TORTELLINI di Valentina Pucillo

Tortellini

di Valentina Pucillo

tratto da Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

“Quest’anno quanti ne facciamo? L’anno scorso erano davvero pochi” disse Maura con un sorrisetto ingolosito sul viso.
“Io ne ho calcolati una cinquantina per persona: per un piatto abbondante ne servono circa trenta, e con cinquanta viene fuori anche il bis per tutti” rispose zia Claudia mentre spargeva la farina sulla spianatoia. “Anche perché, a parte questi in brodo, il lesso e le verdure, io e Antonia abbiamo deciso di non preparare altro. Ci sono anche tutti i dolci. Altrimenti poi finisce che mangiamo troppo come tutti gli anni” continuò, prendendo l’impasto della sfoglia e iniziando a stenderlo col mattarello.

“È sufficiente il ripieno? Mi sembra poco, considerando che domani ci saranno anche altri ospiti. Dovremmo farne almeno 700” disse preoccupata nonna Mimì, che temeva sempre che il cibo non fosse sufficiente.
Il grande tavolo del tinello era allestito per l’occasione. Una tovaglia incerata era stesa su tutta la superficie per evitare che il legno scuro si rovinasse. Sopra c’erano la spianatoia, il recipiente contenente il ripieno profumato di mortadella e noce moscata, e svariati vassoi coperti da strofinacci candidi, incastrati con i bordi l’uno sull’altro, pronti ad accogliere le file ordinate di tortellini che tutta la famiglia, come ogni anno nel pomeriggio della vigilia di Natale, stava preparando per il pranzo del giorno dopo.

“Sòrbole, Claudia, tirala più sottile quella sfoglia, eh! Mario, mescola mo’ quel ripieno che lo vedo un po’ grumoso”: come ogni anno, forte delle sue origini emiliane, zio Paolo dispensava consigli e perle di saggezza a destra e a manca con il suo marcato accento bolognese.
La ripartizione dei compiti era più o meno sempre la stessa. Zia Claudia, avendo acquisito dal marito quel tanto di bolognesità che bastava, preparava e stendeva la sfoglia quasi come una perfetta sfoglina e tagliava i quadrelli di pasta delle giuste dimensioni; “Piccolini! Il vero tortellino deve essere grande come una moneta da venti centesimi!” continuava a ripetere zio Paolo fino allo sfinimento; Antonia, la sorella, insieme ai figli Maura e Valentino, era addetta alla preparazione del ripieno, a porzionarne la giusta quantità nei quadrati di pasta e a chiudere questi ultimi su sé stessi per formare i triangoli; zio Paolo e il cognato Mario, i due ‘precisi’ della famiglia, avevano il compito di sigillare i triangoli bagnando leggermente i bordi e di dar loro la tipica forma del tortellino ripiegandoli attorno al dito. Il tutto era supervisionato da nonna Mimì che, forte dell’immunità ai rimproveri datale dai suoi ottant’anni, danzava da una postazione all’altra, metteva le mani ovunque e pasticciava senza che nessuno avesse il coraggio di dirle nulla.

La famiglia Brambilla era molto unita; tuttavia, per qualche scherzo del destino, ognuno dei componenti aveva scelto di stabilirsi in posti piuttosto lontani l’uno dall’altro. Non erano quindi molte le occasioni in cui la famiglia Brambilla riusciva a riunirsi. Per questo il Natale tutti insieme nella casa dei nonni, con annesso il rito di preparazione dei tortellini, era un appuntamento che nessuno aveva mai messo in discussione. Intorno a quel tavolo del tinello si creava sempre un’atmosfera armoniosa. Claudia, che con movimenti sicuri preparava la pasta da riempire, ciarlava allegramente con Antonia e Mimì di parenti, storie del paese e ricette. I bisticci tra Valentino e Maura sui reciproci stili di vita sembravano quasi addolcirsi grazie all’odore denso del brodo di cappone che, sobbollendo in cucina per ore, li accompagnava durante tutta la preparazione dei tortellini.

Anche i due cognati, che normalmente non facevano che stuzzicarsi, in quell’occasione sotterravano l’ascia di guerra, concentratissimi sulle operazioni di chiusura della pasta; uno sguardo attento avrebbe comunque percepito una sorta di sfida silenziosa su chi dei due riuscisse a formare il maggior numero di tortellini chiusi a regola d’arte. A rallegrare la laboriosa famiglia c’era la sempre presente televisione che strepitava a tutto volume, spesso sintonizzata da nonno Giulio su affascinanti programmi di interesse generale quali, ad esempio, documentari sugli gnu.

Quel pomeriggio nonno Giulio era di umore variabile. Dopo aver imposto a tutti una mezz’ora di televendite di utensili da cucina di discutibile utilità, aveva di botto abbassato il volume della televisione e si era accomodato intorno al tavolo con gli altri, osservando la scena con espressione arcigna. Sembrava interessato a studiare la preparazione della sua portata preferita del pranzo di Natale. Aveva scelto una sedia a capotavola in posizione strategica, proprio davanti ai vassoi che iniziavano a riempirsi di tortellini; non appena gli altri si distraevano, il buon vecchio Giulio ne rubava qualcuno con movimenti fulminei e lo ingoiava crudo con colpevole voluttà.

Tutti lavoravano in silenzio, concentrati, essendo generalmente difficile chiacchierare a causa del baccano della televisione.
“Ma che silenzio stasera! Perché non mettiamo un po’ di musica?” chiese Maura rendendosi conto che il rimbombo della televendita era cessato.

“Sì, dai, passami lo zaino, ho un cd di etno marocchina che mi ha regalato Karima” ribatté subito Valentino, sempre voglioso di condividere le sue passioni con chiunque gli capitasse sotto tiro.
“Veramente pensavo a qualcosa di allegro, magari canzoni che conosciamo tutti e che possiamo canticchiare insieme” replicò seccata Maura, fulminando il fratello con lo sguardo. “Allora dovremmo cantare Nilla Pizzi, se teniamo conto dell’età di qualcuno intorno a questo tavolo, oppure tormentoni estivi idioti, se teniamo invece conto della cultura musicale di qualcun altro sempre intorno a questo tavolo” rispose Valentino, sostenendo ironico lo sguardo della sorella.

La discussione venne subito zittita da zio Paolo che, con un veloce click, fece partire uno dei suoi pezzi preferiti di musica classica, un requiem di Mozart.
“Allegro si era detto, eh? Qua mi pare il festival delle melodie d’oltretomba” mugugnò Mario guardando il cognato di sottecchi.

“E piantala di essere sempre polemico, diamine!” ribatté Antonia dando una gomitata al marito, cercando di capire se la sua lamentela fosse stata sentita da Paolo e Claudia.
Nonno Giulio ascoltava impassibile ma divertito i vari battibecchi; sentendosi piuttosto invisibile afferrava, ormai spudoratamente, un tortellino dopo l’altro e se li infilava meccanicamente in bocca. I suoi movimenti, per quanto scaltri, vennero tuttavia intercettati dall’occhio di falco di Mimì.

“Giulio! Ma tu guarda che disgraziato, questi sono per domani! Quanti ne hai mangiati già?” inveì nonna Mimì contro il marito, mettendosi le mani tra i capelli con fare angosciato. “Non hai nemmeno preso la pasticca! Adesso basta, tornatene a guardare la televisione!”
Non gradendo che l’attenzione di tutti fosse ormai su di lui, e ritenendosi probabilmente soddisfatto della scorpacciata, nonno Giulio assunse un’espressione di infastidita dignità e si accinse ad alzarsi dalla sedia per tornare alla poltrona davanti alla televisione. Per aiutarsi appoggiò con una certa foga entrambe le mani sul bordo del tavolo, che coincideva con il bordo di uno dei vassoi ormai stracolmi di tortellini. Ci fu un effetto domino al contrario: volo di vassoi, pioggia di tortellini che rotolarono ovunque, sotto il tavolo, sul pavimento impolverato, sotto i mobili. Intorno alla tavolata, tutti ammutoliti. Nel caos generale restarono sul tavolo solo tre tortellini, nascosti sotto uno strofinaccio. Nonno Giulio, ormai in piedi, li intercettò prontamente e li mangiò prima di tornare alla sua poltrona.




UNA FORTUITA SERIE DI CIRCOSTANZE di Valentina Pucillo

Una fortuita serie di circostanze

di Valentina Pucillo

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Il garrito dei gabbiani che sorvolavano il porto non accennava a diminuire di intensità, nonostante fosse ormai tarda notte. Dall’angolo in fondo alla biglietteria dove si trovava, schiacciato tra la macchinetta automatica per le foto e il muro da cui si apriva la grande vetrata che affacciava sul porto, Karl sentiva fin troppo bene gli urli acuti dei maledetti uccelli. E li vedeva fin troppo bene, anche. Uno di quelli, enorme, era sceso in picchiata a tutta velocità verso di lui, tanto che Karl aveva temuto che si spiaccicasse contro la finestra e che il vetro andasse in frantumi cadendogli addosso; poi, invece, il gabbiano aveva elegantemente virato verso destra ed era volato via.

Karl aveva il sedere freddo e indolenzito per le ore trascorse rannicchiato sul marmo; la gazzarra orchestrata dagli uccelli rappresentava un ulteriore impedimento a un qualsiasi tentativo di dormire.
“Ci mancavano solo questi uccellacci del malaugurio, per la miseria!” imprecò insofferente Karl: tuttavia, non poteva nascondere a se stesso una certa invidia per la libertà di quelle creature. Comunque, se voleva almeno tentare di riposare qualche istante, doveva trovare una diversa sistemazione.

Decise di alzarsi dall’angolo in cui stava accovacciato, visto che era rimasto completamente solo nella sala spoglia. Sentì con un certo sollievo le ossa indolenzite della schiena e delle anche scricchiolare. Pensò che avrebbe potuto sdraiarsi su una delle panche posizionate lungo il muro dalla parte opposta della stanza; il legno rivestito di stoffa sudicia era probabilmente più comodo della pietra. Sicuramente più caldo. Vagamente inquieto, camminò verso il centro della sala per sgranchirsi le gambe, illuminato dai neon accecanti come un primo tenore sul palco dell’opera. Si chiese perché diavolo non avevano spento le luci, una volta chiusa la biglietteria; la visibilità era comunque assicurata grazie alla forte luce dei fari sulle banchine, e lui si sarebbe sentito più protetto. Tuttavia, si rendeva conto che il suo timore era piuttosto infondato. La sala era vuota, e lo sarebbe stata ancora per svariate ore. Su un cartello c’era scritto che la biglietteria apriva alle sette, e Karl non si aspettava che gli impiegati svogliati arrivassero con eccessivo anticipo. Aveva tutto il tempo per riposare, almeno per qualche ora. Era stanco. Era tanto stanco e aveva bisogno di assopirsi e di non pensare.

Quel pomeriggio, mentre camminava su e giù per il porto tirando calci ai mucchi di corde ammonticchiate agli angoli, Karl si era quasi rassegnato all’idea di dover passare la notte fuori sulla banchina. Non sapeva quanto gli rimaneva in tasca, non aveva neanche voglia di controllare, ma di certo non poteva permettersi di sprecare neanche un centesimo per pagarsi una stanza. Aveva intravisto, sul molo più lontano dal cancello di ingresso, quello che da lontano sembrava una specie di cimitero di container scrostati e abbandonati. Ce n’erano alcuni belli grossi, avrebbe potuto rannicchiarsi in uno di quelli, e magari chiuderlo per ripararsi dalle raffiche di vento marino che, sicuramente, durante la notte era ancora più umido e gelido. Ma aveva cambiato idea quando, all’imbrunire, quello che per tutto il giorno gli era sembrato un posto energico e fremente di attività, aveva assunto una connotazione ambigua. Gli pareva di aver iniziato a notare strani movimenti; personaggi poco rassicuranti dalle facce torve gli lanciavano occhiate malevole.

Alcuni, sembravano clochard che probabilmente stazionavano lì ogni notte; molti, troppi, gli sembravano malviventi che aspettavano il buio per occuparsi dei loro traffici. I grandi porti, di notte, sono luoghi ideali per incontri loschi e scambi illegali, lo sanno tutti. E lui non era certamente un uomo della strada, e sapeva benissimo di non essere neanche così scaltro da potersi trarre d’impaccio in caso di guai. Oltre alla tensione per la situazione, che ancora doveva capire come gestire, aveva iniziato a sentire anche qualcosa di molto simile alla paura. Era perciò tornato a passo svelto alla biglietteria poco prima dell’orario di chiusura e si era nascosto dietro uno di quei cubicoli che scattano fotografie istantanee, che quasi nessuno usa mai perché le foto vengono sempre orribili.

Si sdraiò sulla panca su un fianco, adagiando la schiena dolente lungo lo schienale, e chiuse gli occhi, coprendoli con il berretto. Si assopì, ma non riusciva ad addormentarsi del tutto, infastidito dal rimestio agitato che gli rivoltava lo stomaco. Capì di avere fame. L’ultimo pasto decente che aveva fatto era stato parecchie ore prima, in quella trattoria sulla statale insieme a Ioan, il camionista che lo aveva raccattato lungo la strada, con il quale aveva condiviso un piatto di merluzzo fritto unto e un quarto di vino.

Quel giorno si era messo in cammino, con un pesante zaino sulle spalle, già da prima dell’alba; non sapeva neanche che ora fosse quando, dopo quelle che sembravano ore interminabili, si era fermato in una piazzola dove aveva visto un bagno chimico. Lo aveva trovato chiuso a chiave e aveva imprecato ad alta voce. Il camion si era accostato e l’autista era sceso proprio mentre Karl tirava un calcio alla parete di plastica.

L’uomo che gli stava davanti era tozzo e grosso, con gli angoli della bocca rivolti verso il basso. Gli si era avvicinato con un’andatura strascicata, guardandolo fisso da sotto le sopracciglia folte e gli aveva chiesto, con un marcato accento moldavo: “Tu problema?” “Bagno. Fame” aveva risposto Karl, adeguandosi stupidamente al parlare sgrammaticato del suo interlocutore.

L’uomo aveva indicato il camion. “Sali. C’è bagno e cibo più avanti”.
Una volta saliti sul camion, l’uomo gli aveva detto di chiamarsi Ioan e di essere diretto al porto per la consegna del carico. Poi, per tutto il tempo che avevano trascorso insieme, Ioan era rimasto in un silenzio accigliato. Sempre senza dire una parola, gli aveva fatto cenno di scendere quando erano arrivati davanti al grande cancello di ferro che si apriva sulle banchine, ed era ripartito lasciandolo lì.

Karl si riscosse. Con lo stomaco che reclamava si alzò, sacrificò qualche spicciolo per acquistare un paio di tramezzini al distributore automatico e li inghiottì con foga. Poi si sdraiò di nuovo sulla panca e, rigirandosi continuamente sul legno duro, cadde in un sonno agitato e popolato da sogni inquieti che avevano tutti per oggetto la perdita del suo passaporto. Sognò che un branco di cani rabbiosi lo riduceva a brandelli; sognò che uno sbirro, con un sorriso ambiguo, glielo sequestrava sostenendo che fosse falso; sognò di salire finalmente sulla nave ma, tirando fuori il passaporto per mostrarlo al controllo all’ingresso, questo gli veniva strappato via da una raffica di vento e veniva scaraventato tra le acque luride del porto. Spalancò gli occhi e con il batticuore si tastò la tasca posteriore dei pantaloni, tranquillizzandosi quando sentì lo spessore rigido del prezioso documento.
Rabbrividì per una folata gelida che si era insinuata nella stanza. Saltò in piedi, stropicciandosi gli occhi abbagliati dal neon.

Entrambe le pesanti porte a vetri, sia quella sul lato della strada sia l’altra che affacciava direttamente sul porto, erano state chiuse ermeticamente; fino a qualche istante prima non era entrato all’interno neanche uno sbuffo d’aria, eppure aveva sentito più volte il vento ululare intorno alla stanza. Si guardò intorno, vigile e in tensione, non riuscendo a capire da dove provenisse l’aria. Poi ebbe un tuffo al cuore: la piccola finestra che si trovava dietro alle postazioni degli impiegati era socchiusa. Con immenso sgomento si accorse che c’era una figura nera dietro i vetri. Le dita della figura spuntavano nella fessura tra le due ante. Cazzo, era una guardia? Lo aveva visto? Afferrò convulsamente lo zaino dalla panca e si girò per lanciarsi dietro alla macchinetta delle foto, sperando di riuscire a nascondersi, ma una voce lo bloccò.

“Ehi… ehi tu! Ti ho visto, sai? Sono dieci minuti che ti osservo”.
La voce non era imperiosa né sferzante, come sarebbe invece stata se fosse appartenuta a una guardia della vigilanza privata o, peggio, a un poliziotto; era, piuttosto, un sussurro incalzante. Lentamente Karl si voltò. Rimase quasi a bocca aperta nel trovarsi davanti un ragazzino seduto sulla soglia, con le gambe penzoloni verso l’interno della stanza. Il ragazzino era intabarrato in un vecchio cappotto militare di almeno due taglie più grandi, e sulla sua testa spiccava un cespuglio di capelli arruffati. Non poteva avere più di quindici o sedici anni, e lo osservava con un’espressione guardinga ma non spaventata.

“Chi sei? Lo sai che è vietato stare in questo posto?” chiese Karl, cercando di nascondere la propria agitazione e di apparire più duro di quanto non si sentisse.

“Posso chiedere a te la stessa cosa” replicò il ragazzo con un sorrisetto, per nulla intimorito. “Io sto fuori, sei tu quello dentro a una sala chiusa. E poi io qua ci sto sempre. Non ti ho mai visto. Sei un ladro?” chiese, quasi speranzoso.
“Ma che dici, ragazzino!” rispose Karl allarmato, temendo scioccamente che ci fosse la vigilanza nelle vicinanze. “Cercavo solo un posto dove passare la notte. Prendo la nave domani mattina”.

“Beh, ma da qua partono solo le navi con dentro i container, non quelle con le persone! Hai sbagliato, devi andare dall’altra parte del porto. Là c’è pure una sala d’attesa dove puoi entrare mostrando il biglietto! Vieni, ti ci accompagno…”
“Ragazzino, sto bene qui” rispose Karl freddamente.

“No, no. Non puoi restare qui, ti troveranno!”
Il ragazzino si guardò attorno e iniziò a parlare a raffica: “Una volta c’era un senzatetto che si era addormentato lì per terra, e la mattina dopo, quando sono entrati e lo hanno trovato sdraiato, prima hanno pensato che fosse morto e hanno iniziato a gridare, poi quello si è svegliato e allora si sono messi ancora più paura e hanno chiamato i poliziotti che erano qui fuori, dicendo che c’era un ladro, e allora due poliziotti sono entrati e lo hanno preso ognuno per un braccio e lo hanno portato via trascinandolo e…”
“Smettila di gridare, ragazzino! Se continui a strillare così, certo che mi troveranno! E comunque, credi che non ci abbia già pensato? Vedi quell’angolo laggiù in fondo alla sala, dietro alla macchinetta delle foto? Tra poco mi nasconderò lì, dove sicuramente gli impiegati della biglietteria non andranno mai a guardare, e quando inizierà il viavai di gente sguscerò rapido verso la porta. Non se ne accorgerà nessuno” rispose Karl, con una certa aria di superiorità mista ad orgoglio per la sua trovata.
“Ma no! Non gli impiegati! Quelli non si accorgono mai di niente. Gli impiegati no, ma loro ti vedranno sicuramente” disse il ragazzino con la voce ridotta a un sussurro, fissando Karl dritto negli occhi.
Karl iniziò a sentirsi nervoso. Si guardò intorno di sottecchi, come a cercare qualcuno o qualcosa nella sala. Ma non vide nessuno oltre al ragazzino e al riflesso di se stesso nella vetrata.
Poi si riscosse. Come diavolo pensava di poter affrontare il viaggio che aveva in mente se si lasciava suggestionare dalle sciocchezze di un ragazzino?

“Ehi tu” lo apostrofò seccamente, “adesso mi hai scocciato. Chi è che dovrebbe trovarmi, eh? Ti diverti a prendermi in giro?”
Il ragazzino alzò gli occhi al cielo, come se avesse appena ascoltato la più stupida delle domande. Poi rispose con tono arzillo: “Gli addetti delle pulizie ti vedranno. Chi sennò? Arriveranno tra…” si sporse in avanti per guardare l’orologio al centro della sala, che segnava le quattro meno dieci: “Tra poco più di un’ora. E loro ci guardano, dietro alla macchinetta delle foto”.
Karl rimase impietrito. Come aveva fatto a non pensarci? Era stato davvero un idiota. Certo, aveva con sé i documenti, non era ricercato, sicuramente non ci sarebbero stati problemi a chiarire l’equivoco. Tuttavia sarebbe stato, nella migliore delle ipotesi, estremamente imbarazzante. Nella peggiore… non voleva pensarci, ma potevano essere grosse rogne se ci si metteva di mezzo la polizia. Rifletté brevemente massaggiandosi le tempie. Sì, senza dubbio doveva andare via da lì, e anche alla svelta.
Una ventata di aria gelida fece tremolare la grande vetrata accanto alla porta, e subito dopo grosse gocce di pioggia iniziarono a cadere.

“Ci mancava anche il temporale, dannazione!” imprecò Karl a bassa voce. Si voltò verso la biglietteria. Il ragazzino era ancora lì e lo osservava con curiosità. Era sceso all’interno della stanza e aveva poggiato la schiena alla finestra per tenerla chiusa.
“Senti…” gli disse Karl, titubante, “hai ragione, non posso stare qui. Devi farmi uscire, devo trovare un altro posto dove ripararmi”.
Al ragazzino si illuminarono gli occhi. Gli fece velocemente cenno di avvicinarsi. “Vieni di qua! Dobbiamo per forza uscire dalla finestra. Poi, se siamo fortunati e troviamo aperto il cancello del cantiere navale, tagliamo di là e arriveremo in due minuti dove stanno le navi per le persone, e lì puoi stare nella sala, come ti dicevo!” spiegò il ragazzo, compiaciuto che alla fine la sua idea fosse stata apprezzata.
“Ancora! Ragazzino, diamine, non possiamo andare lì. Non capisci? Non ce l’ho questo fottuto biglietto” ringhiò Karl. Poi aggiunse, più dolcemente: “Puoi aiutarmi a trovare un altro posto?”
Il ragazzo si bloccò e lo guardò a bocca aperta, vagamente inquieto. Sul suo viso confuso si leggeva chiaramente la domanda inespressa: come si può pensare di prendere la nave senza biglietto? Poi si riscosse. Quell’uomo non gli metteva paura come altri uomini che aveva intravisto a volte intorno ai container abbandonati. Fece cenno a Karl di scavalcare la finestra e uscì dopo di lui, facendo attenzione a richiudere le vecchie ante di legno che si incastravano sempre strusciando sul davanzale.

“Vieni con me” disse a Karl, incamminandosi svelto.
Karl lo seguì e gli chiese, stupito, come facesse a conoscere così bene il porto. Quel ragazzino non gli sembrava un delinquentello, ma d’altra parte i porti non sono proprio posti tranquilli e sicuri, soprattutto di notte. Il ragazzino, senza voltarsi, indicò il grosso faro che svettava davanti a loro in lontananza. “Io sto sempre con mio padre. Lui lavora lì”.
Il figlio del guardiano del faro! E chi ci avrebbe mai pensato!? Certo, magari era solo una balla, inventata da quel ragazzino dallo sguardo sagace per fregarlo: il ragazzino era di sicuro più furbo di lui, e troppo a suo agio in un postaccio come quello, di notte per giunta. Poteva tuttavia essere davvero il figlio del guardiano; quella strana situazione avrebbe acquisito senso. Effettivamente, era al faro che si stavano dirigendo. E se il faro fosse stato un covo di farabutti che non aspettavano altro che un pollo da spennare? Karl ghignò desolato tra sé e sé. Bel pollo secco che avrebbero trovato!

Pioveva sempre più forte, e la pioggia si riversava nell’acqua salmastra ruscellando sui ponti delle navi. Karl era zuppo, intriso d’acqua come una spugna; seguiva il passo veloce del ragazzino attraverso le strade che collegavano tra loro i vari magazzini del porto. Gli sembrava di essere in un labirinto, e il fragore del muro di pioggia rendeva scarsissima la visibilità, contribuendo a fargli perdere l’orientamento; non aveva idea di dove fossero e in mezzo a quelle strutture non vedeva più neanche il faro.
D’un tratto, i due sbucarono sulla banchina; Karl fu schiaffeggiato da una raffica di vento bagnato e gelido e si bloccò, imbambolato alla vista delle navi portacontainer scure ed enormi.
“Ehi, muoviti! Fa freddo, sono fradicio, andiamo!” gli gridò il ragazzino, e cominciò a correre in direzione del molo al termine del quale si ergeva il faro. Karl si riscosse e si precipitò dietro al ragazzo, arrancando lungo il molo scivoloso. Cercava di non guardare la massa di acqua nera che incombeva su di lui sia a destra che a sinistra, e di non pensare a cosa sarebbe potuto succedere se fosse caduto sugli scogli ricoperti di alghe viscide che costeggiavano il molo.
Quasi senza che Karl se ne rendesse conto, arrivarono finalmente davanti al faro. Karl, ansimando, poggiò la schiena alla porta di ferro e restò così, immobile, a riprendere fiato; poi guardò interrogativo il ragazzo, in piedi accanto a lui, per nulla provato da quella impetuosa corsa notturna. Cosa sarebbe successo, ora?
“Di’ un po’, ragazzino, e adesso? Non mi farai passare mica tutta la notte qui al gelo?” lo apostrofò Karl piuttosto seccamente.

“Mi chiamo Josef. Puoi chiamarmi con il mio nome, siamo quasi amici, adesso” rispose lui e, presa una vecchia chiave da sotto un masso, aprì la porta e sgattaiolò dentro, lasciando che il battente si chiudesse rumorosamente alle sue spalle.
Karl restò impietrito per qualche istante. Poi, furioso, cominciò a gridare.

“Ragazzino… Josef! Apri la porta! Dove diavolo sei andato?”
La pioggia continuava a infradiciarlo; prese a battere sulla porta e a strepitare improperi, tossendo e starnutendo. Finalmente, la porta si aprì.
“Ragazzino sciagurato! Mi prendi per il culo? Stai cercando di fregarmi? Adesso ti faccio vedere io!” ringhiò Karl alla figura all’entrata. Ma, a guardare bene, Josef non era solo. Accanto a lui c’era un uomo alto e massiccio, con barba folta e rossiccia come la criniera che aveva in testa. L’uomo gli parlò con una voce profonda e autoritaria, ma non minacciosa. “Modera i termini, amico. Questa tua aggressività non ci è gradita. Comunque, a mio figlio hai fatto simpatia. Mi ha detto che avevi bisogno di aiuto e non aveva tutti i torti, sembri piuttosto provato. Sali”. Senza dire altro, l’uomo si voltò e iniziò a salire la ripida scala di ferro. Karl sgusciò dentro mentre Josef gli teneva la porta aperta. Continuando a starnutire, si avviò per le scale stringendosi al petto lo zaino bagnato che conteneva i suoi pochi averi.

La scala portava ad un’unica stanza circolare, arredata con un divano di cuoio e due grosse poltrone; in fondo, c’erano un cucinino con un tavolo, e un bagno. La stanza era illuminata da una luce fioca ed era asciutta e priva di spifferi.
L’uomo accese il bollitore. Riempì tre tazze quando l’acqua fu calda e vi sciolse del caffè solubile. Aggiunse un cucchiaino di miele e un po’ di latte nella tazza che diede a Josef, e nelle altre due versò una generosa dose di brandy, tenendone una per sé e poggiando l’altra sul tavolo, davanti a Karl.
“Togliti quei vestiti zuppi e poi bevi qualcosa di caldo, ne hai bisogno. Lì c’è una tuta, è vecchia ma pulita. Puoi metterti quella” disse, indicando con il mento la porta scrostata del piccolo bagno.
Come un automa, Karl appoggiò lo zaino sulla poltrona e andò in bagno, dove iniziò a cambiarsi lasciando la porta socchiusa. Mentre si infilava i pantaloni di flanella (enormi, ci stava dentro due volte) vide con la coda dell’occhio l’uomo versare nella sua tazza quella che sembrava una polverina bianca, e mescolare. Si precipitò fuori gridando febbrilmente: “Che cavolo stai facendo? Vuoi avvelenarmi?”
Poi abbassò lo sguardo e vide una bustina aperta poggiata sul tavolo.
“È paracetamolo. Ti aiuterà” gli rispose l’uomo senza scomporsi.
Karl prese il bicchiere con mano tremante e si accasciò su una delle poltrone. Dalle finestrelle senza tende lungo tutta la parete vedeva il fascio di luce del faro che appariva e scompariva ipnoticamente.

“Dunque… sei davvero il guardiano del faro, e Josef è tuo figlio. Vivete qui?” chiese a un tratto Karl, nonostante l’imbarazzo e l’ambiguità della situazione.

L’uomo si lasciò andare ad una risata grave, poi disse: “Credo proprio che non si possa dubitare sul fatto che Josef sia mio figlio. Sull’essere guardiano del faro, invece… ormai sono anni che questo mestiere non esiste più. Sembra una definizione da figura mitologica. Adesso per la legge noi siamo operatori nautici”.

Poiché Karl lo guardava interrogativo, l’uomo continuò: “Anni fa il termine guardiano del faro aveva una sua ragion d’essere. Vivevamo nel faro, in simbiosi con il faro. La manutenzione era giornaliera e costante. Oggi con la tecnologia è cambiato tutto. Io e Josef abitiamo in città; veniamo qui un paio di giorni ogni settimana per la pulizia e i controlli ordinari. E da quando il carico di lavoro è diminuito, mi occupo di altri piccoli… affari, ecco, affari di vario genere giù al porto. Oggi, comunque, non avremmo dovuto essere qui. Sei stato fortunato”.

“Fortunato un corno. Sono quasi le cinque del mattino e non so ancora cosa diavolo fare” pensò Karl tra sé e sé. Fissò torvo un punto indistinto nell’oscurità oltre la finestra, ascoltando il borbottio del mare e il respiro pesante di Josef, che si era addormentato sulla poltrona accanto alla sua.

“Ti conviene dormire un po’ prima che faccia giorno” gli disse l’uomo.
Karl era nervoso e, allo stesso tempo, intontito dal miscuglio di liquidi e medicinali che aveva ingurgitato; inoltre, si stava così bene su quella comoda poltrona che la stanchezza prese il sopravvento e gli fece chiudere gli occhi.

Non aveva idea di quanto avesse dormito; dalla finestra vedeva che il cielo, in precedenza nero e senza stelle, si era leggermente schiarito all’orizzonte. Istintivamente allungò una mano verso lo zaino e lo strinse a sé. Subito fu agitato da qualcosa che all’inizio non comprese. Poi capì: lo zaino era aperto, leggero, e aveva una consistenza molle. Era pieno di fogli di giornale appallottolati. Karl si guardò intorno: nella stanza non c’erano più né i suoi vestiti né Josef e suo padre. Era solo e non aveva più la sua roba.

Si era fatto fregare! Povero illuso idiota che non era altro! Ma perché quei due truffatori avevano voluto approfittare proprio di un poveraccio come lui? Maledisse tutto, e si prese la testa tra le mani.
All’improvviso sentì dei rumori provenienti da sopra la sua testa. Scattò in piedi e percorse affannosamente le scale. Nella grande stanza a vetrate al piano superiore c’era la lampada del faro. Josef e suo padre erano lì e trafficavano vicino alle lenti. I suoi vestiti, il portafoglio, il passaporto e gli altri effetti personali erano allineati in bella mostra su un tavolino.

“Cosa…” sbottò Karl.

“Guarda, Karl! Si sta asciugando tutto per bene! Sono riuscito a stendere tutte le banconote e a non far gonfiare di umidità i fogli del passaporto!” esclamò Josef compiaciuto. “Dovrebbe essersi quasi asciugato anche lo zaino: i fogli di giornale assorbiranno tutta l’umidità!” Ancora una volta, Karl chinò il capo, affranto.

“Perdonatemi… io, ecco, credevo che volevate fregarmi. Non sono mai stato molto fortunato nella mia vita. E devo prendere quella nave per l’Australia, la devo proprio prendere a tutti i costi, capite? Ma non so come fare, maledizione!”
Josef guardò suo padre, che a sua volta fissò a lungo Karl con uno sguardo indecifrabile.

“Io non so chi tu sia, Karl, e non so da cosa fuggi e cosa devi andare a fare a tutti i costi in Australia. Ma non mi sembri un disgraziato”.
Karl alzò lo sguardo, speranzoso.
“Facendo i miei… affari giù al porto ho conosciuto molte persone interessanti” disse l’uomo calcando le parole affari e interessanti. “Spesso ci si scambiano favori. Ho tirato fuori dai guai e da situazioni ambigue parecchi operatori portuali. Di recente ho risolto una questione per Abel, un tale che si occupa dei servizi tecnici di bordo e del carico e scarico merci sulle portacontainer. E il caso vuole che questo tizio si imbarcherà come responsabile merci sul mercantile che parte stasera per Brisbane. Non credo avrebbe problemi a farti salire sulla nave come aiutante e a procurarti un visto, purché tu abbia un passaporto in regola e sia incensurato”.

Il corpo di Karl, infilato in quella tuta troppo grande, ebbe un sussulto. Abbozzò un sorriso patetico, passandosi la mano tra i capelli scompigliati.
Intanto si era fatto giorno; il cielo era coperto da uno strato plumbeo e pesante di nuvole, il mare era gonfio e grigiastro; una sottile pioggerella ancora persisteva e dava tutta l’idea che sarebbe durata l’intero giorno.

Josef e suo padre accompagnarono Karl da Abel, un tizio magro e di poche parole che comprese al volo la situazione. Si accordarono velocemente: in cambio di un posto sulla nave, Abel chiese solo che Karl aiutasse nelle attività di carico merci; una volta in Australia, sarebbe sparito dalla sua vista e avrebbe badato da solo a se stesso. Era più di quello che Karl aveva sperato.

“La nave partirà stasera alle nove. La chiave del faro è sempre nello stesso posto; quando avrai finito, torna al faro a riprendere i tuoi vestiti e le tue cose, che per il momento ti conviene lasciare lì. Buona fortuna” disse il padre di Josef a Karl, facendo poi un cenno di saluto con il mento; il ragazzino gli strinse solennemente la mano. Karl li salutò con un sorriso imbarazzato senza trovare le parole adatte. Li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano. Quando furono spariti dalla sua vista, quasi dissolti nella pioggia, gli sembrò assurdo che quei due fossero veramente esistiti e che gli avessero persino servito su un piatto d’argento la soluzione al suo problema. “Eppure sono qui, e staserà partirò!” pensò Karl euforico, e restò stralunato a fissare la gigantesca nave davanti a lui.

Si riscosse sentendo Abel che lo chiamava seccamente e gli indicava una pila di casse, e iniziò a caricarle in un container seguendo le sue indicazioni. Era un lavoraccio faticoso e Karl fu presto stanco, ma allo stesso tempo animato da un miscuglio di eccitazione e gratitudine; pertanto continuò a lavorare come un mulo e senza una parola di lamento fino al pomeriggio inoltrato, quando Abel gli comunicò concisamente che il lavoro di carico era terminato. Gli diede un pass per salire sulla nave e si voltò per andarsene, ricordandogli a mezza bocca di presentarsi puntuale alle otto e mezza. Karl era sfranto, ma si sentiva leggero e vagamente ottimista per la prima volta da giorni: nonostante tutto, si rendeva conto che una fortuita e fortunata serie di eventi lo stava portando sempre più vicino alla sua meta.

Arrivò al faro che era quasi buio. Salì faticosamente la scala di ferro fino alla stanza rotonda. Controllò che nel suo zaino ci fosse tutto e, cercando di ignorare il dolore alle braccia, indossò i suoi vecchi vestiti. Poi si sedette sulla comoda poltrona, dando ai suoi muscoli e alla sua mente la possibilità di rilassarsi.

“Potrei riposare un po’” pensò Karl, “mancano circa due ore all’appuntamento. Potrei chiudere gli occhi… magari solo per qualche istante…” e si assopì, cullato dal mormorio delle onde e dalla pioggerellina che ancora batteva sui vetri.

Si svegliò di soprassalto, con la gola secca e il cuore a mille. Si rese conto che a farlo sobbalzare era stato il suono lungo e grave di una sirena. L’orologio appeso al muro segnava le 20:27. Sentì il sangue defluirgli nelle vene. L’appuntamento era alle 20:30; aveva soltanto tre minuti per raggiungere la banchina, ma quella mattina ce ne aveva messi venti!

Si riscosse, deciso a non perdersi d’animo: non poteva mandare tutto in malora proprio adesso, cazzo! La nave non sarebbe partita che alle 21:00, del resto. Col cuore in gola afferrò lo zaino e si precipitò giù per le scale senza neanche metterlo sulle spalle, poi si lanciò lungo il molo come un forsennato. Ce l’avrebbe fatta, certo che ce l’avrebbe fatta! Poteva già vedere il profilo dell’enorme nave, era lì ferma che lo aspettava. Ci avrebbe messo meno di dieci minuti, pensò continuando a correre come un pazzo.

Forse, nella foga, Karl non vide la corda spessa ammonticchiata su un lato del molo, o forse le sue scarpe usurate avevano la suola troppo liscia per supportare un’altra corsa folle sul suolo bagnato. Quello che è certo è che all’improvviso Karl perse l’equilibrio e rotolò rovinosamente su quegli scogli scivolosi a lato del molo, battendo forte la testa su uno spuntone. L’ultima cosa che i suoi occhi annebbiati videro, prima di perdere conoscenza, fu lo zaino che galleggiava nell’acqua grigia sotto di lui.

Passò del tempo, Karl non seppe stabilire in effetti quanto, prima di rinvenire. Era buio e lui era di nuovo fradicio. Nonostante l’oscurità, poteva intuire in lontananza il nero profilo familiare di una nave mercantile, ormai irraggiungibile all’orizzonte.

foto di Ylanite Koppens da Pixabay




BETULLE di Valentina Pucillo

Racconto tratto dalla raccolta Voci Nuove 7 a cura di Daniele Falcioni

 

Lo so, tecnicamente oggi sarebbe il giorno 2. Ma ieri, quando sono arrivata, ero troppo stravolta anche solo per prendere in mano la penna. Il jet lag e il viaggio fino a qui nello scassone del tizio che è venuto a prendermi all’aeroporto di Novosibirsk mi hanno stremato. Penso di essergli sembrata alquanto scostante. Il tizio, che dovrebbe chiamarsi Andreas, in effetti mi ha accolto con un’espressione cordiale. Ha anche tentato di fare conversazione; mi pare che mi abbia detto che è tedesco, che è qui da circa sette anni e che si occupa di una fattoria. Ho risposto a monosillabi, non avevo alcuna voglia di starlo a sentire né di parlare. Del resto, non ho proprio nulla da dire a uno che passa le giornate in mezzo al fango in compagnia delle mucche. Comunque, la traversata verso questo posto dimenticato da Dio è stata allucinante. Appena usciti dalla città, siamo stati avvolti da un buio denso e profondo, che non ci ha abbandonati per quasi tutt’e due le ore di viaggio. Non avevo mai visto un buio così fitto. E anche davanti all’abitazione dove ci siamo finalmente fermati era tutto completamente nero, non c’era un lampione a pagarlo oro. Per fortuna Andreas ha acceso una specie di lumino cimiteriale sulla porta, altrimenti mi sarei persa prima di riuscire ad entrare. Nonostante fossi stanca morta, non sono riuscita a dormire quasi per niente. L’oscurità era così silenziosa e soffocante che mi sembrava di essere annegata in una boccetta di inchiostro. Non ci sono abituata. Il cielo di New York che vedo attraverso la vetrata della mia stanza pulsa sempre di mille suoni e luci colorate, come il soffitto di una immensa discoteca. Oddio, che angoscia. Non so se ce la faccio. Non so proprio come farò a resistere qui.

Mi chiamo Rebecca Molino. Sì, questo è il mio vero nome, ma ormai non lo ricorda più nessuno. Il nome con cui tutti mi conoscono è quello stampato in sottili caratteri argentati sulle copertine dei libri che ho scritto. Non starò qui a farmi pubblicità, quindi non dirò qual è. Sinceramente non avrei mai immaginato di poter avere tutto questo successo, anche perché le prime cose che ho scritto non sono andate molto bene. Non sono andate affatto, anzi. Scrivevo racconti molto intensi, secondo me. Un po’ onirici, con mille citazioni e rimandi, in cui sogno e realtà bene e male finivano sempre per confondersi, in cui nulla era definito e tutto era in continua trasformazione verso altre dimensioni. Erano pieni di metafore con cui cercavo di

7 marzo, 6:40, giorno 1

condividere le mie riflessioni sul mondo. Scrivevo anche poesie, mi piaceva tanto scrivere poesie. Mi rendo conto che, forse, sarei riuscita a interessare solo un pubblico di nicchia. Infatti mi sono vista sbattere tutte le porte in faccia. Non lo davo a vedere, ma i rifiuti mi avevano davvero scosso. Non tanto per il rifiuto in sé, quanto per le motivazioni: “Lei scrive molto bene, ma il suo stile è troppo elevato, i suoi contenuti sono troppo intellettuali, troppo difficili, non adatti a gente che compra un bel libro per rilassarsi e distrarsi”. Ma che motivazione sarebbe? Credevo che si leggesse anche per imparare, o per farsi delle domande, o per poter vedere le cose da un altro punto di vista. Per questo, per un lungo periodo ho chiuso nel cassetto i miei quaderni (sì, scrivevo ancora a mano) insieme al sogno di poter essere apprezzata come scrittrice.

Poi è accaduta una cosa. Una cosa squallida, miserabile, banale. Mi è successo che il ragazzo con cui condividevo le mie giornate e di cui ero follemente innamorata è volontariamente sparito senza preavviso e senza spiegazioni. Così, per esorcizzare il dolore, ho comprato un quaderno rosso e ho scritto una storia strappalacrime, con una protagonista bellissima e sfortunatissima che per mille coincidenze sembra destinata all’infelicità, ma viene poi soccorsa e salvata dall’affascinante riccone straniero, che la prende per mano e la conduce verso un lieto fine rosa confetto. Scontato, no? Forse anche un po’ sempliciotta come idea. Di certo neanche paragonabile, a mio avviso, allo spessore di quello che avevo scritto prima. Eppure si è dimostrata un’idea vincente! La mia vicina, grande amica di mia mamma, che mi vedeva sempre sul patio con penna e fogli in mano, mi chiedeva sempre di poter leggere quello che scrivevo. Mi restituiva sempre i miei quaderni con un sorriso gentile e frasi di questo tipo: “Davvero molto interessante”, oppure “Sei davvero brava, cara”. Ma quella volta è stato diverso. Era entusiasta, mi disse che l’avevo proprio trasportata nella storia e che si era sentita come se fosse lei la protagonista di quelle avventure. Io ero un po’ sconcertata; colpita da tanto entusiasmo, provai ad inviare il romanzetto ad un editore. Fu pubblicato e fu un successo! Forse perché la gente preferisce farsi trasportare senza pensare in sogni banali piuttosto che immergersi in riflessioni ed elucubrazioni mentali contorte e poco lineari?

Comunque, ho cavalcato l’onda. Che avreste fatto voi? Quel mio primo romanzo è stato pubblicato anche negli Stati Uniti d’America, e qualche tempo dopo sono stata contattata da una importante casa editrice americana che si occupa non solo di pubblicare romanzi e diverse forme di narrativa, ma anche riviste di vario genere. Ho colto la palla al balzo: sono scappata a gambe levate dal piccolo paese da dove vengo e sono andata a firmare un contratto bomba a New York, dove mi sono poi stabilita. Voglio bene ai miei amici, ai miei genitori, a tutti. E mi mancano! Ma non vedevo l’ora di scrollarmi un po’ di dosso la polvere della provincia. Ci

pensate? New York. Ho sempre pensato che è un posto dove tutto può accadere: grattacieli, luci, party, milioni di persone di ogni tipo, una possibile avventura dietro ogni angolo. Mi sono immaginata una vita sfavillante. La prima settimana avrò postato almeno 150 selfie scattati sul ponte di Brooklyn, davanti alle vetrine di Tiffany e perfino in un rooftop party, con tanto di espressione ebbra e un cosmopolitan in mano.

Nel tempo libero dalla vita mondana, dai giri di shopping e dalla mia immersione in quella che credevo fosse la vita da vera newyorkese, ho continuato a scrivere dei tormenti amorosi e delle avventure strappalacrime delle mie eroine e dei loro salvatori. Ogni volta inserivo qualche particolare nuovo e diverso: tutte variazioni sul tema per solleticare la fantasia dei miei fan, sempre lasciando tra le righe intuibili allusioni allo spumeggiante lieto fine, per non turbare troppo il loro sogno ad occhi aperti. Con immenso gaudio del mio editore! Che vi devo dire? I miei libri si vendono come l’acqua.

A volte, mentre scrivevo, mi è capitato di sentirmi chiedere da una sottilissima voce nella mia mente: “Ma tu lo compreresti questo libro, vedendo quella copertina o leggendo quel titolo?” Non credo di aver mai risposto. Qualche volta, di recente, mi è anche successa una cosa strana: guardandomi allo specchio, mi è sembrato di non riconoscermi. Cioè, la faccia era, ovviamente, sempre la mia, o quella della “nuova” me, quella col nome argentato, con i capelli più miele di prima e visibilmente freschi di messa in piega, ma… era una me stessa con cui io, Rebecca, non avevo molto in comune. Mi guardavo, concludendo che avrei tranquillamente potuto essere una delle bambolone dai grandi occhi sgranati che finiscono per domare e sposare… che so, il ricco influencer di cui raccontavo. Una con cui farsi sicuramente una foto molto cool, da far vedere agli amici, una a cui in passato non avrei davvero saputo cosa dire. Mi è capitato raramente, comunque, e non ho avuto proprio il tempo di starci a riflettere su. Comunque, stavo lavorando al mio nuovo libro. Il mio contratto con l’editore prevede l’uscita di un libro ogni due anni circa, e mancava poco tempo alla scadenza del termine per la consegna della prima bozza. Non ero arrivata neanche a metà, ma non ero per nulla preoccupata. Ho sempre fatto così: butto giù qualche idea, sprazzi di immagini che mi vengono in mente senza concentrarmi veramente, e poi scrivo tutto di gran corsa durante gli ultimi due mesi. Ha sempre funzionato. Fino al 25 febbraio. Come tutte le mattine in cui scrivo, mi sono svegliata prestissimo. Ho bevuto il mio solito bibitone di latte di soia e miscuglio iperproteico, soffermandomi a osservare le macchie di cielo pallido tra i palazzi dalla mia finestra al sedicesimo piano. I grattacieli grigi di Manhattan visti dall’alto, al mattino, quando ancora non sono illuminati, sembrano pistoni scuri e freddi di un immenso ingranaggio perfetto, che forse è esattamente quello che è questa città. Ho fatto una doccia bollente e mi sono seduta

davanti al computer di buona lena; ho aperto il file con il romanzo, ho riletto l’ultimo capitolo e poi… e poi niente. Non sono riuscita a scrivere nulla, quel giorno. E neanche il giorno dopo e quello dopo ancora. Ho cambiato la mia routine, ho fatto yoga, sono andata a correre a Central Park, ho ascoltato musica da meditazione. Ma niente: sono rimasta ferma al capitolo quattro.

Poi è arrivato il giorno in cui Anas Stacey, il mio editore, mi ha chiesto di inviare la bozza del romanzo. Per tutta la durata del nostro proficuo rapporto lavorativo, il sig. Stacey mi ha lasciato fare di testa mia, pretendendo solo una cosa: il rispetto delle scadenze. Quando ho visto la sua email di sollecito, cordiale ma ferma e diretta, mi sono gelata. “Oh merda” ho pensato, “questa è una catastrofe! E adesso?”

Ho traccheggiato per qualche giorno, cercando di prendere tempo ma, come era presumibile, Anas Stacey mi ha convocato con urgenza nel suo ufficio. Anzi, mi ha comunicato che “sarebbe stato lieto di vedermi quanto prima”. Pertanto, mi invitava a presentarmi “con cortese sollecitudine” presso il suo ufficio a Park Avenue, “per un illuminante scambio di opinioni”. Il che, detto da lui, vuol dire: “Devi essere qui entro mezzo secondo, e con più argomenti di quelli che contiene un’enciclopedia per spiegarmi il motivo per cui la bozza del libro non è ancora sul mio tavolo”.

Che dovevo fare? Sono andata. Ecco come è andata.
“Buongiorno, signor Stacey”.
“Buongiorno, Rebecca” mi risponde con un sorriso gentile e gli occhi gelidi. “Benché io sia lieto di vederla, noto con un certo stupore che il suo arrivo non è stato preceduto da un’email contenente la bozza del libro”.
Peggio di quello che pensavo.
“Ecco, vede, signor Stacey, io… io purtroppo non posso ancora presentare una versione definitiva . Ci sono dei punti che non mi convincono del tutto, quindi preferivo… mmm… fare degli aggiustamenti. Magari se potesse concedermi, soltanto per questa volta, un po’ di tempo in più…”
Il sig. Stacey si è alzato ed è andato verso la vetrata dietro alla sua scrivania. Mi ha fatto cenno di avvicinarmi. Io mi sono avvicinata. “Si è mai soffermata a guardare New York dall’alto?” mi ha chiesto, senza guardarmi. E ha proseguito: “Di giorno è tutto un pulsare, frenetico e armonioso allo stesso tempo. Mi ha sempre dato una grande energia. Ma di notte, ad un certo punto, la macchina si ferma, per qualche ora, per pochissime ore, anche il cuore della città rallenta. Serve una pausa per ricominciare con più grinta” ha detto lentamente. “Per questo ho pensato che anche lei abbia bisogno di staccare, di rallentare. Anche se non le abbiamo

mai imposto nulla ed è sempre stata libera di organizzarsi autonomamente, forse adesso è arrivata la necessità di evadere dalla routine, o di gestire diversamente il proprio tempo”. Oddio, vuoi vedere che forse per stavolta l’ho sfangata? Mi darà più tempo! Giuro che da domani farò lavorare il mio cervello a mille.

“Quindi, ecco cosa ho pensato. Le daremo un mese in più per terminare la bozza, che ci invierà completa al termine di questo periodo per dimostrarci che ha rispettato la scadenza, e avrà poi altri quindici giorni, durante i quali noi non la visioneremo, per eventuali variazioni o modifiche che riterrà opportuno fare. Questo mese, però, non lo trascorrerà a New York. Per rilassarsi, per cambiare aria, per solleticare la sua creatività, andrà a Bountiful come nostra inviata per la rivista Earth&Heart”.

“A Bountiful? La cittadina dello Utah?” ho chiesto, perplessa. In che modo questo potrà aiutare la mia creatività? Non c’è niente a Bountiful.
“No, Miss Molino. A Bountiful in Russia, sulle rive del fiume Ob. Non è una città vera e propria. È un ecovillaggio sorto negli anni Novanta. Questi ecovillaggi stanno diventando una vera e propria tendenza, si stanno espandendo un po’ ovunque. Voglio che lei vada a vedere com’è uno di questi ecovillaggi, come funziona, cosa fa la gente che ci vive; voglio un reportage per la nostra rivista. Le daremo i contatti di una persona che si è trasferita lì e che sarà il suo riferimento. Sa che il suo contratto prevede che possiamo chiederglielo” e, nel dirlo, si è voltato verso di me e mi ha fissato. “Mi pare una soluzione ideale per coniugare la sua necessità di evasione e le pressanti esigenze dell’azienda. Non trova anche lei?” ha concluso, con un sorriso a trentadue denti.

Ed eccomi qui. A Bountiful. In un cazzo di villaggio new age. E tra poco dovrò scendere al piano terra di questa… boh, baita, incontrare questi hippy sconosciuti e far finta di essere interessata alle loro idee e ai loro campi di patate.

8 marzo, 21:55, giorno 2

Sono stremata. Sono stati due giorni massacranti. Credo di non essermi stancata così tanto neanche quando ho partecipato alla maratona di New York. Beh, in effetti in quel caso ero lì più che altro per esigenze di marketing, e, più che correre, ho camminato pavoneggiandomi tra la folla. E dire che Andreas, stamattina, mi aveva detto che avremmo fatto solo un bel giro turistico, giusto perché mi ambientassi. Giro turistico un corno! Abbiamo marciato per ore, attraversato tutti i boschetti e i campi coltivati, perché era essenziale che io vedessi dove sono

piantate le patate, dove il sedano rapa, dove la segale e dove l’orzo. In più, l’aria è gelida, e nuvoloni scuri e pesanti mi hanno oppresso tutta la giornata. In alcuni dei campi più lontani dal fiume e sotto gli alberi, nelle zone più ombrose dei boschetti, c’è ancora la neve e non è per niente piacevole camminare sprofondando ad ogni passo. Le vie, invece, sono tutte sterrate, e per questo sono diventate un ammasso schifoso di fanghiglia sulla quale, ovviamente, non ho potuto evitare di scivolare un paio di volte, tanto per non farmi mancare nulla.

Abbiamo girovagato per tutte queste “strade”, che collegano le varie abitazioni. In effetti, ora che le ho potute osservare bene, non sono vecchie baite diroccate, come pensavo ieri. Ho scoperto che ce ne sono di due tipi: le isbe, abitazioni più rustiche che sembrano piccoli chalet di tronchi scuri, e le dacie, che sono come veri e propri piccoli castelli di legno, alcune dipinte e decorate con motivi tradizionali, davvero belle. Di queste, una cinquantina sono stabilmente abitate dalle famiglie proprietarie; le altre appartengono a persone che lavorano in città e che tornano durante il fine settimana o, se lavorano a Ordynskoe, la città più vicina, anche quasi tutte le sere. Ogni abitazione ha il suo terreno intorno, sul quale spesso c’è un boschetto di cedri siberiani e abeti che abbraccia la casa. Il villaggio stesso è circondato da un bosco di conifere. Sono alberi piantati negli anni dagli abitanti, quasi a voler creare una sorta di cinta muraria; la chiamano scherzosamente “la cinta alberaria”. Nei terreni di ciascuna abitazione ci sono poi un cortile, un orto e magari anche un pollaio o una stalla. Immaginavo che fossero tutti contadini. Certo è che qui si conoscono proprio tutti: Andreas si fermava ogni mezzo minuto a salutare chiunque e a chiacchierare. Ovviamente, io salutavo in inglese e ho provato a dire qualcosa di gentile, ma non ho ricevuto altro che qualche educato sorriso di circostanza. Probabilmente non sono in grado di capire la mia lingua, né Andreas si è messo a farmi da interprete. Comunque, mi sono sentita sopraffatta e intimorita dall’enormità degli spazi. A New York vivo in un appartamento di 50 metri quadrati, in un grattacielo accerchiato da altri palazzi enormi, così vicini che dalle mie finestre riesco a guardare la TV negli appartamenti di fronte. Qui ogni casa, invece, è lontanissima dall’altra e tutto sembra un’enorme distesa di qualcosa: i campi sono enormi distese di terra, i boschi enormi distese di chiome verdi, l’Ob è un’enorme distesa di acqua che serpeggia veloce. Andreas si è accorto che guardavo il fiume quasi in trance, come se l’acqua mista al ghiaccio che mi scorreva davanti agli occhi mi stesse ipnotizzando, e mi ha detto che il fiume ha questo effetto anche su di lui. Mi ha detto che quando è nervoso e deve riflettere su come risolvere i problemi va sulla riva a guardare il fiume. Che diavolo di problemi possa avere in un posto come questo, proprio non lo so. A parte questo, Andreas non mi ha raccontato molto di sé. In compenso, mi ha spiegato in modo estremamente dettagliato un sacco di cose sul villaggio. Probabilmente avrei dovuto ringraziarlo, visto che queste informazioni

saranno preziose per il maledetto reportage che devo scrivere per Anas Stacey, ma ad un certo punto mi girava la testa e, soprattutto, mi sembrava che mi stesse prendendo in giro. Ho avuto l’impressione che mi stesse raccontando una bella fiaba direttamente estrapolata dal manuale del perfetto adepto new age.

A quanto pare, questo villaggio, come molti altri in Siberia, si è popolato di gente che ha abbandonato le città, insoddisfatta della vita moderna e stufa del vortice casa-lavoro, della mancanza di tempo libero di qualità, delusa dallo spreco di tempo e denaro in passatempi e cose frivole e inutili. Qui vengono a cercare uno stile di vita più semplice, unicamente legato alla natura e allo sviluppo delle relazioni umane: si vive prevalentemente con quello che si riesce a produrre e si vendono prodotti tipici; con il denaro ricavato si acquista il poco necessario che manca. Sono rabbrividita quando mi ha detto che in altri villaggi manca l’elettricità. Per fortuna qui c’è! Passi il non poter avere guacamole o aragosta al burro per cena, perché non sono prodotti locali, ma dover vivere a lume di candela e non poter usare asciugacapelli e piastra, no! Non lo potrei sopportare.

Adesso me ne vado proprio a dormire. Per fortuna mi sono scongelata. Devo ammettere che la vecchia stufa a legna di ghisa riscalda la dacia alla perfezione, e il crepitio del fuoco è come una nenia rilassante.

9 marzo, ore 6:18, giorno 3

Mi sono svegliata con la luce del mattino che filtra attraverso le tende semichiuse, sentendomi bizzarramente frizzante. Ho spalancato la finestra e sono rimasta senza fiato, non solo a causa della folata freddissima che ha fatto irruzione nella stanza, ma soprattutto per il quadro che mi sono trovata davanti: un insieme mozzafiato di colori vividi e luccicanti di sole, il nero denso della terra dei campi, le varie sfumature verdi di abeti, pini siberiani, larici e poi l’erba fresca che spunta tra i mucchi di neve candida ammonticchiati qua e là e, in lontananza, la massa grigioazzurra dell’Ob. Oggi, secondo l’agenda di Andreas, dovremmo aiutare tali Ivan e Alyona a preparare il kvas, lo sbiten e la rjazhenka per lo spaccio del villaggio, e poi lo accompagnerò a vedere la sua stalla di mucche e capre. Spero vivamente che non mi tocchi passare il pomeriggio a spalare letame.

Bene, è ora di scendere. Francamente, ho l’acquolina in bocca se penso alla colazione con sbiten e un paio di bliny con la marmellata di lamponi. Quelli che Andreas ha preparato ieri erano davvero deliziosi.

Anche oggi finalmente è giunta l’ora di rannicchiarmi al caldo sotto le coperte. Per fortuna non patisco il gelo come all’inizio. Alyona mi ha regalato un paio di valenki e un cappotto di montone. Non avrei mai pensato di andare in giro, proprio io, con un cappotto di montone! Cioè, con una pecora addosso. Ma non avrei mai immaginato tante cose prima di arrivare qui. Credo di essere stata un po’ superficiale. E prevenuta. Che giornate, ragazzi! Avrei tantissime cose da scrivere, troppi pensieri mi turbinano nella mente. Negli ultimi giorni, però, sono stata troppo impegnata per farlo, e ora sono stanchissima, non potrei dare una forma decente a nulla di quello che mi gira in testa. Ho scattato migliaia di foto, comunque, e sono sicura che faranno ottimamente le veci di appunti scritti. Non appena avrò un secondo libero, inizierò a buttare giù qualcosa per il reportage. Ah, c’è anche da finire quel romanzetto! Per il momento non ho proprio tempo da perdere con quella sciocchezza; peraltro Veronika, l’artigiana che abita qui accanto, mi ha dato qualche ottima idea per lo sviluppo della trama: dovrebbe davvero scrivere qualcosa anche lei.

27 marzo, ore 15:00, giorno 21

Oggi, dopo quasi tre settimane, sono sola e ho del tempo libero. Andreas è dovuto andare all’improvviso a Novosibirsk con Ivan e Kuzja; staranno via un paio di giorni. Era piuttosto teso stamani prima di partire, mi ha accennato che dovevano incontrare alcuni funzionari governativi perché, da quello che ho capito, c’è qualche problema con la gestione del territorio, che rientrerebbe in un progetto del governo federale. Non mi ha spiegato bene, in effetti; sta di fatto che, nonostante io non lo conosca benissimo, non lo avevo mai visto così nervoso, addirittura quasi cupo. Non ho avuto occasione di chiedergli maggiori spiegazioni. Lo farò in un altro momento.

Tra poco devo vedere Ardja e Alyona per iniziare a preparare il pranzo prenotato dai quaranta turisti che verranno domani. Ebbene sì, in questo posto che sembra dimenticato da Dio vengono i turisti! Sono persone che vogliono rilassarsi, lontano dalle città, e vengono a godersi la quiete e la natura. Ma c’è anche chi viene a frequentare dei corsi di artigianato locale, cucina tradizionale, agricoltura biologica, tutti organizzati dalle persone che vivono qui. Mi sono sbagliata tantissimo su di loro, sono stata davvero superficiale: non sono rozzi illetterati come ho presuntuosamente dato per scontato all’inizio. È vero quello che diceva Andreas: la maggior parte sono professionisti, dirigenti, avvocati, medici, addirittura scienziati che sono venuti a

15 marzo, ore 22:00, giorno 9

cercare serenità e uno stile di vita più vero e naturale, lontano dalle città grigie. E vengono non solo dalla Russia e dalle pesanti città industriali della Siberia, ma anche dall’estero, come nel caso di Andreas. Ardja, per esempio, che qui sforna ogni giorno numerose pagnotte di delizioso pane di segale e altre bontà fragranti per gli abitanti del villaggio e per i turisti, faceva la dentista a San Pietroburgo; Ivan era un medico, e continua ad esserlo in caso di necessità, ma questo non gli impedisce di gestire lo spaccio con sua moglie Alyona; Veronika è una artigiana ex insegnante, che oltre a realizzare oggetti tradizionali in cuoio, oppure abiti e accessori ricamati su ordinazione, gestisce una piccola scuola per i bambini del villaggio, che sono parecchi! Lo stesso Andreas era capo dell’ufficio presso la filiale di New York di una importante banca tedesca. Poi si è stufato del mondo marcio e superficiale che spesso gira intorno ai soldi ed è venuto qui, si è impegnato e ora ha la sua fattoria. Nel villaggio parlano quasi tutti perfettamente in inglese, pertanto non ho avuto difficoltà a fare amicizia, soprattutto una volta chiarito che non sono una funzionaria governativa di Novosibirsk, come molti pensavano all’inizio: me lo ha confessato Ardja. Ecco perché mi trattavano con freddezza e diffidenza, cosa che deve avere qualche relazione con quello che è andato a fare Andreas oggi in città. Anzi, quando hanno scoperto che avrei scritto un reportage sul loro stile di vita sono stati loro stessi a coinvolgermi in ogni attività perché potessi sperimentare in prima persona prima di scrivere.

Ho imparato a fare e ad apprezzare il borsch e i meravigliosi pelmeny, e le bevande tipiche. Ho impastato chili di farina di segale e ho fatto lezione di inglese ai bambini della scuola di Veronika. Ho munto le mucche e raccolto le uova delle galline al mattino presto. Ho scoperto cose che non avrei mai pensato potessero interessarmi né tantomeno essermi utili, come ad esempio saper distinguere i semi o usare specifiche tecniche per una gestione sostenibile e biologica dell’agricoltura. Ho imparato ad accendere il fuoco. Ho cantato, la sera attorno al fuoco, canzoni tradizionali imparate al mattino, insieme a una quindicina di altre persone brille come me di kvas fatto in casa, che mi prendevano bonariamente in giro per la mia pessima imitazione dell’accento russo. E tra un sorso di kvas e uno di kompot, che ci crediate o no, grazie alle idee di Veronika sono riuscita anche a finire il romanzo che tanto aspetta Anas Stacey.

Mi sembra che queste persone siano… ecco, in realtà non so come definirle. Forse concrete, reali, dense. E positive! Hanno dentro un concentrato di conoscenze e continua voglia di imparare, di valori e calore umano. Del resto, loro credono davvero in quello che fanno e sono convinte che se questi valori si diffondessero sarebbe tutta l’umanità a goderne. È vero, non si può negare che sia un atteggiamento un po’ hippie. Ma a viverlo dall’interno non sembra

qualcosa di artefatto o utopistico. Sembra una vita vera, in cui quello che si fa in condivisione dà un senso ed uno spessore alle giornate. E infatti sono tornata a casa ogni sera stanca morta, stordita, a volte sporca di fango, ma sempre molto soddisfatta, come non mi sentivo da tanto tempo. E guardando allo specchio la mia immagine con la ricrescita tra i capelli, le guance rosse di freddo e spesso sporche di fuliggine, mi è sembrato di vedere una Rebecca più vera. Oddio, sembra che io stia scadendo nel sentimentale. Ho un sacco di cose da fare, è meglio che vada!

28 marzo, ore 11:00, giorno 22

Scrivo direttamente da questa radura, ancora in preda ad una forte emozione. Ero sola in casa; i turisti dovrebbero arrivare verso mezzogiorno e ci sarà parecchio da fare; per questo stamattina avevo deciso di andare a fare una camminata prima che arrivassero. Sono stata fortunata: nel mio periodo di permanenza qui c’è stato quasi sempre stato il sole. Qui la luce ha una sfumatura particolare, che ti fa venire voglia di stare all’aria aperta, nonostante il freddo, tutto sommato abbastanza sopportabile in questo periodo: non ci sono i trenta gradi sotto zero dell’inverno, e io mi sono quasi abituata. Così ho preso il taccuino di cuoio che mi ha regalato Veronika e ho iniziato a vagabondare senza una meta precisa, dirigendomi verso il bosco a est. Mi sono allontanata parecchio dalla zona abitata, inoltrandomi tra i cedri e gli abeti dove in precedenza non mi ero mai spinta; poiché gli alberi non erano così fitti da impedirmi di vedere il cielo e, alla mia destra, in lontananza sentivo il mormorio rassicurante del fiume, ho continuato ad andare avanti. All’improvviso sono sbucata in un boschetto di alberi a me familiari, radi e alti, ancora completamente spogli ad eccezione di qualche sporadico accenno di gemme precoci qua e là. I tronchi sottili ed eleganti spiccavano nel verde dell’erba in tutto il loro candore quasi argenteo, come lunghe braccia protese a toccare il cielo di un azzurro intenso. Betulle! Un meraviglioso boschetto di betulle, non le vedevo da anni. In un istante mi è tornato in mente un ricordo lontanissimo, sepolto da qualche parte nella mia memoria. Avrò avuto forse quattro anni e giocavo con mio nonno, che viveva in un paesino in Piemonte, nel boschetto dietro la sua vecchia casa. Ad un certo punto mi persi e, come ora, mi ritrovai in uno spiazzo erboso pieno di betulle. Nonostante fossi sola e in un posto che non conoscevo, mi sentii in un luogo amico, protetta; mi sdraiai per terra a guardare la forma delle nuvole e le tacche scure sui tronchi, e attesi. Ero felice. Mio nonno mi trovò poco dopo e dimenticai rapidamente l’episodio. Fino ad ora. Mi sono seduta su un masso muschioso e ho iniziato a piangere, commossa. Questo scenario così semplice ma potente, di una purezza indescrivibile,

mi ha dato un’emozione violenta, e non solo per il ricordo; mi sono sentita in un luogo sacro e magico. E perfetto.
Ma adesso è quasi mezzogiorno, è tardi. Prima che mi trasformi in una vera figlia dei fiori, sarà meglio che torni verso lo spaccio.

30 marzo, ore 21:00, giorno 24

Che giornata di merda. Che schifosissima giornata di merda! È proprio vero che le cose ti cadono fra capo e collo quando meno te lo aspetti e tutto si può ribaltare da un momento all’altro. E ancora devo capire esattamente la portata di quello che sta succedendo, anche se a grandi linee mi è chiaro che si tratta di un disastro.

Da stamattina è piovuto ininterrottamente. La giornata è iniziata male fin da subito, quando mi sono accorta che la legna per la stufa si era bagnata. Un senso di malessere non mi si spiccicava di dosso, neanche mentre aiutavo Alyona a sistemare lo spaccio. Anche lei era piuttosto silenziosa e c’era una strana ansia sospesa. Verso le sei, il dramma. Sono tornati Andreas, Ivan e Kuzja, sono entrati nello spaccio con delle facce scure, feroci. Alyona ha fatto cadere un sacco di farina e ha fissato Ivan; lui ha annuito con sguardo grave e lei si è accasciata su una sedia. Io non stavo capendo nulla, ma non osavo chiedere, c’era troppa elettricità nell’aria. A un certo punto Andreas è sbottato, rosso in viso, e aveva una vena sul collo che sembrava sul punto di scoppiare. “Hanno deliberato in via quasi definitiva l’esproprio delle terre. Senza consultarci, senza avvisarci, senza dirci un cazzo! Ci hanno tenuti buoni facendoci credere che stavano valutando le soluzioni alternative che avevamo proposto, e invece se ne sono fottuti e sono andati avanti con il progetto originario. Ci hanno presi per il culo! Hanno fatto tutto in sordina, e con la scusa che i provvedimenti sono pubblici non si sono mai degnati di notificarceli; e adesso che il primo progetto è stato approvato, non possiamo neanche presentare formalmente quello alternativo”. Dopo aver detto queste parole è uscito sbattendo la porta. L’ho visto fuori che tirava calci ai sassi mentre si dirigeva verso le rive dell’Ob. Kuzja e Ivan, invece, si sono seduti e hanno cominciato a ingollare un bicchiere dopo l’altro di vodka, cosa del tutto inusuale per loro, parlando sottovoce in un russo feroce. Io continuavo a non capire, ma Alyona mi ha fatto cenno di andare, sussurrando che ci saremmo viste domani. E ora sono qui, con questa angoscia che non mi lascia. Andreas non è ancora tornato.

31 marzo, ore 12:00, giorno 25

Stamattina Alyona e Ivan sono venuti a casa di Andreas. Quando hanno bussato alla porta lui stava ancora dormendo, quindi mi sono precipitata ad aprire sperando che mi spiegassero cosa diavolo stesse succedendo.
“In poche parole” mi ha detto Ivan, “quattro anni fa siamo stati convocati a Novosibirsk dai funzionari federali, i quali ci hanno spiegato che stavano avviando un progetto per l’apertura di una discarica proprio da queste parti, necessaria per servire l’Oblast di Novosibirsk. Capisci? Una discarica del cazzo in un ecovillaggio, nel bel mezzo di un territorio regolarmente occupato dai proprietari degli appezzamenti che formano un ecovillaggio”.

“Qui? Scusami, scusami davvero, non capisco. Siamo in Siberia, santo cielo! Ci sono milioni di ettari di terreno libero dove potrebbero scaricare le loro tonnellate di immondizia! Senza contare che ci sono altri modi più ecologici per la gestione dei rifiuti, oggi!”
“Esatto, è quello che abbiamo detto anche noi. Eravamo basiti, anche perché il governo sa che cosa c’è qui, conosce benissimo la nostra attività. Ma non ci siamo persi d’animo e non siamo certo rimasti con le mani in mano. Tramite le nostre conoscenze e quelle di ex colleghi e amici con le giuste competenze, abbiamo individuato almeno altri due siti che avrebbero potuto utilizzare a quello scopo. Abbiamo preparato dei dossier, abbiamo consultato aziende, anche straniere, che si occupano del riciclo dei rifiuti e della raccolta differenziata. In poche parole, abbiamo fatto il fottutissimo lavoro che avrebbero dovuto fare loro prima di prendere qualsiasi decisione scellerata, e abbiamo consegnato loro tutto in via informale per un esame preliminare”.

“E le vostre proposte sono state rifiutate?”
“No! O meglio, non immediatamente e non in modo diretto. A seguito di numerose richieste di riscontro da parte nostra, dopo circa tre mesi siamo stati ricontattati, ci è stato detto che i nostri studi erano al vaglio di una commissione specializzata in materia e che, per il momento, il progetto della discarica in questo territorio sarebbe stato sospeso”.
“E poi non vi hanno fatto sapere più nulla, immagino”.
“Esattamente. Ed è passato un anno, e poi due; e le rare volte che io o Kuzja siamo capitati a Novosibirsk e abbiamo provato a fissare un appuntamento con i funzionari, ci veniva risposto che non era possibile e che, comunque, non era in fase di valutazione alcun progetto per la realizzazione di discariche in questa zona”.
“Quindi vi siete messi l’anima in pace”.
“Proprio così. Pensavamo che l’idea fosse ormai morta e sepolta; pensavamo, da stupidi ingenui, che tutto il nostro impegno fosse servito a qualcosa, che avessero valutato altre opzioni. E invece non le avevano neanche prese in considerazione! A quanto pare, il progetto

si bloccò a suo tempo per motivi economici che riguardavano principalmente la gestione degli appalti, e non perché si fossero degnati di considerare le nostre osservazioni, il nostro punto di vista. Adesso che si è sbloccato tutto hanno fretta di chiudere, perché a quanto pare la realizzazione di questa maledetta discarica è una priorità improrogabile. Quello che mi fa incazzare è che hanno rimandato per quattro anni a causa delle loro sporche questioni di soldi, ma non hanno voluto investire altro tempo per far valutare alla commissione le nostre proposte; si sono limitati a tirare fuori dal cassetto il progetto inizialmente predisposto da quegli ignoranti che rubano i soldi di tutti e hanno approvato quello, che aveva già superato l’esame delle formalità previste”.

Ed ecco la terribile verità, piombata fra capo e collo. Da quanto ho capito, si potrebbe fare opposizione davanti a non so quale tribunale, ma ci vorrebbero soldi e anni, e non è detto che nel frattempo i lavori vengano bloccati. Il problema non è solo quello dell’esproprio di alcuni dei terreni a cui accennava Andreas ieri. Il punto è che, se davvero nelle vicinanze venisse realizzata una discarica, a causa dell’inquinamento del terreno e dell’acqua, oltre ai pesanti disagi derivanti da un mastodontico ammasso di tonnellate di rifiuti nelle vicinanze, l’ecovillaggio morirebbe, e con esso anche i sogni e i sacrifici delle persone che lo abitano attualmente.

Oggi è una giornata nera. L’amarezza nello sguardo e nelle parole di Ivan mi ha lasciato dentro un senso di vuoto e di desolazione. Andreas si è scusato, ha detto che vuole stare solo, ed è uscito per andare alla stalla. Anche Alyona è stata un po’ distaccata, non mi ha invitata per un ivan-chai allo spaccio. Non ci resto male: del resto io, per quanto possa essermi affezionata a questo posto, sono comunque un’estranea che andrà via tra cinque giorni. Li capisco, per questo li ho lasciati in pace. Peraltro io stessa non ho molta voglia di fare nulla né di vedere nessuno, oggi.

4 aprile, ore 11:00, giorno 28

È come se il tempo si fosse fermato. Mi sembra assurdo che continui a scorrere e che domani io ripartirò. Gli ultimi giorni sono stati orribilmente irreali; sembriamo tutti fantasmi che si muovono in un incubo. Eppure, è tutto vero. È vera la notifica dell’approvazione definitiva del progetto, è vera la cenere che volteggia nell’aria ad ogni folata di vento, e sono veri i grossi pezzi dei tronchi bruciati che ancora fumano.

Due giorni fa, dopo un’altra giornata strascicata, io e Andreas stavamo cenando in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. All’improvviso il riflesso rossastro della stufa sulle pareti

è sembrato farsi più intenso, in modo del tutto anomalo. Ci abbiamo messo qualche minuto a capire che i bagliori venivano da fuori. Solo allora abbiamo sentito le grida e ci siamo precipitati nel cortile. E, con orrore, abbiamo visto: laggiù, a poche miglia da noi, la cinta alberaria bruciava. Fiamme rosse e alte ovunque, anche il cielo era diventato rosso e si rifletteva nelle acque del fiume. Un incubo. Andreas è letteralmente impazzito, ha cominciato a correre verso la foresta gridando cose senza senso, gridando che erano stati loro che avevano appiccato il fuoco per annientare l’ecovillaggio, per distruggerlo e levarsi di torno i loro abitanti. Per fortuna Kuzja lo ha bloccato. Non so se qualcuno abbia chiamato i soccorsi da Ordynskoe o se siano accorsi da soli; non so quando siano arrivati, non so quanti piccoli aerei ho visto passare avanti e indietro per riempire e vuotare i serbatoi di acqua, non so per quanto tempo è andato avanti l’incendio. So solo che per ore, forse anche per tutto il giorno dopo, siamo rimasti tutti in strada, allucinati come zombie, incapaci di staccare gli occhi da quello spettacolo maledetto. La cinta alberaria è praticamente distrutta, migliaia di alberi sono carbonizzati. Dove c’era il boschetto di betulle ora c’è solo un mucchio di terra nera e cenere grigia; la perfezione non esiste più. Stanno ancora cercando di capire quali siano state le cause di un incendio di così grandi proporzioni, un incendio così strano, soprattutto in questo periodo. E io domani devo ripartire. Devo preparare la valigia.

25 aprile, New York

Ho consegnato il romanzo entro la scadenza. Non ho preparato, invece, il reportage. Francamente, dopo tutto quello che è successo non sono riuscita a scrivere un articolo leggero e allegro, come invece mi era stato richiesto. Ho avuto l’idea di inviare gli appunti del mio diario e le foto che avevo scattato, come se fosse quello il reportage. Anas Stacey mi ha telefonato, era estremamente contento del romanzo e anche soddisfatto del materiale su Bountiful: ritiene che ce ne sia abbastanza per scrivere un bell’articolo, precisando tuttavia che verrà “tolta ovviamente tutta l’ultima parte. Questi toni drammatici non ci interessano, la nostra rivista deve far divertire il lettore, lo deve allietare, non angosciarlo con questioni morali, ambientali, politiche”. E poi, con un freddo tono di sufficienza che mi ha nauseata, ha aggiunto: “L’articolo lo scriveremo sugli ecovillaggi in generale in Russia, eh? Visto che forse Bountiful a breve non non ci sarà più. Ok?”

Un paio di giorni dopo sono andata da lui, in ufficio. Gli ho detto che mi prenderò due anni di pausa, nei quali non scriverò per loro nessun romanzo. Gli ho detto anche che avrei rinunciato ad una piccola parte dei diritti sull’ultimo romanzo pubblicato. Ho specificato che al termine

di questi due anni deciderò se riprendere o no i rapporti con la casa editrice. “Del resto, è una delle opzioni. Sa che il mio contratto prevede che io posso farlo” gli ho detto, guadandolo dritto negli occhi. Ovviamente è rimasto basito, ma non ha potuto controbattere. Me ne sono andata senza dargli il tempo di replicare. Avrà pensato che sono impazzita, ma non me ne importa nulla. Non ho alcuna intenzione di scrivere l’ennesimo romanzo sdolcinato e uguale a tutti gli altri, per ora. Questo non significa che io voglio smettere di scrivere, anzi! Ho voglia di raccontare altre storie.

Apro un nuovo file di testo sul mio computer. E scrivo:

BETULLE

Della cinta di alberi alti e imponenti che circondava il villaggio non è rimasto più nulla. Uno spesso strato di cenere ha ricoperto…

 

 

Valentina Pucillo, Betulle, in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2020, pp. 207-224.




Raccolta di racconti e poesie: Voci Nuove

Lavoro finale del corso di scrittura creativa di Daniele Falcioni

Quando la mia amica Silvia mi ha portato il suo regalo di Natale si capiva fosse un libro, ma non capivo quel sorriso sicuro che le illuminava il viso «Questo non c’è nella tua libreria, contaci!» e solo dopo averlo scartato ho gioito e compreso: il libro in regalo è l’ultimo volume Voci Nuove edito da Rapsodia Edizioni uscito a dicembre.
Non poteva farmi regalo più bello, perché nel libro ci sono anche i racconti e le poesie a firma Silvia De Felice.

Voci Nuove volume 7 è una raccolta di racconti e poesie frutto di un anno di duro lavoro di otto autrici che seguono da alcuni anni il corso di scrittura creativa di Daniele Falcioni ad Aprilia.
Un lavoro certosino, fatto di idee, tagli, revisioni, fogli accartocciati, cancellature e frasi trasportate da pagina in pagina che si è svolto da remoto, visti i provvedimenti di distanziamento dovuti al Covid-19 e anche perché il loro docente è insegnante di Lingua Italiana all’Università di Edimburgo.

Incisiva e toccante la prefazione al libro del docente Falcioni il quale, prendendo a prestito le parole di Gottfriend Benn, afferma come durante quest’anno lui, insieme alle sue autrici

 

Abbiamo vissuto qualcosa di diverso, pensato qualcosa di diverso da ciò che ci aspettavamo, e ciò che rimane è qualcosa di diverso da ciò che avevamo in mente

 

Ho avuto il piacere di leggere i racconti di Silvia De Felice quando ancora erano in fase di revisione ma la forza della sua capacità narrativa è così insita nelle parole utilizzate che, leggendoli ora inseriti in un libro, mi hanno fatto dimenticare completamente chi fosse l’autrice spingendomi ad arrivare fino in fondo ad ogni racconto catturata dal ritmo incalzante.
Ha prevalso il testo rispetto al legame e credo che questo sia quanto di più bello possa sentirsi dire chi scrive per il puro piacere di creare storie, perché non conta chi sia a narrarle ma la capacità che hanno le parole di far viaggiare il lettore.

Ho amato il profondo senso di amicizia tra Elisabeth, Arthur e John in “Adagio” e sono rimasta piacevolmente catturata dall’energia di “Avventura di un’estate” mentre non oso dare un giudizio sulle poesie inserite nel volume in quanto considero l’arte della poesia come qualcosa di estremamente personale, capace di innalzare l’animo o di passare senza alcun smottamento interiore in relazione allo stato emotivo del lettore.

Ci tengo a inserire i nomi di tutte e otto le autrici del volume in ordine alfabetico: Laura Avati, Martina Belvisi, Meri Borriello, Ninni Caraglia, Cristina Cortelletti, Silvia De Felice, Valentina Pucillo e Silvia Zaccari.

Voci Nuove è volume che merita di essere letto per la grande capacità narrativa delle autrici, ciascuno con un proprio stile e, proprio per questo, capaci di soddisfare e di raggiungere il cuore di diversi tipi di lettori.

Voci Nuove è disponibile nelle librerie di Pomezia e Aprilia e mi auguro che presto possa esserci l’occasione di una bella presentazione in presenza.




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Tortellini

di Valentina Pucillo

tratto da Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

“Quest’anno quanti ne facciamo? L’anno scorso erano davvero pochi” disse Maura con un sorrisetto ingolosito sul viso.
“Io ne ho calcolati una cinquantina per persona: per un piatto abbondante ne servono circa trenta, e con cinquanta viene fuori anche il bis per tutti” rispose zia Claudia mentre spargeva la farina sulla spianatoia. “Anche perché, a parte questi in brodo, il lesso e le verdure, io e Antonia abbiamo deciso di non preparare altro. Ci sono anche tutti i dolci. Altrimenti poi finisce che mangiamo troppo come tutti gli anni” continuò, prendendo l’impasto della sfoglia e iniziando a stenderlo col mattarello.

“È sufficiente il ripieno? Mi sembra poco, considerando che domani ci saranno anche altri ospiti. Dovremmo farne almeno 700” disse preoccupata nonna Mimì, che temeva sempre che il cibo non fosse sufficiente.
Il grande tavolo del tinello era allestito per l’occasione. Una tovaglia incerata era stesa su tutta la superficie per evitare che il legno scuro si rovinasse. Sopra c’erano la spianatoia, il recipiente contenente il ripieno profumato di mortadella e noce moscata, e svariati vassoi coperti da strofinacci candidi, incastrati con i bordi l’uno sull’altro, pronti ad accogliere le file ordinate di tortellini che tutta la famiglia, come ogni anno nel pomeriggio della vigilia di Natale, stava preparando per il pranzo del giorno dopo.

“Sòrbole, Claudia, tirala più sottile quella sfoglia, eh! Mario, mescola mo’ quel ripieno che lo vedo un po’ grumoso”: come ogni anno, forte delle sue origini emiliane, zio Paolo dispensava consigli e perle di saggezza a destra e a manca con il suo marcato accento bolognese.
La ripartizione dei compiti era più o meno sempre la stessa. Zia Claudia, avendo acquisito dal marito quel tanto di bolognesità che bastava, preparava e stendeva la sfoglia quasi come una perfetta sfoglina e tagliava i quadrelli di pasta delle giuste dimensioni; “Piccolini! Il vero tortellino deve essere grande come una moneta da venti centesimi!” continuava a ripetere zio Paolo fino allo sfinimento; Antonia, la sorella, insieme ai figli Maura e Valentino, era addetta alla preparazione del ripieno, a porzionarne la giusta quantità nei quadrati di pasta e a chiudere questi ultimi su sé stessi per formare i triangoli; zio Paolo e il cognato Mario, i due ‘precisi’ della famiglia, avevano il compito di sigillare i triangoli bagnando leggermente i bordi e di dar loro la tipica forma del tortellino ripiegandoli attorno al dito. Il tutto era supervisionato da nonna Mimì che, forte dell’immunità ai rimproveri datale dai suoi ottant’anni, danzava da una postazione all’altra, metteva le mani ovunque e pasticciava senza che nessuno avesse il coraggio di dirle nulla.

La famiglia Brambilla era molto unita; tuttavia, per qualche scherzo del destino, ognuno dei componenti aveva scelto di stabilirsi in posti piuttosto lontani l’uno dall’altro. Non erano quindi molte le occasioni in cui la famiglia Brambilla riusciva a riunirsi. Per questo il Natale tutti insieme nella casa dei nonni, con annesso il rito di preparazione dei tortellini, era un appuntamento che nessuno aveva mai messo in discussione. Intorno a quel tavolo del tinello si creava sempre un’atmosfera armoniosa. Claudia, che con movimenti sicuri preparava la pasta da riempire, ciarlava allegramente con Antonia e Mimì di parenti, storie del paese e ricette. I bisticci tra Valentino e Maura sui reciproci stili di vita sembravano quasi addolcirsi grazie all’odore denso del brodo di cappone che, sobbollendo in cucina per ore, li accompagnava durante tutta la preparazione dei tortellini.

Anche i due cognati, che normalmente non facevano che stuzzicarsi, in quell’occasione sotterravano l’ascia di guerra, concentratissimi sulle operazioni di chiusura della pasta; uno sguardo attento avrebbe comunque percepito una sorta di sfida silenziosa su chi dei due riuscisse a formare il maggior numero di tortellini chiusi a regola d’arte. A rallegrare la laboriosa famiglia c’era la sempre presente televisione che strepitava a tutto volume, spesso sintonizzata da nonno Giulio su affascinanti programmi di interesse generale quali, ad esempio, documentari sugli gnu.

Quel pomeriggio nonno Giulio era di umore variabile. Dopo aver imposto a tutti una mezz’ora di televendite di utensili da cucina di discutibile utilità, aveva di botto abbassato il volume della televisione e si era accomodato intorno al tavolo con gli altri, osservando la scena con espressione arcigna. Sembrava interessato a studiare la preparazione della sua portata preferita del pranzo di Natale. Aveva scelto una sedia a capotavola in posizione strategica, proprio davanti ai vassoi che iniziavano a riempirsi di tortellini; non appena gli altri si distraevano, il buon vecchio Giulio ne rubava qualcuno con movimenti fulminei e lo ingoiava crudo con colpevole voluttà.

Tutti lavoravano in silenzio, concentrati, essendo generalmente difficile chiacchierare a causa del baccano della televisione.
“Ma che silenzio stasera! Perché non mettiamo un po’ di musica?” chiese Maura rendendosi conto che il rimbombo della televendita era cessato.

“Sì, dai, passami lo zaino, ho un cd di etno marocchina che mi ha regalato Karima” ribatté subito Valentino, sempre voglioso di condividere le sue passioni con chiunque gli capitasse sotto tiro.
“Veramente pensavo a qualcosa di allegro, magari canzoni che conosciamo tutti e che possiamo canticchiare insieme” replicò seccata Maura, fulminando il fratello con lo sguardo. “Allora dovremmo cantare Nilla Pizzi, se teniamo conto dell’età di qualcuno intorno a questo tavolo, oppure tormentoni estivi idioti, se teniamo invece conto della cultura musicale di qualcun altro sempre intorno a questo tavolo” rispose Valentino, sostenendo ironico lo sguardo della sorella.

La discussione venne subito zittita da zio Paolo che, con un veloce click, fece partire uno dei suoi pezzi preferiti di musica classica, un requiem di Mozart.
“Allegro si era detto, eh? Qua mi pare il festival delle melodie d’oltretomba” mugugnò Mario guardando il cognato di sottecchi.

“E piantala di essere sempre polemico, diamine!” ribatté Antonia dando una gomitata al marito, cercando di capire se la sua lamentela fosse stata sentita da Paolo e Claudia.
Nonno Giulio ascoltava impassibile ma divertito i vari battibecchi; sentendosi piuttosto invisibile afferrava, ormai spudoratamente, un tortellino dopo l’altro e se li infilava meccanicamente in bocca. I suoi movimenti, per quanto scaltri, vennero tuttavia intercettati dall’occhio di falco di Mimì.

“Giulio! Ma tu guarda che disgraziato, questi sono per domani! Quanti ne hai mangiati già?” inveì nonna Mimì contro il marito, mettendosi le mani tra i capelli con fare angosciato. “Non hai nemmeno preso la pasticca! Adesso basta, tornatene a guardare la televisione!”
Non gradendo che l’attenzione di tutti fosse ormai su di lui, e ritenendosi probabilmente soddisfatto della scorpacciata, nonno Giulio assunse un’espressione di infastidita dignità e si accinse ad alzarsi dalla sedia per tornare alla poltrona davanti alla televisione. Per aiutarsi appoggiò con una certa foga entrambe le mani sul bordo del tavolo, che coincideva con il bordo di uno dei vassoi ormai stracolmi di tortellini. Ci fu un effetto domino al contrario: volo di vassoi, pioggia di tortellini che rotolarono ovunque, sotto il tavolo, sul pavimento impolverato, sotto i mobili. Intorno alla tavolata, tutti ammutoliti. Nel caos generale restarono sul tavolo solo tre tortellini, nascosti sotto uno strofinaccio. Nonno Giulio, ormai in piedi, li intercettò prontamente e li mangiò prima di tornare alla sua poltrona.