CHICCHI DI CAFFÈ di Meri Borriello

CHICCHI DI CAFFÈ

di Meri Borriello

tratto da Voci Nuove 6

ed. Rapsodia

a cura di Daniele Falcioni

 

Dalla sua finestra poteva vedere due alberelli. Non avevano nulla di speciale, ma erano speciali per lei. Erano anche un po’ miseri, a dire la verità, eppure lei li trovava belli, e li osservava sorridendo tutte le mattine mentre beveva il suo caffè. Ogni tanto li potavano, e questo un po’ la rattristava. Lei immaginava che le radici dei due alberelli fossero intrecciate. Le radici se ne fregavano di chi aveva tanta premura di separarli: aveva letto questa cosa delle radici intrecciate da qualche parte, e da allora l’immagine che quelle parole avevano evocato non l’aveva più abbandonata.

Beveva il suo caffè ogni mattina verso le otto, prima di andare al lavoro, e pensava al suo amico. Erano distanti: tentava di convincersi che lui avesse trovato un’entrata segreta, come quando giocavano a fare gli esploratori, che avesse trovato la porta d’accesso per un mondo pieno di gelato e caffè. Entrambi adoravano il caffè: toglieva quel brutto senso di nausea che saliva su, che invadeva le bocche dopo che l’infermiera aveva inserito l’ago nelle loro vene: piccoli sorsi di caffè freddo rinfrescavano le labbra mentre aspettavano pazientemente che quella tortura avesse fine. Si erano conosciuti così, in una stanzetta asettica, mentre li bucherellavano, ed erano diventati subito amici. Bevevano caffè e mangiavano gelato sciolto: erano le uniche cose che riuscivano a mandar giù in quei momenti. Non avevano la forza di parlare, cercavano di comunicare mentalmente da un lettino all’altro: ridipingevano le pareti di quelle grigie stanzette. Contemplavano la piantagione di caffè che dipingevano indossando cappelli di paglia: proteggevano i loro lunghi capelli, il volto rosso per il troppo sole, i piedi nudi e sporchi di terra.

Per arrivare a quella piantagione dovevano fare un lungo viaggio: erano pirati clandestini imbarcati su navi senza bandiera, sconfiggevano loschi figuri che tentavano di gettarli in mare, che impedivano loro di raggiungere la meta. Quando, invece, non riuscivano ad avere la meglio, nuotavano nelle profondità del mare alla ricerca di tesori nascosti nei fondali. Qualche tesoro li riportava a galla ed erano pronti a salire su un’altra nave, che li avrebbe condotti in una terra sconosciuta che li avrebbe accolti e gli avrebbe permesso di realizzare il loro sogno. Si raccontavano i frammenti di quei sogni qualche ora dopo che l’ago dal braccio era stato tolto ed erano liberi di tornare ad essere umani. A volte ci voleva più di qualche ora per tornare umani, ci volevano giorni interi per recuperare le forze, ma i sogni non si interrompevano mai. Frenavano l’invadenza delle gocce che lentamente penetravano nei loro corpi bevendo caffè per placare la nausea, immergendosi nei potenti chicchi.

Anche quella mattina, Marta sorseggiava caffè ed osservava i due alberelli. Aveva smesso di piovere da poco. D’un tratto chiuse gli occhi, si immerse nel silenzio e vide le radici intrecciate, sentì l’odore della terra mischiato all’aroma di caffè, e la sua mente prese a rincorrere i ricordi. Il suo amico le stringeva forte la mano, aveva il respiro affannato. Avevano corso quasi per tutto il pomeriggio in mezzo alla terra rossa dietro la casa di Maurizio. Andavano spesso a giocare lì la domenica pomeriggio. Non era stato costruito nulla su quel piccolo pezzo di terreno. Correvano avanti e indietro col sole di inizio autunno che li scaldava e creava, solo per loro, frammenti di luci che si incastravano tra le foglie. Registravano tutto con gli occhi mentre correvano, finiva tutto in uno scrigno segreto. Cantavano una canzone, quando si fermavano per riposarsi un pochino; la trovavano un po’ sciocca, ma in fondo credevano al primo verso quando lo intonavano: “Nella notte delle favole / esprimi un desiderio pure tu”.1
Avevano entrambi compiuto dieci anni, passavano tutto il tempo che potevano giocando, inventando storie: stavano bene insieme. Lui era un portento, lei lo guardava ammirata: sentiva le sue labbra aprirsi in un sorriso ogni volta che, osservandolo di nascosto, sapeva di averlo sorpreso a pensare a un nuovo progetto, a un nuovo sogno da realizzare. Sopportava tutto quello che lei non riusciva atollerare, aveva un senso innato dell’umorismo. E, se proprio non si riusciva a ridere in certi momenti, almeno si poteva tentare di sorridere.

Niente sentimentalismi con Maurizio. “La notte è giovane e la vita breve” diceva sempre quando cercavano di farlo andare a dormire distogliendolo dai suoi giochi. E lo sapevano tutti e due quanto fosse vero, ma lui forse lo sapeva di più.
Il sole li stava salutando: dovevano rientrare. Il programma della serata era guardare un film dell’orrore. Lui voleva assolutamente vedere un film con un pagliaccio che dicevano essere spaventoso. Ne parlavano da qualche settimana. Entrarono in casa e se ne fregarono di darsi una pulita, piaceva a entrambi sentire la terra ancora addosso, sui jeans, sulle scarpe. Accendendo la luce, lui le disse: “Dai, lavati almeno le mani e prepara il popcorn”.
“Okay” rispose lei, e continuò: “C’è anche il gelato, lo facciamo sciogliere e ci mettiamo il popcorn dentro?”
Lui non rispose, stava armeggiando con il televisore e il lettore dvd; lei si fermò a guardare l’ingrandimento di una foto appesa al muro: era stata scattata a carnevale l’anno prima. Lui era vestito e truccato come Brandon Lee nel film Il Corvo.

“Sei proprio bello in questa foto” disse mentre andava in bagno. Lui, alzando un po’ la voce per farsi sentire, rispose: “Guarda che io sono sempre bello”. Lei rise mentre si insaponava le mani. Quando rientrò nel salone, dopo aver messo in una padella l’olio e i chicchi di mais, lo trovò intento a leggere degli appunti su un quadernino. Gli si avvicinò e chiese: “Che combini?”

“Contabilizzo i miei guadagni” rispose lui, e lei rise di nuovo perché sapeva del suo piccolo commercio di giocattoli. Ne aveva tanti e non sapeva che farci, così aveva pensato di venderli, improvvisando un mercatino delle pulci sul vialetto di casa.

“Dovresti darti da fare anche tu. So che non hai giocattoli da vendere, ma potresti provare a piazzare quella roba da femmina che sta ammucchiata nella tua camera. Di questo passo, chissà quando potremo dare vita al nostro progetto” disse lui, la testa china su una calcolatrice. “Allora, lo guardiamo questo film?” chiese poi, chiudendo il quadernino. Lei si era risentita un pochino. Esclamò: “Aspettiamo almeno che siano pronti i popcorn!”

Mentre lui borbottava, Marta tornò in cucina per vedere se avessero cominciato a scoppiettare. Stavano scoppiettando. Finì di prepararli, prese anche il gelato e lo mise in due bicchieri, poi portò tutto nel salone.
Maurizio si era sistemato sul divano e aveva poggiato sulle gambe una copertina di lana a quadretti. Guardò Marta e le disse: “Non te la devi prendere se ho sempre fretta”.

Lei gli sorrise, appoggiò tutto su un vecchio tavolino che stava accanto al divano. Si sedette tirando un pochino la coperta per coprirsi le gambe. “Non me la prendo, tranquillo. Non fare il tirchio e dammi un altro po’ di coperta” disse. Dopo essersi sistemata meglio, riprese: “Stavo pensando di fare un salto al mercatino delle pulci vicino casa uno di questi giorni, per vedere di piazzare, come dici tu, le miecianfrusaglie”. Lui annuì, poi fecero silenzio e si concentrarono sul film. Fotogramma dopo fotogramma il film scorreva via. Non avevano paura, non avevano nemmeno voglia di giocare a far finta di aver paura. Peccato non ci fossero altri bambini, pensò lei stiracchiandosi: lo spasso più grande sarebbe stato vederli terrorizzati. Lui, quasi leggendola nel pensiero, spense il televisore e disse: “Mi sto annoiando. Prepariamo del caffè, poi ti insegno a giocare a dama. Mia madre ha comprato una nuova miscela, devi assaggiarla. Forse dovremmo fare un’indagine di mercato per capire cosa manca, quale potrebbe essere l’ingrediente che possa rendere speciale il nostro caffè. Voglio creare una miscela tutta nostra, non so, mi piacerebbe qualcosa che avesse anche un gusto alla vaniglia, oppurealla liquirizia”.

Lei lo ascoltava mentre prendeva la scacchiera che era sotto il mobiletto della tv, poi, rimuginando su quello che aveva detto a proposito di creare una miscela originale, andò in cucina e mise su il caffè. Lui stava finendo di sistemare le pedine sulla scacchiera. Aveva provato a insegnarle a giocare qualche anno prima, quando entrambi, nello stesso periodo, avevano avuto la varicella. Ma forse a causa della febbre, del prurito costante e del talco mentolato sparso dappertutto, lei non era riuscita a concentrarsi, e quindi non aveva imparato quel gioco.

“Te la ricordi la regola numero uno?” le chiese serio Maurizio quando lei fece ritorno dalla cucina. Marta lo guardò confusa, lui continuò: “Non si soffia”. Pazientemente le rispiegò le regole del gioco e lei stavolta sembrò capire. Cominciarono una partita. A un certo punto, lui disse: “Hanno visto di nuovo una macchia. Stavolta è vicina all’intestino. Che dici, dovrei preoccuparmi?”

Lei rimase immobile con la pedina tra le mani, non aveva idea di dove piazzarla. Sapeva cosa significava quella macchia, sapeva anche che non avrebbe potuto raccontargli balle. Così disse l’unica cosa che non potesse tradirla: “Direi di aspettare prima di fasciarci la testa”. Provando a sorridere, continuò: “Anche se ci donassero le fasciature e i turbanti”.

Marta non riusciva a concentrarsi. Disse: “Vado a vedere se è pronto il caffè. Tra un po’ i miei vengono a prendermi. Beviamoci il caffè in santa pace, concentriamoci sul sapore, sull’aroma, altrimenti non riusciremo mai a realizzare il nostro sogno”. Andò in cucina e, come un automa, versò il caffè e lo zuccherò, poi tornò nel salone e passò la tazzina a Maurizio.

Chiusero gli occhi.
I genitori di Marta arrivarono puntuali e la loro serata si concluse. Lei si rigirò tutta la notte nel letto, non riuscì a chiudere occhio: pensava ai loro progetti, al latte freddo che macchiava il loro caffè e i loro sogni.

Passò un po’ di tempo prima che si rivedessero: lui aveva avuto da fare, lo immaginava con i suoi genitori andare da un ospedale all’altro in cerca di nuove risposte. Lei, tra la scuola e tutto il resto, non aveva avuto molto tempo, ma pensava sempre a lui, sperava che si fossero sbagliati, che sarebbe saltato fuori un modo per risolvere il problema, come era già accaduto altre volte. Aveva cercato di non pensare al peggio concentrandosi sul loro progetto: non solo aveva comprato tutte le miscele di caffè che aveva trovato al supermercato, ma prendeva continuamente appunti sul sapore, il colore e la tostatura di ogni miscela che assaggiava.

Arrivò il 15 novembre. I genitori di Maurizio avevano organizzato una festa per il suo compleanno: palloncini colorati, decorazioni per i suoi undici anni, ogni tipo di dolcetto.

Maurizio aveva versato in certe caraffe colorate il caffè, in alcune aveva aggiunto un po’ di gelato alla vaniglia, in altre galleggiavano pezzetti di liquirizia. Pochi giorni prima erano arrivati anche i risultati delle analisi: quella macchia non si poteva far sparire in alcun modo. Tutti lo sapevano, ma lui voleva festeggiare lo stesso, e Marta era d’accordo con lui.

Arrivò il momento di tagliare la torta. Lui si fece scattare una foto col suo cappellino da baseball degli Yankees, le dita in segno di vittoria. Spense le candeline con un sorriso che illuminò tutta la stanza. Il suo papà, la sua mamma, le sue sorelline erano accanto a lui. La sua mamma sembrava aver disegnata sul viso un’eterna preghiera mentre lo guardava, mentre lo stringeva con dolcezza per la foto con la torta. Le sue sorelline si tenevano per mano, aspettavano il loro turno per la foto. Quando anche gli ultimi invitati se ne stavano andando, lo salutò anche Marta e la sua famiglia.

La festa era finita.

Puntuale arrivò maggio con i suoi raggi delicati e i boccioli di rosa. Prima di andare a trovare Maurizio un pomeriggio, Marta e la sua mamma si erano fermate a prendere del gelato. Sulla copertina del quadernino che aveva nella borsa, lei aveva disegnato due chicchi di caffè. Il quadernino conteneva le annotazioni degli ultimi mesi, tutte le osservazioni, i commenti sulle miscele che aveva assaggiato e mescolato. C’era anche una colonnina con il riepilogo dei guadagni ottenuti vendendo le sue cianfrusaglie.

Quando entrarono in casa, lei si sentì mancare vedendo Maurizio sul divano. Si aggrappò al braccio di sua madre, ma lui le sorrise. Si sedette sul divano accanto a lui mentre aspettavano insieme che il gelato si ammorbidisse un po’. Prese un pezzetto della sua coperta, lui sorridendo le disse: “Mi sento molto meglio oggi”. Lei annuì fissando il pavimento, si fece coraggio e mormorò: “Ho portato il mio quadernino: rimarrai stupito nel vedere il lavoro che ho fatto in questi mesi”. Maurizio si girò verso il muro dall’altra parte della stanza e disse: “Magari me lo fai vedere più tardi, okay?”

Lei annuì, ma lui non poté vederla.
Stettero un po’ in silenzio. Lei girava il cucchiaino nel bicchiere pieno di gelato, poi, con voce stanca, Maurizio le domandò: “Ti va un caffè?”
“Sai che non so dire di no al caffè. Vado a prepararlo”.
Lui la fermò con un cenno e le disse: “Lascia, lo prepara mamma. Resta qui con me”. Poi, accarezzando distrattamente un lembo della coperta, le chiese: “Non ti sembra che alcune persone siano ridicole?”

“Io sono ridicola e la cosa mi piace molto!”
Lui la guardò in modo strano e lei capì che non avrebbe potuto usare alcun trucco: doveva fare silenzio. Stavano giocherellando con i loro cucchiaini quando la mamma di Maurizio portò il caffè. Aspettarono un pochino, poi chiusero gli occhi e strinsero le loro tazzine.

Lentamente, scegliendo parole conservate chissà dove, lui le disse quasi in un sussurro: “Prometti che non permetterai a nessuno di dire che siamo dei mostri”. Stringendo di più la tazzina, riprese: “Tutte le porcherie che ci hanno fatto prendere e tutto quello che ci hanno fatto non ci ha reso mostruosi. Siamo come due chicchi di caffè. Probabilmente io rimarrò un chicco verde, mai pronto per la tostatura, oppure sono stato tostato troppo, non lo so. Non siamo mostri. Siamo solo due chicchi di caffè usciti fuori da una piantagione strana”. La guardò mentre lei continuava a stringere la sua tazzina, poi riprese: “Promettimi che non coprirai le tue cicatrici. Ci sono anche io tra quelle linee. Fammi questo regalo: coltiva la nostra piantagione tra quelle linee, inventa nuove storie che si intreccino con la mia. Non dimenticare quello che abbiamo sognato insieme, non dimenticare i nostri viaggi, le nostre avventure”.

Lei voleva piangere, ma sapeva che lui l’avrebbe detestata se lo avesse fatto. Deglutì e disse: “Lo farò. Te lo prometto”. Posò la tazzina sul tavolino e gli sussurrò: “Ti voglio bene”.
“Non sei male per essere una femmina” disse lui, e le strinse forte la mano.

 

1 Libera citazione da La notte delle favole, canzone di Tania Tedesco (Festival di Sanremo 1988).

 




LA MORTE DELLA LUNA di Silvia Zaccari

La morte della luna

di Silvia Zaccari

tratto dall’antologia Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

edito da Rapsodia edizioni

 

“Deve essere più spaventosa. Cerca di inarcarle di più la bocca, come se stesse facendo un ghigno. Guarda. Con lo scalpello segna le rughe sulle guance e sotto gli occhi, così”.

Il padre di Carla diede un colpo sul pezzo di legno levigato, poi un altro e un altro ancora. Così facendo, scolpì su quel volto rigido un’espressione terrificante.

 

Erano le otto di sera quando Carla prese il bus. Di solito usciva prima dal magazzino dove lavorava con il padre. Facevano maschere di legno per spettacoli teatrali.

Carla salì sul bus con un’insolita ansia, ma non le diede peso, o meglio, pensò che fosse a causa della consegna che avevano l’indomani: una compagnia teatrale molto famosa sarebbe andata da loro a provare le maschere per la messa in scena de La morte della luna.

A testa bassa fece cadere gli spicci nel bussolotto, strappò il biglietto e andò verso il retro del bus a sedersi vicino a un signore. L’uomo, sulla sessantina, corpulento, indossava un cappello nero molto ingombrante e una giacca color prugna di velluto. Era freddo, quella sera, ma non così tanto, pensò Carla. Mise le mani nella borsa per prendere il libro che stava cercando di finire da tempo. Fu subito interrotta: “Signora, lo sa che questo autobus non si fermerà?” disse l’uomo con il cappello nero.

“Perché?” rispose lei.

“Perché non c’è nessuno che lo guida e nessuno che può fermarlo”.

Il tizio non si voltò a guardarla e fece una risatina compiaciuta, quasi maligna. Carla si sporse per osservare il posto di guida, ma non riuscì a vedere nulla. Sembrava però che nessuno stesse guidando il bus. Impallidì e si alzò di scatto.

“Non può fare niente, signora. È così ogni volta”.

“Ogni volta?”

“Certo. Ogni volta che lui decide di entrare”.

“Lui chi?”

“Beh, lui…” disse l’uomo, e diresse lo sguardo verso il posto di guida.

Carla si guardò intorno.

“Lei ha deciso di salire, nessun altro lo ha fatto. Siamo soli. Avrebbe dovuto essere più accorta. Ormai è tardi”.

Carla strinse le mani attorno alla tracolla della borsa.

“Senta, lei sta solo cercando di spaventarmi. Non so perché, ma è proprio quello che sta facendo. E poi non credo a quello che dice”.

“E allora perché si è subito sporta per controllare che ci fosse davvero qualcuno alla guida?” disse l’uomo con il cappello nero.

Carla si era innervosita. Decise di scendere. Si mosse verso la parte anteriore del bus, dove le luci erano spente e si riflettevano i fanali delle auto che correvano in strada. Passo dopo passo, iniziò a mettere a fuoco la cabina, il volante, parte del sedile, ma non riusciva ancora a vedere l’autista.

“Signora, torni a sedersi. Non può scendere, non può uscire ormai. Lei ha deciso di salire, e lui prima di lei”.

Carla fece finta di non averlo sentito. Arrivata accanto alla cabina di guida, vide una specie di massa scura fluttuante sopra il sedile. Si mise la mano sulla bocca e fece un passo indietro. La mano si spostò velocemente dalla bocca alla tasca della borsa, in cerca del cellulare. Qualche secondo e Carla aveva già digitato il numero del padre.

“Pronto?”

“Papà, non c’è nessuno, non posso scendere! C’è solo un uomo, ma dice che non si fermerà!”

“Che stai dicendo, Carla? Calmati!”

“Sono sul bus per tornare a casa, ma quell’uomo dice che non si fermerà!”

“Ma che vuol dire? Quale uomo? E perché mai il bus non dovrebbe fermarsi?”

“Papà, non c’è nessuno alla guida del bus!”

Carla sentì una presenza alle sue spalle, poi vide una grande ombra sul vetro. Dietro di lei, l’uomo con il cappello nero era fermo e guardava fuori, come se avesse intenzione di scendere.

“Mi scusi se l’ho messa in allarme, ma lei non uscirà di qui” disse l’uomo, e fece di nuovo quella risatina maligna, che gli segnò le guance. Rivolse lo sguardo verso il retro del bus e suonò il campanello per prenotare la fermata.

“Ha detto che non si sarebbe fermato, mi ha presa in giro!” disse Carla.

“Affatto. Io scenderò comunque” disse l’uomo, e cercò di farsi spazio fra lei e la cabina. Il bus non rallentò.

“Carla, ci sei? Carla?” diceva intanto il padre al cellulare.

Improvvisamente la porta anteriore si aprì con un tonfo, mentre il bus viaggiava veloce. Un forte vento sbatté Carla contro la cabina. Il cellulare cadde sul marciapiede.

L’uomo con il cappello nero saltò giù e sparì nel buio.

 

Carla cercò di rialzarsi. Aveva sbattuto la testa e teneva gli occhi chiusi per il dolore.

“Signora, tutto bene?”

La donna si aggrappò al corrimano e si tirò su.

“Signora, tutto bene? Ha bisogno d’aiuto?”

Carla si voltò verso quella voce e vide un uomo seduto al posto di guida, con una bella giacca azzurra e la camicia color prugna.

“Ehm… no, la ringrazio. Sto bene…” rispose, e andò a sedersi al primo posto libero.

Il bus era abbastanza affollato e tutti la guardavano.

“Mi scusi, signora, a quale fermata deve scendere?” le chiese subito il ragazzino che le sedeva accanto.

Carla rimase in silenzio. “Io dovrei scendere alla prossima” disse il ragazzino.

Carla fece un cenno con la testa, come per dire che aveva capito, ma non fiatò. Passò qualche minuto e il bus iniziò a rallentare. Carla non si mosse.

“Signora, scende anche lei?” le chiese il ragazzino. Carla non aprì bocca, lo guardò e si voltò di nuovo davanti a sé.

Il bus era quasi fermo e il ragazzino si alzò in piedi.

“Signora, dovrebbe alzarsi. Io devo scendere!”

Carla finalmente si alzò, ancora frastornata. Il ragazzino le passò davanti, corse verso la porta centrale e scese. Carla si rimise a sedere e lo seguì con lo sguardo. Non riusciva a capire cosa stava succedendo e, per di più, non ricordava dove era diretta.

Si mise a guardare fuori dal finestrino. Le luci dei lampioni e delle auto correvano veloci. All’interno del bus le voci della gente si mischiavano al rumore del motore. Qualcuno aveva aperto una busta di patatine dietro di lei. Una risata accanto, poi uno starnuto.

Pian piano le voci iniziarono a spegnersi. I rumori stavano cambiando in un modo strano, quasi inquietante. All’improvviso ci fu silenzio. Carla stava ancora osservando fuori. Tutto sembrava normale. I suoi occhi, però, misero lentamente a fuoco il riflesso sul vetro dei passeggeri seduti sul bus: i loro corpi erano svaniti e decine di volti galleggiavano sopra i sedili, avvolti da una strana nebbia. Carla prese coraggio e guardò alle sue spalle. “Non è possibile, sto impazzendo” disse a bassa voce.

Si rese subito conto che conosceva bene quei volti: erano tutte le maschere che fino a quel giorno aveva realizzato con suo padre. Premette il pulsante per prenotare la fermata e si alzò. Il bus continuava la sua corsa, senza rallentare.

“Mi scusi, dovrei scendere!” disse.

L’autista sembrava non sentire. Carla raggiunse la cabina per bussargli al vetro. Alzò la mano, ma la ritrasse subito. La massa nera fluttuante era di nuovo al posto di guida. Come prima, Carla mise la mano nella borsa per prendere il cellulare. Frugò per qualche secondo, ma niente. Guardò all’interno. Rovistò ancora. Niente. Prese la borsa e la capovolse. Cadde di tutto, ma del cellulare nessuna traccia.

“Mi faccia scendere, la prego!” urlò, ma non ebbe alcuna risposta.

Si rese conto che un rumore ovattato le stava facendo vibrare le orecchie: erano le maschere che si erano messe a pulsare ininterrottamente. Sembravano dei grandi cuori di legno. Carla indietreggiò impaurita. Si mise in ginocchio e si coprì la testa con le braccia, come per proteggersi.

 

“Avanti, Gabriele, muoviti!”

“Mamma, non riesco a passare!”

“Non farmi arrabbiare, Gabriele, non c’è nessuno davanti a te!”

“C’è una signora”.

Il bambino si spostò, guardando la madre.

“Accidenti, signora, ha bisogno d’aiuto?”

Carla era ancora in ginocchio. Non riusciva a muoversi. Non voleva alzare la testa e aprire gli occhi.

L’autista, allora, uscì dalla cabina e provò a tirarla su per un braccio.

“Avanti, si tiri su. Ha battuto la testa?”

Carla non rispose.

“Signora, vuole che chiami un’ambulanza?” disse l’autista.

Carla lo guardò senza dire una parola.

“Se vuole possiamo chiamare un familiare. Se mi dà il numero, posso chiamarlo con il cellulare della ditta”.

Carla fece cenno di no con la testa. L’autista tornò a sedersi. Le passarono accanto per scendere la mamma e il bambino, che la fissava incuriosito.

“Come ti chiami?” le chiese il bambino.

Carla sgranò gli occhi.

“Signora, come ti chiami?” continuò lui. Carla non seppe rispondere: non ricordava il suo nome.

La mamma e il bambino scesero. Il bus ripartì e Carla si mise a sedere.

Il quadrante di un orologio da polso attirò la sua attenzione: le otto e quattordici. Era trascorso così poco tempo da quando aveva lasciato il magazzino?

Fuori era buio. Tutti i negozianti, ormai, avevano abbassato le serrande, e la città si preparava ad addormentarsi.

Una fermata, poi la seconda, la terza e così via. Carla rimase sul bus fino al capolinea.

“Signora, questa è l’ultima fermata. Le conviene scendere, perché poi vado a parcheggiare il bus alla rimessa” le disse l’autista.

Carla fece di no con la testa.

“Come vuole. Io però poi non posso accompagnarla da nessuna parte, sono le regole. Ok?”

Carla lo guardò per un attimo e poi si voltò di nuovo verso il finestrino.

 

La rimessa, una struttura simile a un grande chalet di legno, si trovava alle pendici di una montagna scura. Nessun caseggiato nelle vicinanze, solo qualche lampione ad illuminare il piazzale. Il bus si avviò verso il parcheggio numero 14, rallentò e si fermò.

“Signora, siamo arrivati. Ora spengo il motore e le luci, altrimenti non posso andarmene a casa, e gli addetti non possono pulire” disse l’autista.

All’esterno non c’era alcun segno di movimento.

“Dovrebbe scendere, signora”.

L’autista, rassegnato, alzò gli occhi al cielo e girò la chiave nella toppa. Le luci divennero piccoli cerchi neri una dopo l’altra, poi si spense il motore.

“Signora, se non scende adesso rimarrà qui dentro al buio, almeno finché non arrivano quelli delle pulizie. Io me ne vado a casa”.

L’autista prese le sue cose, mise il lucchetto alla cabina di guida e scese, lasciando aperta la porta anteriore. Carla non si mosse. Aveva lo sguardo rivolto alla montagna scura.

 

Non si ricordava da quanto tempo stava camminando, ma Carla non riusciva più a sentire le dita delle mani e dei piedi. La sua borsa era rimasta sul bus. I rami degli alberi, sempre più fitti e scuri, le avevano graffiato il cappotto all’altezza delle spalle e dei fianchi. Era stanca, ma continuava a salire. Non vedeva niente davanti a lei. Ogni tanto, però, riusciva a scorgere la luna fra i rami.

“Dove sei?” disse Carla sottovoce. Strizzò forte gli occhi per mettere a fuoco qualcosa. “Dove sei?” ripeté. Il silenzio e l’oscurità la avvolgevano passo dopo passo.

Un fruscio. Guardò di lato, poi in alto. Un barbagianni lasciava la montagna, diretto a valle.

“Dove sei?” continuava ogni tanto a ripetere mentre camminava.

All’improvviso inciampò in qualcosa di grande e cadde a terra, battendo la testa.

Riaprì gli occhi poco dopo, o così le parve.

“Sei tu?” disse.

Strusciò le mani sulla terra, in cerca di qualcosa. Si spostò carponi verso il punto in cui era inciampata. Le mani tastavano il terreno: piccoli sassi, aghi di larice, pigne, un insetto, ancora sassi e terra. Aghi. Le mani si fermarono su qualcosa di grande, simile a un tronco. Carla mise entrambe le mani su quella cosa e continuò a tastarla. Niente corteccia. Avvicinò il viso. Niente odore di resina, piuttosto un odore acido, quasi di marcio. Si allontanò, ma non staccò le mani.

Quella cosa si mosse appena, lentamente, su e giù, come un polmone stanco. Carla rimase immobile. L’odore si fece molto più intenso. Lei non si mosse, ma la cosa sì, e stavolta le sembrò di avvertire anche una specie di mugolio. Le tremavano le mani per la paura e qualcosa le stava bagnando sempre di più: era qualcosa di viscido. Scivolò e cadde su quella strana creatura, che si divincolò e sparì un attimo dopo, come risucchiata dal terreno.

Carla cercò di pulirsi le mani e il viso, ma quell’odore nauseante era ormai ovunque. Si alzò e riprese a salire.

 

Forse erano passate un paio d’ore da quando Carla aveva ripreso il cammino.

Si voltò a destra, verso la cima della montagna: una piccola luce fiammeggiava più in alto. Carla poggiò le mani sulla roccia che la separava da quella fiammella e si diede una spinta puntando i piedi. Iniziò ad arrampicarsi sulla roccia.

“Finalmente!” disse una voce baritonale.

Carla alzò la testa e vide una sagoma scura e imponente sopra di lei.

“Ti stanno aspettando tutti. Credevano che non saresti più venuta” disse la sagoma scura.

“Tutti?” disse Carla.

“Proprio strana sei. Avrebbero dovuto scegliere un’altra”.

“Scegliere? Chi? Per cosa?”

La sagoma scura si avvicinò alla fiammella. Un grande cappello nero sovrastava il suo ghigno, che Carla era sicura di avere già visto.

“Proprio non ricordi? Sono venuti per te, su questa montagna. E lui è venuto a prenderti proprio questa notte”.

L’uomo con il cappello nero si volse a guardare alle proprie spalle, ma Carla non riuscì a vedere nulla. Un senso di nausea le bloccò la gola: quell’odore pungente era di nuovo vicino. La fiammella si fece più grande, e una grossa risata la mosse da un lato e dall’altro.

“Allunga la mano verso la fiamma” disse a Carla l’uomo con il cappello.

Carla si sporse in avanti e fece come le aveva detto. La luce si spense. Al suo posto comparve una sassifraga bianca e brillante, come di quarzo.

“Raccogli un fiore e annusalo” le disse l’uomo, indicando la sassifraga.

Carla si abbassò, fino a raggiungere uno dei fiori. Lo prese e lo portò al naso. Chiuse gli occhi e respirò a fondo. Un turbine d’aria si sollevò da terra, poco distante da loro, e una risata grassa e cavernosa le fece subito riaprire gli occhi.

“Stanno arrivando!” disse l’uomo con il cappello nero. Il suo ghigno si fece più pronunciato.

“Cos’è quel vortice denso che viene verso di noi?” chiese Carla.

“Vedrai! Lo vedrai molto presto! Ah ah ah” fece l’uomo.

Il vortice si avvicinava. Carla, sempre più impaurita, strinse il fiore che aveva fra le dita. Lo stelo si spezzò e il fiore cadde sulla roccia.

“Venite, fratelli! Venite!” urlò l’uomo con il cappello nero.

Una luna sempre più grande sbiancava adesso il cielo sopra di loro. Carla alzò gli occhi, come in cerca di aiuto. La nube era ormai dietro le spalle dell’uomo con il cappello nero. Carla iniziò a tremare. Chiuse gli occhi per un istante. Quando li riaprì vide decine di maschere che le volteggiavano intorno, mentre la nube iniziava ad offuscare la luna.

“Prendetela, fratelli! Vostra madre è qui. Adesso è vostra!” disse a gran voce l’uomo con il cappello nero.

Le maschere divennero color carbone, quasi invisibili nel buio della notte, schiarite appena dalla nube che le circondava. Si avvicinavano lentamente a Carla, costringendola ad arretrare: la stavano schiacciando contro la roccia. Carla fece un passo indietro, poi un altro. Era in trappola.

Una coltre di maschere di legno scuro si chiuse sopra di lei. La nube scomparve lentamente. La luna prese il colore della notte e fu buio per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 




QUI CON LORO STO BENE di Silvia De Felice

QUI CON LORO STO BENE

di Silvia De Felice

tratto dall’Antologia Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Quando spalancò il portone, Elena vide subito il telegramma che spuntava dalla sua cassetta delle lettere. Curiosa e un po’ spaventata, non aspettò di entrare in casa: lo aprì subito, barcamenandosi a stento tra le buste del supermercato.

“Anna ci ha lasciato. Funerali sabato ore 14. Vieni alla funzione? Mario”.

Le immagini di un’ epoca passata le balzarono agli occhi vivide come fossero di ieri.

Elena, Luisa, Annapaola e Francesca: “le inseparabili” le chiamavano al paese. Anna, la madre di Luisa, le viziava di dolcetti e coccole, indistintamente, come se fossero tutt‘e quattro figlie sue. Ora se ne era andata, uccisa forse da anni di sofferenza e tristezza.

Mentre tritava carote, cipolle, sedano e aglio per il soffritto, Elena non riuscì a far a meno di ripercorrere quella che era stata la sua ultima estate da bambina.

I suoi genitori la accompagnavano a Collalto dai nonni appena finiva la scuola, loro lavoravano e la potevano raggiungere solo la prima settimana di settembre. Elena era felice li, tra quelle dieci case, con Luisa, Annapaola e Francesca, che invece a Collalto vivevano tutto l’anno. Avevano 12 anni, nel paese ci si conosceva tutti e loro, nonostante la giovane età, godevano di quella libertà che in città non era neanche lontanamente pensabile.

Si vedevano tutti i giorni: in tarda mattinata dopo aver aiutato un po’ in casa, scendevano in piazza a chiacchierare fino al momento di andare a pranzo. Il pomeriggio facevano lunghe passeggiate fino al torrente dove si bagnavano e prendevano un po’ di sole insieme ad altri ragazzini e ragazzine dei paesi vicini. Spesso uscivano anche dopo cena, e quello era il loro momento preferito, il momento dell’avventura. Luisa prendeva di nascosto la grande torcia di Mario, suo padre e, facendosi coraggio vicendevolmente, si avviavano verso la parte più vecchia del paese, inventando storie di fantasmi e tesori nascosti. In quella zona numerose erano le abitazioni disabitate: dopo la guerra in molti si erano trasferiti in città più grandi, il paese si stava lentamente spopolando.

Le quattro ragazze erano attratte da quelle mura silenziose, le finestre buie i vicoli poco illuminati. Parlavano sottovoce quando si trovavano in quella parte di paese, come se non volessero disturbare spiriti e fantasmi dormienti. La casa che però le attraeva maggiormente era quella più rovinata, in fondo alla discesa che portava alla fine del paese. Le imposte di legno scrostate e cadenti, il giardino infestato da erbacce incolte, il cancello di ferro che cigolava appena lo si muoveva. E poi gli animali notturni sembravano darsi tutti ritrovo lì, gufi, civette, qualche topolino e, di tanto in tanto un’incursione della spinosa. Loro non l’avevano mai vista ma lei lasciava aculei striati in ricordo del suo passaggio. Luisa, Elena, Annapaola e Francesca, impaurite ed eccitate, era lì che si dirigevano quelle notti d’estate. Luisa, soprattutto, era come infervorata da quella specie di rudere. Era lei che improvvisamente sentiva un rumore diverso dal solito. Era lei che spesso notava un’ombra silenziosa che si aggirava furtiva tra quelle mura. Era lei che percepiva presenze….

Quell’estate però non fu come le altre: le quattro amiche non sapevano che quell’anno, la notte di Ferragosto avrebbe segnato la fine della loro fanciullezza e della loro spensieratezza.

I primi del mese, nel paese e in quelli vicini, avevano visto aggirarsi una persona che nessuno conosceva, si teneva lontana dal centro con quel suo carretto e tre cani spelacchiati al seguito. Sembrava un canaro, di quelli che vivono, mangiano e dormono con i cani; non infastidiva e non parlava con nessuno; entrava ogni tanto dal fornaio a chiedere un po’ di pane avanzato. I ragazzini più spavaldi lo avevano avvicinato e deriso, ma lui niente, non aveva reagito mai. Dopo un paio di settimane nessuno quasi sembrava farci più caso.

Arrivò Ferragosto, il caldo era opprimente tra quelle colline,  le quattro amiche avevano fatto incetta dei dolcetti dell’Anna e, dopo cena, si videro come sempre sotto casa di Luisa. Erano riuscite a strappare il consenso a rientrare più tardi, alla fine dello spettacolo di fuochi d’artificio che il parroco aveva organizzato in piazza a mezzanotte.

Per guadagnare tempo le ragazze si erano allontanate dal centro prima che finissero di sparare; c’era tanta gente tra paesani e turisti, nessuno se ne sarebbe accorto. Non erano mai state alla casa in un orario così tardo, Luisa era trepidante; le altre un po’ impaurite, la seguirono.

Arrivate lì in effetti sembrava tutto uguale alle altre volte. “A mezzanotte sapremo se gli spiriti della casa si manifesteranno a noi” disse Luisa e, aggiunse “Siamo fortunate stanotte non c’è luna, li vedremo meglio”. Elena, Annapaola e Francesca rabbrividirono ma non proferirono parola.  Entrarono nel giardino incolto e si avvicinarono l’una all’altra per passare all’interno della casa. Luisa voleva andare a vedere al piano di sopra, ma le altre no, erano troppo impaurite. “Siete delle fifone” disse, “io vado, sento che c’è qualcosa.” E salì. Per tranquillizzare le amiche rimaste giù, Luisa canticchiava in modo che la sentissero. “Dai, ora scendi, andiamo” disse dopo pochi, ma interminabili minuti Elena. “Non vogliamo più stare qui” aggiunse Annapaola.  Luisa però non cantava più. Le tre aspettarono qualche istante. “Luisa!!!” chiamò forte Francesca. Da sopra nessuna risposta. Elena si fece coraggio, salì e guardò nelle due piccole stanze: di Luisa neanche l’ombra. “E’ scomparsa!” urlò atterrita scendendo le scale di corsa. “Andiamo a cercare aiuto, correte!”

Mentre girava il sugo Elena rammentava ancora perfettamente la paura e l’angoscia che le attanagliava il petto in quei terribili momenti.

Ricordava le facce di stupore di Anna e Mario quando, tra le lacrime, gli raccontarono che Luisa era sparita. Tornarono insieme ad altri compaesani e cercarono, frugarono, chiamarono a gran voce per tutta la notte, ma nulla. Era quasi l’alba quando arrivarono le forze dell’ordine con i cani. Perlustrarono la zona per giorni e giorni. Nessuna traccia.  Luisa era scomparsa, come assorbita da quelle mura antiche. Il presunto colpevole di chissà quale efferato crimine fu subito individuato: nessuno aveva più visto il canaro da quella sera infausta. Sparito nel nulla anche lui. Così trascorsero giorni, settimane, nessuna notizia, nessun ritrovamento. A settembre Elena tornò in città con i suoi. Annapaola e Francesca rimasero tra quelle case impregnate di dolore. Ci furono anche diversi comunicati in tv, ma non furono d’aiuto.

Passarono i mesi e arrivò  di nuovo l’estate. Stavolta Elena non andò a Collalto furono i nonni che vennero a stare per qualche tempo in città con lei. Le portarono i saluti delle due amiche e anche di Anna e Mario che, prostrati dal dolore, arrancavano nella loro misera vita. Poi ci furono gli anni delle superiori, i contatti tra le ragazze si erano pian piano affievoliti fino a cessare del tutto. Elena seppe che le sue amiche d’infanzia erano andate in due note università in Inghilterra, forse erano volute fuggire da quei luoghi infausti. Gli anni erano passati, la tragedia sembrava dimenticata  fino all’arrivo di quel telegramma.

Il sabato mattina Elena lasciò la colazione pronta ai suoi e si mise in viaggio. Nelle tre ore che la separavano da Collalto avrebbe cercato di rilassarsi con della musica, era un po’ tesa anche se non ne sapeva il perché. Arrivò, scese dalla macchina e rimase stupita nel constatare come fosse rimasto tutto uguale a 15 anni prima. Solo gli alberi erano più grandi e testimoniavano il passare del tempo.

Poi i primi incontri mentre si avvicinava alla chiesa del paese. Qualche timido cenno di saluto: forse dopo tanti anni non la riconoscevano. Le due donne a destra del portone, però, lei le riconobbe subito: Annapaola e Francesca, erano tornate anche loro. Mentre si abbracciavano senza aver quasi proferito parola, arrivò il carro. Stentarono a riconoscere in quel vecchio, gobbo e rugoso, Mario il forte e ridanciano padre di Luisa. Lui le guardò e le lacrime gli solcarono il viso. Entrarono in chiesa. La cerimonia fu breve e silenziosa. Anna venne sepolta nel piccolo cimitero, vicino ad una lapide bianca dove, a fianco ad una foto, si leggeva chiaramente il nome ed era indicata solo la data di nascita. I genitori di Luisa, evidentemente, avevano voluto un posto dove poterla piangere e dove portare dei fiori.

Il sole stava tramontando quando, dopo un breve saluto a Mario, le tre amiche si ritrovarono da sole nella piccola piazza.

Per qualche minuto si raccontarono di loro, delle loro vite, ma dopo poco fu Elena che disse: “Io voglio tornare lì, ne ho bisogno”. Annapaola e Francesca si guardarono e con un fil di voce risposero: ”Sì, andiamo”.

S’incamminarono, ritrovarono facilmente la strada come fosse ieri, poi la videro: la casa, era ancora lì, in fondo alla via, sembrava che gli anni non avessero intaccato quelle già fragili mura. Il giardino sempre incolto, forse il cancello più arrugginito.

Stava facendo buio ma nessuna delle tre disse nulla. Nel passaggio dal giorno alla notte c’era quel momento di silenzio strano che precede l’inizio dei rumori notturni.

“Entriamo“ disse Elena accendendo la luce del cellulare, e poi: “Luisa sentiva le presenze perché ci credeva, se la pensiamo intensamente forse ci sentirà e riusciremo a capire”.

“Ma cosa vuoi capire? Luisa è stata rapita dal canaro, lo sanno tutti!” la interruppe Annapaola.

“Forse” si intromise Francesca, “ma la verità è che sembra svanita nel nulla. Anzi, sembra che sia scomparsa qui, in questa casa, a causa di questa casa”. Le altre la guardarono sbalordite. “Non vi ricordate più ? Eravamo tutte qui, lei canticchiava, c’era silenzio, se ci fosse stato qualcun’ altro ce ne saremmo accorte. Luisa non ha gridato, non ci sono stati rumori strani, niente e nessuno oltre noi, solo noi e le mura di questa casa maledetta”.

Nessuna ribattè, le luci dei loro telefoni creavano ombre sinistre, fuori gufi e civette intonavano i loro lugubri canti. Dopo qualche istante le tre donne decisero di salire al piano di sopra, proprio lì dove Luisa era scomparsa. Le persiane marcite erano aperte e la luna piena proiettava la sua tremula luce all’interno. Si guardarono intorno senza sapere cosa e dove cercare. Nessuna parlava, forse cercavano di sentire quelle presenze loro raccontate dall’amica. Passarono nella seconda camera, un po’ meno illuminata. Come entrarono però un forte tramestio le fece sobbalzare. Con il cuore in gola si accorsero che erano solo pipistrelli, disturbati dalla loro presenza erano fuggiti dalla finestra.

“Qui non c’è proprio niente” disse Elena, “andiamocene”.  Mentre si accingeva a scendere la scala, con il braccio sbatté sul corrimano e il cellulare cadde rotolando per qualche gradino. Elena imprecò e si inchinò per raccoglierlo. Il fascio di luce del dispositivo stava illuminando lungo il battiscopa quelli che a prima vista sembravano i segni del tempo. Lei però mise a fuoco e si accorse che erano lettere. “Guardate” disse alle amiche, “qui c’è una scritta”. Annapaola e Francesca si piegarono per vedere, illuminando con i loro telefoni.

A distanza regolare l’una dall’altra, scendendo giù, c’era una fila di diciassette lettere: quiconlorostobene. Inizialmente cercarono di decifrare quello che sembrava un unico lungo vocabolo; poi, all’improvviso, Francesca esclamò “Ma questa è una frase, dice: QUI CON LORO STO BENE”, e guardò le altre perplessa.

“Chi?” domandò Annapaola. La risposta era dentro di loro.

“E’ Luisa!” Esclamarono all’unisono. Le loro menti negavano quello che il cuore invece sapeva da tempo. Aspettavano da anni un segno e quel segno finalmente era arrivato. Incredule si abbracciarono.

“Cerchiamo ancora” disse Elena, “Troveremo qualcos’altro.”

Scesero al pian terreno, tre fasci di luce illuminarono, per vari minuti, pareti e sottoscala. Non trovarono nulla. Improvvisamente una civetta, con il suo verso, ruppe il silenzio della notte, come fosse un saluto. Le tre amiche decisero che era ora di andare e uscirono dal cancello volgendo un ultimo sguardo a quelle mura. Erano d’accordo: nessun altro avrebbe saputo; sarebbe stato inutile, non avrebbero capito.

La mattina seguente, dopo una silenziosa colazione all’unico bar del paese e un veloce abbraccio a Mario, si salutarono, senza promesse di un futuro incontro.

Arrivata all’incrocio con la statale, Elena rallentò e con la coda dell’occhio notò una figura in lontananza: un uomo con un carretto e tre cani stava entrando in paese.

DF

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