Le due pareti laterali erano tappezzate di disegni e bozzetti di miniature, oggetti che Marco aveva realizzato artigianalmente, pezzi unici nei quali aveva infuso la sua passione. Aveva sperimentato un’infinità di materiali per creare, e alcuni avevano dato risultati davvero magici. Tutt’intorno giravano ricordi. Ogni progetto generava in Marco un’energia incredibile che trasferiva negli oggetti costruiti, rendendoli testimoni di se stesso, in grado così di trasferire l’eredità della sua storia al futuro, certo che Sara avrebbe fatto tutto il possibile affinché ciò accadesse.

Tuco aveva già visto quei disegni, ma rimase ancora una volta affascinato. Ad un tratto sentirono i misteriosi rumori muoversi nella parete dove era stato costruito il marchingegno. Era arrivato il momento, Tuco si avvicinò e scrutò l’ingranaggio che risaltava sulla decadente parete scura. “Avevo utilizzato dei motorini elettrici” specificò Marco. “Che stupido… ora dovrebbe essere perfetto”.

“Sono delle piccole dinamo” osservò Tuco, facendo una smorfia di apprezzamento.
“Sì. Meno rumore faremo e più alte saranno la probabilità di successo” rispose Marco. Ripassò mentalmente tutte le funzioni, diede un’ultima lubrificata alle ruote delle carrucole e si accertò che i cavi fossero ben saldi.
Si posizionarono entrambi a circa due metri dalla parete. Un fremito scosse Marco, come se fosse parte del circuito.
“Vai, accendi”.
Tuco, impassibile, abbassò la levetta dell’interruttore e una cascata di luce proveniente da centinaia di micro lampadine alogene si diffuse sulla parete. Marco regolò l’intensità con il varialuce mentre Tuco, accanto alla pressa, si era preparato a girare due manovelle. Marco afferrò le altre due e iniziarono a girarle.

I cavi in tensione stridettero e, piano piano, si avvolsero alle bobine manovrate dagli argani; alcuni cavi tirarono su le lastre in acciaio fissate alle loro estremità, scoprendo così le numerosissime crepe sul muro. I cavi con i moschettoni sollevarono una specie di sipario in pvc trasparente che, una volta steso, rivestì l’intera parete come una pellicola di cellophane. L’idea della pellicola era venuta a Sara, che nella vita faceva la scenografa. L’utilizzo di questo materiale si era rivelato un ottimo compromesso. Il pvc stabilizzato, oltre ad essere malleabile e quindi facilmente arrotolabile, era molto resistente e, soprattutto, trasparente. Avevano creato un sistema per sovrapporre una finta parete sulla parete esistente.
Le travi del soffitto scricchiolarono, Marco e Tuco smisero di girare le manovelle e tutto il marchingegno si fermò. Restarono fissi a guardare in silenzio. Le crepe si intersecavano e formavano una fitta rete di gallerie comunicanti, un labirinto scavato nel muro; cunicoli contorti che sbucavano in altri cunicoli, una specie di sistema circolatorio interno alla parete.

“Eccole” sussurrò Tuco.
Finalmente le videro. Migliaia di falene brulicavano velocemente in ogni direzione, correvano nei caotici tragitti; attratte dalla luce alogena si mostravano a loro, contenute dalla pellicola che ne evitava la dispersione e le manteneva nelle loro caverne. Le falene entravano e uscivano, andavano e venivano, salivano e scendevano nel groviglio inestricabile multiviario.

“Guarda” disse Tuco, “sapevo che ne sarebbe valsa la pena”. E pensò che così doveva essere il giardino magico di Armida, ma senza piante: tanti involuti percorsi, per nascondersi e riprodursi. Nelle fenditure più in alto, sostavano immobili le mosche delle mansarde, forse migliaia, pronte a ibernarsi per tutto l’inverno. Erano vuote, invece, le crepe e le tane più in basso, quelle alla base della parete, comprese le due fessure comunicanti con la portineria.

Marco non era esperto di insetti, ma era impossibile distogliere lo sguardo dal lavoro di quei rispettabili ingegneri alati. Se potessero parlare, pensò, svelerebbero come possa esserci un’ordine in tanto caos. Avrebbe voluto che Sara fosse lì.
Decisero tacitamente di passare alla fase successiva, e spensero le lucette alogene. Attesero pochi secondi per abituarsi alla penombra della stanza dei bottoni, poi si concentrarono per intercettare qualsiasi movimento sulla parete, ancora rivestita con la pellicola trasparente. Marco distolse lo sguardo per arrotolarsi le maniche della maglietta; lo fece lentamente e senza fare rumore. Il sudore colava come se lo stessero strizzando. Si voltò a guardare Tuco, che era completamente preso dal tentativo di focalizzare gli insetti.

Perlustrarono la parete centimetro per centimetro, crepa per crepa, tutto il labirinto di gallerie ora pareva disabitato. Tutto sulla parete era immobile. Si avvicinarono ancora di più con movimenti sincroni, come se si fossero messi d’accordo.
“Gli insetti non possono essersi dissolti” disse Marco.

Dalle fessure in basso a terra filtrava la luce della portineria.
“Ecco, ora è perfetto” disse Tuco.
“Che succede?” chiese Marco.
Tuco si girò di scatto e si avviò a passo svelto verso la porticina, urtò la troncatrice e dalla tasca gli cadde il telecomando della TV. Improvvisamente la musica di Morricone si diffuse ovunque. Marco restò immobile a fissare la porticina.

“Tuco!” gridò, ma non ebbe risposta.
Bloccò i quattro cavi in prossimità delle manovelle, cercando nel buio un fermo appropriato per tenere ben saldo il telo che rivestiva l’intera parete.
“Accidenti, non vedo niente!” esclamò. “Ci si mette pure la musica…”

Nella confusione non riusciva a pensare. Si guardò intorno, afferrò un puntale e bloccò il tiro. S’incamminò verso la portineria, ormai conosceva a menadito ogni centimetro del capannone, e aprì la porticina.
“Shhh”sussurrò Tuco alzando le braccia sopra la testa, “vieni a vedere”.

Marco, piantato sulla soglia, sgranò gli occhi: tutta la stanza era piena zeppa di insetti, migliaia di falene volavano unite in un vortice. Una fioca luce intermittente tagliava il buio della stanza. Tanti lampi di luce biancastra venivano continuamente spezzati dagli insetti, che si inseguivano in un girotondo forsennato. Tuco aveva stampato sul viso un ghigno, pareva nutrirsi di soddisfazione da ogni poro.

“Diamine, che succede?” gridò Marco.
“Shhh” ripetè Tuco. “Tutto è come previsto” disse accennando appena il labiale.
“Dove ho sbagliato?” insistette Marco scuotendo la testa.
“È una straordinaria evasione di massa” gridò Tuco più forte della musica.
Le falene giravano sulle note in una veloce spirale, abbagliate dalla luce artificiale, insieme alle mosche e ai tafani che compivano numerose giravolte. Tutti gli insetti danzavano in una combinazione perfetta di acrobazie. Un innocuo battito d’ali aveva sortito l’effetto sperato da Tuco, che aveva scovato il tesoro sepolto nella parete e finalmente adesso era lui a muovere i fili. “Vedi? Con un semplice inganno di luce li ho dirottati” disse Tuco, compiaciuto.
La soddisfazione eccessiva per aver portato a termine il progetto si era trasformata nell’arrogante ingordigia di accaparrarsi il merito e il bizzarro bottino. Marco non era superstizioso, ma in quel momento gli balenò il pensiero che quelle creature potessero essere veramente portatrici di sventure. Lo fissava confuso.
“Sbrighiamoci, usciamo da qui” disse Marco ad alta voce.
“Ancora non hai capito!” gridò Tuco. “Non vuoi proprio vedere?”
“Non ora. Presto, usciamo” ribatté Marco.
“Troppo, troppo tempo…” disse Tuco. “Non va bene fare le cose per troppo tempo”.
Non dormiva da un pezzo, perché aveva l’idea che se avesse chiuso gli occhi si sarebbe perso nelle tenebre. Dal primo giorno che era stato assunto e per tutte le 733 notti che seguirono aveva ascoltato il brulicare degli insetti, ininterrottamente dal tramonto all’alba. Aveva studiato le loro abitudini e vulnerabilità; non avendo altro a cui valesse la pena dedicare del tempo, si era intestardito sull’idea di stanare quelle creature della notte che tanto gli somiglivano. Non ci volle molto a convincere Marco che, stuzzicato dalla strana e bizzarra idea, si era messo subito all’opera. Così ogni sera che Marco era rimasto al lavoro, Tuco aveva rubato con gli occhi le tecniche e i metodi che l’altro adottava per costruire oggetti. Aveva imparato ad usare tutti gli attrezzi e gli utensili da lavoro e aveva memorizzato i prontuari, la tenuta e la resistenza di infiniti materiali. Che Marco fosse un abile e intraprendente artigiano, era un fatto che volgeva a suo vantaggio, un colpo di fortuna. Lo avrebbe utilizzato per sfogliare la parete e portare alla luce gli insetti.

“Vecchio pazzo. Forza, facciamole uscire!” gridò Marco, dimenando le braccia nell’aria fitta di falene.

Tuco era al centro della stanza, i capelli arruffati gli spiovevano sulla fronte e la sua faccia aveva assunto un’aria sinistra. Teneva i denti serrati e non batteva ciglio. Lui non era l’uomo con la pistola carica, come il cattivo del film. Lui aveva scavato per tutta la sua insulsa e monotona vita, e lo aveva fatto sempre nello stesso identico modo, senza il coraggio di impugnarla e premere il grilletto. Finalmente poteva essere un bastardo, come suo padre e il padre di suo padre. Improvvisamente andò verso di lui e lo fissò, erano uno di fronte all’altro, e in quel lasso di tempo sospeso Marco vide riflessa negli occhi di Tuco un’invocazione di sfida. Non riusciva a spiegarsi cosa stesse succedendo né perché, ma sostenne comunque lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore. Avrebbe potuto raccogliere la sfida, com’era nella sua natura, si sarebbe messo in gioco e ne sarebbe uscito vittorioso, ma non lo fece. Afferrò Tuco per un braccio e tentò di trascinarlo verso la porticina, ma lui con uno strattone si liberò dalla presa e si diresse a passo deciso verso la televisione. Interruppe la musica.

Improvvisamente dal soffitto si sentì uno stridio ferroso che si mescolò al fervido battito d’ali delle falene. Il tetto della portineria si aprì e i raggi lunari si diffusero nella stanza. Gli stessi raggi che prima erano intermittenti, ora erano continui. Le falene, attratte in una vorticosa danza, intrecciavano giochi di luce. Era meraviglioso, eppure un brivido lo attraversò. Tuco pigio il tasto ‘on’ sul telecomando e sulla parete iniziò a sollevarsi un telo trasparente.

“Mio Dio, è identico all’altro!” esclamò Marco. “Sì”.
“Perché l’hai fatto?”
“Per me”.

“Non capisco” disse Marco.
“Vai di là e accendi le lucette” disse Tuco, agitando una mano nell’aria.
Marco obbedì e andò nel capannone.
Tuco pigiò un altro tasto e il soffitto si chiuse; fu subito buio. In pochi secondi gli insetti rientrarono nelle caverne della parete, attratti dalla luce proveniente dalla stanza dei bottoni. Poi azionò nuovamente il sipario, che scese e rivestì la parete impedendo agli insetti di uscire. Si lasciò cadere a terra, esausto.
Marco rientrò, accese la luce e restò a bocca aperta nel vedere tutto il lavoro che Tuco aveva fatto: un macchinoso congegno. Nella testa gli frullavano tante domande. Lo vide seduto a terra, con la sua giacca impolverata e la testa china sulle ginocchia. Non aprì bocca e restò ad osservare la stanza. Tutto era stato costruito in modo che si potesse celare nel buio dell’alto soffitto e mimetizzare con la parete: un sipario nel sipario. Si appoggiò allo stipite e la mente

ricreò i tre mesi di lavoro, le immagini scorrevano silenziose in un involontario susseguirsi di istantanee; si sentì rinfrancato e accennò una mezza domanda: “Allora è per questo che…”, si interruppe abbassando lo sguardo. Non ora, pensò, non è il momento. “S’è fatto tardi. Devo andare” disse Marco, dirigendosi subito dopo verso la porta.

Tuco alzò la testa e i loro sguardi si incrociarono. Marco sorrise, annuì e uscì. A Tuco piacque la considerazione silenziosa di Marco, che sarebbe andato a casa e avrebbe raccontato a Sara dello straordinario successo del loro lavoro. Le avrebbe parlato per un po’ di quel vecchio pazzo, se lei avesse voluto ascolarlo. Ci avrebbe almeno provato, ma forse Sara non gli avrebbe creduto.




COSA HAI COMBINATO IN MIA ASSENZA? di Laura Avati

Cosa hai combinato in mia assenza?

di Laura Avati

tratto da Voci Nuove

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

“Non so se ho fatto bene ad accettare l’invito di Luca, non vorrei dargli false speranze, ma di certo non potevo perdere questa occasione” pensava Eleonora, come al solito in ritardo, camminando di fretta sui tacchi a spillo, che sui sampietrini la facevano sembrare ubriaca. Aveva impostato l’indirizzo sul cellulare per evitare di girare a vuoto. “Il civico è questo” pensò, ed entrò esitante in un piccolo locale desolato, a metà tra un negozio di cianfrusaglie cinesi e un kebab. “Lo sapevo, si è vendicato quello stronzo” disse a denti stretti Eleonora. Era disorientata, il forte odore di spezie le dava la nausea mentre un paio di indiani stavano friggendo delle verdure. Nel vederla suonarono un campanello.

Da quella che sembrava una cella frigorifera uscì un uomo talmente inamidato che le sembrò di avere di fronte Lloyd, il barista fantasma di Shining. “Posso aiutarla, signorina?” disse con voce cavernosa. “Avevo un appuntamento con un mio amico, ma credo di aver sbagliato indirizzo” rispose e sorrise, imbarazzata, Eleonora. Si avviò verso l’uscita.

“O forse no, si accomodi signorina Eleonora” rispose l’ipotetico Lloyd, spostandosi dalla porta e facendole segno di entrare.
Eleonora si ritrovò in un ripostiglio pieno di scope, stracci, detersivi e secchi ammucchiati. “Ma dove diavolo sono capitata? E come fa a sapere il mio nome?” si chiedeva, impaurita e un po’ preoccupata, mentre Lloyd apriva una seconda porta e ad Eleonora sembrò di aver varcato le porte di Narnia. Una cappa di fumo di sigarette e sigari rendeva l’atmosfera ancora più misteriosa, ma il locale era davvero particolare ed affascinante come le avevano raccontato le sue amiche. Sulla destra, un tavolo con una macchina da cucire Singer anni Cinquanta fungeva da tavolino per una coppia di giovani, e la debole fiamma di una candela illuminava un angolo in fondo alla stanza, facendo risaltare una carta da parati con disegni geometrici in rilievo di velluto nero; al centro della sala c’era un pianoforte a coda e un’affascinante ragazza bionda che suonava musica jazz.

Sdraiato su una chaise lounge in fondo al locale, Luca sorseggiava il suo drink; appena vide Eleonora le andò incontro. “Ormai pensavo non venissi più” le disse, dandole un bacio sulla guancia.
Un cameriere con straccali, coppola scozzese e baffi rigirati all’insù li fece accomodare su vecchie poltrone in legno di un cinema, in una zona riservata del locale. Eleonora si sentiva a disagio perché era finalmente riuscita ad entrare al Jerry Thomas, lo speakeasy più famoso di Milano, dove solo su invito di altri tesserati potevi accedere. Stavolta aveva dovuto accettare l’invito di Luca, che più volte aveva declinato sempre con scuse più o meno credibili: quell’uomo non le piaceva molto, era sempre molto misterioso e sulle sue.

Eleonora era nervosa, ma decise di godersi la serata e chiese la carta dei cocktail: era su carta riciclata e usurata, il che le dava un’aria antica, vissuta. Pensò a quante mani l’avevano sfogliata prima di lei; abbozzò un sorriso e sulle guance le si formarono le due fossette che piacevano tanto a Luca.

“Questo posto è fantastico, meglio di come lo immaginavo, a parte l’entrata enigmatica…” disse Eleonora, e aggiunse: “Un po’ mi ero spaventata, ad essere sincera”.
“Sì, è vero, ma mai giudicare dalle apparenze!” rispose Luca.

“Anche tu mi hai sorpresa, stasera: non hai il doppiopetto!” disse Eleonora osservando Luca, che indossava jeans attillati, camicia bianca, giacca di lino azzurra e una pashmina blu al collo che faceva risaltare ancora di più i suoi occhi verdi.
“Non sono in servizio”.

“Mi puoi consigliare qualcosa, visto che qui sembri di casa?”
“Io non bevo cocktail, non mi piace il miscuglio di sapori, preferisco il whisky. Questo giapponese è fantastico, il mio preferito” rispose Luca, mandando giù un altro sorso.
Dopo aver letto tutti i cocktail disponibili e i loro ingredienti, Eleonora decise per un “Improved Aviation”, un cocktail a base di gin e liquore alle viole.

Per una ventina di secondi ci fu un silenzio pesante e imbarazzante, poi per fortuna Lloyd le portò il suo cocktail, servito in una coppa di cristallo con dentro una viola e una scorza di limone.
“Grazie” disse Luca al cameriere, dandogli una pacca sulla spalla. Eleonora ebbe l’impressione che fossero vecchi amici.

“Allora, Luca, raccontami qualcosa. In fin dei conti, si può dire che non so niente di te”.

“Non c’è molto da dire su di me, ho avuto una vita abbastanza normale” rispose Luca. “La cosa più interessante che mi è capitata è stata trasferirmi a Milano e iniziare a lavorare alla New Pack”.
“Cosa ti ha spinto a trasferirti?”

Luca si irrigidì e, dopo averci pensato un po’ su, disse: “Discutevo sempre con mio padre, il mio piccolo paese mi stava stretto”.
Eleonora gli confessò di aver avuto una sola storia importante, con un uomo più grande di lei, finita molto male perché aveva scoperto che era sposato e con dei figli. Luca le confessò cinicamente di essere stato fidanzato più volte, niente di serio, e che non aveva mai sofferto per una donna. Continuarono a chiacchierare e a raccontarsi, finché Lloyd si avvicinò e li avvisò con gentilezza che a breve avrebbero chiuso.

“È stata proprio una bella serata, grazie per avermi invitata” disse Eleonora salutando Luca all’uscita del locale.
“Grazie a te per aver finalmente accettato il mio invito, cominciavo a pensare di non aver nessuna chance” rispose lui.

“Vorrei sdebitarmi con te, magari invitandoti a cena. Che ne dici?” disse Eleonora. “Solo se cucini tu” rispose Luca.
“Ok, ci sto. Ci vediamo in ufficio, buonanotte e grazie ancora” disse, e si allontanò soddisfatta.

Per un po’ di giorni, in ufficio Luca ed Eleonora non si incontrarono: lui era in trasferta all’estero, tuttavia si spedirono qualche e-mail. Quando Luca le fece sapere che era di nuovo a Milano, Eleonora lo invitò a cena da lei. Lui accettò e lei iniziò subito a pensare al menù: voleva stupire Luca con una delle sue ricette speciali, ma non sapeva i suoi gusti e la cosa le metteva ansia. Decise per un filetto di maiale in crosta con mele e prugne, la ricetta che meglio le era riuscita al corso di cucina per single, per cui lo chef le aveva fatto i complimenti.

Luca arrivò puntuale. Entrando rimase sorpreso dal calore e dall’atmosfera che si respirava in quella casa. Notò subito la particolarità del lampadario: era una ruota di bicicletta fissata al soffitto dalla forcella, con le lampadine inserite nel tubolare. “Metti qui il giacchetto” disse Eleonora, indicando l’appendiabiti ricavato da rami inseriti in una cornice incollata al muro.

“Ti ha aiutata un architetto ad arredare casa?”
“No, sono tutte mie creazioni: amo il bricolage e i materiali di recupero. Credo che questi siano per me!” disse Eleonora, prendendo dalle mani di Luca un mazzo di fiori e una bottiglia di vino.
“Sì, scusami, ero stato distratto dalle tue opere d’arte” rispose Luca, adesso rapito da un’altalena attaccata al soffitto il cui seggiolino era stato ricavato da una mezza botte. “Mettiti pure comodo sul divano, dieci minuti e la cena è pronta”.
Anche il divano era una chicca: un assemblaggio armonioso di pallets e comodissimi cuscini beige a righe marroni. Luca, vergognandosi, non poté fare a meno di fare i confronti con il suo divano, ricoperto di cartoni di pizza, lattine di coca-cola e vaschette del take-away.
“Hai davvero talento e buon gusto, Eleonora, credo che ti ingaggerò per sistemare la mia topaia” disse Luca sorridendo, mentre la padrona di casa arrivava dalla cucina con due calici di vino bianco.
“La cena è pronta, ci possiamo mettere a tavola” disse Eleonora, che era un po’ in ansia. Aggiunse: “Ho preparato il mio cavallo di battaglia, spero ti piaccia”.
Il cavallo di battaglia era impiattato molto bene e aveva un profumo davvero invitante. Altro che quei piatti della rosticceria! pensò Luca mentre mangiava lentamente per assaporare al meglio il suo filetto.
“Non solo sei una bravissima arredatrice, sei anche un’ottima cuoca” le disse. “Grazie, sono contenta che ti sia piaciuto. E invece qual è la tua specialità?”

“Il pollo arrosto con le patate del fast food sotto casa, sono bravissimo a comprarlo e a mangiarlo” rispose Luca, guardando Eleonora che rideva. “Per non parlare della pizza e del sushi consegnato direttamente a casa” continuò Luca, “credo di aver acceso il gas di casa solo per fare il caffè”.

“Non ci credo” disse Eleonora, ridendo di gusto.
“Sediamoci sul divano, così finiamo il vino e stiamo più comodi” disse lei sprofondando nei cuscini.
Come delle vecchie pettegole, avevano parlato molto durante la cena, soprattutto di lavoro e dei colleghi, e l’avevano fatto senza risparmiare nessuno!
Eleonora a un certo poggiò ingenuamente una mano sulla gamba di Luca. Inaspettatamente lui si alzò e disse che si era fatto tardi, doveva andare via perché l’indomani aveva una trasferta a Milano. I saluti, frettolosi e freddi, lasciarono Eleonora perplessa.
La trasferta di Luca fu più lunga del previsto e, dopo qualche settimana, Eleonora seppe che si era licenziato dalla New Pack, senza dare il preavviso e senza nessuna spiegazione, lasciando tutti i colleghi molto sorpresi. Lei aveva provato a contattarlo, ma non c’era stato modo: sembrava sparito nel nulla.

“Questo posto è sempre bello ed enigmatico; sono anni che lo frequento e ogni volta noto un nuovo particolare che mi colpisce” disse Eleonora ai suoi amici, osservando una lampada ricavata da una bottiglia di rum e sorseggiando uno dei suoi drink preferiti del Jerry Thomas. Una donna al bancone del bar la stava fissando già da un po’: Eleonora non la conosceva, ma in lei aveva qualcosa di familiare e non riusciva a capire se e dove l’avesse vista prima. Seduta su una poltrona da barbiere con i cuscini un po’ rigidi, Eleonora non riusciva a stare ferma, si muoveva nervosamente, ma la scomodità della poltrona non era l’unico motivo della sua inquietudine: quella donna la turbava. Chiese a Lloyd se la conoscesse, lui rispose: “È una vecchia cliente”. Eleonora prese il suo boulevardier e si avvicinò al bancone del bar. “Ci conosciamo?” chiese alla donna misteriosa. Notò che da vicino era ancora più bella, aveva gli occhi verdi e penetranti.

“Ciao Eleonora” rispose la donna. “Sì, ci conosciamo. Sono… anzi, ero Luca” rispose la donna tutto d’un fiato.
Eleonora sgranò gli occhi, non riusciva a parlare. Bevve un sorso del suo drink sperando che la aiutasse. “Luca?” disse, incredula.

“Sì…”
“Forse è il caso di parlare un po’, ma non qui e non stasera” disse Eleonora, continuando a fissare il suo amico e non credendo ai suoi occhi.
“Mi potresti preparare un’altra cenetta, magari, e ti prometto che questa volta non scapperò” rispose Luca.
“Ok, domani sera, l’indirizzo lo conosci”.

L’indomani, Eleonora cucinava nervosamente e stavolta non per paura che le sue pietanze potessero non piacere, ma perché non le era mai capitata una situazione del genere e non sapeva come comportarsi.
Eleonora accolse il suo ospite con un sorriso imbarazzato.

“Ciao, chiamami Arianna” disse il suo ex collega.
Eleonora non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: il suo viso, che già da uomo aveva dei lineamenti dolci, adesso le sembrava ancora più bello. Indossava un tailleur rosso fragola con pantaloni che facevano risaltare le gambe lunghe e armoniose, e poi scarpe con tacco non esagerato; gli occhi verdi, sempre bellissimi, erano messi in risalto da una matita blu e dal mascara, e un filo di rossetto evidenziava le labbra sicuramente rifatte: Arianna era bellissima. Eleonora si guardò di sfuggita allo specchio e si sentì, in confronto, la brutta copia di Cenerentola.
Iniziarono a cenare, “Mi sono sempre sentita uno, nessuno, centomila…” fece Arianna.
“Perché non me ne hai parlato?” chiese Eleonora.
“Volevo farlo quella sera a cena, ma quando hai poggiato la tua mano sulla mia gamba…”
Eleonora si sentì mortificata e si scusò. Prese la mano di Arianna, che stavolta non reagì allontanandola, e restarono in silenzio.

“Non mi dici niente?” chiese Arianna.
“Sì, ti dico che ho bisogno di bere qualcosa di forte” disse Eleonora, capendo che non era certo il momento di fare domande. “Ti va un whisky?” le chiese.
“Sì, grazie, anche se non avrai il mio preferito” disse Arianna, sorridendo e lasciando andare la mano di Eleonora.
“Ho sempre pensato che in te c’era qualcosa di diverso: eri più sensibile rispetto agli altri uomini che avevo conosciuto, più attento ai particolari, gentile…” disse Eleonora, mentre serviva da bere alla sua ospite.
“Cosa hai combinato in mia assenza?” chiese Arianna.
“Vediamo un po’: ho costruito altri pezzi d’arredamento, ho cambiato la macchina e mi sono fidanzata con un uomo di cui sono molto innamorata e che tu devi assolutamente conoscere” rispose Eleonora.
“Questa sì che è una bella notizia!” esclamò Arianna. “Da quanto tempo state insieme?”
“Da quasi tre anni. Si chiama Teodoro, e credo proprio che sia quello giusto! Aspetto solo l’anello e la proposta di matrimonio”.
Chiacchierarono a lungo prima di salutarsi e darsi appuntamento al Jerry Thomas per il venerdì successivo.
Eleonora decise di fare una sorpresa ad Arianna: le voleva far conoscere Teodoro, era sicura che si sarebbero piaciuti.

Arianna era seduta al bancone del bar a chiacchierare con Lloyd. Quest’ultimo, appena vide Eleonora, fece un gesto con la testa alla sua vecchia cliente per indicarle che era arrivata la sua amica. Arianna si girò e, come se avesse visto un fantasma, iniziò a sudare freddo.

“Ciao cara, ti presento il mio Teodoro” disse Eleonora facendo le presentazioni. “Piacere, Arianna” rispose lei, con lo sguardo basso.
Arianna voleva fuggire da quella situazione imbarazzante: Teodoro era stato un suo cliente quando era già fidanzato con Eleonora e, soprattutto, questo era accaduto prima dell’operazione. Teodoro guardò per tutta la serata Arianna insistentemente: c’era qualcosa in quella donna che lo indisponeva, ma non riusciva a capire cosa né perché. La serata non fu certo un successo.

“Che ne dici di Arianna?” chiese Eleonora al suo fidanzato mentre, abbracciati, tornavano a casa.
“Simpatica, ma un po’ scontrosa” rispose lui.
“Sì, stasera era un po’ strana in effetti”.

Arianna era seduta ancora al bar. Chiese un whisky doppio e, torturandosi nervosamente le mani, pensava a cosa avrebbe pensato di lei Eleonora se avesse saputo. Prima dell’operazione aveva fatto di tutto per potersi mantenere. Aveva dovuto lasciare il lavoro, le cure e i trattamenti erano costosi, e quel poco che aveva messo da parte era finito presto. Doveva dirglielo? Eleonora avrebbe accettato e capito? Sarebbero rimaste amiche? Del resto, lei che colpa aveva…

Teodoro, nel frattempo, non riusciva a dimenticare gli occhi di Arianna e aveva cominciato a far caso ad alcune coincidenze. Cominciò a sudare. Decise di tornare al Jerry Thomas, nella speranza di trovare ancora Arianna e chiarire il suo sospetto: su, non poteva essere Luca, era molto tempo che non riusciva più a contattarlo; inoltre, alcuni suoi amici gli avevano detto che era sparito.

Arrivò all’entrata ma, non essendo socio del locale, i ragazzi indiani in cucina non lo facevano entrare. Teodoro cominciò ad innervosirsi, poi passò ad insultare i due ragazzi. Ad un tratto, Arianna uscì da quella che sembrava la porta di una cella frigorifera. Vedendo Teodoro in quelle condizioni, si spaventò.

“Adesso mi dici chi sei!” urlò Teodoro, che si era lanciato contro Arianna come per aggredirla. I due ragazzi indiani cercarono di fermarlo, ma non riuscivano a staccarlo da Arianna.
“Si può sapere cosa vuoi da me?” fece lei.

“Solo sapere chi sei: sei Luca, vero?”
“Sì, ero Luca…”
“Sei tornato per rovinarmi la vita! Vero, brutta puttana?”

In quel momento uno dei due ragazzi indiani colpì con un bastone la testa di Teodoro, che si accasciò a terra. Arianna riuscì a scappare e a prendere un taxi, arrivò a casa che ancora tremava per la paura e per la rabbia.
Il telefono svegliò Eleonora in piena notte. “Pronto?” rispose lei con un filo di voce. “Eleonora, sono Arianna. Ti devo parlare. Sei sola?”

“Sì. Che succede? Ti senti male?” chiese Eleonora, che intanto s’era messa a sedere sul letto.
“Più o meno. Posso venire a casa tua?”
“Sì, certo. Ti aspetto”.

“Cosa hai fatto? Cosa sono quei segni sul collo?” chiese Eleonora ad Arianna appena la vide.
“Non so da dove cominciare, Eleonora. È stato… Teodoro, mi ha aspettata all’uscita del Jerry Thomas e mi ha aggredita”.

“Non ti credo, è impossibile!” fece Eleonora, a cui venne da piangere. Prese a camminare nervosamente avanti e indietro.
“Forse non lo conosci bene neanche tu” disse Arianna.
“Teodoro mi ama, e io amo lui. Non ti permetterò di parlare male di lui”.

“Ho fatto male a venire qui. Chiedi al tuo caro Teodoro la verità e poi decidi tu stessa a chi credere” disse Arianna prima di andarsene. Eleonora era spaventata. Provò a chiamare Tedoro, ma il telefono era spento, probabilmente già dormiva. Riprovò varie volte, ma fu inutile. Si rimise a letto, tuttavia non riuscì più ad addormentarsi. La mattina successiva, Eleonora fece una doccia fredda e bevve un caffè forte prima di uscire per andare a lavorare. Accese come sempre la radio della macchina, già sintonizzata sulla sua stazione preferita. Una notizia data al giornale radio le provocò uno spasmo: una donna era stata mortalmente aggredita nel parco vicino a casa sua; grazie alle telecamere di sorveglianza, l’aggressore era stato riconosciuto e arrestato. Non avevano dato le generalità della vittima e neanche dell’aggressore. Eleonora, inebetita, provò a chiamare per l’ennesima volta Teodoro, ma il cellulare era ancora spento. Provò a chiamare Arianna, ma il telefono squillò a vuoto più e più volte.

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LA TERRA DELLE MERAVIGLIE

Cristina Cortelletti

La terra delle meraviglie

tratto da Voci Nuove 7

“Zeffirino!” chiamò ad alta voce suo papà per l’ennesima volta.
La voce echeggiava espandendosi per tutta la baia dominata dall’antico promontorio di Capo Vita, che ora era ricoperto di un manto giallo vivo. Le ginestre spinose si srotolavano in un tappeto di gonfi germogli e si spingevano fino ai pendii scoscesi, aggrappandosi con le loro radici alle fenditure delle rocce arenarie. Il vento di levante tirava sull’ameno promontorio e faceva crepitare i fiori, che sembravano farfalle pronte a spiccare il volo.
Il padre di Zeffirino era solito mettersi seduto sull’unico scoglio levigato che emergeva appena dall’acqua ed era cinto da piccoli scogli completamente sommersi. In quel tratto di mare tra la spiaggia e gli scogli, soffiava sia il vento di ponente che quello di levante. Lì transitavano banchi di sugarelli argentati. Il riflesso del sole contro la superficie del mare lo stordiva. Per riuscire a guardare nell’acqua senza strizzare gli occhi, il padre di Zeffirino seguiva lo spostamento della poca ombra che il faraglione gettava sullo scoglio dove egli si era appostato. “Zeffirino! Dove sei?” chiamò di nuovo. La sua voce si mescolò al fragore dell’onda che si sgretolava. Una rivolta di goccioline lucenti sfiorò la sua pelle, procurandogli un piacevolissimo formicolio.
“Eccomi” rispose.
La voce arrivava ogni volta da un punto diverso e non bene identificato. Zeffirino era un instancabile ficcanaso e ogni domenica, mentre il padre munito di santa pazienza raccoglieva i soliti molluschi, lui esplorava il territorio circostante, allungando di volta in volta il raggio d’azione. Era uno spirito libero come la madre, evadeva continuamente nel regno della fantasia, tanto da confondere spesso la realtà con l’immaginazione. Brusco, così era soprannominato dai paesani il padre di Zeffirino, non era un tipo simpatico, ma d’altronde per lui la simpatia non era una priorità. Era figlio di gente all’antica, per intenderci: semplice, se non proprio terra terra, e quanto a introversione era tutto suo padre; un uomo tutto d’un pezzo, gran lavoratore, tenace, molto pratico e per niente affettuoso, come peraltro gran parte dei suoi parenti.
Lo scrosciare dell’acqua sugli scogli metteva a tacere tutto il resto. Brusco riusciva a scrollarsi di dosso la tensione accumulata durante la settimana e a riportare a casa quasi del tutto intatte le sue forze, che andavano diminuendo pian piano ogni giorno che passava. Da qualche mese lavorava al porticciolo di Cavo, come addetto allo scarico delle merci. Era un tipo magro, con grandi occhi neri, un filo di labbra, sempre scapigliato e trasandato, non dava peso a ciò che

indossava, ma sotto quei panni c’erano grovigli di nervi e sottili ma forti muscoli. Incassava bene, nonostante i suoi quasi quattro lustri sembrassero il doppio.
“Zeffirino? Zeffirino, dove sei?” chiamava con tono pacato senza levare lo sguardo dagli scogli, con tutta la calma e la pazienza di cui era dotato. Monitorava gli spostamenti del figlio ascoltando la risposta alla sua chiamata, riuscendo a identificare la sua posizione in base al volume della voce e all’intensità del tono. Così, anche fuori dalla portata della vista, poteva vigilare sul piccolo scavezzacollo.

La giornata volgeva al tramonto e mille colori dal giallo al viola coloravano l’acqua, una leggera folata gli fece rizzare i peli sulle braccia: era ora di rientrare. “Zeffirinoooooo”. “Sono già al grande albero, papà. Ti aspetto qui”.
Brusco scosse la testa accennando un sorriso, prese la cesta, infilò la tracolla e i vecchi sandali di gomma, ormai secca di sale come la spessa e dura crosta della pianta dei suoi piedi. Si incamminò. Avrebbe potuto camminare scalzo sugli scogli di tufo affilati senza sentire dolore, ma le abitudini erano dure a morire, così come i suoi sandali. Imboccò il sentiero che attraversava la lecceta, i grandi alberi ombreggiavano una vasta zona della piccola baia, una delle tante verdi macchie mediterranee dell’isola. Amava il caratteristico odore di verde e sale. Si rivide da bambino a Cavo andare a scuola, sguazzare nell’acqua del mare, andare giù alla grande torre romana a pescare, andare da Ennio il tabaccaio a comprare le cartine per confezionare le sigarette per il nonno Luigi.

“Ehi, ti sbrighi?” gridò Zeffirino, impaziente.
Brusco camminò per un centinaio di metri a passo svelto. Quando giunse in prossimità del grande albero di leccio, vide Zeffirino seduto sulla protuberanza di una delle grosse radici che sbucavano dal terreno. Alzò lo sguardo seguendo i venticinque metri del maestoso tronco che terminava in una folta e magnifica chioma, in questo periodo dell’anno carica di ghiande. Anche lui, da ragazzino, aveva passato ore ed ore ad osservarlo. Era un albero monumentale, aveva centocinquant’anni ed era stato insignito del titolo di Bene Culturale della Natura. I sempreverdi coloravano tutto l’anno l’isola d’Elba, dando l’impressione che lì il tempo si fosse fermato.
Con un balzo Zeffirino fu in piedi. “Era ora! Quanto sei lento!” disse, scandendo le lettere una ad una. Percorsero il sentiero sterrato per circa mezz’ora, poi ne imboccarono un altro che si trovava sulla sinistra della lecceta e la fiancheggiava per un chilometro, fino alla strada dall’asfalto sconnesso che conduceva a Cavo.
Durante il cammino di ritorno, Zeffirino parlava e saltava e correva prima avanti e poi indietro, ininterrottamente: era un fiume in piena. Brusco, invece, con il passare degli anni si era indurito

e sembrava non essere più capace di emozionarsi. Si levò una leggera brezza che fece stormire le fronde, e un fruscio malinconico da quel momento accompagnò il loro cammino.
“Stasera pesce in brodetto” disse Brusco.
“Uffa papà, sempre la stessa cosa”.

“E tu sempre a lamentarti”.
“Sarà, ma io vorrei mangiare un bel pezzo di carne con una di quelle salse americane!” disse, lanciando sassi sul selciato.
L’avrebbe mangiata anche Brusco, ma da quando la miniera era stata chiusa per la protesta e lui lavorava saltuariamente al porto, non potevano permettersi cibi costosi. Si occupava personalmente del figlio e della casa da quando Giulia se ne era andata via di notte, portandosi dietro poche cose e lasciando un biglietto di scuse e di addio.
Zeffirino, un po’ affannato, rallentò il passo e attese il padre. Gli si mise a
fianco. Sentiva lo scricchiolio della grossolana granella di terra schiacciata dalle suole, sincrono con il suo respiro. Fu attratto dal luccichio di quelle briciole di terriccio attaccate ai sandali e pensò a quanto era fortunato a vivere in quel posto; era ‘il prescelto’ per esplorare l’unico pezzo di luna presente sul pianeta Terra.
Raccolse un pugno di quella polvere lunare, la sgranellò fra pollice e indice, poi la porse al padre e chiese: “Da quanto tempo è qui?”
Brusco era di poche parole, ma l’entusiasmo di suo figlio era tale che decise di parlargli di Elba, l’isola fuligginosa. Indicò una roccia piana che era poco più avanti, sotto un piccolo arbusto di corbezzolo; in quel punto i grandi lecci erano stati potati, e alla luce e al calore del sole erano cresciute alcune piante di arbusti cespugliosi, ricchi di fiori e bacche colorate.
Si sedettero sulla tiepida roccia. Brusco notò che era quasi buio, l’umida polvere mineraria rendeva il paesaggio surreale. Era il momento giusto per raccontare: “Devi sapere che questo tratto di costa è denominato costa che brilla, per via della ricca concentrazione di ematite e pirite che fanno luccicare il terreno e le spiagge; e questo, Zeffirino, l’hai già notato. Ma quello che non sai è che la vecchia strada sterrata che corre da Marina a Cavo attraversa il territorio denominato ‘terra del fuoco’. Centinaia di rocce vive di colore giallo ocra tappezzano una striscia di terra che, come una lingua rosso sangue, si allunga e affonda nel mare turchese. Un giardino di fiori minerali, questo è quello che rende magica la nostra isola”.
Fece una pausa, sospirando orgoglioso.
“Continua, papà” lo esortò Zeffirino.
Brusco riprese e raccontò di un passato lungo millenni di duro lavoro, di uomini forti e coraggiosi che varcavano le soglie di luoghi inospitali per estrarne le essenze, raccontò

dell’odore di ferro che dalle narici scendeva nella gola, del sapore di zolfo che, come l’effetto che fanno le cose acerbe e amare, allappava la lingua, della fuliggine che tingeva indelebilmente la pelle di un colore ambra scuro, di come nelle vene del ventre dell’angusta miniera di Rio Albano scorreva il ferro che trasudava dalle pareti in rosse colate.

“Ti sembrerà strano quello che sto per dirti, ma per quanto io ami il mare e l’aria aperta, non ho mai pensato di mollare il lavoro in miniera. Qui è come se dalle viscere della terra la forza della natura, grazie alla mano dell’uomo, venisse alla luce” concluse Brusco.
Zeffirino ascoltava con la curiosità di un piccolo esploratore, fissando la bocca del papà per non perdersi una parola. Brusco proseguì: “In pratica il minatore è come un cacciatore di tesori che sfida la natura esplorando misteriose gallerie sotterranee, strappando dalle viscere della terra le ricchezze nascoste per portarle alla luce e svelarne i segreti”.

Un soffio di vento di scirocco scompigliò il ciuffo di Brusco, che ondeggiò sulla sua testa per poi ricadere sugli occhiali. Zeffirino sorrise, si alzò di scatto e si posizionò di fronte al padre piantando le mani sui fianchi.
“Non voglio andare a casa, papà. Questa notte è speciale e…”

“Neanche a me va di tornare a casa” lo interruppe il padre.
Brusco guardò il cielo e capì che avrebbero potuto farcela.
“Forza, sbrighiamoci! Dobbiamo uscire dalla lecceta finché c’è ancora luce” disse sistemandosi la tracolla.
“Dai papà, per favore, restiamo” supplicò Zeffirino mettendo il broncio.
Brusco lo prese per mano, girarono intorno alla roccia dov’erano stati seduti e ripresero il sentiero che ritornava alla spiaggia.
“Grazie! Grazie papà!” urlò Zeffirino, mostrando un sorriso che scaldò il cuore di Brusco. Il versante orientale dell’isola era pieno di strette piste abitate da un’esuberante vegetazione che, a quell’ora della sera, rendeva più difficile orientarsi. L’aria umida impregnava la pelle con gli aromi del finocchio selvatico, della mortella e della mentuccia, come se la natura profumasse i suoi visitatori, prima di rapirli con la sua magnetica bellezza.
“Non è stato sempre così” disse Brusco stringendo la mano di Zeffirino.
“Di che parli?” chiese Zeffirino.
“Nel 1970 ci fu un grosso incendio che distrusse gran parte di questo splendido universo verde. Ero un ragazzino all’epoca, eppure ricordo ancora come fosse ora quei roghi imponenti. Devastarono brutalmente ettari di vegetazione, incenerendo centinaia gli alberi. Di questa area non restò che una sterile distesa nera dell’odore di resina bruciata. Poi, con la stessa facilità con la quale gli alberi erano bruciati, dai tronchi carbonizzati e dal terreno rinacquero i primi

germogli, pronti a dare nuova vita. Non ci volle molto tempo che la macchia si ripopolò di splendide piante”.
Zeffirino ascoltava e osservava la fitta vegetazione muovendo gli occhi da sinistra a destra e viceversa; ovunque guardasse gli sembrava di scorgere qualcosa o addirittura qualcuno, complici il venticello e la tenue luce del crepuscolo.

Uscirono dalla lecceta e attraversarono la stretta striscia di terreno ricca di arbusti nani e cespugli, prima di affondare i piedi nella nuda spiaggia di sabbia fine e ciottoli minerali. Qua e là i fantastici luccichii dei frammenti di nera ematite e di gialla limonite si fondevano con i vaporosi riflessi verdeazzurri dell’acqua. Si diressero verso nord tenendosi per mano. In fondo davanti a loro c’era l’inconfondibile profilo del promontorio a forma di gobba di cammello, e alle loro spalle il piccolo pontile diroccato.

“Ci siamo quasi” disse Brusco.
Zeffirino teneva il passo, scrutando in silenzio l’immensa distesa d’acqua sulla quale i riflessi del giorno stentavano a rimanere a galla. Strattonò il padre e disse: “Guarda!” indicando con l’indice l’orizzonte.
Basse e dense nubi spezzavano le tenui sfumature violacee e il sole era un sottile segmento di fuoco ad arco sulla linea cobalto del mare; un raggio come una freccia d’oro rossiccio colpì le rocce del promontorio che, per pochi attimi, si tinsero d’una pennellata smeraldo: era l’ultimo raggio di sole prima di inabissarsi.
Restarono immobili a fissare l’orizzonte, con gli occhi pieni di un verde meraviglioso che nessuno dei due aveva mai visto sulla faccia dell’altro.
“Te l’avevo detto, papà. Hai visto? Il raggio verde esiste! È quello del racconto di quel tizio… come si chiama? Quello del Nautilus! Ti ricordi, papà? Me l’hai letto tu”.
“Santo cielo, Zeffirino, quella è una storia di pura immaginazione!”
“Ma l’hai visto anche tu, papà, il raggio verde!”
“Sì. Forse…” rispose Brusco voltandosi verso il mare.

“Dai, su! Andiamo” disse Brusco, cambiando discorso.
Ripresero il cammino verso il promontorio, che ormai era una sagoma scura sullo sfondo blu cenere e si accingeva a smorire nella notte. Brusco procedeva a passo sostenuto.
“Aspettami, papà!” disse Zeffirino intento a guardarsi le spalle. Camminava trascinando prima un piede e poi l’altro sulla sabbia, lasciandosi dietro l’impronta di un binario che ad ogni suo passo si allungava in avanti verso la misteriosa stazione sul promontorio, e dietro scompariva inghiottita dalla notte.
“Ma che fai?” domandò Brusco.

“Lascio una traccia” rispose Zeffirino, alle prese con la sabbia.
“Stanotte ci sarà l’acqua alta e cancellerà tutte le tue tracce” disse il padre scuotendo la testa “E poi, il posto dove stiamo andando lo conosco bene e di sicuro non ci perderemo”.
“Attento papà!”
“Ma cosa…” si interruppe Brusco, che d’istinto si chinò in avanti e per un pelo non si scontrò con un battito d’ali nero pece.
“Mettiti giù, Zeffirino, sono pipistrelli!” gridò agitando le braccia sopra la testa. Zeffirino era come ipnotizzato. Restò in piedi a fissare il volo forsennato di quelle buffe creature tutte orecchie. La notte dell’isola apriva gli occhi ai pipistrelli serotini che tornavano alla luce dai loro nascondigli segreti, e ogni sera al crepuscolo facevano irruzione nella baia svolazzando all’impazzata.
“Uaoooooo!!!” gridò Zeffirino e, essendosi ripreso dallo sbalordimento iniziale, si mise a rincorrere i volatili. Zeffirino correva con le braccia aperte e il viso all’insù, girava e girava in una specie di danza vorticosa, un po’ come il nastro che fanno roteare nell’aria le ginnaste.
Il padre lo guardava e rideva di gusto.
“Papà, fallo anche tu, è divertente!” disse Zeffirino, che non stava più nella pelle.
Per lui di solito quello era il momento migliore della giornata: la quiete si faceva ricca di magici sussurri e l’imbrunire pian piano cancellava le ombre e con esse tutte le sue paure. Zeffirino si fermò, guardò il mare e vide che all’orizzonte si erano accavallati degli spessi e cupi nuvoloni. “Papà, verrà a piovere ?”
“No. Quegli addensamenti che vedi laggiù si formano con la bassa pressione e non sono altro che vapore acqueo condensato che il vento presto spazzerà via. Se sarai paziente, vedrai il meraviglioso spettacolo dei pesci guizzare a galla al ritmo delle onde” rispose il padre. Brusco non era un gran cacciatore di pesci, ma aveva più che una vaga idea di quale fosse il momento ideale per catturarli. Gettò un’occhiata al mare e poi al promontorio, annuì pensando che era la sera giusta.
Dovevano arrampicarsi sul versante est del promontorio fino ad un altezza di dieci metri e attendere il vento favorevole. L’acqua, traboccante di palamite e occhiate, avrebbe regalato loro una rivolta di luci argentate.
“Forza papà, sei lentissimo!” esordì Zeffirino, che nel frattempo era andato più avanti e lo aspettava. “Se mangerò un altro pesce mi cresceranno le squame” bofonchiò guardando il mare, mentre il cielo si andava scolorendo nella notte calda.
D’un tratto in lontananza, sulla superficie dell’acqua, si accese una piccola luce che rischiarava il mare; in quell’istante l’acqua parve ribollire. Colmo di meraviglia Zeffirino urlò:” Eccolo,

papà, eccolo!”
Brusco si voltò di scatto, corrugò la fronte e strizzando gli occhi indagò le acque scure da una parte all’altra, ma non vide nulla.
“Cosa c’è, Zeffirino?” domandò il padre,
“L’ho visto, l’ho visto!” ripetè il figlio, indicando con lo sguardo un punto sul mare.
Brusco si avvicinò e si inginocchiò di fianco a Zeffirino. Con le indicazioni del figlio, si fece guidare al largo a diverse miglia dal promontorio, ben oltre le barriere frangiflutti.
“Non c’è niente nell’acqua, Zeffirino” disse Brusco, dopo aver scrutato più volte. “Dai, su, andiamo!” aggiunse mettendogli una mano sulla spalla.
Zeffirino fissava ancora il mare senza dire una parola. Restarono fermi per un po’ ad ascoltare il fruscio dell’acqua.
“Vedrai, papà, il Nautilus emergerà di nuovo. Il capitano Nemo è rimasto tutto il tempo proprio qui, in questo mare, si vede che gli piace la nostra isola. Sono sicuro che emergerà di nuovo e vedremo il suo inconfondibile sbuffo colorato” disse Zeffirino.
Brusco scosse la testa sorridendo, premette la sua mano sulla schiena del figlio e lo incitò a proseguire.
“Te l’avevo detto, papà. Il capitano è un cercatore di meraviglie, sicuramente sta cercando le perle. Me l’hai detto tu che in questo mare ci sono le sette perle di Afrodite. Non può certo lasciarsi scappare un simile bottino. Non ci resta che aspettare!” esclamò zompettando.
“Non c’è un posto al mondo più bello di questo. Vero papà?”
“Può darsi” rispose Brusco.
Sulla riva erano sparsi alghe e legni trasportati dall’acqua, strappati da qualche tempesta. Incrostati di sale, davano a quel luogo una lucentezza spettrale. Macchie nere tappezzavano il bagnasciuga, erano i marangoni col ciuffo che sonnecchiavano appollaiati sui legni scortecciati, e al passaggio del monello spiccavano un volo sbandato.
Zeffirino continuava a correre senza perdere mai di vista l’orizzonte, dove il cielo e il mare stavano per fondersi nello stesso blu.
Erano arrivati ai piedi del promontorio, l’unico accesso possibile era un piccolo guado sul plutone di antico magma. Un fitto intreccio di rami attorcigliati di liane d’erica ostruiva quasi del tutto il passaggio; Zeffirino lo imboccò e Brusco subito lo seguì. Per aprirsi un varco, costrinse i rami sotto la pressione prima di un gomito e poi dell’altro. S’inerpicarono sulle rocce facendo attenzione a non scivolare. Il suolo era un mosaico di chiari e di scuri, di affioramenti viscosi di terra e di mare.
Il vento aveva condizionato così fortemente la crescita in altezza della vegetazione che i rami

si allungavano rasoterra e si aggrappavano al terreno per sottrarsi al seppellimento, creando informi tappetini legnosi. Il sentiero era scavato nella roccia, tutta picchi e macigni accatastati che salivano su su, come enormi gradoni, mentre le rocce in basso erano trivellate dall’erosione. In quella specie di alveari calcarei, stagnavano gocce dove nuotavano timidamente i gamberetti ciechi.

Gli odori aspri e pungenti della macchia si mescolavano al dolciastro odore del ferro, a sua volta intriso del salmastro che aleggiava sul versante nord-est dell’isola. Scossi dal vento, qua e là i gigli selvatici facevano capolino con la corolla socchiusa. La notte stava per abbassare il sipario come una grande palpebra.

“Sai quanto pesa il mare, papà?” domandò Zeffirino avanzando carponi sul pendio.
“Pensa a quanti pesci, sassi e piante ci sono” proseguì, senza lasciare al padre il tempo di rispondere. “Poi ci sono le navi e i sommergibili…” Intento a calcolare e guardare dove metteva le mani e i piedi, Zeffirino concluse: “Peserà almeno un trilione di tonnellate!”
Negli anfratti delle rocce si annidavano giovani biacchi tutt’occhi e raccapriccianti specie di ragni, bisognava fare attenzione.
“Ci siamo, Dieci metri di altezza” affermò Brusco perlustrando i paraggi.
Si fermarono su una roccia piatta e il caldo vento africo con un suono di strumento a fiato li investì.
“Lasciati spingere, Zeffirino!” gridò Brusco allargando le braccia.
Bisognava entrarci, in quel vento, e a lui mescolarsi per sentirne la forza.
“Non riesco a stare in piedi, papà!” urlò Zeffirino, mentre ruotava la testa in ogni direzione per cercare di sentire da che parte soffiava il vento. Poco dopo, una raffica che tirava da ponente lo colpì in pieno viso: era lo zefiro.
Sotto quelle sferzate, le onde schiaffeggiavano le rocce e si sfrangiavano in una esplosione di cristalli spumeggianti. Dalle fessure degli occhi di Brusco scesero due rigagnoli che gli finirono in bocca, se li riprese inghiottendo i salati ricordi.
“Guarda l’arenile giù in basso, Zeffirino. Quando l’onda sbiancherà al punto giusto, né troppo né troppo poco, solo allora centinaia di guizzi argentati spunteranno a galla a branchie spiegate” disse Brusco.
Curvi sul crinale, padre e figlio guardavano attentamente le onde, di cui al buio si distingueva solamente la biancheggiante spuma. Brusco afferrò Zeffirino e lo portò a sé stringendolo. Poggiò il suo torace sulla schiena del figlio, adesso erano entrambi rivolti verso il mare. Brusco avvolse il figlio con le sue braccia spigolose e si accorse che Zeffirino stava crescendo in fretta. Senza doversi chinare, infatti, riusciva a poggiare il mento sulla testa del figlio. Un velo

nostalgico gli scurì il viso.
Reclinò il capo e lo baciò sulla guancia, lasciando in quel bacio tutte le sue preoccupazioni. Zeffirino accolse tutto il calore dell’abbraccio paterno.
In alto nel cielo fosco s’intravedeva la stella polare, e più in basso le grandi costellazioni di Cassiopea e Andromeda si accendevano a nord di Elba. Zeffirino aguzzò la vista. Laggiù nel buio, da qualche parte dove tutto svaniva, c’era il Nautilus.
“Sai, papà, è sul fondale che sosta il Nautilus carico di tesori, dopo mesi e mesi di viaggi avventurosi in lontani paesi di sogno. Negli abissi dove l’azzurro diventa blu, tra praterie di posidonie e coralli rossi, gialli e bianchi, dove danzano i pesci balestra fra le braccia delle alghe e delle meduse fluorescenti, dove dormicchiano sbuffanti spugne variopinte e vigilano gli ippocampi con la corazza dorata, laggiù sono sepolti antichi velieri e barche mai più tornate, inghiottite dal nulla e custodite dalle giganti tartarughe caretta. Sono scrigni delle meraviglie, pieni di tesori. Il capitano Nemo è un vecchio lupo di mare con un fiuto eccezionale per i bottini più preziosi. Ha superato più di mille tempeste e con il suo misterioso equipaggio ha sfidato e sconfitto le terribili creature delle grotte, enormi mostri dai lunghi e appiccicosi tentacoli, con spine e corna velenose. Nonostante i suoi cento anni, il capitano è ancora forte e astuto”.
Non appena ebbe finito di parlare, sulla superficie dell’acqua si irradiò un chiarore intenso. Il mare sembrava essere illuminato dal basso. Uno sbuffo di nebbiolina verde illuminò l’orizzonte. Brusco e Zeffirino intravidero una massa nera che si dileguava verso ovest. Brusco sprofondò nel magico mondo di Zeffirino: avevano trovato la combinazione per camminare insieme fuori dai sentieri già battuti. Davanti a loro, solo il mare.
Il vento scemò e l’irrequieta massa d’acqua indietreggiando scopriva numerosi granchiolini dalla pelle rugosa che, con le industriose zampette, cercavano di aprirsi una via tra gli scogli. Ora l’acqua era quieta come olio. Zeffirino si era rannicchiato fra le braccia nerborute del padre, che respirava a pieni polmoni quel piccolo miracolo fatto della sua stessa pelle. La manina calda di Zeffirino era nella sua. Il resto non importava.

Cristina Cortelletti, La terra delle meraviglie, in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2020, pp. 109-120.

foto di Annie Spratt da Pixabay




IO NON SONO UN VULCANO

Laura Avati

Io non sono un vulcano

Caterina guardava dalla finestra il temporale che si era spostato in alto mare. I fulmini che cadevano nell’acqua creavano un gioco di ragnatele e luci che catalizzavano la sua attenzione: il fuoco in ogni sua forma l’affascinava. C’era stata anche una piccola scossa di terremoto, il che significava che la Montagna era in fermento e una colata di ricordi la travolsero. Pensò al suo paese, Nicolosi, nell’entroterra siciliano ai piedi dell’Etna. Sicuramente i paesani stavano ornando con candele gli altarini dedicati al vulcano, disseminati lungo le vie del paese in segno di devozione.

Abitava in una piccola palazzina di vecchia costruzione al porto di Giarre, in una zona un po’ squallida. Quella stamberga aveva un piccolo balconcino dal quale si vedeva il mare, e questo le era bastato per farla innamorare di quel tugurio. Con il tempo lo aveva sistemato e abbellito un po’: aveva pitturato le persiane e la ringhiera del balcone di azzurro, come quelle delle case di un paese della Grecia che aveva visto su una rivista e dove sognava prima o poi di andare in vacanza; aveva anche restaurato una vecchia credenza, che le ricordava quella della sua adorata nonna, ma non era mai riuscita a liberarsi dell’umidità e degli spifferi che rendevano la casa fredda.

Caterina aveva bisogno di respirare, le accadeva spesso in quel periodo. Decise di uscire. Scesa in strada, si girò per guardarlo: quella notte l’Etna stava dando spettacolo, e il suo pennacchio rosso fuoco si riusciva a vedere bene anche da Giarre. Sorrise. Aveva smesso di piovere da poco e una nebbia gelida saliva dal mare stranamente calmo, invadeva i vicoli deserti rendendo quasi impossibile orientarsi. In lontananza, una vecchia campana suonò ventuno rintocchi, rimbombarono per le strade fino a dileguarsi nel silenzio irreale di quella notte. Le botteghe a quell’ora erano tutte chiuse e l’unica insegna accesa era quella di un caffè i cui neon erano per metà rotti. Il solo punto di riferimento erano i lampioni dell’illuminazione pubblica, che tra la nebbia apparivano e sparivano come miraggi.

Una musica travolse improvvisamente Caterina. La sentiva venire da lontano e le sembrò di riconoscere la ninna nanna che sua nonna le cantava la sera quando era piccola, seduta sulla sua sedia a dondolo proteggendola in un abbraccio per farla addormentare. Il freddo le penetrò le ossa. Strinse un po’ la cinta del cappotto e sprofondò con il naso nella sciarpa di lana che le aveva regalato sua mamma per Natale: l’aveva fatta lei ai ferri, la sera davanti al camino, e aveva infatti un odore un po’ aspro di lana e fumo, ma le dava calore e conforto. Seguendo la

musica e cercando di capire da dove arrivasse, Caterina si era allontanata molto da casa, arrivando così fino al centro della città, dove durante il giorno regnava la confusione, mentre in quel momento era tutto deserto. Si trovava in un posto di cui aveva sempre sentito parlare e sparlare, ma che non aveva mai avuto modo di visitare: il Parco Archeologico dell’Incompiuto. Era una delle tante opere pubbliche iniziate e mai finite della Sicilia; anzi, era stata definita “la capitale delle opere pubbliche abortite”, strutture iniziate a costruire nei primi anni ’80, poi abbandonate e ormai da buttare giù. Il cemento si sgretolava sotto le dita e la vegetazione si impossessava degli spazi abbandonati. I suoi studenti le avevano detto che molti adolescenti andavano in quel posto a fumare di nascosto o a fare l’amore.

Caterina si trovò davanti a quelle strutture fatiscenti, imperfette, enormemente grigie e tristi. In parte le sembrarono un paesaggio surreale e fantastico. S’inoltrò in quella giungla di cemento, come rapita da quei mostri che, a ben guardarli, non erano poi così ostili come a prima vista sembravano. Una bellissima bouganville dai fiori arancioni si arrampicava e addolciva le travi di quelle che avrebbero dovuto essere le tribune del campo di polo. Un grande cactus si era riappropriato del suo territorio, segno che la natura si stava riprendendo ciò che era suo, pensò Caterina. Tali e tante erano le forme e le ombre che si creavano che a Caterina sembrava di guardare attraverso un caleidoscopio.

“Professoressa Amabile, cosa ci fa lei qui a quest’ora?” fece a un tratto un suo ex alunno, appoggiato ad una trave.
“Rocco!” esclamò. “Mi hai fatto spaventare” disse portandosi la mano al petto, come se con quel gesto volesse normalizzare i battiti cardiaci. “Che ci fai qui a quest’ora?”

“Vengo spesso qui” rispose Rocco con voce calma e abbassando lo sguardo, quasi vergognandosi.
“Tutto bene, Rocco?”
“Sono tornato da poco a Giarre” rispose lui, aggrottando le sopracciglia. “Dopo la laurea, sono stato un po’ dai miei cugini al nord, ma non ce l’ho fatta ad ambientarmi”.

“Se ti può consolare, neanche io mi sono mai ambientata qui” rispose Caterina sedendosi accanto a lui.
“E poi, se è vero ca u munnu gira, ri cà avi a passari” fece Rocco sorridendo. Tirò dal mozzicone di sigaretta e buttò fuori il fumo dalle narici.

“Certo, ma non credo proprio che la fortuna si farà vedere in questo posto” rispose sarcasticamente Caterina.
“Lei, professoressa, non è cambiata per niente. Anche il taglio dei capelli è ancora lo stesso”. “Sono cambiata, invece, sicuramente sono invecchiata”.

Restarono in silenzio per un po’. Caterina ricordava che Rocco era sempre stato diverso dai suoi compagni, schivo e silenzioso, chiuso nel suo mondo accessibile solo a pochi amici e a pochissime amiche. Aveva provato più volte a coinvolgerlo in attività extrascolastiche, ma lui non aveva mai partecipato. I suoi testi erano davvero un piacere da leggere, sempre profondi ed emozionanti. Una volta aveva scritto sul tema dell’omofobia, e aveva raccontato di due ragazzi gay di Giarre soprannominati gli “Ziti”, trovati morti mano nella mano a causa di un colpo di pistola alla testa. Aveva parlato con sensibilità e delicatezza di quei dei ragazzi, che probabilmente venivano a nascondersi proprio qui, al Parco dell’Incompiuto, pensò Caterina. “Le faccio fare un giro, professoressa?”

“Sì, grazie” rispose Caterina. Si alzò, spolverandosi il cappotto. Notò una corda vicino a Rocco, poi salirono su delle gradinate da dove riuscivano a vedere tutte le opere. Una civetta cantava e a Caterina vennero in mente gli anatemi che sua nonna lanciava contro quel povero uccello ogni volta che lo sentiva cantare. “Porta scutra” diceva.

“Questa è la pista di atletica, e quello sotto i cassonetti dell’immondizia è il campo da polo” disse Rocco indicando una discarica a cielo aperto. “E quella laggiù è la piscina olimpionica, e ci sono anche una ludoteca, un teatro, una casa per anziani, un mercato per i fiori e una pista per le macchinine: come vede, professoressa, non manca niente”.

Caterina era allibita e senza parole: sarebbe stata davvero una bella realtà per grandi e piccoli se quel progetto fosse stato concluso.
Caterina sospirò, poi disse: “Ma che ci vieni a fare, tu, in questo posto?”
“Sto bene qui, nessuno mi viene a rompere le scatole” rispose Rocco.

“Hai un lavoro?”
“No, qui non c’è un cazzo da fare. O vai a lavorare la terra o fai il pescatore, oppure diventi un criminale” rispose, e aggiunse: “Siccome d’inverno in campagna non c’è molto da fare, sto a casa”.
Caterina notò che Rocco si era rabbuiato. All’improvviso, però, disse: “Si ricorda di Mimmo?” “Sì! Come sta?”
“Si è suicidato: non voleva diventare come il padre, don Ciro. Lei sa chi è. E Carmela… se la ricorda?”
“Carmela era quella ragazzetta tutta pepe, anche un po’ strafottente, biondina. Voleva girare il mondo…”
“Sì, proprio lei. Sa… si è dovuta sposare un latitante, adesso ha tre figli e fa la vita di una carcerata”.
Caterina deglutì a fatica.

“Posso continuare, se vuole. Ne ho da raccontare!”
Caterina fu distratta di nuovo da quella canzone. Chiese a Rocco: “La senti anche tu questa musica?”
“Quale musica? Io non sento niente”.
“Mi sembra che provenga da quella parte” disse Caterina, indicando la piscina olimpionica. “Ok, allora andiamo a vedere se c’è una festa da quelle parti, magari ci offrono da bere” rispose in modo beffardo Rocco, accendendosi un’altra sigaretta.
Scesero la scalinata e si avviarono: “Stia attenta a dove mette i piedi, il pavimento non è ancora finito” disse Rocco con tono scherzoso.
Arrivarono ad una grande buca, immensa, sul cui fondo erano spuntate piante di ogni genere, che evidentemente avevano avuto la meglio sul cemento ormai tutto crepato: “Qui non c’è nessuna festa. Sente ancora la musica, professoressa?” chiese Rocco sorridendo.
“Sì” rispose lei, un po’ infastidita dal tono canzonatorio di Rocco.
Caterina cominciò a camminare intorno a quella pseudo-piscina. C’era qualcosa di mistico in quel posto che l’attraeva, e che faceva di quell’ammasso di cemento un posto sorprendente: forse era questo che si intendeva con la teoria dei non-luoghi, e forse per questo Rocco andava a rifugiarsi lì. Caterina lo guardò: ormai era un uomo, non era più il ragazzo che lei ricordava. Si strinse la cinta del cappotto e si sedette sul bordo della piscina lasciando dondolare le gambe nel vuoto, come faceva da bambina quando il nonno la faceva sedere sul vascone usato dalle donne del suo paese per lavare i panni.
“Lì fuori non c’è posto per me, professoressa. Mi sento incompiuto, come questo posto” confessò Rocco, che si era seduto nel frattempo accanto a lei.
“Non stai bene neanche qui?” chiese Caterina.
“Non riconosco più questo paese come il mio paese” disse Rocco, che fissava il fondo della piscina.
Caterina ricordò con nostalgia quando lei da ragazza trascorreva ore e ore seduta sul muretto della fontana nella piazza di Nicolosi a chiacchierare spensieratamente con i suoi amici, guardandosi in faccia e ascoltandosi davvero.
“Rocco, c’è ancora tanto da scoprire, perfino in questa nostra piccola realtà”.
“Ma si rende conto di che mondo c’è lì fuori?”
Caterina non seppe come replicare, in effetti Rocco non aveva tutti i torti. Viveva in un mondo molto diverso da quello in cui lei era vissuta quando era più giovane, con altri problemi e diverse dinamiche sociali.
La civetta continuava il suo canto e le piante si piegavano al vento, che si era improvvisamente

alzato e sibilava tra le fessure dei muri crepati.
“Cosa vorresti fare? Nasconderti tra queste miserie per tutta la vita?”
“Questa non è vita, professoressa” rispose glaciale il ragazzo.
“Rocco, io e te ci somigliamo in tante cose, capisco il tuo malessere, ma devi reagire: non risolverai alcun problema nascondendoti. Come si dice… Cu ’un fa nenti ’un sbaglia” disse Caterina, poggiando affettuosamente la mano sulla spalla di Rocco che, a testa bassa, si guardava le mani rovinate dal lavoro nei campi.
“Volevo fare l’architetto, sposarmi e avere dei figli. E invece…”
“Invece cosa, Rocco? Sei giovane e hai tutte le capacità per fare quello che senti di voler fare” incalzò Caterina, ma Rocco scuoteva la testa. Lei pensò alla corda che aveva visto prima e un brivido la raggelò. Ebbe la sensazione che quella sera con Rocco avesse fallito, che non fosse riuscita ad aiutarlo, come invece avrebbe voluto.
Caterina gli prese una mano e gli chiese: “Me la offri una sigaretta?”
“E da quando fuma, professoressa?” fece Rocco, evidentemente sorpreso da quella richiesta. Le porse la sigaretta e se ne accese una anche lui.
“Perché quella corda?” chiese improvvisamente Caterina, terrorizzata dalla possibile risposta. “È da un po’ che sta lì, mi fa compagnia…”
Caterina era adesso ancora più spaventata, sentiva che doveva fare qualcosa. Un colpo di tosse a causa del fumo la fece quasi strozzare.
“Tutto bene, professoressa?”
“Sì sì, tranquillo. È che non so fumare” rispose lei con un filo di voce.
Una scossa di terremoto fece tremare tutto, ma Rocco e Caterina rimasero tranquilli, abituati com’erano alle scosse della Montagna.
“Vieni con me” disse lei, alzandosi subito dopo e spegnendo con la scarpa la sigaretta.
“Mi porta a qualche altra festa?” chiese Rocco con tono beffardo.
Caterina non si curò di quelle parole e cercò un punto da dove l’Etna si vedeva bene. Lo raggiunsero senza dire nulla.
“Tu sei come lui, Rocco, una montagna piena” disse guardando estasiata le fiamme sul vulcano. “Devi buttare fuori tutto quello che hai dentro. Prendi il bello da ogni cosa e vivi per quello” disse, con gli occhi puntati sul vulcano e appena velati di lacrime. Con un nodo in gola, Caterina confidò a Rocco: “Sai, l’unica cosa a cui pensano i miei amici e i miei parenti è che sono una donna a metà, visto che non mi sono creata una famiglia. Ma non si sono mai chiesti il perché, probabilmente”. Poi aggiunse, guardando il vulcano: “Non lo trovi affascinante? Ogni tanto si ribella, vomita e distrugge quello che incontra sulla sua strada, senza curarsi di niente e

nessuno. Eppure, lungo le sue pendici spuntano ogni anno meravigliosi cespugli di ginestre. Perché non inizi a scrivere? Eri così bravo…”
“E poi lei mi metterà il voto e correggerà gli errori con la penna rossa?” chiese Rocco. Caterina non capì se fosse l’ennesima battuta sarcastica o una richiesta di aiuto.

“Mi farà piacere leggere quello che scriverai” rispose dolcemente Caterina. “Grazie” si limitò a dire a Rocco.
“Toglimi una curiosità, Rocco: quale era il mio soprannome al liceo?”
“A babba schietta”.

“Ah! Pensavo peggio. Avete avuto sempre poca fantasia” fece lei, sorridendo. Poi aggiunse: “Si è fatto tardi. Sarà meglio avviarmi verso casa, anche perché è una bella passeggiata da qui fino al porto”. Caterina guardò Rocco e disse: “Posso andare via tranquilla?”
“Certo, professoressa. Farò il bravo”.

Lui la salutò stringendole forte la mano. Caterina strinse la cinta del cappotto e si avviò. “Professoressa” urlò Rocco dopo un po’, quando lei già era lontana, “la sente ancora la musica?”
Caterina fece un gesto con un braccio per dire di no, non sentiva più la musica.

Rocco fumò l’ultima sigaretta e accartocciò il pacchetto, rimasto vuoto.
Il suolo tremò di nuovo e lui perse l’equilibrio. Si appoggiò ad un muretto per non cadere. Cercò di tenere dritta almeno la testa per non vomitarsi addosso. Adesso avrebbe voluto un’altra sigaretta per togliere l’amaro dalla bocca. Raccolse il mozzicone che aveva appena spento. Era una notte di luna nuova e sapeva che avrebbe aspettato l’alba fra quei ruderi, come tante altre volte aveva fatto.
“Io non sono un vulcano” disse, guardando la corda.
La civetta di prima cantò.

 

Laura Avati, Io non sono un vulcano, in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2020, pp. 49-56.




DISTORSIONI EROTICHE NON AUTORIZZATE

Meri Borriello

Distorsioni erotiche non autorizzate

 

Si guardò attentamente intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi: nessuno scocciatore, intravide soltanto dall’altro lato della strada una macchina nera, ma era lontana, non le avrebbe creato problemi quella presenza. Guardò di sfuggita le buste sistemate con cura sul sedile posteriore della sua auto e si avviò lungo il viale che portava al suo rifugio segreto. Il rumore dei tacchi sul selciato non la distrasse dal piacere che provava sentendo frusciare le sue autoreggenti contro la gonna; il pensiero di lui la faceva fremere, spingendola ad assaporare ancora di più quella breve passeggiata. Era completamente immersa nel silenzio che circondava quella casa sperduta in campagna, i rami degli aceri si piegavano mossi dal vento, li sfiorò, lasciando che la pioggia, posatasi sulle fitte foglie rosse, le scorresse tra le dita.

La casa che l’aspettava era su tre piani, le grandi vetrate sembravano osservarla.
Stringeva tra le mani un sacchetto di stoffa, ne accarezzò la morbida seta, poi tirò fuori una chiave.
C’era un forte odore di chiuso al pianterreno, ma non le importava, sarebbe rimasta lì giusto il tempo che le occorreva per spogliarsi. Lasciò scivolare a terra la gonna e sbottonò la camicetta. I suoi pensieri si persero nel ricordo delle mani delicate che le stringevano con forza il collo, della calda voce che le sussurrava cosa avrebbe dovuto fare. Era già accaduto tante volte, ma l’attesa di stare ai suoi piedi e di stringersi alle sue gambe, mentre lo pregava di prenderla ancora, le toglieva sempre il respiro.
Avvolta nella carta velina c’era la sua sottoveste preferita, l’avrebbe indossata per lui. Accarezzò le lunghe ciocche dei suoi capelli: era pronta.
Non sapeva se lui fosse già arrivato, ma non aveva fretta. Gli istanti poco prima di scendere le scale erano troppo preziosi. La sua mano stringeva con forza il freddo pomello della porta, fece un profondo respiro e la aprì.
Era quasi del tutto al buio; da una finestrella filtravano deboli le ultime luci di quel pomeriggio invernale. Scese lentamente i gradini di marmo, che conosceva a memoria; i piedi le scivolavano un po’ e aveva il respiro leggermente affannato. Non poté fare a meno di immaginare le scarpe infangate che avevano già disceso quegli scalini.
Lui era lì, lo sentiva. Non si era ancora abituata al buio e non riusciva a vederlo. Cercò di raggiungere il divano di velluto sul quale probabilmente lui si era già seduto. I suoi passi erano incerti. Riconobbe le sagome dei quadri sul muro, il vaso pieno di fiori sul tavolo. Continuò ad

avanzare lentamente. Intravide la sua figura attraversare per un attimo il vecchio specchio d’ottone appoggiato alla parete. Aveva quasi raggiunto il divano, quando una voce profonda interruppe i suoi passi: “Hai voglia di una sigaretta?”
Per una frazione di secondo vide scintillare la fiamma di un accendino: adesso sapeva dove andare.

“Sì” rispose in un sussurro, continuando ad avanzare.
Il fumo si disperdeva leggero in quell’angolo buio della stanza, allungò la mano per prendere la sigaretta. Sfiorando le sue dita sentì crescere in lei l’eccitazione.
Lui ritrasse la mano e disse: “Vieni più vicina”.
La sua voce roca le fece muovere gli ultimi passi che li dividevano. Sentì una mano fredda sfiorarle il collo, dischiuse le labbra e, fermando le dita che stringevano la sigaretta, aspirò profondamente.
Le loro labbra erano vicinissime, lui la fece girare e le strinse un braccio intorno al collo. Avvicinò di nuovo la sigaretta alla sua bocca, lei aspirò ancora, deliziata dal sapore del tabacco e da quella stretta. La sigaretta si accorciò, consumata dal loro tirare.
Sentì le sue mani abbassarle le spalline della sottoveste per poi poggiarsi sul seno; guardava il mozzicone spegnersi lentamente sul pavimento, non riusciva a smettere di muoversi.
“Devi stare ferma” le sussurrò lui, stringendole più forte il seno.
“Ti prego…” disse lei gemendo; stava cercando, inutilmente, di rimanere immobile.
Sentì le mani di lui infilarsi tra le sue gambe, le schiuse ansimando, poi si accorse che le stava facendo risalire lentamente lungo i suoi fianchi.
“Pregami ancora” le ordinò lui sottovoce.
“Ti prego” ripeté lei, cercando di aderire di più al suo corpo.
Le sue mani forti le strapparono la sottoveste con decisione, sentiva il suo respiro addosso. “Qual è il tuo nome?” le chiese accarezzandole il volto.
Gemendo lei rispose: “Non ho nome”.
Senza smettere di accarezzarla, lui continuò: “A chi appartieni?”
Cercando di rimanere immobile il più possibile, lei rispose in un soffio: “A tutti. A nessuno”. Lui la lasciò andare.
Era eccitatissima, sentiva bisbigliare tutta la stanza mentre lo seguiva in quella tortura deliziosa. L’aveva fatta sedere, il metallo della sedia era freddo al contatto con la sua pelle. Non poteva più vederlo adesso che era alle sue spalle, cercò invano di allungare le braccia dietro di sé per poterlo toccare, poi sentì la sua mano posarsi sulla sua nuca. Era accaldata. Si voltò, disposta ad accontentare qualunque sua richiesta.

“Devi stare ferma ti ho detto!” le ordinò di nuovo lui, aspramente. Le tirò i capelli e lentamente disse: “Apri la bocca”.
Fece quello che le aveva chiesto e sentì il sapore acre del raso: le stava legando un sottile pezzo di stoffa intorno alle labbra. Chiuse gli occhi e aspettò quella che le sembrò un’eternità. Finalmente, sentì le sue mani schiuderle le gambe. Sapeva di non dover aprire gli occhi, ma non sapeva per quanto tempo sarebbe riuscita a resistere; si abbandonò ai baci che le percorrevano le gambe risalendole.

Allungò le mani per accarezzargli i capelli, per rendere quei baci ancora più profondi. Lui si irrigidì, lo sentì sospirare, poi disse: “Non ce la fai proprio, vero? Non ce la fai a star ferma!” Non poteva rispondergli, ma non era necessario: lui conosceva già le sue risposte. Riaprì gli occhi, lo vide alzarsi e sistemarsi i pantaloni, poi le chiuse le mani intorno ai polsi. Lei sperò per un attimo che glieli spezzasse, che quella stretta divenisse una morsa dolorosa. Trattenne il respiro, ma lui mollò la presa. Lo guardava con occhi supplichevoli, e lui ora la osservava con gelido distacco. Ruppe quel silenzio pesante solo per dirle che doveva andarsene.

Lei provò ad allungare le braccia timidamente, voleva fargli cambiare idea, impietosirlo in qualche modo, ma lui le scostò, dicendo: “Non sei il niente che voglio riempire”.
La guardò ancora, quasi con disprezzo, lei abbassò lo sguardo, poi sentì le sue calde labbra posarsi sul suo collo. Credette che avesse cambiato idea, che ci avesse ripensato, ma quel contatto durò solo un istante. Sentì che si allontanava verso l’uscita posteriore, sbattendo con forza la porta. Non poteva crederci: aveva mandato tutto a puttane, era stata una stupida, pensò, mordendo la stoffa e maledicendosi.

Le venne da piangere: non sapeva quanto tempo avrebbe dovuto aspettare prima di poterlo rivedere. Nervosamente si liberò del raso e se lo avvolse intorno al polso, respirò ancora l’odore nella stanza, poi, come un automa, raggiunse il piano superiore.
Accarezzò lo strappo della sottoveste, sospirando se la tolse e la ripose con cura nella carta velina; si rivestì svogliatamente, il suo corpo era inappagato, con stizza si riabbottonò la camicetta, infine infilò le scarpe e le calze in una busta di cartone insieme alla sottoveste.

Era buio pesto quando chiuse la porta alle sue spalle. Poteva godere solo del contatto con l’erba bagnata sotto i suoi piedi nudi.
La pioggia finissima, che non si sarebbe fermata per tutta la notte, le bagnò il viso. Il cielo era carico di nubi. Stava congelando, e questo non le dispiaceva affatto.

C’era una macchina abbandonata, guardiana di quel posto, i contorni della lamiera arrugginita la affascinavano. La pietra che qualcuno aveva messo al posto della ruota, ormai andata o

rubata, le apparve perfetta mentre la sfiorava con le dita; rimase a stringerla per alcuni istanti, poi lasciò andare la presa.
Non fece fatica ad aprire la portiera, il sedile sporco e logoro era invitante e lei si sedette per raccogliere le idee. Le finestre della casa la scrutavano. Sciolse dal polso la stoffa inumidita, la passò intorno al collo e strinse, poi tornò a guardare le finestre: le sembravano occhi vuoti, ipnotici. Sentì salirle su per la gola una risata irrefrenabile, che divenne presto un pianto spezzato dal suono stridulo della sua voce. Gli occhi pieni di lacrime le offuscavano la vista, e quel laccio intorno al collo adesso non la faceva più respirare. Lo allentò e le cose tornarono al loro posto.

Si stava infilando le calze quando, tirando su la gonna per sistemarle, stupita si accorse che un piccolo ragno nero le camminava su una gamba. Lo scrutò meravigliata: aveva paura che si sarebbe fermato, che avrebbe cambiato percorso. Trattenne il respiro, doveva stare ferma, chiuse gli occhi e si rilassò, sperò che il ragnetto svanisse lentamente tra le sue gambe.

Un tuono improvvisamente la riscosse dal torpore. Non sapeva quanto tempo fosse passato, guardò le sue gambe: nessuna traccia del piccolo ragno.
Sospirando guardò i rami degli alberi che si muovevano attorno alla macchina, sembravano sussurrarle di alzarsi, di andare via. Era tardissimo, si strinse forte il cappotto addosso e si infilò le scarpe.

Scendendo dall’auto accarezzò la fredda lamiera arrugginita, si voltò a guardare ancora una volta il suo rifugio segreto. Doveva fare in fretta: quelle finestre, adesso, erano occhi minacciosi che la seguivano. Riprese il sentiero per tornare alla sua macchina, non era molto distante, cercò di accelerare il passo, ma i tacchi affondavano nel fango facendola rallentare.

Adesso stava cercando nervosamente le chiavi della macchina, che erano finite sul fondo della sua borsa, sepolte da inutili oggetti. Finalmente le trovò e si sedette al sicuro, i battiti del suo cuore si calmarono.
Lo specchietto retrovisore le restituì un’immagine orribile: aveva il viso sfatto, il trucco era colato e i capelli erano arruffati. Tentò di darsi una ripulita con le salviette umidificate, frugando nella borsa trovò la cipria e il lucidalabbra, infine si spazzolò i capelli: andava molto meglio.

Fece manovra stando ben attenta a non rovesciare le buste della spesa sul sedile posteriore; un’occhiata all’orologio la rassicurò: sarebbe arrivata a casa in tempo.
Per fortuna aveva preparato quasi tutto il giorno prima, pensò mentre parcheggiava la sua auto. Suo marito le aveva ripetuto fino alla nausea quanto fosse importante quella cena, e lei aveva cucinato fino alla nausea cercando di accontentarlo. Non aveva capito bene chi fosse il tizio

che doveva andare a cena da loro: quando Carlo le parlava, il più delle volte lei non ascoltava, si limitava ad annuire; aveva perso le speranze che lui si accorgesse di non essere ascoltato quasi per niente quando parlava; rise di gusto a quel pensiero mentre apriva la porta.
Aveva giusto il tempo di farsi una doccia e apparecchiare: era in orario, ma non poteva permettersi di perdersi in pensieri inutili. Carlo sarebbe arrivato direttamente dopo il lavoro con questo tizio e avrebbero cenato insieme.

Impostò il timer del forno e andò in bagno. Cominciò a far scorrere l’acqua della doccia, poi andò nella camera da letto per preparare i vestiti che avrebbe indossato. Si sarebbe messa il suo bel tubino nero. Si ricordò delle scarpe: doveva pulirle, erano piene di fango. Corse a prendere la busta che aveva lasciato in cucina insieme alle ultime cose comprate per quella cena. Accarezzò la sua sottoveste e a malincuore la ripose nell’armadio, poi tornò in bagno. Le dispiaceva togliere quel fango, ma doveva farlo: quelle scarpe erano perfette col suo vestito; lasciò solo una macchiolina, quasi invisibile, in un angolo della scarpa sinistra, ma lei sapeva che c’era e questo la divertiva.

Si spogliò, era quasi in ritardo adesso, e si infilò velocemente sotto la doccia. L’acqua calda la rilassò, prese la spugna e se la passò pigramente sul corpo. Non riusciva a smettere di pensare a quel pomeriggio, a quelle finestre che la scrutavano. Lasciò cadere la spugna e poggiò le mani sulle fredde piastrelle. Non ce la faceva più. Avrebbe voluto dar sfogo ai suoi desideri, ma era tardi, non voleva farlo in fretta: meglio l’insoddisfazione, pensò, che sciupare un momento così bello.

L’acqua le scorreva lentamente sul corpo facendo scivolare via gli ultimi residui di sapone. Uscì dalla doccia e finì di prepararsi; le rimaneva un’ora scarsa. Lasciò le scarpe per ultime: le avrebbe messe solo dieci minuti prima dell’appuntamento.
In cucina il timer aveva cominciato a suonare, corse a spegnerlo. Apparecchiò svogliatamente; presto però la sua passione per le geometrie prese il sopravvento: allineò le posate perfettamente sui tovaglioli, mise i bicchieri che preferiva uno accanto all’altro, sorrise, aggiustò le piccole grinze della tovaglia e si allontanò per osservarla meglio: sì, pensò, andava bene, era soddisfatta.
Accese una candela e tornò in cucina per sistemare le ultime cose e aprire una bottiglia di vino; se ne versò un po’ e bevve lentamente; guardò fuori: pioveva ancora.
Aprì la portafinestra per respirare l’odore della terra bagnata; mancavano dieci minuti, lasciò il bicchiere sul lavello e corse ad infilarsi le scarpe, si spruzzò un po’ di profumo e mise il suo braccialetto portafortuna.
Sentì il portone chiudersi. Erano arrivati. Chiuse la porta della camera e si avviò per il corridoio.

Carlo stava entrando seguito dal tizio misteriosamente importante, lei si sarebbe volentieri acquattata dietro la sua rosa del deserto.
“Giulio, questa è mia moglie” disse facendo qualche passo verso di lei.
“Mi chiamo Dafne” aggiunse lei, sentendo il solito prurito affacciarsi al polso destro.

“Cara” continuò Carlo, “ti presento il mio nuovo collaboratore nella sezione acquisti”. “Salve” disse lei, stringendogli la mano.
“È un nome insolito Dafne, veramente bello, ma insolito” disse il loro ospite ricambiando la stretta.
Era un tipo non molto alto, stempiato, abbronzato in pieno novembre; non sopportava i suoi occhi che la scrutavano, mettendola a disagio.
Aveva già dimenticato il suo nome, o forse Carlo non lo aveva proprio detto; avrebbe ascoltato con attenzione, prima o poi il nome sarebbe saltato di nuovo fuori. Si riprese dai suoi pensieri e disse: “Datemi i cappotti, sarete infreddoliti. Mi dispiace per questa brutta giornata, anche se a me la pioggia piace; mi piacciono le giornate così”.
Carlo rise e, togliendosi il cappotto, disse: “Scusala Giulio, è fissata con la pioggia! Io vorrei stare al sole dei Tropici e lei dice che la pioggia è bella! Ho regolato i riscaldamenti proprio pochi giorni fa: non saranno i Tropici, ma in casa nostra c’è proprio un bel calduccio!” Giulio! Ecco quale era il nome, pensò afferrando i cappotti per metterli su una stampella e farli asciugare nell’armadio a muro.
C’era uno strano silenzio. Giulio si schiarì la voce e disse: “La pioggia ha anche i suoi lati piacevoli, è romantica”.
Lei si mise a ridere. Aveva proprio detto che la pioggia era romantica? O se l’era solo immaginato?
Cercando di rimanere seria esclamò: “Siamo rimasti impalati in corridoio! Andate a mettervi comodi a tavola, arrivo subito”.
Deviò verso la cucina. Li sentiva parlottare, ma non capiva cosa dicessero; aprì un’altra bottiglia e si versò da bere; mise i piatti che aveva preparato su un carrellino e portò tutto nell’altra stanza.
I due fecero silenzio, lei mise tutto a tavola, poi Carlo disse: “Grazie cara”; fece una piccola pausa e continuò: “Mia moglie è un portento in cucina. Quando le gira bene. Altrimenti non c’è verso di mangiare qualcosa di decente”, e rise seguito da Giulio.
Il prurito ricominciò. Dafne si grattò il polso e si sedette.
“Facciamo un brindisi” propose Carlo, poi aggiunse: “Agli acquisti di qualità!”
Fecero tintinnare i bicchieri e bevvero.

La cena continuò così per un bel po’. Carlo e Giulio parlavano di acquisti, di vendite e di noiose scadenze; lei tentava di agganciarsi a qualche discorso, ma niente la interessava; si limitava a passargli il pane, sorrideva e ci beveva su. Ogni tanto se ne andava proprio altrove. Ripensava al suo pomeriggio sprecato, però evitava di soffermarsi troppo su quelle fantasticherie. Il vino nella brocca era quasi finito, così, approfittandone per allontanarsi, disse: “Vado ad aprire un’altra bottiglia, aspettatemi, non voglio perdermi nemmeno una parola: i vostri discorsi sono davvero avvincenti!”

Carlo la guardava scocciato, lei alzandosi continuò: “Dico davvero, sono avvincenti!”
Carlo fissava il tavolo, come per sottolineare qualcosa che le sfuggiva; lei intercettò il suo sguardo, poi disse: “Oh! Scusami. La brocca! Devo prendere la brocca!” e ridacchiando si allontanò.
Non li sopportava, pensò aprendo la bottiglia. Questo Giulio, così romantico, magari ci teneva ad aprire le bottiglie, magari stava facendo una pessima figura. Ormai era fatta. Rise lasciando scorrere il vino nella brocca.
Tornò a tavola. Versando il vino nei bicchieri esclamò: “Propongo un brindisi!”
Carlo la guardò, aveva socchiuso gli occhi come se volesse ammonirla, ma lei non gli diede peso e continuò: “Alla Groenlandia!”
“Perché proprio alla Groenlandia?” chiese stupito Carlo.
“Qualche sera fa stavo guardando in televisione un documentario, è un posto davvero affascinante!” rispose lei. Poi bevve. Giulio e Carlo la osservavano con un’espressione indecifrabile.
“Facciamo una piccola pausa dal lavoro, che ne dite?” propose Dafne. Poi appoggiò il bicchiere sul tavolo, ma ci ripensò e bevve un altro sorso prima di continuare: “C’è questo tizio che vive in Groenlandia…”
Carlo la interruppe: “E che combina questo tizio in Groenlandia?”
“Dammi tempo!” disse lei, poi riprese: “Semplicemente vive lì”.
“Sì, d’accordo, ma perché è così interessante?” continuò Carlo giocando col suo tovagliolo. “Questa specie di tribù nella quale vive ha eliminato dal linguaggio tutti gli aggettivi possessivi. Sai quelle frasi assurde tipo: questa è mia moglie! Questo è mio figlio! Lì non si possono dire. Non mi ricordo bene, ma forse ti fanno addirittura una multa se infrangi questa regola”.
C’era un silenzio imbarazzante, lei cominciava a divertirsi; Carlo riprese: “Non capisco dove vuoi arrivare, cara”.
“E poi questo tizio adora le foche. Come direbbe il nostro nuovo amico, posso definirti amico, vero Giulio? Dicevo, come direbbe il nostro amico Giulio, è una cosa così romantica!”

Si raddrizzò sulla sedia e lasciò scivolare sotto la sedia le sue scarpe. Ridendo esclamò: “Chiedo scusa! In Groenlandia mi avrebbero multato, ti ho definito “nostro amico”! È davvero difficile eliminare questa brutta abitudine. Sarebbe carino pensare a un modo per modificare questo modo di marchiare le persone come fossero vacche da consorzio”. Fece una pausa, poi disse: “Scusate, mi sembrava una cosa divertente da condividere; ma viste le vostre facce, forse mi sbagliavo”. Si portò una mano alla bocca per reprimere uno sbadiglio: si stava annoiando a morte.

Aveva deciso di andarsene a letto, fingendo un improvviso mal di testa, quando intercettò lo sguardo di Giulio: la fissava in maniera strana. Sentì, improvvisamente, che avrebbe potuto trasformare quella noiosa serata in una serata perfetta. Respirò profondamente, si concentrò sul ticchettio della pioggia sui vetri e disse: “Dopo il documentario, ho continuato a guardare la tv. Mi sono imbattuta in un film molto coinvolgente, mi ha catturato fin dalle prime immagini, anche se a tratti mi si chiudevano gli occhi per il troppo sonno; credo si intitolasse: The Butcher, the Baker, the Candlestick Maker”. Si fermò un attimo, poi concluse: “Se volete ve lo racconto”.

Carlo la scrutava perplesso, lei lo ignorò e, guardando Giulio, riprese: “È un film particolare, ma tu, Giulio, mi sembri il tipo di persona che apprezza questo genere di storie” concluse a bassa voce.
Giulio la fissò nello stesso strano modo in cui l’aveva guardata prima. Lei si alzò e disse: “Secondo me adesso muori dalla voglia di sapere di cosa parla!”

Senza aspettare una risposta, aggiunse: “Stiamo più vicini. Sono certa che ti piacerà”. Avvicinò la sua sedia a quella di Giulio e continuò: “Carlo, avvicinati anche tu, altrimenti ti perdi il meglio! Anzi, facciamo una cosa, spegniamo la luce e lasciamoci trasportare dalla fiamma della candela, questo racconto necessita di una certa intimità. Carlo, ci pensi tu?”

Carlo, suo malgrado, spense la luce, mise la candela sul tavolo ed avvicinò la sedia a quella di Giulio: le loro ombre si proiettavano sulla tovaglia, adesso.
Le ci volle qualche secondo per abituarsi alla penombra, poi, sporgendosi verso Giulio e picchiettando lentamente le unghie sul tavolo, cominciò a raccontare: “Questo film si apre con il frusciare del vento tra le foglie di alcuni vecchi aceri; la pioggia ticchetta sui vetri di una grande casa; una voce maschile fuori campo bisbiglia alcune parole”. Abbassò la voce e riprese, dicendo le parole di quella voce: “Non le andava di giocare, quasi mai, eccetto alcune notti speciali, perfette”.

Carlo la interruppe: “Come inizio non sembra un granché!”

Lei sorrise e con voce mielosa disse: “Devi avere pazienza. E poi magari a Giulio questa storia già piace” concluse sfiorando la mano di Giulio. Lui si mise più comodo e disse: “L’inizio sembra interessante, continua”.
Lei si accarezzò i capelli e riprese: “Una donna ha chiuso la porta di casa con tre mandate e posato le chiavi in un vaso di coccio. Attraversa un lungo corridoio buio, fino a giungere alla sua camera da letto, accende una piccola lampada”. L’attenzione di Dafne era tutta su Giulio, Carlo sembrava essere sparito. Sospirando, riprese il suo racconto: “Si guarda allo specchio, scostandosi i capelli per osservare i suoi occhi. Si volta di scatto, getta i vestiti sul pavimento e si infila le autoreggenti”.

Giulio si mosse sulla sedia.
Lei continuò: “Accarezzandosi le gambe lascia andare lo sguardo sul suo armadio. Sul ripiano più alto c’è un tesoro nascosto che la aspetta”.
Carlo la interruppe nuovamente: “Quindi è una specie di thriller!”
Dafne si girò e, seccata, disse: “Forse, non ricordo tutto precisamente, avevo molto sonno, te l’ho detto, ma ti prego: smettila di interrompermi. Perché non segui in silenzio la storia, come fa Giulio?”
Sorrise a Giulio mentre Carlo sbuffava stizzito, poi riprese: “Apre il cassettino di un portagioie intarsiato, poggiato su un grande comò: cerca il rimmel. Lo stende con cura sulle ciglia, poi tira fuori da un altro cassettino un rossetto; vaga col pensiero mentre disegna le linee delle sue labbra, ora di un intenso rosso scarlatto. Segue con la lingua il contorno dei suoi denti bianchi, poi i suoi occhi si soffermano su una boccetta di profumo. Ne spruzza un po’ nella stanza e si immerge nell’aria profumata di iris; sbatte gli occhi ammiccando allo specchio”.
Giulio non riusciva a staccare gli occhi dalla bocca di Dafne. Lei sorseggiò il suo vino poi, mordendosi le labbra, riprese: “China la testa e lascia che i suoi capelli si scompiglino, li ravviva con le dita; sorride impercettibilmente andando all’armadio: un grande specchio ricopre l’anta, le restituisce la sua immagine e l’immagine del letto. L’anta centrale scorre via veloce. In punta di piedi cerca con mani impazienti qualcosa, poi, finalmente, sente frusciare il raso leggero: è la sua sottoveste preferita, nera, con un inserto di pizzo intricato sul davanti. La indossa, e facendo scorrere la mano sulla stoffa ritrova lo strappo profondo sui fianchi; non ha mai voluto ricucirlo”.
La voce stridula di Carlo la interruppe per l’ennesima volta: “Ma che razza di film stavi guardando?”

Lei fece un gesto con la mano, come a dire che quello che diceva lui non aveva importanza, guardò nuovamente Giulio, che con voce roca mormorò: “Continua, Dafne, avevi ragione: questa storia mi piace”.
Dafne, divertita, riprese a raccontare: “Il letto sembra invitarla e lei, rapita, si distende; lo specchio che ha di fronte la osserva, lei gli sorride e si accarezza il collo. Fa scivolare una spallina della sottoveste e trova il suo seno, lo stringe un po’ e rimane immobile ad ascoltarsi respirare nel silenzio della notte, poi lo stringe più forte e con l’altra mano fa sparire le sue culottes tra le lenzuola. Inizia a giocare: sorride allo specchio mentre dischiude le gambe”. Fece una pausa, guardò Carlo, che abbassò gli occhi imbarazzato; Giulio sembrava stesse trattenendo il respiro, il suo sguardo passava dalla bocca agli occhi di Dafne.

Lei riprese a raccontare: “Le sue mani scendono per accarezzare i contorni delle sue cosce; si sofferma e si perde lungo quei confini. Si gira sul letto, può guardarsi attraverso lo specchio solo con la coda dell’occhio: è in ginocchio, la sottoveste alzata, i capelli da un lato le lasciano scoperta la nuca. Trova quello che cerca, si increspa e aumenta un po’ il ritmo, non ha fretta di venire; stringe più forte le gambe intorno alle sue dita per sentirle chiuse in una stretta forte.Strofinandosi sulle lenzuola, strappa ancora un po’ la sottoveste e si lascia trasportare dal dondolio, si morde le labbra: è tutto sfocato”.

Dafne aveva allungato le gambe e nel farlo aveva incontrato quelle di Giulio. Prese a sfiorarle col piede. Carlo giocava nervosamente con il tovagliolo, con le posate, col suo bicchiere; non riusciva a stare fermo.
Dafne riprese: “Non è più sola: la stanza è popolata da volti senza nome; immersi nell’ombra, assecondano i suoi movimenti, li sente fremere su tutto il corpo; afferra, in quel silenzio, parole irripetibili, sussurrate da voci roche, che la fanno gemere. La schiena si inarca, ancora un pochino di più, mentre le sue dita la fanno precipitare in mille vertigini. Le voci si moltiplicano, aumenta il suo dondolare, il respiro si fa corto, vortica tra tutti quei corpi. Affonda la testa nel cuscino umido di sudore, lo morde, vorrebbe inghiottirlo, lo stringe con forza, forte, sempre più forte, poi, senza fiato, si libera in un urlo soffocato”.

Dafne si passò febbrilmente una mano tra i capelli. Sentiva gli occhi di Giulio addosso a lei, li sentiva percorrere il suo corpo mentre le loro gambe si continuavano a sfiorare. Percepiva il suo tubino aderirle perfettamente al corpo, i suoi respiri corti le schiacciavano il seno contro la stoffa ruvida. Le si offuscò la vista, chiuse gli occhi trasportata da quelle immagini, sussurrando disse: “La voce narrante, per quel che ricordo prima che le immagini diventassero confuse,bisbiglia nuovamente alcune brevi parole”. Lentamente, concluse: “La donna guarda lo

specchio e si lecca le labbra. Il rossetto sbavato, le guance piene di rimmel colato, si accende una sigaretta: è una notte perfetta”.
Rimasero immobili tutti e tre. Dafne godeva nel sentire i loro respiri affannati, avrebbe voluto prolungare quell’istante il più possibile. Carlo ruppe improvvisamente il silenzio con una risata isterica, poi disse: “Che film bizzarro! È osceno!”

Accese la luce e disse: “Scusala, Giulio”; rivolgendosi a Dafne aggiunse: “A volte non ti capisco proprio”. Si sedette di nuovo e, guardando per terra, continuò: “Forse hai esagerato col vino. Perché non vai a prendere il dolce?”
Poi, come se di colpo avesse ritrovato il buonumore, si girò a guardare Giulio e disse: “Mia moglie fa dei dolci buonissimi!”

Dafne, sorridendo, si sciolse dalla stretta delle gambe di Giulio, si alzò, ed aggiustandosi il vestito esclamò: “Multa, multa, multa! Ti correggo, caro: Dafne fa dei dolci buonissimi! E poi non trovo che il film sia osceno, anzi, credo che sia divino. Tu che ne pensi, Giulio?”
Sentì la voce stizzita di Carlo richiamarla: “Dafne, non hai le scarpe”. Lei lo guardò stupita, poi sorridendo replicò: “Bravissimo! Impari in fretta!”

Prese le scarpe, sorrise guardando la macchiolina di fango e se le infilò. Barcollando leggermente disse: “Voi continuate a chiacchierare, vi ho distratto fin troppo con tutte queste storie. Ci vorrà un po’ per guarnire il dolce. Però fatecelo un pensierino: è veramente affascinante la Groenlandia, potremmo andarci tutti e tre insieme!”

Giulio abbassò gli occhi e lei continuò: “Faccio in un lampo”.
Si fermò accaldata vicino alla finestra della cucina, la aprì, aveva bisogno d’aria. Prese dei cubetti di ghiaccio e se li passò sul viso. Le era piaciuto provocarli in quel modo, era contenta della piega che aveva preso la serata. Tirò fuori il dolce alla frutta e lo appoggiò sul tavolo. Le scappava da morire la pipì. Non riusciva a stare ferma, si muoveva su un piede e sull’altro cercando di trattenersi. Non le andava di passare di nuovo davanti a quei due per andare in bagno. Chiuse la porta ed aprì la portafinestra, prese al volo dei fazzoletti e uscì fuori; quella parte della casa era abbastanza coperta: non l’avrebbe vista nessuno.
Le venne un’idea. Si mise a ridere. Sperava di non farsela sotto, doveva resistere. Trovò un barattolo vuoto lasciato sul davanzale, lo prese, si accucciò vicino all’alberello che avevano piantato quando si erano sposati, tirò giù le calze e le mutandine, e finalmente si liberò.
Era brilla, un po’ di pipì le aveva sporcato le mani, ma quasi tutta era finita nel barattolino. Si sistemò e rientrò in cucina, si sciacquò velocemente le mani col sapone per i piatti; non poteva fare a meno di ridere guardando la sua pipì.

Il dolce alla frutta sembrava chiamarla. Prese il dosatore, lo infilò nel barattolino e fece cadere le piccole gocce dorate tra le fragoline, i pezzetti di ananas e arancia. Si assorbiva rapidamente; al massimo avrebbe mascherato tutto con della panna. Quel dolce era un capolavoro!
Aprì la porta e gridò: “Ancora un minuto! Sto preparando anche il caffè!”

Era proprio un bel dolce, pensò guardandolo, ma le sembrava che mancasse qualcosa. Uscì di nuovo all’aperto, prese un paio di ramoscelli di nocciolo e li immerse nel barattolo, li scolò un pochino e li dispose agli angoli del dolce come abbellimento: adesso era perfetto. Prese il vassoio e lo portò a tavola.

Carlo aveva ripreso a discutere di affari, Giulio non lo ascoltava più: la sua attenzione era di nuovo rivolta a Dafne.
“Questo è un dolce speciale, per i palati più romantici” disse lei facendo l’occhiolino al loro ospite.

“Si presenta davvero bene! Sono bellissimi quei ramoscelli; di che albero sono?” chiese Giulio continuando a fissarla.
“Di un nocciolo, li raccolgo quando vado a passeggiare e li conservo per occasioni speciali come questa”.

“E dove vai a passeggiare di bello?” fece Giulio, mentre lei aveva cominciato a tagliare il dolce. “Marciapiedi. Ci passeggio parecchio” rispose lei ridendo. Carlo la guardava inviperito. “Scherzo. Passeggio per qualche boschetto quando ho un po’ di tempo libero”.
Gli porse il piattino, poi disse: “Dimmi sinceramente se ti piace, e anche tu, caro, dimmi cosa ne pensi. Intanto vado a vedere se è pronto il caffè”.

Ritornò in cucina, chiuse la porta e si appoggiò allo stipite, fece un profondo respiro, prese le capsule del caffè e preparò tre caffè lunghi. Li versò nella caffettiera e la mise su un vassoio insieme alla zuccheriera e alle tazzine. Vide il barattolino con la pipì sul tavolo, ridendo lo nascose sotto il lavello accanto al veleno per gli scarafaggi, poi tornò soddisfatta nel salone. “Allora che mi dite? Com’era il dolce?”

Giulio, poggiando il cucchiaino sul piatto, rispose: “Ha ragione Carlo, sei bravissima! Uno dei migliori dolci che abbia mai assaggiato”.
“Sono contenta! Anche se mi dispiace non aver fatto il dolce al cioccolato, visto che Carlo lo adora. Ma non mi sembrava adatto per questa serata. Sarà per la prossima volta. Perché non ne prendete un altro pezzo? Intanto vi verso il caffè”.

Carlo tagliò altre tre fettine e disse stancamente rivolto a lei: “Tu non l’hai ancora assaggiato”. Dafne gli passò la tazzina, commentando: “Proprio non ce la faccio, sto per esplodere”. Poi,

dopo essersi seduta, disse: “Volete sapere qual è l’ingrediente segreto per rendere questo dolce così buono?”
Giulio annuì incuriosito. Lei disse: “Non dovrei dirlo, perché questo è un dolce davvero speciale”. Fece una piccola pausa, poi lentamente continuò: “Il Sauvignon. L’ingrediente segreto è il Sauvignon. Bisogna far macerare la frutta a lungo per ottenere un risultato eccellente, la frutta deve assorbirlo tutto. Ma non ditelo a nessuno, è un segreto”.

Giulio si pulì la bocca, poggiò il tovagliolo sul tavolo e disse: “Non vorrei sembrarti presuntuoso, lo volevo quasi dire che sentivo il Sauvignon”.
Lei sorrise. Inclinando un po’ la testa, lo guardò e disse: “Giulio, prendi un ramoscello di nocciolo, porta fortuna”. Giulio lo prese e, fissandola, rispose: “Ha un buon profumo. Ti ringrazio”. Aggiunse: “Adesso, però, ci vuole proprio una sigaretta. Vi dispiace se fumo?” Dafne sussurrò: “Accendine una anche a me”.

Carlo la guardò confuso, poi le chiese: “Ma non avevi smesso?”
“Sì, ma ogni tanto una sigaretta ci sta bene” rispose lei.
Giulio le passò la sigaretta, lei aspirò. Poi, buttando fuori il fumo, esclamò: “Che meraviglia! Una serata meravigliosa!”

Meri Borriello, Distorsioni erotiche non autorizzate, in Voci Nuove 5, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2018, pp. 175-194.




GENERAZIONE DI TOPI di Silvia Zaccari

Generazione di topi

Silvia Zaccari

in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia

Era seduto nella solita caffetteria. Quattro pareti di vetro perimetravano il locale e c’erano coperte ammucchiate all’entrata, sotto un tavolino di metallo. Dal soffitto scendevano lampadari di carta, come pianeti lattei appesi a un cavo d’acciaio.
Aveva scelto uno dei posti al centro del locale, alla fine di una lunga tavolata. Non era la prima volta che gli capitava di pensare che altri, estranei probabilmente, si sarebbero seduti proprio accanto a lui, come a una classica cena di Natale.

“Le posso portare qualcosa da bere?” chiese la cameriera.
Non l’aveva sentita arrivare: evidentemente le scarpe di gomma sul parquet erano state silenziose come gocce d’olio su una superficie di legno. Lui si voltò verso sinistra, guardando il bancone coperto di farina. Le fiamme del forno riflettevano sul carrello dei dolci.
“Un americano, per favore” rispose.
La telecamera di videosorveglianza seguiva intanto ogni movimento all’interno del locale, incrociando spesso la luce che rifletteva sul carrello. Fuori svolazzavano sciarpe e i passanti scalpitavano. Rumore di tazze e profumo di cannella all’interno.
Albert si sentì avvampare, forse a causa del forno o delle vetrate, che lasciavano entrare il tepore del sole ma non l’aria fredda. Tolse il maglione. Una donna urtò il tavolino di metallo entrando nel locale. Fece dondolare l’acqua nelle caraffe di vetro poggiate sopra. Albert osservò le foglie di menta e le fette di limone che galleggiavano sull’acqua. Spostò lo sguardo su di lei e si soffermò subito su qualcosa che brillava in mezzo ai suoi lunghi capelli grigi. “Non posso crederci” disse Albert a bassa voce.
Lei si voltò come se stesse cercando qualcuno, e incrociò lo sguardo di Albert. Si diresse verso di lui.
“Ero sicura di trovarti qui. Non sei cambiato di una virgola”.
“Lo sai bene, io non sono come te. Da dove torni? O dove stai andando stavolta?”
Lei si tolse la sciarpa, poggiò a terra uno zaino abbastanza logoro ma di ottima fattura, poi si mise a sedere di fronte a lui.
“Torno da Bruxelles. Tredici giorni a rincorrere un politico fuori di testa che vive in un quartiere con diciassette caseggiati perfettamente uguali. In un’intervista ha dichiarato che ha scelto di vivere in quel posto perché lo fa sentire uno dei tanti. Ma che diavolo ha in mente questa gente?”

“Ahahah, sei tremenda. Quindi… un nuovo reportage?”
“Beh, sì. Mi hanno contattata alla fine dell’estate e sono volata in Belgio direttamente da Cape Town”.
“Ti posso offrire qualcosa?” disse Albert, e fece un cenno con la mano alla cameriera, che si avvicinò al tavolo. La donna ordinò un earl grey e un paio di biscotti alla cannella.
Erano passati una decina di mesi dall’ultima volta che si erano visti. Stare insieme era stata un’esperienza molto forte per Albert, ma non era convinto che fosse stato lo stesso per lei: una donna sicura di sé, più grande di lui, con uno stile di vita travolgente come una bufera su una costa nordica.
“Ma che ci fai qui? Perché sei venuta a cercarmi?” riprese Albert.
“Wow, che tono serio. Non volevo infastidirti, volevo solo farti vedere cosa ho trovato in Sud Africa” rispose, e tolse dai capelli quello che poco prima Albert aveva visto brillare.
“Beh?” disse lui.
“Come beh? È uno di quelli, no?!”
Arrivò il tè in un istante, accompagnato da un piccolo bricco di latte e dall’aroma di cannella. Lei ringraziò la cameriera e versò un po’ di latte.
Albert prese in mano il fermaglio d’argento che lei gli aveva mostrato. Era senz’altro molto antico, ma faticava a credere che appartenesse alla collezione che il bisnonno gli aveva lasciato. Un solo posto era rimasto libero all’interno del cofanetto. Albert non sapeva se il fermaglio fosse stato rubato o perso, ma di sicuro era interessato a ritrovarlo.
“E tu credi sia proprio quello?” le chiese.
“Questo devi dirmelo tu. Io ho solo pensato ti potesse interessare”.
Albert continuava a girarselo fra le mani, mentre lei sorseggiava il tè. A un tratto le squillò il cellulare. Posò rapidamente la tazza e mise la mano nella tasca del cappotto, che non aveva ancora tolto. Si alzò e andò verso l’uscita.
Albert la vide parlare per qualche secondo, poi lei rimise il telefono in tasca e si diresse veloce verso di lui.
“Devo scappare!” gli disse.
“Ma come? Non finisci neanche quello che hai ordinato? Roba da matti”.
“Non posso proprio, scusami”. Raccolse la sua roba, gli diede un bacio sulla guancia e se ne andò quasi di corsa.
Albert rimase per qualche secondo a guardare la porta che si era chiusa dietro di lei. Per l’ennesima volta lo aveva lasciato con l’amaro in bocca: era sempre stata così sfuggente, a volte quasi imperdonabile.

Quando Albert scese dal taxi era ancora accigliato. Ringraziò l’autista e chiuse lo sportello dell’auto nera: un classico taxi britannico dalla forma bombata. Si diresse verso le scale che scendevano al suo appartamento, ovvero il basement di una casa georgiana scurita ad ogni angolo. Mise la chiave nella toppa e subito sentì una voce dall’interno: “Albert, vieni qua. Senti che roba!”

“Il corpo è stato ritrovato vicino al parcheggio sotterraneo in Belton Place. Le indagini della polizia sono subito iniziate”: la televisione parlava di una notizia dell’ultim’ora.
“Mike, adesso non posso” disse Albert al fratello, e attraversò il salotto. “Mike, questo tappeto lo devi buttare. Saranno due mesi che te lo dico. È talmente vecchio che ha cambiato colore, e ogni volta che devo andare in camera mia mi fa inciampare”. Il fratello neanche rispose. Continuava a seguire il notiziario in televisione. Albert entrò in camera.

Su uno scrittoio di legno scuro c’erano un’abat-jour, un cofanetto antico largo poco più di un palmo, un orologio da taschino, un portalettere a tre scomparti pieno zeppo e il suo portatile. Albert accese l’abat-jour e si mise una mano in tasca. Tirò fuori il fermaglio e lo appoggiò sullo scrittoio.

“Albert, devi venire. A me sembra di conoscerla quella tizia!”
Il fratello era appena comparso sulla soglia. Sembrava molto agitato.
“Arrivo” rispose Albert.
Il fratello tornò in salotto. Albert aprì il cofanetto e iniziò a osservare i fermagli d’argento. Erano tutti diversi, ma lui conosceva un minuscolo dettaglio che li accomunava. Si mise a sedere e prese una lente d’ingrandimento dal cassetto dello scrittoio.
“Se le trovo, allora vuol dire che è proprio lui” disse.
“Albert! Albert!” fece il fratello dall’altra stanza.
“Cristo santo, prima o poi lo strozzo. Un attimo!”
“No, Albert! Devi venire!”
Albert si alzò di scatto e raggiunse il fratello.
“Mi spieghi che cazzo hai da urlare? Sto facendo una co…”
“Il cadavere di Sarah McIntyre, fotoreporter di alcune note riviste di attualità britanniche, è stato ritrovato questo pomeriggio…” diceva la televisione.
Albert cadde a sedere sul divano. Gli sembrava di non sentire più bene la televisione o il fratello che gli chiedeva se fosse davvero quella Sarah. Si mise una mano sulla faccia e si piegò in avanti.

I notiziari ripetevano continuamente le stesse parole da due giorni. Albert non ne poteva più: voleva sapere cos’era successo. Quella mattina era seduto sul divano, lo stesso divano consunto in pelle nera su cui si era accasciato qualche sera prima.
Suonarono alla porta. Albert era solo e ci mise un po’ a raggiungere l’ingresso. Lo specchio accanto all’entrata era sempre più annerito e lui sempre più pallido. Si guardò per un istante, poi poggiò la mano sul pomolo opaco e aprì la porta. Due agenti di polizia dall’aria seria gli si pararono davanti.

“È lei il signor Albert Gregson?” fece uno dei due.
“Sì”.
“Possiamo entrare? Dovremmo farle qualche domanda”.
Albert si voltò e si diresse verso il divano. I due poliziotti lo seguirono. La luce del paralume accanto al divano illuminava appena i loro volti. Uno dei due poliziotti si guardò intorno e si fermò ad osservare le finestrelle in alto sulla parete alle spalle del divano. Era una giornata molto soleggiata, eppure filtrava pochissima luce. Si vedevano a malapena i soggetti dei quadri appesi, nonostante fossero quasi tutti di dimensioni notevoli. Uno però era luminosissimo. Raffigurava una scena di caccia alla volpe, ed era appeso sopra una grossa credenza in legno scuro, di fronte al divano.

“Come avrà sentito in televisione, è stato ritrovato il corpo di una donna, che ci sembra di capire fosse di sua conoscenza” disse il poliziotto.
“Sì”.
“Ci risulta che poco prima del tragico evento voi due abbiate trascorso del tempo insieme, in una caffetteria poco distante dal luogo del ritrovo”.

Albert era immobile, in piedi davanti al divano, e non accennava a sedersi né a invitare i due a farlo.
“Sì” disse.
“Potrebbe cortesemente dirci cosa ha fatto dopo che la signora…”, il poliziotto tirò fuori una specie di piccolo palmare e lesse: “Sarah McIntyre, dopo che Sarah McIntyre è uscita dal locale?”

“Sì”.
I due poliziotti attesero qualche istante. Poi quello che fino ad allora non aveva detto nulla si fece avanti: “Signor Gregson, dovrebbe essere abbastanza rapido e preciso, stiamo indagando sull’accaduto e non abbiamo tempo da perdere”.
Albert si mise a sedere sul divano.

“Sì. Quindi… sono uscito dal locale poco dopo di lei e ho camminato nel parco vicino alla caffetteria, forse per mezz’ora, poi ho chiamato un taxi e sono rientrato a casa. Erano le sei, più o meno”.
“Qualcuno può testimoniare quello che ha appena detto?” fece il poliziotto.

Si sentirono dei passi sulle scale esterne che davano accesso alla casa. I due poliziotti si voltarono e videro un uomo entrare dalla porta principale.
“Lui era a casa quando sono tornato. Può confermarvi l’orario del mio rientro. Per tutto il resto potete chiedere alla cameriera e al tassista” disse Albert. Il fratello chiuse la porta e si avvicinò senza dire nulla.

L’interrogatorio durò meno di dieci minuti. I poliziotti fecero qualche domanda al fratello e chiesero ad Albert di presentarsi in centrale il pomeriggio seguente, ma lui non aveva intenzione di farlo.

I poliziotti se n’erano andati da almeno mezz’ora. Albert e il fratello erano seduti sul divano. Il primo fissava il tappeto, l’altro si tormentava il pollice della mano destra.
“Mike, chiama quel tuo amico e vedi se riesci a farti dire qualcosa” disse Albert.
“Ma chi, Ian? Non ci parlo da secoli, che vuoi che mi dica?!”

“Almeno provaci. Sono sicuro che lavora ancora in quell’ufficio”.
Mike tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans. Albert si alzò e si diresse in cucina. Aprì il frigorifero e fissò per qualche istante il ripiano centrale: era vuoto. Sul ripiano in alto c’erano invece una vaschetta di formaggio spalmabile, un barattolo di olive aperto da qualche giorno, crème fraîche e mezzo limone chiuso in un vasetto di vetro. Aprì il cassetto in basso e tirò fuori due peperoni rossi. Poi prese un barattolo di acciughe sottolio dallo sportello e le olive. “Albert, ho provato a chiamare ma non mi risponde” disse il fratello dall’altra stanza.
“Prova ancora!”
Albert prese una pentola dalla credenza, la riempì d’acqua fino ai manici e accese il fornello più grande. Ci poggiò sopra la pentola, poi prese una tavoletta e si mise a tagliare i peperoni. Diede uno sguardo all’orologio appeso sull’unica parete vuota della cucina: mezzogiorno meno dieci.
“Pronto, Ian?” disse il fratello. Albert si fermò e rimase in ascolto.
“Ciao, sono Mike. Mike Gregson. Scusa se ti disturbo, ma è proprio una cosa importante. Hai sentito la notizia di quella fotoreporter trovata morta pochi giorni fa?”
Albert deglutì, poi poggiò il coltello accanto alla tavoletta e rimase immobile a fissare le maioliche bianche e nere davanti a lui. Passò qualche istante. Silenzio.

“Sì, esatto” riprese il fratello. “Non so, magari sai dirmi qualcosa a riguardo?”
Di nuovo silenzio.
“No, certo che no. Capisco benissimo. Magari però potresti dirmi se c’è già qualche idea a proposito del…” stava dicendo Mike, ma Albert uscì dalla cucina e gli disse: “Chiedigli se sa la causa della morte”.
“Ian, sai per caso la causa della morte?”
Albert fissava il fratello come fa un malato con il dottore in attesa di sapere il nuovo dosaggio per la sua cura.
“Capisco. Un’arma contundente, quindi” disse Mike guardando Albert, e provò una specie di senso di colpa.
Albert abbassò lo sguardo e tornò in cucina. Strofinandosi il naso sentì l’odore dei peperoni sulle dita. Di solito gli piaceva, ma in quel momento provò un senso di nausea. Si lavò le mani, prese un contenitore e ci fece scivolare dentro le listarelle che aveva tagliato. Chiuse poi il coperchio e mise il contenitore in frigo, insieme alle altre cose che aveva tirato fuori. Il fratello ringraziò il suo amico al telefono, lo salutò e riagganciò.
“Mike, io non ceno. Spengo il fornello?” disse Albert. “Anzi, lascio così. Metti a posto tu se non mangi, per favore”.
“Ok, ok. Poi vedo” disse il fratello.
“Me ne vado in camera”.
Albert si buttò sul letto. Il suo viso era illuminato appena dal sole che filtrava dalla finestrella sopra lo scrittoio. Si girò dall’altra parte e si addormentò subito.

“Albert, io esco. Devo fare dei giri, se ti serve qualcosa mandami un messaggio. Albert, mi hai sentito? Sono le sette di sera, io esco” disse Mike.
“Mmm, lasciami stare. Meglio se dormo fino a domani. Meglio se dormo” disse Albert spostando il braccio che aveva sul viso.

Sentì i passi del fratello dirigersi fuori dalla camera e poi lungo il salotto, infine verso la porta d’ingresso.

Quando Albert si svegliò erano le undici passate. Buio pesto. Il braccio destro gli formicolava. Lo sfilò da sotto il cuscino e si mise seduto sul letto.
“Cristo santo, che cazzo di mal di testa. Mi ci voleva proprio” pensò.

Ricordò che aveva lasciato il fermaglio sullo scrittoio dalla sera in cui Sarah era stata trovata morta. Decise di dargli un’occhiata, giusto per capire se valesse la pena tenerlo. Si trascinò fino allo scrittoio e accese l’abat-jour.
Non impiegò molto a capire che il fermaglio era scomparso. Si mise una mano in tasca, in cerca del cellulare. Andò in salotto, accese la luce accanto al divano e vide che il cellulare era proprio lì, dove si era seduto quella mattina stessa.

“Mike, Mike, Mike” disse scorrendo l’elenco delle ultime chiamate. “Se l’ha preso lui mi incazzo proprio”.
Il cellulare suonava libero. Una, due, sei, dieci, quindici volte. Mike non rispondeva. Albert riagganciò, si infilò il telefono in tasca e andò in camera del fratello. Accese la luce spostando verso l’alto la levetta dell’interruttore.

“Che casino! Sembra ancora la camera di un ragazzino” disse. Scavalcò una catasta di vestiti e si avvicinò all’armadio di fronte a lui. Girò la chiave e aprì le ante di legno scuro. Sui ripiani c’erano abiti ammucchiati e oggetti di vario tipo: una sveglia rotta, carte da poker sparpagliate un po’ ovunque, scontrini, penne, un fermacarte piramidale di vetro, un cofanetto di legno. Albert prese il cofanetto e lo aprì. Dentro c’erano due piccolissimi dadi da gioco e delle pedine rotonde. Lo richiuse e continuò a cercare. Una sciarpa marrone, un paio di occhiali, due piccole monete provenienti da chissà dove, la foto del bisnonno sotto un accendino di madreperla. “Questo è mio! Che nervi” disse Albert, e si mise l’accendino in tasca.

Nessuna traccia del fermaglio. Si guardò intorno e andò a prendere lo sgabello accanto al letto. Lo piazzò davanti all’armadio e ci salì sopra. Da lì riusciva a vedere anche l’ultimo ripiano. “Almeno le coperte sono piegate” disse. Le spostò da un lato e notò una scatola nera di metallo, larga almeno due palmi. “E questa cos’è?” disse.

Afferrò la scatola e la fece scorrere verso di lui. Mise una mano sul coperchio per aprirlo, ma sentì dei passi: qualcuno stava scendendo le scale esterne. Controllò l’orario sul cellulare: era quasi mezzanotte.
“Dev’essere Mike” pensò. Spinse la scatola indietro e, dopo aver spostato le coperte, scese dallo sgabello e lo rimise a posto.

I passi si fermarono quando Albert era ormai davanti alla porta d’ingresso. Qualcuno suonò il campanello. Albert aprì la porta e si trovò davanti uno dei poliziotti che lo avevano interrogato quella mattina.
“Buonasera, dovrei farle un paio di domande” disse il poliziotto.

“A quest’ora?”
“Le dispiace se entro?” continuò il poliziotto.

Albert si fece da parte e vide il secondo agente scendere le scale. Quella mattina non aveva notato che era così alto. I due entrarono e Albert chiuse la porta.
“Non capisco. Ci siamo visti questa mattina” disse Albert.
“Signor Gregson, la polizia ha analizzato il filmato di videosorveglianza del locale dove lei ha incontrato la signora McIntyre. Prima di tutto, ci vuole dire il motivo del vostro incontro?” disse il poliziotto.

“In realtà mi trovavo lì per i fatti miei e lei è venuta a cercarmi per mostrarmi una cosa” rispose Albert.
“Una cosa?”
“Sì, un fermaglio d’argento che aveva trovato durante un viaggio in Sud Africa”.

“E perché voleva mostrarlo proprio a lei, signor Gregson?”
“Perché il mio bisnonno possedeva una collezione di fermagli d’argento abbastanza antichi, che ora appartiene a me. Manca un solo fermaglio nel cofanetto, e Sarah credeva potesse essere proprio quello che era venuta a farmi vedere alla caffetteria” disse Albert.
“Dal filmato risulta che la signora McIntyre indossava appunto un fermaglio quando è entrata nel locale. Quando è uscita, invece, non aveva più il fermaglio. Sa dirci il motivo?” chiese il poliziotto.
“Certo, lo aveva dato a me prima di uscire” disse Albert.
Nel frattempo il poliziotto più alto appuntava ogni dettaglio.
“Signor Gregson, in che rapporti era con la signora McIntyre?”
Albert si passò la mano fra i capelli e abbassò lo sguardo.
“Siamo stati insieme per cinque anni, tempo fa. Non la vedevo da quasi un anno”.
“Bene, signor Gregson. Dovrebbe consegnarci il fermaglio”.
Albert esitò un momento e si guardò intorno, come se stesse cercando qualcosa.
“C’è qualche problema?” disse il poliziotto.
“Mmm, no. Non proprio. Non so dov’è il fermaglio”.
I due poliziotti si guardarono, poi quello più alto si fece avanti.
“Signor Gregson, possiamo tornare con un mandato di perquisizione. Non ci faccia perdere tempo. Le diamo cinque minuti per calmarsi, prendere il fermaglio e consegnarcelo” disse il poliziotto.
Albert si sentiva andare a fuoco, era arrabbiato e agitato. Si tirò il collo della maglietta e piegò la testa da un lato, come per sgranchirsi il collo.
“Senta, io non ho bisogno di calmarmi. Dopo due giorni sono riuscito a chiudere occhio soltanto oggi pomeriggio, e sono stati due giorni di merda. Il fermaglio era qui. L’avevo lasciato

sullo scrittoio per dargli un’occhiata la sera che Sarah… quella sera. Oggi non c’è. Non c’è, e io non so dove sta. Qualcuno deve averlo preso” disse Albert, allargò le braccia e le lasciò ricadere, quasi senza controllo.
“Ok, se non vuole collaborare noi qui abbiamo finito. Torneremo con il mandato” disse il poliziotto, fece cenno con la testa all’altro e si voltò per andarsene.

“Vi ho detto che non so dov’è. Se non vuole collaborare… roba da matti” disse Albert.
I due poliziotti uscirono e chiusero la porta senza fiatare.
“Non ci posso credere, Cristo santo! Che cazzo di casino”.
Albert si lasciò cadere sul divano. Fissò il soffitto per qualche minuto, poi prese il telecomando e accese la televisione.

Il notiziario parlava di un fatto di cronaca: “Il corpo della vittima, un uomo di circa quarant’anni, non mostra segni di violenza. La polizia ha escluso il suicidio. Il cadavere è stato ritrovato lungo il canale questa sera intorno alle undici e trenta. Alcuni ragazzi hanno avvisato la polizia dopo aver visto il corpo vicino ad una siepe”.

“Che schifo di settimana, meglio se continuo a cercare quel dannato fermaglio” disse Albert, e tornò in camera del fratello.
Salì di nuovo sullo sgabello, tirò giù la scatola e la mise sul letto. Per un attimo esitò, si sentiva come se stesse facendo qualcosa di sbagliato. Ma in fondo aveva già frugato in mezzo alle cose del fratello, non era la prima volta. Mise le mani sul coperchio e lo sollevò. Il cellulare del fratello era lì dentro, insieme al fermaglio e a un passaporto. Albert non riusciva a capire perché il cellulare fosse chiuso in quella scatola, insieme al fermaglio.

Prese il passaporto, lo aprì e vide la foto e i dati del fratello. Lo rimise a posto. Poi prese il telefono e diede un’occhiata alle ultime notifiche: la sua chiamata e un messaggio da un numero sconosciuto. Aprì il messaggio: “Ci vediamo alle dieci al solito posto. Portalo stasera”.
“Ma chi diavolo è? In che casino ti sei messo?” disse Albert.

Scorse l’elenco delle chiamate in cerca di qualcosa che neppure lui sapeva. Oltre alla sua telefonata trovò soltanto chiamate ricevute da contatti di lavoro e da un amico di Mike che Albert conosceva bene. Tornò ai messaggi, ma la cartella conteneva soltanto quello che aveva letto poco prima. Guardò di nuovo le chiamate e scorse ancora verso il basso.

“E la chiamata che ha fatto a Ian? Era oggi. Perché non c’è?” disse Albert, passando nervosamente il dito sullo schermo.
Intanto il notiziario in sottofondo stava di nuovo parlando della notizia dell’ultim’ora: “Il corpo della vittima è quello di Mike Gregson, architetto della Broxburn&Co. La polizia indaga”.

Albert sgranò gli occhi e sentì un grosso nodo alla gola. Allargò il collo della maglietta, poi il cellulare gli scivolò di mano. “Non è possibile” disse, e si precipitò in salotto.
Il notiziario parlava ormai di un incidente sulla statale. Albert prese il telecomando e cambiò canale. Un altro notiziario era appena cominciato. La foto del fratello comparve sullo schermo, insieme ad alcune riprese fatte lungo il canale. Albert strinse forte il telecomando.

“Cristo santo! Cristo santo, Mike” disse.
Il cellulare squillò. Albert si mise la mano in tasca, tirò fuori il telefono e cercò di premere il tasto per rispondere, ma non riusciva a vedere bene. Si strofinò gli occhi e realizzò che in realtà il suono non proveniva dal suo cellulare. Rimase in ascolto. Si voltò di scatto e corse in camera del fratello.
Albert raccolse il cellulare di Mike da terra e guardò lo schermo: numero sconosciuto. Premette il pulsante per rispondere.
“Pronto?” disse.
Dall’altra parte ci fu un attimo di silenzio.
“Pronto? Chi sei?” disse Albert.
“Albert?!” disse una voce di donna.
“Ma come? Sarah?!”
“Albert, devi uscire da quella casa. Devi sparire!” disse lei.
“Sparire? Ma di che diavolo parli? Mike è morto! Tu… hanno detto che eri morta. Che cazzo sta succedendo?”
“Lo hanno ammazzato, Albert. Hanno ammazzato Mike. Devi sbrigarti. Lascia tutto lì e esci subito!” disse la donna.
Albert si guardò intorno.
“Io non lascio proprio niente! Chi ha ammazzato mio fratello?” disse.
“Mike si era messo in contatto con dei trafficanti di diamanti mentre io ero in Sud Africa” disse la donna. “Quando ha saputo del fermaglio, ha pattuito uno scambio, ma poi non ha rispettato gli accordi. Adesso esci da lì per favore”.
Albert si passò una mano fra i capelli. Trafficanti di diamanti, scambio di merci, accordi… suo fratello era solo un architetto!
“Albert, mi hai sentita? Esci da quella casa, e di corsa!”
Albert riagganciò, prese in mano il fermaglio e andò verso l’uscita.
Nello specchio annerito il suo riflesso si fermò per qualche istante, poi Albert allungò la mano e aprì la porta.

Sentì dei passi veloci sopra di lui. Si voltò verso le scale e vide una sagoma contro la luce del lampione, in cima alle scale.
“Sarah, che ci fai qui?” disse Albert.
La donna gli fece cenno di salire. Albert si girò e chiuse la porta alle sue spalle.

“Sbrigati, Albert!” disse lei sottovoce.
Quando Albert mise il piede sul primo scalino si sentì uno sparo. Sgranò gli occhi, rimase immobile per pochi istanti, poi cadde a terra. Riverso sul pavimento fra le scale e il portone di casa, l’ultima cosa che Albert vide fu il fermaglio che brillava nella notte, tra le sue dita sporche di sangue.

Foto di Christoph_mschrd

da Pixabay

 




BETULLE di Valentina Pucillo

Racconto tratto dalla raccolta Voci Nuove 7 a cura di Daniele Falcioni

 

Lo so, tecnicamente oggi sarebbe il giorno 2. Ma ieri, quando sono arrivata, ero troppo stravolta anche solo per prendere in mano la penna. Il jet lag e il viaggio fino a qui nello scassone del tizio che è venuto a prendermi all’aeroporto di Novosibirsk mi hanno stremato. Penso di essergli sembrata alquanto scostante. Il tizio, che dovrebbe chiamarsi Andreas, in effetti mi ha accolto con un’espressione cordiale. Ha anche tentato di fare conversazione; mi pare che mi abbia detto che è tedesco, che è qui da circa sette anni e che si occupa di una fattoria. Ho risposto a monosillabi, non avevo alcuna voglia di starlo a sentire né di parlare. Del resto, non ho proprio nulla da dire a uno che passa le giornate in mezzo al fango in compagnia delle mucche. Comunque, la traversata verso questo posto dimenticato da Dio è stata allucinante. Appena usciti dalla città, siamo stati avvolti da un buio denso e profondo, che non ci ha abbandonati per quasi tutt’e due le ore di viaggio. Non avevo mai visto un buio così fitto. E anche davanti all’abitazione dove ci siamo finalmente fermati era tutto completamente nero, non c’era un lampione a pagarlo oro. Per fortuna Andreas ha acceso una specie di lumino cimiteriale sulla porta, altrimenti mi sarei persa prima di riuscire ad entrare. Nonostante fossi stanca morta, non sono riuscita a dormire quasi per niente. L’oscurità era così silenziosa e soffocante che mi sembrava di essere annegata in una boccetta di inchiostro. Non ci sono abituata. Il cielo di New York che vedo attraverso la vetrata della mia stanza pulsa sempre di mille suoni e luci colorate, come il soffitto di una immensa discoteca. Oddio, che angoscia. Non so se ce la faccio. Non so proprio come farò a resistere qui.

Mi chiamo Rebecca Molino. Sì, questo è il mio vero nome, ma ormai non lo ricorda più nessuno. Il nome con cui tutti mi conoscono è quello stampato in sottili caratteri argentati sulle copertine dei libri che ho scritto. Non starò qui a farmi pubblicità, quindi non dirò qual è. Sinceramente non avrei mai immaginato di poter avere tutto questo successo, anche perché le prime cose che ho scritto non sono andate molto bene. Non sono andate affatto, anzi. Scrivevo racconti molto intensi, secondo me. Un po’ onirici, con mille citazioni e rimandi, in cui sogno e realtà bene e male finivano sempre per confondersi, in cui nulla era definito e tutto era in continua trasformazione verso altre dimensioni. Erano pieni di metafore con cui cercavo di

7 marzo, 6:40, giorno 1

condividere le mie riflessioni sul mondo. Scrivevo anche poesie, mi piaceva tanto scrivere poesie. Mi rendo conto che, forse, sarei riuscita a interessare solo un pubblico di nicchia. Infatti mi sono vista sbattere tutte le porte in faccia. Non lo davo a vedere, ma i rifiuti mi avevano davvero scosso. Non tanto per il rifiuto in sé, quanto per le motivazioni: “Lei scrive molto bene, ma il suo stile è troppo elevato, i suoi contenuti sono troppo intellettuali, troppo difficili, non adatti a gente che compra un bel libro per rilassarsi e distrarsi”. Ma che motivazione sarebbe? Credevo che si leggesse anche per imparare, o per farsi delle domande, o per poter vedere le cose da un altro punto di vista. Per questo, per un lungo periodo ho chiuso nel cassetto i miei quaderni (sì, scrivevo ancora a mano) insieme al sogno di poter essere apprezzata come scrittrice.

Poi è accaduta una cosa. Una cosa squallida, miserabile, banale. Mi è successo che il ragazzo con cui condividevo le mie giornate e di cui ero follemente innamorata è volontariamente sparito senza preavviso e senza spiegazioni. Così, per esorcizzare il dolore, ho comprato un quaderno rosso e ho scritto una storia strappalacrime, con una protagonista bellissima e sfortunatissima che per mille coincidenze sembra destinata all’infelicità, ma viene poi soccorsa e salvata dall’affascinante riccone straniero, che la prende per mano e la conduce verso un lieto fine rosa confetto. Scontato, no? Forse anche un po’ sempliciotta come idea. Di certo neanche paragonabile, a mio avviso, allo spessore di quello che avevo scritto prima. Eppure si è dimostrata un’idea vincente! La mia vicina, grande amica di mia mamma, che mi vedeva sempre sul patio con penna e fogli in mano, mi chiedeva sempre di poter leggere quello che scrivevo. Mi restituiva sempre i miei quaderni con un sorriso gentile e frasi di questo tipo: “Davvero molto interessante”, oppure “Sei davvero brava, cara”. Ma quella volta è stato diverso. Era entusiasta, mi disse che l’avevo proprio trasportata nella storia e che si era sentita come se fosse lei la protagonista di quelle avventure. Io ero un po’ sconcertata; colpita da tanto entusiasmo, provai ad inviare il romanzetto ad un editore. Fu pubblicato e fu un successo! Forse perché la gente preferisce farsi trasportare senza pensare in sogni banali piuttosto che immergersi in riflessioni ed elucubrazioni mentali contorte e poco lineari?

Comunque, ho cavalcato l’onda. Che avreste fatto voi? Quel mio primo romanzo è stato pubblicato anche negli Stati Uniti d’America, e qualche tempo dopo sono stata contattata da una importante casa editrice americana che si occupa non solo di pubblicare romanzi e diverse forme di narrativa, ma anche riviste di vario genere. Ho colto la palla al balzo: sono scappata a gambe levate dal piccolo paese da dove vengo e sono andata a firmare un contratto bomba a New York, dove mi sono poi stabilita. Voglio bene ai miei amici, ai miei genitori, a tutti. E mi mancano! Ma non vedevo l’ora di scrollarmi un po’ di dosso la polvere della provincia. Ci

pensate? New York. Ho sempre pensato che è un posto dove tutto può accadere: grattacieli, luci, party, milioni di persone di ogni tipo, una possibile avventura dietro ogni angolo. Mi sono immaginata una vita sfavillante. La prima settimana avrò postato almeno 150 selfie scattati sul ponte di Brooklyn, davanti alle vetrine di Tiffany e perfino in un rooftop party, con tanto di espressione ebbra e un cosmopolitan in mano.

Nel tempo libero dalla vita mondana, dai giri di shopping e dalla mia immersione in quella che credevo fosse la vita da vera newyorkese, ho continuato a scrivere dei tormenti amorosi e delle avventure strappalacrime delle mie eroine e dei loro salvatori. Ogni volta inserivo qualche particolare nuovo e diverso: tutte variazioni sul tema per solleticare la fantasia dei miei fan, sempre lasciando tra le righe intuibili allusioni allo spumeggiante lieto fine, per non turbare troppo il loro sogno ad occhi aperti. Con immenso gaudio del mio editore! Che vi devo dire? I miei libri si vendono come l’acqua.

A volte, mentre scrivevo, mi è capitato di sentirmi chiedere da una sottilissima voce nella mia mente: “Ma tu lo compreresti questo libro, vedendo quella copertina o leggendo quel titolo?” Non credo di aver mai risposto. Qualche volta, di recente, mi è anche successa una cosa strana: guardandomi allo specchio, mi è sembrato di non riconoscermi. Cioè, la faccia era, ovviamente, sempre la mia, o quella della “nuova” me, quella col nome argentato, con i capelli più miele di prima e visibilmente freschi di messa in piega, ma… era una me stessa con cui io, Rebecca, non avevo molto in comune. Mi guardavo, concludendo che avrei tranquillamente potuto essere una delle bambolone dai grandi occhi sgranati che finiscono per domare e sposare… che so, il ricco influencer di cui raccontavo. Una con cui farsi sicuramente una foto molto cool, da far vedere agli amici, una a cui in passato non avrei davvero saputo cosa dire. Mi è capitato raramente, comunque, e non ho avuto proprio il tempo di starci a riflettere su. Comunque, stavo lavorando al mio nuovo libro. Il mio contratto con l’editore prevede l’uscita di un libro ogni due anni circa, e mancava poco tempo alla scadenza del termine per la consegna della prima bozza. Non ero arrivata neanche a metà, ma non ero per nulla preoccupata. Ho sempre fatto così: butto giù qualche idea, sprazzi di immagini che mi vengono in mente senza concentrarmi veramente, e poi scrivo tutto di gran corsa durante gli ultimi due mesi. Ha sempre funzionato. Fino al 25 febbraio. Come tutte le mattine in cui scrivo, mi sono svegliata prestissimo. Ho bevuto il mio solito bibitone di latte di soia e miscuglio iperproteico, soffermandomi a osservare le macchie di cielo pallido tra i palazzi dalla mia finestra al sedicesimo piano. I grattacieli grigi di Manhattan visti dall’alto, al mattino, quando ancora non sono illuminati, sembrano pistoni scuri e freddi di un immenso ingranaggio perfetto, che forse è esattamente quello che è questa città. Ho fatto una doccia bollente e mi sono seduta

davanti al computer di buona lena; ho aperto il file con il romanzo, ho riletto l’ultimo capitolo e poi… e poi niente. Non sono riuscita a scrivere nulla, quel giorno. E neanche il giorno dopo e quello dopo ancora. Ho cambiato la mia routine, ho fatto yoga, sono andata a correre a Central Park, ho ascoltato musica da meditazione. Ma niente: sono rimasta ferma al capitolo quattro.

Poi è arrivato il giorno in cui Anas Stacey, il mio editore, mi ha chiesto di inviare la bozza del romanzo. Per tutta la durata del nostro proficuo rapporto lavorativo, il sig. Stacey mi ha lasciato fare di testa mia, pretendendo solo una cosa: il rispetto delle scadenze. Quando ho visto la sua email di sollecito, cordiale ma ferma e diretta, mi sono gelata. “Oh merda” ho pensato, “questa è una catastrofe! E adesso?”

Ho traccheggiato per qualche giorno, cercando di prendere tempo ma, come era presumibile, Anas Stacey mi ha convocato con urgenza nel suo ufficio. Anzi, mi ha comunicato che “sarebbe stato lieto di vedermi quanto prima”. Pertanto, mi invitava a presentarmi “con cortese sollecitudine” presso il suo ufficio a Park Avenue, “per un illuminante scambio di opinioni”. Il che, detto da lui, vuol dire: “Devi essere qui entro mezzo secondo, e con più argomenti di quelli che contiene un’enciclopedia per spiegarmi il motivo per cui la bozza del libro non è ancora sul mio tavolo”.

Che dovevo fare? Sono andata. Ecco come è andata.
“Buongiorno, signor Stacey”.
“Buongiorno, Rebecca” mi risponde con un sorriso gentile e gli occhi gelidi. “Benché io sia lieto di vederla, noto con un certo stupore che il suo arrivo non è stato preceduto da un’email contenente la bozza del libro”.
Peggio di quello che pensavo.
“Ecco, vede, signor Stacey, io… io purtroppo non posso ancora presentare una versione definitiva . Ci sono dei punti che non mi convincono del tutto, quindi preferivo… mmm… fare degli aggiustamenti. Magari se potesse concedermi, soltanto per questa volta, un po’ di tempo in più…”
Il sig. Stacey si è alzato ed è andato verso la vetrata dietro alla sua scrivania. Mi ha fatto cenno di avvicinarmi. Io mi sono avvicinata. “Si è mai soffermata a guardare New York dall’alto?” mi ha chiesto, senza guardarmi. E ha proseguito: “Di giorno è tutto un pulsare, frenetico e armonioso allo stesso tempo. Mi ha sempre dato una grande energia. Ma di notte, ad un certo punto, la macchina si ferma, per qualche ora, per pochissime ore, anche il cuore della città rallenta. Serve una pausa per ricominciare con più grinta” ha detto lentamente. “Per questo ho pensato che anche lei abbia bisogno di staccare, di rallentare. Anche se non le abbiamo

mai imposto nulla ed è sempre stata libera di organizzarsi autonomamente, forse adesso è arrivata la necessità di evadere dalla routine, o di gestire diversamente il proprio tempo”. Oddio, vuoi vedere che forse per stavolta l’ho sfangata? Mi darà più tempo! Giuro che da domani farò lavorare il mio cervello a mille.

“Quindi, ecco cosa ho pensato. Le daremo un mese in più per terminare la bozza, che ci invierà completa al termine di questo periodo per dimostrarci che ha rispettato la scadenza, e avrà poi altri quindici giorni, durante i quali noi non la visioneremo, per eventuali variazioni o modifiche che riterrà opportuno fare. Questo mese, però, non lo trascorrerà a New York. Per rilassarsi, per cambiare aria, per solleticare la sua creatività, andrà a Bountiful come nostra inviata per la rivista Earth&Heart”.

“A Bountiful? La cittadina dello Utah?” ho chiesto, perplessa. In che modo questo potrà aiutare la mia creatività? Non c’è niente a Bountiful.
“No, Miss Molino. A Bountiful in Russia, sulle rive del fiume Ob. Non è una città vera e propria. È un ecovillaggio sorto negli anni Novanta. Questi ecovillaggi stanno diventando una vera e propria tendenza, si stanno espandendo un po’ ovunque. Voglio che lei vada a vedere com’è uno di questi ecovillaggi, come funziona, cosa fa la gente che ci vive; voglio un reportage per la nostra rivista. Le daremo i contatti di una persona che si è trasferita lì e che sarà il suo riferimento. Sa che il suo contratto prevede che possiamo chiederglielo” e, nel dirlo, si è voltato verso di me e mi ha fissato. “Mi pare una soluzione ideale per coniugare la sua necessità di evasione e le pressanti esigenze dell’azienda. Non trova anche lei?” ha concluso, con un sorriso a trentadue denti.

Ed eccomi qui. A Bountiful. In un cazzo di villaggio new age. E tra poco dovrò scendere al piano terra di questa… boh, baita, incontrare questi hippy sconosciuti e far finta di essere interessata alle loro idee e ai loro campi di patate.

8 marzo, 21:55, giorno 2

Sono stremata. Sono stati due giorni massacranti. Credo di non essermi stancata così tanto neanche quando ho partecipato alla maratona di New York. Beh, in effetti in quel caso ero lì più che altro per esigenze di marketing, e, più che correre, ho camminato pavoneggiandomi tra la folla. E dire che Andreas, stamattina, mi aveva detto che avremmo fatto solo un bel giro turistico, giusto perché mi ambientassi. Giro turistico un corno! Abbiamo marciato per ore, attraversato tutti i boschetti e i campi coltivati, perché era essenziale che io vedessi dove sono

piantate le patate, dove il sedano rapa, dove la segale e dove l’orzo. In più, l’aria è gelida, e nuvoloni scuri e pesanti mi hanno oppresso tutta la giornata. In alcuni dei campi più lontani dal fiume e sotto gli alberi, nelle zone più ombrose dei boschetti, c’è ancora la neve e non è per niente piacevole camminare sprofondando ad ogni passo. Le vie, invece, sono tutte sterrate, e per questo sono diventate un ammasso schifoso di fanghiglia sulla quale, ovviamente, non ho potuto evitare di scivolare un paio di volte, tanto per non farmi mancare nulla.

Abbiamo girovagato per tutte queste “strade”, che collegano le varie abitazioni. In effetti, ora che le ho potute osservare bene, non sono vecchie baite diroccate, come pensavo ieri. Ho scoperto che ce ne sono di due tipi: le isbe, abitazioni più rustiche che sembrano piccoli chalet di tronchi scuri, e le dacie, che sono come veri e propri piccoli castelli di legno, alcune dipinte e decorate con motivi tradizionali, davvero belle. Di queste, una cinquantina sono stabilmente abitate dalle famiglie proprietarie; le altre appartengono a persone che lavorano in città e che tornano durante il fine settimana o, se lavorano a Ordynskoe, la città più vicina, anche quasi tutte le sere. Ogni abitazione ha il suo terreno intorno, sul quale spesso c’è un boschetto di cedri siberiani e abeti che abbraccia la casa. Il villaggio stesso è circondato da un bosco di conifere. Sono alberi piantati negli anni dagli abitanti, quasi a voler creare una sorta di cinta muraria; la chiamano scherzosamente “la cinta alberaria”. Nei terreni di ciascuna abitazione ci sono poi un cortile, un orto e magari anche un pollaio o una stalla. Immaginavo che fossero tutti contadini. Certo è che qui si conoscono proprio tutti: Andreas si fermava ogni mezzo minuto a salutare chiunque e a chiacchierare. Ovviamente, io salutavo in inglese e ho provato a dire qualcosa di gentile, ma non ho ricevuto altro che qualche educato sorriso di circostanza. Probabilmente non sono in grado di capire la mia lingua, né Andreas si è messo a farmi da interprete. Comunque, mi sono sentita sopraffatta e intimorita dall’enormità degli spazi. A New York vivo in un appartamento di 50 metri quadrati, in un grattacielo accerchiato da altri palazzi enormi, così vicini che dalle mie finestre riesco a guardare la TV negli appartamenti di fronte. Qui ogni casa, invece, è lontanissima dall’altra e tutto sembra un’enorme distesa di qualcosa: i campi sono enormi distese di terra, i boschi enormi distese di chiome verdi, l’Ob è un’enorme distesa di acqua che serpeggia veloce. Andreas si è accorto che guardavo il fiume quasi in trance, come se l’acqua mista al ghiaccio che mi scorreva davanti agli occhi mi stesse ipnotizzando, e mi ha detto che il fiume ha questo effetto anche su di lui. Mi ha detto che quando è nervoso e deve riflettere su come risolvere i problemi va sulla riva a guardare il fiume. Che diavolo di problemi possa avere in un posto come questo, proprio non lo so. A parte questo, Andreas non mi ha raccontato molto di sé. In compenso, mi ha spiegato in modo estremamente dettagliato un sacco di cose sul villaggio. Probabilmente avrei dovuto ringraziarlo, visto che queste informazioni

saranno preziose per il maledetto reportage che devo scrivere per Anas Stacey, ma ad un certo punto mi girava la testa e, soprattutto, mi sembrava che mi stesse prendendo in giro. Ho avuto l’impressione che mi stesse raccontando una bella fiaba direttamente estrapolata dal manuale del perfetto adepto new age.

A quanto pare, questo villaggio, come molti altri in Siberia, si è popolato di gente che ha abbandonato le città, insoddisfatta della vita moderna e stufa del vortice casa-lavoro, della mancanza di tempo libero di qualità, delusa dallo spreco di tempo e denaro in passatempi e cose frivole e inutili. Qui vengono a cercare uno stile di vita più semplice, unicamente legato alla natura e allo sviluppo delle relazioni umane: si vive prevalentemente con quello che si riesce a produrre e si vendono prodotti tipici; con il denaro ricavato si acquista il poco necessario che manca. Sono rabbrividita quando mi ha detto che in altri villaggi manca l’elettricità. Per fortuna qui c’è! Passi il non poter avere guacamole o aragosta al burro per cena, perché non sono prodotti locali, ma dover vivere a lume di candela e non poter usare asciugacapelli e piastra, no! Non lo potrei sopportare.

Adesso me ne vado proprio a dormire. Per fortuna mi sono scongelata. Devo ammettere che la vecchia stufa a legna di ghisa riscalda la dacia alla perfezione, e il crepitio del fuoco è come una nenia rilassante.

9 marzo, ore 6:18, giorno 3

Mi sono svegliata con la luce del mattino che filtra attraverso le tende semichiuse, sentendomi bizzarramente frizzante. Ho spalancato la finestra e sono rimasta senza fiato, non solo a causa della folata freddissima che ha fatto irruzione nella stanza, ma soprattutto per il quadro che mi sono trovata davanti: un insieme mozzafiato di colori vividi e luccicanti di sole, il nero denso della terra dei campi, le varie sfumature verdi di abeti, pini siberiani, larici e poi l’erba fresca che spunta tra i mucchi di neve candida ammonticchiati qua e là e, in lontananza, la massa grigioazzurra dell’Ob. Oggi, secondo l’agenda di Andreas, dovremmo aiutare tali Ivan e Alyona a preparare il kvas, lo sbiten e la rjazhenka per lo spaccio del villaggio, e poi lo accompagnerò a vedere la sua stalla di mucche e capre. Spero vivamente che non mi tocchi passare il pomeriggio a spalare letame.

Bene, è ora di scendere. Francamente, ho l’acquolina in bocca se penso alla colazione con sbiten e un paio di bliny con la marmellata di lamponi. Quelli che Andreas ha preparato ieri erano davvero deliziosi.

Anche oggi finalmente è giunta l’ora di rannicchiarmi al caldo sotto le coperte. Per fortuna non patisco il gelo come all’inizio. Alyona mi ha regalato un paio di valenki e un cappotto di montone. Non avrei mai pensato di andare in giro, proprio io, con un cappotto di montone! Cioè, con una pecora addosso. Ma non avrei mai immaginato tante cose prima di arrivare qui. Credo di essere stata un po’ superficiale. E prevenuta. Che giornate, ragazzi! Avrei tantissime cose da scrivere, troppi pensieri mi turbinano nella mente. Negli ultimi giorni, però, sono stata troppo impegnata per farlo, e ora sono stanchissima, non potrei dare una forma decente a nulla di quello che mi gira in testa. Ho scattato migliaia di foto, comunque, e sono sicura che faranno ottimamente le veci di appunti scritti. Non appena avrò un secondo libero, inizierò a buttare giù qualcosa per il reportage. Ah, c’è anche da finire quel romanzetto! Per il momento non ho proprio tempo da perdere con quella sciocchezza; peraltro Veronika, l’artigiana che abita qui accanto, mi ha dato qualche ottima idea per lo sviluppo della trama: dovrebbe davvero scrivere qualcosa anche lei.

27 marzo, ore 15:00, giorno 21

Oggi, dopo quasi tre settimane, sono sola e ho del tempo libero. Andreas è dovuto andare all’improvviso a Novosibirsk con Ivan e Kuzja; staranno via un paio di giorni. Era piuttosto teso stamani prima di partire, mi ha accennato che dovevano incontrare alcuni funzionari governativi perché, da quello che ho capito, c’è qualche problema con la gestione del territorio, che rientrerebbe in un progetto del governo federale. Non mi ha spiegato bene, in effetti; sta di fatto che, nonostante io non lo conosca benissimo, non lo avevo mai visto così nervoso, addirittura quasi cupo. Non ho avuto occasione di chiedergli maggiori spiegazioni. Lo farò in un altro momento.

Tra poco devo vedere Ardja e Alyona per iniziare a preparare il pranzo prenotato dai quaranta turisti che verranno domani. Ebbene sì, in questo posto che sembra dimenticato da Dio vengono i turisti! Sono persone che vogliono rilassarsi, lontano dalle città, e vengono a godersi la quiete e la natura. Ma c’è anche chi viene a frequentare dei corsi di artigianato locale, cucina tradizionale, agricoltura biologica, tutti organizzati dalle persone che vivono qui. Mi sono sbagliata tantissimo su di loro, sono stata davvero superficiale: non sono rozzi illetterati come ho presuntuosamente dato per scontato all’inizio. È vero quello che diceva Andreas: la maggior parte sono professionisti, dirigenti, avvocati, medici, addirittura scienziati che sono venuti a

15 marzo, ore 22:00, giorno 9

cercare serenità e uno stile di vita più vero e naturale, lontano dalle città grigie. E vengono non solo dalla Russia e dalle pesanti città industriali della Siberia, ma anche dall’estero, come nel caso di Andreas. Ardja, per esempio, che qui sforna ogni giorno numerose pagnotte di delizioso pane di segale e altre bontà fragranti per gli abitanti del villaggio e per i turisti, faceva la dentista a San Pietroburgo; Ivan era un medico, e continua ad esserlo in caso di necessità, ma questo non gli impedisce di gestire lo spaccio con sua moglie Alyona; Veronika è una artigiana ex insegnante, che oltre a realizzare oggetti tradizionali in cuoio, oppure abiti e accessori ricamati su ordinazione, gestisce una piccola scuola per i bambini del villaggio, che sono parecchi! Lo stesso Andreas era capo dell’ufficio presso la filiale di New York di una importante banca tedesca. Poi si è stufato del mondo marcio e superficiale che spesso gira intorno ai soldi ed è venuto qui, si è impegnato e ora ha la sua fattoria. Nel villaggio parlano quasi tutti perfettamente in inglese, pertanto non ho avuto difficoltà a fare amicizia, soprattutto una volta chiarito che non sono una funzionaria governativa di Novosibirsk, come molti pensavano all’inizio: me lo ha confessato Ardja. Ecco perché mi trattavano con freddezza e diffidenza, cosa che deve avere qualche relazione con quello che è andato a fare Andreas oggi in città. Anzi, quando hanno scoperto che avrei scritto un reportage sul loro stile di vita sono stati loro stessi a coinvolgermi in ogni attività perché potessi sperimentare in prima persona prima di scrivere.

Ho imparato a fare e ad apprezzare il borsch e i meravigliosi pelmeny, e le bevande tipiche. Ho impastato chili di farina di segale e ho fatto lezione di inglese ai bambini della scuola di Veronika. Ho munto le mucche e raccolto le uova delle galline al mattino presto. Ho scoperto cose che non avrei mai pensato potessero interessarmi né tantomeno essermi utili, come ad esempio saper distinguere i semi o usare specifiche tecniche per una gestione sostenibile e biologica dell’agricoltura. Ho imparato ad accendere il fuoco. Ho cantato, la sera attorno al fuoco, canzoni tradizionali imparate al mattino, insieme a una quindicina di altre persone brille come me di kvas fatto in casa, che mi prendevano bonariamente in giro per la mia pessima imitazione dell’accento russo. E tra un sorso di kvas e uno di kompot, che ci crediate o no, grazie alle idee di Veronika sono riuscita anche a finire il romanzo che tanto aspetta Anas Stacey.

Mi sembra che queste persone siano… ecco, in realtà non so come definirle. Forse concrete, reali, dense. E positive! Hanno dentro un concentrato di conoscenze e continua voglia di imparare, di valori e calore umano. Del resto, loro credono davvero in quello che fanno e sono convinte che se questi valori si diffondessero sarebbe tutta l’umanità a goderne. È vero, non si può negare che sia un atteggiamento un po’ hippie. Ma a viverlo dall’interno non sembra

qualcosa di artefatto o utopistico. Sembra una vita vera, in cui quello che si fa in condivisione dà un senso ed uno spessore alle giornate. E infatti sono tornata a casa ogni sera stanca morta, stordita, a volte sporca di fango, ma sempre molto soddisfatta, come non mi sentivo da tanto tempo. E guardando allo specchio la mia immagine con la ricrescita tra i capelli, le guance rosse di freddo e spesso sporche di fuliggine, mi è sembrato di vedere una Rebecca più vera. Oddio, sembra che io stia scadendo nel sentimentale. Ho un sacco di cose da fare, è meglio che vada!

28 marzo, ore 11:00, giorno 22

Scrivo direttamente da questa radura, ancora in preda ad una forte emozione. Ero sola in casa; i turisti dovrebbero arrivare verso mezzogiorno e ci sarà parecchio da fare; per questo stamattina avevo deciso di andare a fare una camminata prima che arrivassero. Sono stata fortunata: nel mio periodo di permanenza qui c’è stato quasi sempre stato il sole. Qui la luce ha una sfumatura particolare, che ti fa venire voglia di stare all’aria aperta, nonostante il freddo, tutto sommato abbastanza sopportabile in questo periodo: non ci sono i trenta gradi sotto zero dell’inverno, e io mi sono quasi abituata. Così ho preso il taccuino di cuoio che mi ha regalato Veronika e ho iniziato a vagabondare senza una meta precisa, dirigendomi verso il bosco a est. Mi sono allontanata parecchio dalla zona abitata, inoltrandomi tra i cedri e gli abeti dove in precedenza non mi ero mai spinta; poiché gli alberi non erano così fitti da impedirmi di vedere il cielo e, alla mia destra, in lontananza sentivo il mormorio rassicurante del fiume, ho continuato ad andare avanti. All’improvviso sono sbucata in un boschetto di alberi a me familiari, radi e alti, ancora completamente spogli ad eccezione di qualche sporadico accenno di gemme precoci qua e là. I tronchi sottili ed eleganti spiccavano nel verde dell’erba in tutto il loro candore quasi argenteo, come lunghe braccia protese a toccare il cielo di un azzurro intenso. Betulle! Un meraviglioso boschetto di betulle, non le vedevo da anni. In un istante mi è tornato in mente un ricordo lontanissimo, sepolto da qualche parte nella mia memoria. Avrò avuto forse quattro anni e giocavo con mio nonno, che viveva in un paesino in Piemonte, nel boschetto dietro la sua vecchia casa. Ad un certo punto mi persi e, come ora, mi ritrovai in uno spiazzo erboso pieno di betulle. Nonostante fossi sola e in un posto che non conoscevo, mi sentii in un luogo amico, protetta; mi sdraiai per terra a guardare la forma delle nuvole e le tacche scure sui tronchi, e attesi. Ero felice. Mio nonno mi trovò poco dopo e dimenticai rapidamente l’episodio. Fino ad ora. Mi sono seduta su un masso muschioso e ho iniziato a piangere, commossa. Questo scenario così semplice ma potente, di una purezza indescrivibile,

mi ha dato un’emozione violenta, e non solo per il ricordo; mi sono sentita in un luogo sacro e magico. E perfetto.
Ma adesso è quasi mezzogiorno, è tardi. Prima che mi trasformi in una vera figlia dei fiori, sarà meglio che torni verso lo spaccio.

30 marzo, ore 21:00, giorno 24

Che giornata di merda. Che schifosissima giornata di merda! È proprio vero che le cose ti cadono fra capo e collo quando meno te lo aspetti e tutto si può ribaltare da un momento all’altro. E ancora devo capire esattamente la portata di quello che sta succedendo, anche se a grandi linee mi è chiaro che si tratta di un disastro.

Da stamattina è piovuto ininterrottamente. La giornata è iniziata male fin da subito, quando mi sono accorta che la legna per la stufa si era bagnata. Un senso di malessere non mi si spiccicava di dosso, neanche mentre aiutavo Alyona a sistemare lo spaccio. Anche lei era piuttosto silenziosa e c’era una strana ansia sospesa. Verso le sei, il dramma. Sono tornati Andreas, Ivan e Kuzja, sono entrati nello spaccio con delle facce scure, feroci. Alyona ha fatto cadere un sacco di farina e ha fissato Ivan; lui ha annuito con sguardo grave e lei si è accasciata su una sedia. Io non stavo capendo nulla, ma non osavo chiedere, c’era troppa elettricità nell’aria. A un certo punto Andreas è sbottato, rosso in viso, e aveva una vena sul collo che sembrava sul punto di scoppiare. “Hanno deliberato in via quasi definitiva l’esproprio delle terre. Senza consultarci, senza avvisarci, senza dirci un cazzo! Ci hanno tenuti buoni facendoci credere che stavano valutando le soluzioni alternative che avevamo proposto, e invece se ne sono fottuti e sono andati avanti con il progetto originario. Ci hanno presi per il culo! Hanno fatto tutto in sordina, e con la scusa che i provvedimenti sono pubblici non si sono mai degnati di notificarceli; e adesso che il primo progetto è stato approvato, non possiamo neanche presentare formalmente quello alternativo”. Dopo aver detto queste parole è uscito sbattendo la porta. L’ho visto fuori che tirava calci ai sassi mentre si dirigeva verso le rive dell’Ob. Kuzja e Ivan, invece, si sono seduti e hanno cominciato a ingollare un bicchiere dopo l’altro di vodka, cosa del tutto inusuale per loro, parlando sottovoce in un russo feroce. Io continuavo a non capire, ma Alyona mi ha fatto cenno di andare, sussurrando che ci saremmo viste domani. E ora sono qui, con questa angoscia che non mi lascia. Andreas non è ancora tornato.

31 marzo, ore 12:00, giorno 25

Stamattina Alyona e Ivan sono venuti a casa di Andreas. Quando hanno bussato alla porta lui stava ancora dormendo, quindi mi sono precipitata ad aprire sperando che mi spiegassero cosa diavolo stesse succedendo.
“In poche parole” mi ha detto Ivan, “quattro anni fa siamo stati convocati a Novosibirsk dai funzionari federali, i quali ci hanno spiegato che stavano avviando un progetto per l’apertura di una discarica proprio da queste parti, necessaria per servire l’Oblast di Novosibirsk. Capisci? Una discarica del cazzo in un ecovillaggio, nel bel mezzo di un territorio regolarmente occupato dai proprietari degli appezzamenti che formano un ecovillaggio”.

“Qui? Scusami, scusami davvero, non capisco. Siamo in Siberia, santo cielo! Ci sono milioni di ettari di terreno libero dove potrebbero scaricare le loro tonnellate di immondizia! Senza contare che ci sono altri modi più ecologici per la gestione dei rifiuti, oggi!”
“Esatto, è quello che abbiamo detto anche noi. Eravamo basiti, anche perché il governo sa che cosa c’è qui, conosce benissimo la nostra attività. Ma non ci siamo persi d’animo e non siamo certo rimasti con le mani in mano. Tramite le nostre conoscenze e quelle di ex colleghi e amici con le giuste competenze, abbiamo individuato almeno altri due siti che avrebbero potuto utilizzare a quello scopo. Abbiamo preparato dei dossier, abbiamo consultato aziende, anche straniere, che si occupano del riciclo dei rifiuti e della raccolta differenziata. In poche parole, abbiamo fatto il fottutissimo lavoro che avrebbero dovuto fare loro prima di prendere qualsiasi decisione scellerata, e abbiamo consegnato loro tutto in via informale per un esame preliminare”.

“E le vostre proposte sono state rifiutate?”
“No! O meglio, non immediatamente e non in modo diretto. A seguito di numerose richieste di riscontro da parte nostra, dopo circa tre mesi siamo stati ricontattati, ci è stato detto che i nostri studi erano al vaglio di una commissione specializzata in materia e che, per il momento, il progetto della discarica in questo territorio sarebbe stato sospeso”.
“E poi non vi hanno fatto sapere più nulla, immagino”.
“Esattamente. Ed è passato un anno, e poi due; e le rare volte che io o Kuzja siamo capitati a Novosibirsk e abbiamo provato a fissare un appuntamento con i funzionari, ci veniva risposto che non era possibile e che, comunque, non era in fase di valutazione alcun progetto per la realizzazione di discariche in questa zona”.
“Quindi vi siete messi l’anima in pace”.
“Proprio così. Pensavamo che l’idea fosse ormai morta e sepolta; pensavamo, da stupidi ingenui, che tutto il nostro impegno fosse servito a qualcosa, che avessero valutato altre opzioni. E invece non le avevano neanche prese in considerazione! A quanto pare, il progetto

si bloccò a suo tempo per motivi economici che riguardavano principalmente la gestione degli appalti, e non perché si fossero degnati di considerare le nostre osservazioni, il nostro punto di vista. Adesso che si è sbloccato tutto hanno fretta di chiudere, perché a quanto pare la realizzazione di questa maledetta discarica è una priorità improrogabile. Quello che mi fa incazzare è che hanno rimandato per quattro anni a causa delle loro sporche questioni di soldi, ma non hanno voluto investire altro tempo per far valutare alla commissione le nostre proposte; si sono limitati a tirare fuori dal cassetto il progetto inizialmente predisposto da quegli ignoranti che rubano i soldi di tutti e hanno approvato quello, che aveva già superato l’esame delle formalità previste”.

Ed ecco la terribile verità, piombata fra capo e collo. Da quanto ho capito, si potrebbe fare opposizione davanti a non so quale tribunale, ma ci vorrebbero soldi e anni, e non è detto che nel frattempo i lavori vengano bloccati. Il problema non è solo quello dell’esproprio di alcuni dei terreni a cui accennava Andreas ieri. Il punto è che, se davvero nelle vicinanze venisse realizzata una discarica, a causa dell’inquinamento del terreno e dell’acqua, oltre ai pesanti disagi derivanti da un mastodontico ammasso di tonnellate di rifiuti nelle vicinanze, l’ecovillaggio morirebbe, e con esso anche i sogni e i sacrifici delle persone che lo abitano attualmente.

Oggi è una giornata nera. L’amarezza nello sguardo e nelle parole di Ivan mi ha lasciato dentro un senso di vuoto e di desolazione. Andreas si è scusato, ha detto che vuole stare solo, ed è uscito per andare alla stalla. Anche Alyona è stata un po’ distaccata, non mi ha invitata per un ivan-chai allo spaccio. Non ci resto male: del resto io, per quanto possa essermi affezionata a questo posto, sono comunque un’estranea che andrà via tra cinque giorni. Li capisco, per questo li ho lasciati in pace. Peraltro io stessa non ho molta voglia di fare nulla né di vedere nessuno, oggi.

4 aprile, ore 11:00, giorno 28

È come se il tempo si fosse fermato. Mi sembra assurdo che continui a scorrere e che domani io ripartirò. Gli ultimi giorni sono stati orribilmente irreali; sembriamo tutti fantasmi che si muovono in un incubo. Eppure, è tutto vero. È vera la notifica dell’approvazione definitiva del progetto, è vera la cenere che volteggia nell’aria ad ogni folata di vento, e sono veri i grossi pezzi dei tronchi bruciati che ancora fumano.

Due giorni fa, dopo un’altra giornata strascicata, io e Andreas stavamo cenando in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. All’improvviso il riflesso rossastro della stufa sulle pareti

è sembrato farsi più intenso, in modo del tutto anomalo. Ci abbiamo messo qualche minuto a capire che i bagliori venivano da fuori. Solo allora abbiamo sentito le grida e ci siamo precipitati nel cortile. E, con orrore, abbiamo visto: laggiù, a poche miglia da noi, la cinta alberaria bruciava. Fiamme rosse e alte ovunque, anche il cielo era diventato rosso e si rifletteva nelle acque del fiume. Un incubo. Andreas è letteralmente impazzito, ha cominciato a correre verso la foresta gridando cose senza senso, gridando che erano stati loro che avevano appiccato il fuoco per annientare l’ecovillaggio, per distruggerlo e levarsi di torno i loro abitanti. Per fortuna Kuzja lo ha bloccato. Non so se qualcuno abbia chiamato i soccorsi da Ordynskoe o se siano accorsi da soli; non so quando siano arrivati, non so quanti piccoli aerei ho visto passare avanti e indietro per riempire e vuotare i serbatoi di acqua, non so per quanto tempo è andato avanti l’incendio. So solo che per ore, forse anche per tutto il giorno dopo, siamo rimasti tutti in strada, allucinati come zombie, incapaci di staccare gli occhi da quello spettacolo maledetto. La cinta alberaria è praticamente distrutta, migliaia di alberi sono carbonizzati. Dove c’era il boschetto di betulle ora c’è solo un mucchio di terra nera e cenere grigia; la perfezione non esiste più. Stanno ancora cercando di capire quali siano state le cause di un incendio di così grandi proporzioni, un incendio così strano, soprattutto in questo periodo. E io domani devo ripartire. Devo preparare la valigia.

25 aprile, New York

Ho consegnato il romanzo entro la scadenza. Non ho preparato, invece, il reportage. Francamente, dopo tutto quello che è successo non sono riuscita a scrivere un articolo leggero e allegro, come invece mi era stato richiesto. Ho avuto l’idea di inviare gli appunti del mio diario e le foto che avevo scattato, come se fosse quello il reportage. Anas Stacey mi ha telefonato, era estremamente contento del romanzo e anche soddisfatto del materiale su Bountiful: ritiene che ce ne sia abbastanza per scrivere un bell’articolo, precisando tuttavia che verrà “tolta ovviamente tutta l’ultima parte. Questi toni drammatici non ci interessano, la nostra rivista deve far divertire il lettore, lo deve allietare, non angosciarlo con questioni morali, ambientali, politiche”. E poi, con un freddo tono di sufficienza che mi ha nauseata, ha aggiunto: “L’articolo lo scriveremo sugli ecovillaggi in generale in Russia, eh? Visto che forse Bountiful a breve non non ci sarà più. Ok?”

Un paio di giorni dopo sono andata da lui, in ufficio. Gli ho detto che mi prenderò due anni di pausa, nei quali non scriverò per loro nessun romanzo. Gli ho detto anche che avrei rinunciato ad una piccola parte dei diritti sull’ultimo romanzo pubblicato. Ho specificato che al termine

di questi due anni deciderò se riprendere o no i rapporti con la casa editrice. “Del resto, è una delle opzioni. Sa che il mio contratto prevede che io posso farlo” gli ho detto, guadandolo dritto negli occhi. Ovviamente è rimasto basito, ma non ha potuto controbattere. Me ne sono andata senza dargli il tempo di replicare. Avrà pensato che sono impazzita, ma non me ne importa nulla. Non ho alcuna intenzione di scrivere l’ennesimo romanzo sdolcinato e uguale a tutti gli altri, per ora. Questo non significa che io voglio smettere di scrivere, anzi! Ho voglia di raccontare altre storie.

Apro un nuovo file di testo sul mio computer. E scrivo:

BETULLE

Della cinta di alberi alti e imponenti che circondava il villaggio non è rimasto più nulla. Uno spesso strato di cenere ha ricoperto…

 

 

Valentina Pucillo, Betulle, in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2020, pp. 207-224.




IL CONO D’OMBRA di Ninni Caraglia

Racconto tratto dalla raccolta Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

 

Un gabbiano non vola mai per caso sopra le nostre teste. Vola per vedere se proteggiamo la nostra vita. Invidiamo la libertà di volo dei gabbiani mentre ci seguono a distanza, pronti a raccogliere le nostre zavorre di dolori e delusioni. Volano per noi, che fatichiamo a capire cosa o chi ci stanno indicando di seguire. Un gabbiano è fedele allo scopo del suo volo, si fida del cielo e del mare, ma anche dell’uomo che sugli scogli sa restare in silenzio ad ascoltare i gabbiani.

 

L’uomo le fece cenno di tacere. Lei non si mosse ma si aggrappò saldamente alle maniglie sui bordi del canotto, pronta a muoversi. Smise di pagaiare. Il rumore delle onde mosse dal canotto diveniva sempre più lento. Rimasti in silenzio aspettavano di sentire di nuovo quel rumore, o meglio lui aspettava di sentire di nuovo quel rumore, quella voce bassa, quel lamento, quello stridio, quel fruscìo, quella sensazione di rumore animato in quel mare o in quell’isola deserta. Non più deserta, anzi, visto che adesso c’erano loro che ci giravano intorno. I gabbiani volavano sopra il loro canotto alternandosi in una staffetta silenziosa, quasi pronti a dare un grido di allarme se qualcosa fosse venuto fuori. Qualcosa, qualcuno. L’uomo non aveva ancora capito cosa aveva sentito – ma lo aveva davvero sentito? – non poteva dire se quel rumore fosse di umano o di animale o di vegetazione.

Continuarono ad aspettare in silenzio, lui voltandosi spesso per vedere se dalla vicina costa della terraferma ci fosse qualcuno, lei guardando interrogativamente lui e i gabbiani che volavano sopra la sua testa finché, stanca di mantenere la posizione sdraiata, si mosse per mettersi seduta. Proprio nel momento in cui lei si mosse, entrambi udirono un rumore come di mobili spostati, tipo spostare un pesante divano, così come lo sentiresti fatto dagli inquilini del piano di sopra. Anche il canotto si spostò bruscamente in diagonale, non era il solito dondolio dovuto ai movimenti di lei.

“Andiamo via!” urlò lei. Ma intorno tutto era già ritornato calmo e silenzioso. Facendosi cenno con gli occhi, istintivamente guardarono il fondale cercando un animale degli abissi oppure bolle d’aria per una inattesa attività termale o vulcanica del fondo marino. Lui a gesti indicò ancora di fare silenzio. Tutto sembrava al suo posto, come se nulla fosse accaduto. Lei, impaurita, lo convinse a muoversi, pagaiando molto lentamente per rifare il giro dell’isola ma spostandosi un pochino più al largo. Un lento navigare che li stava riportando a quella piacevolezza che il sordo rumore aveva interrotto. Fecero ancora un altro giro, ma muovendosi a zig-zag per capire se quel rumore si sentisse solo sotto costa. Nulla. Acque cristalline, guizzi di pesci argento e blu, e gabbiani felici. Il sole li guardava muto ma compiacente: una natura perfetta e circoscritta insieme a loro due, piccoli e silenti spettatori. Non sempre è così. Tutta quella bellezza non poteva andare sprecata, i due decisero di avvicinarsi di nuovo all’isola fermandosi però nella parte opposta, dove un punto della parete rocciosa presentava uno sbalzo che faceva ombra. Si fermarono lì perché quel cono d’ombra aveva colpito la loro attenzione sin dal primo giro dell’isola. In quel punto si sentirono al riparo e finalmente tornarono a parlare di quanto avvenuto.

“Sarà stata una leggera scossa di terremoto, ho letto che può essere preceduta da un boato o un sordo lamento” disse lei.

“Però non c’è stato un grosso movimento del mare, il vento non è diminuito o aumentato, e non sono neanche caduti piccoli sassi dalla roccia più alta, che sembra di gesso fragile” disse lui.

Stefano e Lucia avevano scelto quella meta per la scarsa presenza di attività umana e staccarsi così dalle ultime difficili vicende vissute in città. Lui, del segno dei pesci, era in sintonia con l’acqua: non era un vero e proprio richiamo, si trattava piuttosto di piacere e rispetto reciproco. Lei, ariete, aveva paura delle profondità e preferiva tenere i piedi in terra, ma adorava i profumi salati dell’isola, e ogni volta i suoi muscoli, con sempre nuova meraviglia, si arrendevano al dolce massaggio dell’acqua.

Si addormentarono all’ombra di quel picco di roccia che li sovrastava dall’alto. Così in alto che dal canotto non riuscivano a dare un numero a quell’altezza.

Stefano si tuffò in acqua e svegliò Lucia, che però non lo seguì.

Avevano immaginato quel tempo da tanto: niente orari, niente convenzioni, niente riti; non una vita da zingari ma neanche da naufraghi. Una vita per loro stessi.

La lunga giornata e le emozioni richiedevano una sosta, anche se ai due dispiaceva lasciare l’isola dopo quell’evento strano, quindi fecero ancora un giro guardando bene le rocce della riva, cercandone punti particolari o con segni di vegetazione, e riflettendo. Più che riflettere, capire come arrivare in cima alla piccola isola. Un posto così particolare doveva avere senz’altro un panorama altrettanto particolare visto dalla sua sommità. Forse dall’alto avrebbero potuto vedere meglio i fondali e capire se parte della roccia connettesse l’isola alla costa grande. Forse avrebbero visto relitti, rocce scavate con dentro murene enormi… forse.

 

La grande stanza di legno, l’insalata di pomodori, il pane e l’acqua con lo sciroppo di mandorle erano dolci come il sonno che era venuto loro incontro. Enzo arrivò alle sette del mattino, la grande stanza di legno dal basso soffitto l’aveva costruita lui. Un riparo con due finestre dove rimaneva quando aveva voglia di dormire con il mare. Un letto, un tavolino con due sedie, alcune mensole, senza servizi igienici: poteva approfittare della macchia di ginestre proprio sotto la radura di roccia dove aveva costruito. Non pensava che Stefano e Lucia gli avrebbero chiesto di restare a dormire lì: sarebbe resistita veramente, gente di città, a dormire accampata così?

Sorpreso ma anche contento, Enzo aveva dato loro la chiave del capanno ad una condizione: li avrebbe svegliati alle sette del mattino dopo con un thermos di caffè e pane con miele. Voleva essere sicuro che nulla gli fosse accaduto durante la notte e, dopo aver bussato più volte, capì che il sonno era stato tranquillo. Fecero colazione insieme seduti sulla roccia, guardando il mare e l’isola, che dalla riva sembrava più lontana e più grande.

La foschia mattutina rendeva l’isola silenziosa e triste, anche i tre spettatori lo erano. Enzo, togliendosi le briciole di pane dalla barba bianca, disse ai suoi due ospiti che spesso in quella stagione l’isola aveva quell’aspetto, mattino e sera le maree la facevano sembrare più bassa o più alta, per lui nulla di cui stupirsi. La coppia allora si fece un cenno e Stefano disse ad Enzo che aveva bisogno di parlargli. Enzo annuì, raccolsero tutte le cose e chiusero il capanno per tornare sulla terraferma, dove c’era l’appartamento che Enzo aveva affittato loro per il mese di giugno. Camminarono per circa un’ora tra saliscendi intermittenti di roccia e piccoli fiori di cappero, lungo la costa di ciottoli con poca sabbia granulare sepolta dalle alghe, ormai secche, portate dalla marea. Percorsero poi una salita di sterrato che, con pendenza dolce, portava in cima al paese. Un piccolo paese dove c’era tutto e niente, dipende dai punti di vista. Stefano disse ad Enzo che dopo la doccia si sarebbero visti per parlare di una cosa successagli in mare il giorno precedente.

Mentre si rivestivano, Stefano e Lucia si interrogavano sull’opportunità di dire subito ad Enzo quanto accadutogli, non avendo ulteriori prove da aggiungere alle loro sensazioni e ai loro imprecisi ricordi.

La casa di Enzo aveva, come molte altre in quel posto, un solo piano ed una piccola terrazza dalla quale si poteva vedere l’isola. Era come se la costa marina, seppur spezzettata, disegnasse una grossa lettera “C” grazie al punto più alto dell’isola di fronte a loro. Per Stefano e Lucia era ormai familiare, anche se non ne conoscevano il nome, qualora lo avesse.

“Se anche vedessi solo il mare, il suo vento ti porterebbe comunque tutti i profumi del mondo” disse Enzo mettendo sul tavolo un vassoio con pane, alici salate e vino bianco. Aggiunse anche un piatto con piccoli cetrioli rotondi e poi, sedendosi, disse: “Ditemi tutto”. Seguì un lungo silenzio, Enzo capì che senza un bicchiere di vino quel ghiaccio non si sarebbe sciolto. Lucia prese un pezzo di cetriolo e, senza guardare Enzo, disse: “Ieri abbiamo sentito uno strano rumore mentre eravamo sul canotto vicino all’isola”.

Tutti e tre si servirono di pane e alici, preparandosi così chi a parlare e chi ad ascoltare.

Stefano esordì dicendo: “Confesso che sono ancora confuso e non molto sicuro di quanto sto per dirti, ma ho avuto la sensazione di sentire un rumore sordo seguito da un movimento strano, perché il canotto si è spostato mentre io non stavo pagaiando”.

Enzo non fece commenti, Stefano allora continuò: “Sembrava il rumore di un divano spostato, è durato pochissimo. Il canotto si è spostato come se qualcuno da sotto lo spingesse… ma non c’era nessuno! Non c’era vento, non c’erano onde strane, nulla! Siamo stati in silenzio per un po’, ma non abbiamo notato nulla che potesse essere collegato a quello strano rumore. Alla fine ci siamo spostati al largo e abbiamo rifatto lentamente il giro dell’isola, senza trovare nessun sospetto; abbiamo ripetuto il giro per tre volte e all’ultimo ci siamo fermati nel cono d’ombra di quella parte di roccia che sbalza dal corpo dell’isola. Abbiamo dormito un po’ ma, ripeto, nulla ci ha fatto più insospettire. Il resto della serata e della nottata l’abbiamo passato al tuo capanno. Enzo, tu sai se ci sono stati episodi simili?”

“Assolutamente no!” rispose Enzo continuando a mangiare.

“Prima di cena prendiamo una birra insieme al bar del paese e parliamo con qualche paesano, magari viene fuori qualcosa, che ne dite?” rilanciò Lucia.

“Andate pure e io vi raggiungerò più tardi, aspetto il rientro di Giovanni al capanno per le reti” disse Enzo.

“Va bene, oggi pomeriggio alle 6 ci troverai al bar” concluse Stefano.

Il paesaggio era mozzafiato e nulla poteva fare più piacere a tutti se non smettere di parlare e perdersi nel guardare l’orizzonte. Stefano e Lucia erano rimasti un po’ perplessi dalla scarsa partecipazione di Enzo, pensarono di essere stati giudicati sciocchi cittadini ignari dei misteri della natura marina. In parte era vero. Si gustarono l’ultimo bicchiere di vino insieme a Enzo che, poggiatosi alla balaustra del terrazzo, aveva lo sguardo fisso e perso verso un punto dell’isola.

“Cosa stai guardando così assorto?” chiese Stefano.

Enzo si scosse e prontamente invitò Lucia a farsi avanti, continuando ad indicare con il dito l’isola.

“Mi incanto sempre a guardare quel pino laggiù, lo vedete? Guardate esattamente al centro dell’isola, da qui sembra un ciuffo ribelle di capelli, è più alto di tutta la vegetazione” rispose Enzo, tornando a un breve ma forzato sorriso.

Stefano e Lucia cercavano con lo sguardo quel pino, che non trovarono subito. Qualche attimo dopo, anche loro ormai avevano uno sguardo fisso e muto sulla chioma verde scuro dell’isola.

“Prendo il binocolo” disse Enzo.

Ritornò subito e, mentre metteva a fuoco la visione, disse: “Io ormai lo conosco bene, quel pino so come è fatto: parte del tronco, dei  rami e della  chioma è piegata verso di noi. È stato il vento, e il ricordo di chi non c’è più pesa sui rami di quel pino, così dicono”.

Enzo invitò Lucia a guardare per prima. Stefano e Lucia erano tanto  meravigliati e incuriositi da esprimere a Enzo il loro desiderio di salire sull’isola per guardare la vegetazione da vicino.

“Tu sei mai salito sull’isola? C’è un punto ancora più alto del paese per vederla meglio?” incalzò Stefano rivolgendosi a Enzo.

“Magari con l’elicottero!” disse fiduciosa Lucia.

“Sai se hanno provato a salirci facendo arrampicate?” chiese ancora Stefano.

Enzo li ascoltava in silenzio mentre sparecchiava, i suoi ospiti percepirono disinteresse e ne furono molto sorpresi.

Si salutarono senza troppo entusiasmo, dandosi appuntamento per il giorno dopo al bar.

Quando furono fuori dalla casa di Enzo, Stefano e Lucia decisero di camminare fino alla punta della scogliera grande. Non era molta strada ed era quasi in piano, c’erano erbacce miste tra i ciottoli e piccoli arbusti nani di mirto, che il vento non faceva crescere. Arrivati alla fine del sentiero, la scogliera si allargava generosamente in uno spiazzo tondeggiante dove furono felici di fermarsi. A quell’altitudine il brivido ti divide a metà tra paura e pura felicità: sopra tutto e tutti, ti fa sentire impotente e isolato dal mondo, ma al tempo stesso al centro della vitalità del mondo stesso. La coppia si abbracciò e, dopo aver fatto alcune fotografie, si diresse verso il bar del paese.

Salutarono il gestore e i presenti, e sedettero all’aperto in attesa della birra che avevano ordinato. Sentivano su di loro gli sguardi dei tre anziani seduti un po’ più indietro; loro erano i turisti di Enzo, come aveva detto quello con il cappello in testa, pensando di non essere sentito.

Stefano e Lucia fecero un brindisi con la birra augurando ad alta voce “Salute!” per coinvolgere gli anziani presenti, che prontamente alzarono i loro bicchieri.

Finirono velocemente la loro birra e ne ordinarono un’altra. Quando ebbe il secondo bicchiere in mano, Stefano colse l’occasione per dire: “Dopo l’avventura di oggi ci vuole proprio una bella bevuta! Abbiamo sentito un rumore strano giù all’isola, che ha fatto sobbalzare il nostro canotto. Lo avete sentito anche voi, per caso?”.

I tre anziani si guardarono e poi quello con il cappello rispose velocemente di no. Lucia continuò chiedendo se mai questo fenomeno si fosse ripetuto altre volte, chiese anche se c’era un modo per provare a salire sull’isola. Giustificò questa richiesta dicendo che era appassionata di fotografie del mondo vegetale; da ogni viaggio ritornavano sempre con le foto dei monumenti, dei fiori e delle piante più interessanti che avevano visto. I tre anziani paesani ascoltarono con interesse le parole di Lucia, ma aggiunsero solo qualche smorfia di dubbio come commento. Quello che sembrava il più anziano, dietro un paio di occhiali con spesse lenti scure, disse che ricordava di alcuni che avevano provato a scalare la roccia ripida dell’isola, ma il bastone del suo amico con il cappello schioccò vicino al suo piede e lo interruppe. Stefano e Lucia non ebbero risposte ai loro quesiti, pur pensando che qualche segreto sotto sotto c’era. Salutarono cordialmente la compagnia e si avviarono alla loro casetta.

 

Trascorsero giorni di azzurro e dolce vento, i gabbiani incrociavano traiettorie di volo che erano piacevoli viaggi per i pensieri di Stefano e Lucia, finché un pomeriggio, ritornando indietro con il loro canotto, videro tanti gabbiani alzarsi, posarsi e volare intorno a una piccola boa galleggiante bianca e arancione.

La mattina seguente fecero lo stesso tragitto ma la boa non c’era. E non c’erano neanche tutti quei gabbiani. Rimasero per un po’ distanti a guardare, poi Stefano si tuffò cercando di rimanere sott’acqua per vedere se qualcosa era collegato a quella boa. Risalì per riprendere fiato e nuotare un po’ per avvicinarsi, ingoiando aria e le grida dei gabbiani. La seconda breve immersione rivelò la presenza di una scatola di ferro scura, mal posta tra aguzze rocce di scoglio e tentacoli di poseidonia che quasi la ricoprivano. Stefano risalì sul gommone per riprendere fiato, con l’idea di raccontare tutto a Lucia e poi a Enzo. Lucia propose invece di parlarne prima al bar. Così decisero di fare. Nessuna risposta particolarmente utile arrivò dagli anziani; uno disse che forse qualcuno stava facendo esperimenti, oppure era Enzo che con Giovanni usciva in mare e lasciava attrezzi in quella scatola. La coppia lasciò il bar per una cena veloce: avevano deciso di andare da Enzo l’indomani mattina molto presto per parlargli della scatola scura.

Enzo non era in casa e fu introvabile per alcuni giorni. Al bar dissero che era partito all’improvviso senza dare spiegazioni, nulla si sapeva sul suo rientro. Al terzo giorno dalla partenza di Enzo, Lucia e Stefano cominciarono a preoccuparsi. Anche i soliti frequentatori del bar si facevano delle domande, Stefano e Lucia ormai si univano a loro tutti i pomeriggi e tutti insieme si interrogavano sulla partenza improvvisa di Enzo. Solo Lucia azzardò a chiedere se Enzo fosse partito per gravi motivi familiari. “Ma Enzo ha figli?” chiese in ultimo Lucia.

Il chiacchiericcio si fermò di colpo: la parola “figli” arrivò come un secchio di acqua ghiacciata sulla testa dei frequentatori del bar. Stefano e Lucia si guardavano e guardavano i presenti in cerca di spiegazioni; qualcuno si alzò come per andarsene, altri guardavano altrove o guardavano nervosamente i loro telefoni cellulari. Stefano si alzò bruscamente e disse ad alta voce: “Fermi tutti! Ora basta con i silenzi e le bugie!”

Anche Lucia si alzò e prontamente si mise oltre gli ultimi tavolini per bloccare l’uscita. Mario, il gestore del bar, e Paolo, l’uomo con il cappello sempre in testa, fecero un cenno agli altri e tutti ubbidirono.

Mario ritornò poco dopo con bicchieri di birra per tutti e Paolo rimase in piedi come per prendere la parola.

“Enzo è partito ma non ha lasciato detto nulla a nessuno di noi. È la verità. Il figlio di Enzo si chiamava Pino”. Detto questo, Paolo si sedette e tutti rimasero in silenzio. Stefano e Lucia erano attoniti. Tante domande si affacciavano alla mente della giovane coppia, ma i volti tristi degli anziani presenti imponevano ancora silenzio e rispetto.

Dopo qualche secondo, Stefano chiese a Paolo se il loro comportamento potesse in qualche modo aver influito sulla partenza improvvisa di Enzo. Paolo, ormai più tranquillo, rivelò: “Pino si era messo in testa di scalare l’isola per andare a vedere come era fatta. Per questo si esercitava con corde e ganci. Né il padre né il crepacuore di sua madre riuscirono a fargli cambiare idea. Un’estate, dopo la morte di sua madre, si trasferì a nord, in montagna, per fare pratica con un vero istruttore”.

Le cicale avevano smesso di frinire, sul volto di Paolo apparve un’espressione veramente triste, di quel dolore che ti porta via lo sguardo e il pensiero. Stefano e Lucia gli si avvicinarono. Lucia avrebbe voluto prendergli la mano, ma Paolo tirò un lungo sospiro e continuò: “Era arrivato fin sotto alla roccia che sbalza dalla parete dell’isola, era salito in fretta e senza fatica. Tutti lo seguivamo con il binocolo. Enzo era lì sotto, sul gommone. Poi ci fu il rumore delle corde e dei ganci che sbattevano sulla roccia e la stavano sbriciolando. Tutto venne giù quando un chiodo spaccò il bordo della roccia a sbalzo. Anche Pino, poco distante da Enzo. Nessun rumore di uomo in mare. Pino rimase incastrato tra gli scogli appuntiti e fitti nella parte più alta dell’ultimo scoglio, quello sotto la roccia a sbalzo: lo scoglio dello squalo. È proprio il suo nome: sembra una grande bocca aperta di squalo con mille denti aguzzi. Lo scoglio aveva trattenuto Pino come lo squalo tiene la sua preda tra i denti. Neanche i gabbiani si avvicinarono al corpo straziato e pieno di sangue, i suoi occhi furono risparmiati da quei duri becchi gialli”. Paolo aveva parlato tranquillamente, anche se le lacrime gli scendevano ancora sul volto. Si coprì la fronte con la mano sinistra e con la destra riprese in mano il bicchiere di birra, dicendo: “Ora sapete. Ma non parlatene con lui, è difficile seppellire un figlio. È difficile seppellire l’unico figlio.” Bevve tutto d’un fiato per ingoiare anche i singhiozzi. Tutti si alzarono in silenzio e in silenzio riportarono i bicchieri vuoti e i posacenere a Mario, in silenzio ognuno se ne ritornò a casa. Stefano e Lucia si addormentarono abbracciati, la sveglia era impostata alle sei del mattino. Per fare cosa? Ormai sembrava una vacanza alla sua fine, senza quell’entusiasmo che rimane invece per sempre depositato nei ricordi e nelle fotografie. Sicuramente avrebbero passato la mattinata seguente in mare, sotto quella roccia a sbalzo dove giorni prima si erano addormentati approfittando dell’ombra che proiettava sul loro gommone.

Il giorno dopo l’ombra sembrava diversa, si mantenevano distanti al largo e il sole dopotutto non bruciava sulle spalle. Pensavano alla morte del figlio di Enzo, ancora non rientrato in paese. Il pomeriggio era ormai tappa obbligata al bar, dove finalmente conobbero Giovanni, compagno di pesca di Enzo. Non ci fu bisogno di spiegazioni, i ragazzi chiesero a Giovanni di andare alla boa l’indomani mattina presto approfittando della bassa marea. Così fecero. Giovanni rimaneva in silenzio e badava al gommone senza lasciar fare nulla ai ragazzi. Solo quando il gommone si avvicinò pericolosamente agli scogli, i due gabbiani volarono via. Assurdo pensare che fossero lì ad aspettarlo e dargli il cambio. Cambio per cosa?

Giovanni fermò il gommone lanciando una cima allo scoglio più vicino. Stefano e Lucia, invece, continuavano a guardare i gabbiani che volavano in cerchio sopra la boa. “Se le ascolti, tra un andare e un tornare, le onde parlano” disse a bassa voce Giovanni inserendosi, inconsapevolmente, in quel ritmo lento ma amaro. Nel dondolio di poche onde, Giovanni aveva già detto il resto della brutta storia del figlio di Enzo. Il corpo di Pino si era schiantato nel punto più impervio dello scoglio dello squalo. Era caduto di fianco: il braccio sinistro incastrato nelle fauci aguzze dello scoglio e, coperta di sangue, la parte destra del volto. Piccoli brandelli di carne delle cosce disgiunte galleggiavano sull’acqua. Giovanni ed Enzo erano accorsi subito per riprendere il corpo di Pino, ma le onde generate dalla velocità del gommone erano diventate pericolose come pinne di squali affamati che schiaffeggiano con la loro potenza i marinai. L’alta marea rischiava di sollevare e far andare alla deriva il povero corpo spingendolo dentro la bocca dello scoglio. Enzo non avrebbe più riavuto indietro suo figlio, sarebbe rimasto al mare, ai pesci e ai gabbiani. Giovanni si ricordava ancora le urla disperate di Enzo nel vedere il corpo dondolato dolcemente dalle onde di quel giorno. Non poteva prenderlo, non poteva accarezzare suo figlio morto, non poteva vederlo straziato così. Giovanni raccontò ancora che urlò forte anche lui quando vide i gabbiani arrivare uno dopo l’altro sulle punte degli scogli vicini. “Anche se in natura nulla si crea e nulla si distrugge ma si trasforma, Pino non si trasformerà in carne per i gabbiani” disse tra le lacrime. Solo le urla di entrambi fermarono la legge della natura. I gabbiani restarono per un po’ immobili a guardarli. Divennero come muti e forti soldati della regina, uno scudo di pietà per il corpo del povero Pino. Enzo, vinto dal dolore, scivolò all’interno del gommone, sembrava dormisse per quanto era stordito. Da terra ancora non arrivava nessuno, così Giovanni agì velocemente. Ogni tanto quando andava a pesca, ma nessuno doveva saperlo, usava dell’esplosivo per spaventare i pesci, farli salire a galla e prenderli più facilmente nella rete, grazie anche al moto ondoso causato dal boato. Pensò che lo stesso poteva essere fatto per sollevare e recuperare il corpo di Pino, approfittando della marea e delle onde aumentate dall’esplosivo. Enzo sobbalzò all’esplosione, mantenne fermo il gommone mentre Giovanni si sporgeva per raccogliere il morto. Un’ultima onda per lavare il volto di Pino dal sangue: a volte nel mare c’è una pietà silenziosa che onora e rispetta i suoi morti. Succede quando le lacrime sono più salate del mare, così si sente spesso dire nei posti di mare.

Lucia non riuscì a trattenere le lacrime al racconto di Giovanni. Sganciarono il gommone dallo scoglio e si allontanarono da quella boa carica di ricordi. Giunti a riva, salutarono Giovanni e rimasero seduti sulla battigia a guardare il paesaggio. Fu così che decisero che sarebbero rimasti a dormire nel capanno, visto che avevano ancora le chiavi. Intanto, però, volevano ritornare a fare un giro dell’isola prima di avvisare Paolo più tardi, su al bar, che sarebbero ripartiti in anticipo.

Dopo la nottata al capanno, la mattina seguente il mare sembrava un lenzuolo di seta, onde piccole come delicate carezze. Stefano e Lucia lasciarono il gommone abbastanza lontano dallo scoglio dello squalo: si sarebbe visto facilmente da quel lato, e lasciarlo nella parte opposta non era fattibile. Poi se ne tornarono a nuoto al capanno tenendo le finestre di legno chiuse. Avevano il presentimento che Giovanni sarebbe tornato sul posto dove la boa segnalava la scatola di ferro. Accadde veramente così, Giovanni però era in compagnia di Enzo, che portava un cesto con dei fiori e del pane. Attraverso il binocolo si vedeva che Giovanni portava una cassetta di legno apparentemente pesante. Misero tutto sul loro gommone coprendo le cose con un telo: la vista del gommoncino di Stefano e Lucia li aveva stupiti e preoccupati.

Appena presero il largo, Stefano e Lucia lasciarono il capanno camminando dietro i cespugli di ginestre. Per fortuna l’ultima parte di costa aveva uno scalino naturale che consentiva una facile immersione in acqua; da lì poi si mossero lentamente a nuoto. Arrivarono velocemente al primo scoglio grande e aguzzo, lì nascosti potevano guardare cosa avrebbero fatto Enzo e Giovanni, e anche osservare il comportamento tutti quei gabbiani che attorniavano lo scoglio. Dai gesti e dai movimenti di Enzo pensarono che avesse gettato loro del pane, invece si trattava di fiori che lanciava sullo scoglio dello squalo rimanendo in piedi sul gommone. Lucia, preoccupata e agitata, urlò il nome di Enzo.

Tutti si mossero, anche i gabbiani, che ora urlavano volando verso Stefano e Lucia. Giovanni gridava: “Via! Andate via!”, ma ormai i ragazzi si stavano avvicinando a nuoto. Enzo alzò la mano in segno di resa e quando Stefano, affannato, gli chiese cosa stesse succedendo, Enzo aiutò sia Stefano che Lucia a salire a bordo. “Devo aiutare mio figlio. Devo aiutarlo a completare la sua salita” disse Enzo con un filo di voce mentre un silenzioso gabbiano si posava accanto a lui.

Giovanni provò a spiegare le parole di Enzo dicendo: “La scatola di ferro contiene le ceneri di Pino. Se togliamo la boa e mettiamo dell’esplosivo, faremo esplodere la scatola, così le ceneri si spargeranno in mare. Saranno poi le nuvole e la pioggia a portare Pino su quell’isola”.

Lucia abbracciò Enzo e si sedettero entrambi a poppa, mentre a prua Giovanni e Stefano procedevano secondo il piano concordato; poi inginocchiandosi nel gommone, si fecero il segno della croce prima di accendere l’esplosivo. Un sordo boato come un ultimo singhiozzo soffocato. Nuvole di gabbiani si alzarono in volo: aspettavano già la compagnia di Pino.

 

 

 

Ninni Caraglia, Il cono d’ombra, in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2020, pp. 123-135.

 

 




GEMELLAE di Silvia De Felice

Racconto tratto dalla raccolta Voci Nuove 7 a cura di Daniele Falcioni

 

Dei raggi polverosi filtravano come lance tra gli spicchi di Sangallo dei lini della nonna, e Margherita osservava, materna, tutte quelle brossure colorate, incastrate a forza nella libreria. Ci si perdeva in quei titoli, alcuni amati alla follia, altri appena tollerati. Ogni tanto li sfiorava e cercava di ricordare le pagine lette da poco o da molto. Poi, c’era la pila sul comodino: Alda Merini e Poesie d’amore di Nazim Hikmet, da leggere e rileggere. Altri libri languivano aspettando le sue attenzioni, e gli ultimi due acquisti: un libro da finire e il nuovo da iniziare, già pronto. Se avesse potuto, avrebbe sparso i suoi libri in tutte le stanze; ma pur di non discutere con chi non capiva, li aveva relegati in camera da letto. Se se ne fosse andata, pensava, avrebbe dovuto lasciarli lì. Un altro dispiacere da sopportare.

 

Qualche giorno prima, Margherita stava leggendo le ultime pagine di Anna Karenina, lo aveva iniziato da mesi e finalmente era sul finale… “Mamma, mamma!” la chiamarono all’improvviso le gemelle.

“Eccomi, arrivo. Lo so, è ora di cena, preparo subito”.

Il richiamo delle figlie riscosse Margherita dalla sua lettura, e lei, un po’ a malincuore, le raggiunse. Ancora si stupiva quando sentiva quelle due voci dallo stesso tono, sincrone al punto da fondersi tra loro. Patty e Ludo vivevano in simbiosi, e spesso tutto ciò che pronunciavano, domande e risposte incluse, sembrava provenire da un’unica persona. Erano speciali, le gemelle, e non solo perché erano figlie sue, lei lo sentiva proprio che erano speciali. Quella notte senza luna di otto anni prima, quando erano venute alla luce una dietro l’altra, il loro primo vagito aveva risuonato in sala parto come se fosse un unico pianto.

Dalla cucina le osservava spesso intente a disegnare, a volte sul tavolo, altre sdraiate sui tappeti, immerse tra fogli e pastelli colorati. Raramente disegnavano in camera loro: preferivano avere la madre molto vicina. Margherita, negli anni, aveva riempito la libreria delle bambine di libri adatti alla loro età e a loro leggeva fiabe la sera, prima che si addormentassero nel letto a una piazza e mezza che aveva dovuto acquistare perché Patty e Ludo non potevano e non volevano dormire in lettini separati. Quei libri però rimanevano al loro posto, le gemelle amavano che la madre leggesse le fiabe e i racconti, ma preferivano disegnare, sempre e in ogni luogo. Per fortuna lei adorava le borse grandi, c’era posto per blocchi di fogli e scatole con matite colorate, oltre a qualche snack per le bambine. Margherita aveva sempre timore che avessero fame: le gemelle mangiavano pochissimo durante i pasti principali, e quando uscivano lei si premurava di avere qualcosa per loro da sgranocchiare.

Quando era rimasta incinta, lui non aveva fatto salti di gioia: aveva accettato la gravidanza come un dato di fatto. Poi, alla notizia che sarebbero state in due, aveva vacillato un po’. Patty e Ludo non avevano neanche compiuto due anni quando se ne era andato di casa, inizialmente con la scusa di un incarico importante al “Polo di matematica e fisica” di Pisa. Ammise che la vita da padre non era per lui, aggiungendo che la sua mente matematica aveva bisogno di spazio, silenzio e tranquillità.

“Mammina, è pronto?”

Patty e Ludo la stavano osservando dalla porta della cucina, chissà se era riuscita a nascondere i suoi pensieri. Margherita amava cucinare, comprava frutta, verdura e uova da una contadina al mercato dietro casa; pochissima carne, il pesce e i formaggi li comprava solo se poteva controllarne effettivamente la provenienza. Per quella sera: minestra di patate e frittata; per dessert, una macedonia tiepida. Le gemelle non toccavano il cibo crudo, pochissime eccezioni per la frutta, ma Margherita doveva insistere parecchio. “Non vogliamo mangiare ciò che ancora è vivo” le dicevano, e questo includeva anche i prodotti della terra. Alle obiezioni materne rispondevano che la frutta e la verdura nascono, crescono e muoiono come gli animali, quindi vivono finché non vengono cotte. Margherita faticava a rispondere alle domande che nascevano dai ragionamenti articolati delle due gemelle. La loro mente era in continuo movimento, più dei loro corpi.

Dopo cena e dopo aver sistemato tutto, Margherita mise le bambine a letto, lesse per loro qualche pagina da La gabbianella e il gatto di Sepulveda, le baciò e finalmente tornò nella sua camera, dove i suoi libri la aspettavano da ore.

La mattina seguente, dopo aver accompagnato le figlie a scuola, decise di fermarsi dall’amica parrucchiera per accorciare un po’ il suo taglio a caschetto. In attesa del proprio turno, mentre  sfogliava distrattamente una rivista, il suo sguardo fu attirato da un articolo a fondo pagina. Il titolo era I gemelli e i numeri, e raccontava di una coppia di gemelli autistici i cui comportamenti erano stati esaminati durante un controllo ospedaliero. I ragazzi, mentre parlavano tra loro, si scambiavano numeri e si sorridevano l’un l’altro. Analizzando poi questi numeri era venuto fuori che si trattava di numeri primi, grandi numeri primi. Margherita non aveva potuto finire di leggere perché chiamata al lavaggio, le era rimasta però una certa curiosità. Finita la piega, pagò e tornò a casa.

Aveva deciso di dedicarsi alla camera delle bambine, rifare il letto e iniziare il cambio del guardaroba: novembre era quasi finito, e le previsioni davano per imminente un brusco calo delle temperature. Era molto meticolosa per ciò che riguardava Patty e Ludo, mentre le altre faccende domestiche venivano rimandate il più possibile. Le finestre aperte, il vento sollevava minuscoli granelli di polvere resi iridescenti dal sole, fogli e foglietti lasciati dappertutto, che Margherita era quasi costretta a rincorrere. Mentre dava loro un’occhiata distratta per capire se fossero da buttare o da conservare, la sua attenzione venne catturata da un paio di fogli senza disegni. C’erano scritti solo dei numeri. Ne fu incuriosita, decise di metterli da parte e di finire di sistemare.

Mentre riordinava le venne in mente il giorno in cui aveva conosciuto Alessandro: era in fila per ritirare il diploma di laurea all’università, un attimo di disattenzione e le erano caduti borsa e occhiali; mentre si inginocchiava per raccoglierli, il suo sguardo aveva incrociato un paio di occhi verdi e curiosi. Il tempo di un ringraziamento e un sorriso e si erano ritrovati a passeggio insieme, poi un aperitivo seguito da tante parole e un bacio sotto casa. Dopo pochissimo andarono a vivere insieme; i suoi genitori avrebbero voluto un matrimonio in grande stile, ma loro si erano accontentati di un doppio sì davanti al messo comunale, e poi via in Messico. I primi tempi avevano vissuto come in una fiaba, poi l’abitudine e infine la gravidanza avevano messo fine a quello che lei aveva creduto essere l’amore della sua vita.

Immersa nei ricordi, Margherita finì di sistemare. Aveva quasi dimenticato quei due fogli messi da parte sulla scrivania, ma un altro soffio di vento li sollevò e finirono a terra, risvegliando così la sua attenzione. Guardò l’orario per vedere quanto tempo le rimaneva prima che Patty e Ludo uscissero da scuola: un’ora abbondante. Si sarebbe concessa una mezz’ora di riposo in poltrona e avrebbe dato un’occhiata a quei numeri. “Strano”, pensava tra sé e sé, “le bambine amano disegnare paesaggi di tutti i generi, prediligendo atmosfere notturne con o senza luna; cosa sono, ora, queste sequenze apparentemente senza senso?”

A scuola avevano ottimi voti in matematica, ma soltanto da poco Patty e Ludo erano in grado di risolvere semplici operazioni a tre cifre, figuriamoci elaborare calcoli molto più complessi. Vero era però che quei numeri, scritti in quel modo così preciso, non potevano solo essere frutto di un gioco. Non riusciva a capire. I minuti passavano e Margherita mise ancora una volta quei fogli da parte, doveva sbrigarsi, non voleva che le sue figlie all’uscita non la trovassero fuori al cancello della scuola.

La campanella suonò e poco dopo un mare di bambini invase il cortile dell’istituto. Le vide subito, in punta di piedi che la cercavano con gli occhi. Arrivarono sorridenti e un po’ scapigliate, le baciò, le prese per mano e si avviarono verso casa. Patty e Ludo andavano volentieri a scuola, ma non avevano molti amici: il legame così stretto tra loro, oltre alla capacità di entrambe di saper risolvere velocemente gli esercizi di matematica, non le rendevano molto simpatiche agli altri. Sembravano diverse agli occhi dei loro compagni, ai compleanni non venivano invitate spesso, eppure Margherita credeva che loro a questo non facessero caso. Erano, o almeno così sembravano alla loro madre, due bambine felici.

“Mamma, la prossima settimana la maestra ci porta al museo” disse Patty mentre entravano in casa.

“Sì” aggiunse subito Ludo, come per non essere da meno rispetto alla sorella, “andiamo a Explora”.

“Che bello, il Museo delle scienze per bambini! Mi piacerebbe venire con voi” rispose Margherita.

“Mamma! Tu non puoi! Non sei una bambina!” dissero all’unisono.

Il pomeriggio trascorse velocemente, Margherita si dedicò un po’ alla lettura e un po’ alla cena, Patty e Ludo rimasero stranamente nella loro cameretta. Lei si affacciò con noncuranza diverse volte: entrambe alla scrivania, sembravano completamente immerse in quello che stavano facendo, sembrava stessero disegnando, ma lei non riusciva a vedere bene cosa. Dopo cena, le bambine dissero che erano stanche, così lei le aiutò a mettersi a letto; non vollero neanche che leggesse loro qualche pagina del racconto. Margherita le baciò, spense la luce e socchiuse la porta.

“Stasera finalmente riuscirò a vedere un film dall’inizio” pensò tra sé e sé. Dopo aver fatto un giro dei canali, scelse un film di fantascienza, Arrival, e ne rimase catturata fin dalle prime scene. Quando il film finì, Margherita si alzò e fece per andare in camera sua. Passando vicino alla porta della stanza delle bambine sentì un mormorio sommesso.

“Possibile che siano ancora sveglie?” si chiese.

Accostò il viso alla porta per cercare di capire cosa si dicessero, ma fu subito silenzio. Attese qualche istante e poi, convinta che si fossero addormentate, si diresse in camera, si infilò a letto e il sonno prese subito il sopravvento.

La mattina seguente le gemelle erano fresche e riposate, durante la colazione parlarono quasi esclusivamente della imminente gita al museo, le sentiva elettrizzate. Mancava ancora qualche giorno, a Margherita venne il dubbio che in casa non si sarebbe parlato d’altro. Le accompagnò a scuola e decise di fare un giro al mercato: aveva bisogno di ispirazione per la cena, e tra tutti quei banchi l’avrebbe trovata di sicuro. Mentre si aggirava tra distese di frutta e verdura, quasi non si accorse di una strana donna che salutava sorridendo i passanti e offriva la sua mercanzia da dietro un piccolo banchetto di candele. Si avvicinò, le piaceva il profumo della cera.

“Ne comprerò una” si disse.

“Hai il nome di un fiore” l’apostrofò la donna, che aveva uno sguardo penetrante.

“Sì” rispose stupita Margherita.

“Di tutti i tuoi petali, due soltanto sono importanti, abbine cura, a tutti i costi” proseguì quella voce gentile.

Margherita rimase senza fiato: a cosa o a chi si riferiva quella donna? Come poteva sapere? Non seppe rispondere, scelse una candela, pagò, ringraziò e proseguì nelle sue spese. Arrivata a casa, presa dai preparativi per il pasto serale non pensò più all’accaduto. La candela profumata rimase nascosta nella sua grande borsa. Quel giorno le bambine avrebbero pranzato a scuola, sarebbe rimasta sola fino alle quattro. Margherita non aveva fame, a pranzo optò per un estratto di frutta e verdura, poi si mise sul divano per guardare le notizie in televisione, ma dopo pochi minuti si appisolò. Quando aprì gli occhi erano appena le due, aveva dormito un’ora scarsa, si ricordò della candela, la cercò nella borsa, la scartò e l’accese. Emanava un profumo particolare, speziato, leggermente acre. La posò sul tavolino del salotto. Mentre preparava il caffè le vennero in mente i fogli che aveva trovato la mattina precedente riordinando la camera delle gemelle. “Dove li avrò messi?” si chiese. Andò diretta alla scrivania della cameretta, aprì il primo cassetto e li vide. Appena li ebbe in mano si rese conto che erano più di due fogli: Patty e Ludo avevano scritto ancora. Li scorse velocemente: erano pieni di numeri…

Mentre scorreva quelle cifre messe una dietro l’altra, Margherita cercava di fare appello alle sue reminiscenze scolastiche per dare un senso a quei numeri. Di sicuro c’era un filo che li collegava; erano messi in fila uno dopo l’altro in senso crescente, e alla fine c’era un simbolo inaspettato: ⍵. Il tempo era passato velocemente, era già ora di andare a prendere Patty e Ludo a scuola. Fuori piovigginava; prese il suo ombrello e quello delle bambine prima di uscire.

Di fronte al cancello dell’istituto c’era una tale ressa di macchine e persone che riuscì a malapena a farsi scorgere dalle sue figlie. Per fortuna, non abitavano lontano: fecero appena in tempo ad infilarsi nel portone di casa che si scatenò un violento acquazzone. Il cielo era carico di nuvole scure e pesanti, Margherita avrebbe voluto portare le bambine al lago nel weekend, ma non sarebbe certo stato possibile. Affannata tra ombrelli e zainetti, non aveva fatto caso al fatto che le sue figlie erano particolarmente silenziose. Provò a far loro qualche domanda sulla giornata scolastica, ma le risposero a mezza bocca. Sembravano tristi.

A cena le polpette che aveva preparato riscossero successo, Patty e Ludo erano rinfrancate dal cibo; per dolce, Margherita aveva preparato una sofficissima torta di mele. Margherita rassettò velocemente la cucina, quella sera in televisione avrebbero trasmesso il film d’animazione La gabbianella e il gatto, tratto proprio dal libro che stava leggendo loro. Si accoccolarono tutte sul divano, con un plaid sulle gambe, per guardare il film insieme. Alle bambine piacque molto il fatto di vedere sullo schermo le immagini dei personaggi letti dalla loro madre; la storia della grande amicizia che può nascere anche tra esseri diversi era allegra e commovente allo stesso tempo.

Finito il film le mise a dormire, non aveva volutamente indagato sul perché della loro tristezza, l’indomani sarebbe stato sabato e avrebbe avuto tutto il fine settimana per cercare di capire.

La mattina seguente, Margherita si alzò di buon’ora, il cielo plumbeo non prometteva nulla di buono, decise di preparare dei pancakes per colazione. Erano quasi le 10 quando Patty e Ludo si affacciarono saltellando in cucina.

“Buongiorno, mamma! Che profumino!” dissero a voce unica.

Margherita aspettò che si gustassero i dolcetti; quando finirono di bere il latte, si arrischiò a chiedere: “Com’è andata ieri a scuola? Mi sembravate un po’ tristi, è successo qualcosa?”

Ludo cincischiava con il tovagliolo, pareva non volesse rispondere.

“Oggi è il compleanno di Claudia” si decise a dire Patty.

“Non ci ha invitate alla sua festa, gli altri ci andranno tutti” proseguì Ludo, con le lacrime agli occhi.

Margherita dentro di sé era furiosa. “Lo hanno fatto un’altra volta, le hanno escluse, perché?” si chiese mentre cercava disperatamente di trovare un’idea per risollevare il morale delle figlie.

“Bambine, non fa nulla. Anzi, meglio così, perché oggi al centro commerciale inaugurano un nuovo negozio di giocattoli, ci sarà il clown e anche il mago! In realtà, volevo proprio farvi una sorpresa e portarvi lì”.

Gli occhi delle gemelle si illuminarono.

“Il mago? Sì, mamma! Dai, andiamoci!”

Era riuscita a distrarle, la magia le aveva distolte dal pensiero della festa alla quale non erano state invitate. La mattinata passò presto e il pomeriggio con il mago entusiasmò le bambine. Durante la sua esibizione erano state attentissime per cercare di scoprire i suoi trucchi, e una volta ci erano anche riuscite sbalordendo tutti, mago compreso.

Rientrando a casa, Margherita comprò delle pizze. Erano tutte e tre stanche. Dopo mangiato, disse loro di andare a lavarsi e prepararsi per la notte. Patty e Ludo, obbedienti, andarono in bagno, insieme naturalmente. Spesso capitava che si osservavano allo specchio. Quella sera lo fecero quasi di proposito, come per trovare nei loro visi il perché dell’esclusione dalla festa. Guardavano i loro occhi, toccavano le sopracciglia e osservavano la forma dei loro piccoli nasi. Si sfioravano poi a vicenda cercando diversità che non riuscivano a trovare.

“Bambine, è tardi” disse Margherita affacciandosi. Vedendo come si specchiavano, proseguì: “Siete bellissime”. Poi le accompagnò in camera e le mise a dormire. “Stanche, ma felici” pensò rasserenata mentre spegneva la luce.

Anche la domenica fu brutto tempo, pioggia e vento tutto il giorno, ma le ore trascorsero velocemente. Le gemelle fecero un po’ di compiti e dopo pranzo si dedicarono ai preparativi per la gita del giorno successivo, scegliendo cosa mettersi e cosa portare nei loro zainetti. Margherita sfaccendò distrattamente e nel pomeriggio si concesse un po’ di tempo per leggere, cullata dal chiacchiericcio delle sue figlie. Decise di non parlar loro dei fogli con i numeri, voleva che si godessero l’attesa dell’avventura al museo dell’indomani. Fece fare loro un bagno caldo, poi cena leggera e a letto.

La mattina seguente finalmente splendeva un bel sole, la temperatura però era scesa di parecchio. “In fin dei conti siamo già al 23 novembre” pensò Margherita, “l’inverno è praticamente arrivato”.

Patty e Ludo non stavano nella pelle, erano già pronte mentre lei ancora doveva vestirsi.

“Mamma, sbrigati, altrimenti faremo tardi!” dissero più volte, insofferenti.

Mentre apriva la porta di casa si accorse che Ludo era rientrata di corsa in camera e, uscendo subito dopo, infilava frettolosamente qualcosa nel suo zaino.

“Cosa avrà dimenticato di così importante?” si chiese Margherita.

Le accompagnò al pullman, le baciò e sorrise mentre la salutavano dal finestrino. Margherita tornò a casa, sistemò la cucina e la stanza delle bambine. Dei fogli con i numeri non c’era più nessuna traccia. Decise di cambiare l’ordine dei libri nella sua libreria, accese la radio e si dedicò alla cura dei suoi amati libri. Trascorse così quasi tre ore. Poi, vista la bella giornata, pensò di fare una passeggiata fino alla sua libreria di fiducia: da troppo tempo non comprava un libro. L’aria era frizzante ma il sole splendeva. Quando entrò nel negozio la sua mente si estraniò da tutto, vagava apparentemente senza meta tra quelle distese di libri aspettando che uno in particolare la chiamasse; Margherita era talmente presa da quello che stava facendo che non si accorse di aver lasciato il cellulare a casa. Scelse Storie della tua vita, di Ted Chang: otto racconti di fantascienza tra i quali quello da cui era stato tratto il film che tanto l’aveva appassionata due sere prima. Quando fece per pagare si accorse che le mancava il telefono. Le prese un po’ d’ansia, voleva essere sempre raggiungibile nel caso in cui le bambine avessero avuto bisogno di lei. Pagò e velocemente si diresse a casa.

Mentre apriva la porta sentì il suo cellulare suonare, qualcuno la stava cercando, ma non fece in tempo a rispondere. Guardò il display: otto chiamate perse della maestra! Andò nel panico, cosa poteva essere successo? Mentre cercava le chiavi della macchina, la maestra richiamò, e per fortuna le rispose subito.

“Margherita, non agitarti, Patty e Ludo stanno bene” le disse immediatamente l’insegnante. “Però devi raggiungerci al museo, c’è una persona che vuole parlarti, sembra urgente” aggiunse.

“Arrivo subito” rispose lei, un po’ rincuorata ma anche meravigliata e incuriosita. Dopo pochi minuti era lì, parcheggiò e si recò all’ingresso, dove scorse la maestra. La classe si stava accingendo a salire sul pullman sotto il controllo dell’assistente, ma Patty e Ludo la videro e le corsero incontro.

“Mamma, sei venuta a prenderci, è stato bellissimo! Abbiamo conosciuto un vero scienziato” le dissero le bambine, emozionate, ad alta voce.

“Sì, sono venuta, ma ora aspettatemi da brave su quei divanetti laggiù, che vado un attimo a salutare la maestra”.

Con una calma che a Margherita parve un po’ forzata, l’insegnante le disse: “Margherita, senti, c’è una persona che vorrebbe parlarti; è uno studioso molto importante che oggi si trovava qui per collaborare ad un progetto. Patty e Ludo si erano attardate davanti al computer che riproduce suoni provenienti dallo spazio. Lui le ha viste che, mentre ascoltavano, scrivevano numeri su dei fogli, ha chiesto loro cosa stessero facendo e poi è venuto a parlarmi. Ti aspetta nell’ufficio del direttore, vai pure, resto io con le bambine, alla classe penseranno l’autista e la mia assistente”.

Si diresse titubante dove le era stato indicato, cercando comunque di mandare un sorriso alle gemelle. Bussò e le aprì un uomo: occhiali rotondi, maglioncino di cachemire, poco più alto di lei.

“Prego, si accomodi, la mamma di Patty e Ludo immagino” disse lui, e aggiunse: “Sono il Professor Nardini, è un piacere conoscerla”. Le strinse la mano, in modo deciso ma gentile.

“Mi chiamo Margherita” rispose lei mentre si accomodava sulla poltroncina di fronte alla scrivania, e aggiunse impaziente: “Cosa hanno combinato le mie monelle?”

Lui la guardò negli occhi, come se cercasse di vedere qualcosa in particolare. Sembrava non aver sentito la domanda; dopo qualche istante le parlò: “Studio la matematica e i numeri da quando sono bambino, ero piccolo e invece di giocare con i soldatini facevo i conti. I miei genitori all’inizio non ci fecero caso, poi iniziarono a preoccuparsi. A scuola, per fortuna, ho sempre incontrato insegnanti che mi hanno capito e spronato. Mi sono laureato pretermine, ma sono rimasto all’università, volevo continuare a studiare i numeri e i loro collegamenti con la realtà. Ho partecipato a molti progetti e studi durante la mia vita, ho conosciuto scienziati di ogni parte del mondo, ma non pensavo che avrei mai incontrato persone come le sue figlie”.

Margherita non riusciva a seguirlo, a capire cosa cercava di dirle; cos’avevano le gemelle di particolare che lei non aveva compreso? Non riusciva a parlare, lui se ne accorse e proseguì.

“Ha mai sentito parlare di sequenze numeriche? Ad esempio, la successione di Fibonacci, il numero aureo, e i relativi casi in natura? Spirali, galassie, costruzioni antiche basate proprio su quelle sequenze? E i numeri primi? I grandi numeri primi intendo”.

Lei lo guardava frastornata, facendo di no con la testa, anche se l’accenno ai grandi numeri primi le ricordava qualcosa. Nardini aprì un cassetto e tirò fuori dei fogli, glieli mise davanti e lei riconobbe immediatamente la grafia delle gemelle. Erano i fogli che lei aveva trovato nelle loro camera.

Gli occhi di Margherita imploravano una spiegazione. Lui capì e le disse di averle viste imbambolate davanti al computer che riproduceva i suoni captati dallo spazio. Ascoltavano immobili quei suoni. A un certo punto, avevano tirato fuori dallo zaino dei fogli e avevano iniziato a scrivere. Le disse di come si era avvicinato loro cercando di non spaventarle, con cautela, e di come gli avevano sorriso, senza tuttavia smettere di annotare numeri. Poi il video si era interrotto e le gemelle si erano come risvegliate, lo avevano guardato e gli avevano chiesto chi fosse. Lui si era presentato. Patty aveva guardato la sorella, e dopo che Ludo aveva fatto sì con la testa, gli aveva passato quei fogli. Le raccontò di come fosse rimasto stupito di vedere che non erano numeri a caso: rappresentavano la successione di Fibonacci e il simbolo del numero aureo; poi, sull’ultimo foglio numeri a più cifre, non c’erano numeri normali, ma grandi numeri primi. Aveva chiesto loro spiegazioni e gli avevano risposto che avevano scritto la successione osservando spirali di vario genere e foto di galassie. Gli ultimi numeri li avevano annotati ascoltando i suoni riprodotti dal computer. Altro non sapevano dire.

“È da moltissimo tempo che studiosi di tutto il mondo cercano di interpretare i suoni captati nello spazio alla ricerca di altre forme di vita; altri cercano formule per riuscire a trovare grandi numeri primi a partire da un numero composto da molte cifre, un po’ come si fa per le chiavi di sicurezza delle transazioni economiche. Patty e Ludo mi hanno detto di aver scritto quei numeri perché li hanno sentiti dal video, inconsciamente devono aver trovato un collegamento. Tutto questo proprio oggi, il 23 novembre: il giorno di Fibonacci”.

Il professore si sporse sulla scrivania, prese le mani tremanti di Margherita tra le sue e disse a bassa voce: “Le gemelle sono speciali, ma non deve temere. Se me lo permetterà, io sarò con voi e le proteggerò. Deve capire che le sue figlie riescono a captare sequenze numeriche da suoni e forse potrebbero anche a trovare la chiave che collega questi numeri; se tutto questo si venisse a sapere, sareste in pericolo. Le conseguenze di questa scoperta sarebbero devastanti per la sicurezza delle transazioni monetarie, e i governi questo non potrebbero permetterlo”.

Le vennero in mente le parole misteriose della donna che vendeva candele. Il suo istinto materno ebbe il sopravvento, prese una penna, scrisse il suo numero di telefono su un vecchio scontrino che aveva in tasca e lo appoggiò sulla scrivania. Poi si alzò con decisione, aprì la porta e andò dalle gemelle, salutò la maestra senza darle spiegazioni e, stringendo forte le piccole mani di Patty e Ludo, uscì dal museo.

In macchina le bambine la tempestarono di domande su cosa le avesse detto lo scienziato, come lo chiamavano loro, tuttavia Margherita cercò di tergiversare: non voleva dar loro la sensazione che fosse preoccupata. Arrivate a casa, per fortuna dovettero mettersi a fare i compiti: la maestra aveva detto alla classe di scrivere una breve relazione sulla giornata al museo. Lei nel frattempo preparò la cena, ma la mente tornava continuamente nell’ufficio di Nardini.

I giorni successivi la quotidianità e gli impegni presero il sopravvento e Margherita quasi si era dimenticata dell’episodio quando, verso la fine della settimana, due avvenimenti le fecero capire che non avrebbe potuto dimenticare, e che la loro vita avrebbe subìto dei cambiamenti importanti. Il primo fatto successe dal dentista: Patty accusava da qualche giorno un dolore ad un molare; Margherita, all’uscita da scuola, la portò a fare una visita. Lo specialista le trovò una piccola carie. Proprio mentre si accingeva ad asportarla con lo strumento apposito, Ludo, che aspettava seduta vicino alla scrivania, lanciò un urlo: “Ahi! Che male, mamma!” disse toccandosi la guancia. La guardarono stupiti: com’era possibile che avesse sentito dolore proprio nel punto dove la sorella aveva la carie e nel preciso istante in cui il medico la stava curando? Il dentista, appena finì, decise di controllarle la bocca, ma non trovò nulla. “Magari è una semplice coincidenza” disse. Il secondo fatto avvenne il sabato mattina: mentre si stava alzando, Margherita aveva sentito le voci animate delle figlie che discutevano. Si era avvicinata alla loro camera e, mentre stava per entrare, aveva sentito Patty che intimava alla sorella di dire tutto alla mamma, ma Ludo si opponeva tenacemente.

“Cosa succede, bambine?” disse aprendo la porta. “Perché litigate di prima mattina?”

“Ieri a scuola è successa una cosa, ma lei non vuole che te la racconti” disse Patty indicando la gemella.

“Quella signora ci aveva chiesto di mantenere il segreto, e i segreti non si devono raccontare” rispose a tono Ludo.

“Quale signora? Cosa vi ha detto? Quando è successo?” chiese, preoccupata, Margherita.

“Non ci devono essere segreti con la mamma, lei ci vuole bene” disse Patty, e proseguì: “Ieri, durante la ricreazione, stavamo in giardino vicino alla recinzione. La maestra si era allontanata e si è avvicinata una signora molto carina e gentile. Ci ha fatto delle domande sulle nostre passioni e sulla gita al museo, e ci ha chiesto se eravamo brave in matematica. Mamma, quella signora conosceva i nostri nomi, ma io proprio non ricordo dove l’abbiamo incontrata”.

Margherita sentì un brivido. Forse la maestra si era lasciata sfuggire commenti su ciò che era accaduto al museo? Il pericolo accennato dal professor Nardini era così reale e vicino?

“Alla vostra mamma dovete sempre dire tutto, nessun segreto tra noi, mai” disse loro abbracciandole forte.

“Mammina, piano che ci fai male!” disse un’unica voce.

Margherita non si era resa conto di quanto forte le avesse strette. L’istinto protettivo l’aveva sopraffatta. Mentre lasciava che Patty e Ludo si rappacificassero, squillò il suo cellulare. Rispose, era il professor Nardini: “Buongiorno, Margherita, sono…”, ma lei non lo fece continuare. Disse: “Buongiorno, Professore, è arrivato il momento di mantenere la sua promessa. Deve proteggere le mie figlie. Mi dica cosa devo fare e io lo farò”.

 

 

 

Silvia De Felice, Gemellae, in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2020, pp. 225-238.