Il Ponte delle spie

Locandina del film

Locandina del film

Un uomo dipinge placido, guardando la vita che scorre sotto la finestra del suo appartamento di Brooklyn. Sembra un personaggio di nessun interesse, eppure quello è Rudolf Abel, è una spia sovietica in seno agli Stati Uniti nel periodo più buio della storia del mondo post guerra mondiale: il 1959. L’arresto sarà eclatante e dato in pasto ad un’opinione pubblica terrorizzata e già addestrata ad una possibile guerra atomica. Inizia così “Il ponte delle spie”, ventinovesima pellicola nata dal genio di Steven Spielberg. Il “Re Mida” del cinema di fine secolo ritorna in quella che sembra la prosecuzione amara del suo “Salvate il soldato Ryan” datato 1998. Alla fine di quel film, alla fine della II° Guerra Mondiale, il sacrificio di Ryan e di tutti quei soldati morti per liberare l’Europa dal nazismo sembrava aver portato il ristabilimento della pace assoluta tra i popoli, eppure, solo dopo 15 anni tutto sembra sull’orlo del precipizio, con in più la minaccia nucleare.

Rudolf Abel, la spia, viene dunque incarcerato, non collabora, non parla. Come tutte le spie. E mentre tutti ne chiedono a gran voce la pena di morte, la Corte Federale concede la difesa d’ufficio all’avvocato Donovan, idealista, molto preparato e figlio dell’America libera e democratica, che ha il volto, proprio per rimarcare quel sottile filo rosso recuperato da Ryan, di Tom Hanks.

E qui il nostro racconto si ferma, perché è impossibile dire molto di più della trama senza toccare le corde vive di una vicenda che va molto aldilà della “Spy Story”, intrisa com’è di spunti politici più ampi e di storie intime. Il nostro Eroe avvocato si troverà al centro di una trattativa che si svolgerà a Berlino, al culmine di quella crisi che porterà da Est i soldati russi e della DDR ad alzare il muro. Un muro culturale oltre che di mattoni, un muro che ci ricorda che la guerra c’è da sempre e che, forse, l’eredità del “secolo breve” è stata soltanto una lunga scia di guerra di posizione ideologica e di terrore.

Nel cast oltre allo strepitoso Tom Hanks, al massimo della sua carriera così ricca ci sono Amy Ryan, brava e commovente, che con un cognome così non poteva che esser la moglie di Hanks/Donovan, poi Dakin Matthews, personaggio molto televisivo e popolare e l’ottimo Alan Alda. Anche se il duetto tutto ricco di sguardi d’intesa che Hanks instaura con Mark Rylance (la spia Abel), è di quelli che vanno annoverati tra i migliori della storia del cinema e non solo per merito di Hanks. La ricostruzione della fredda Berlino del 1961 da sola varrebbe già il biglietto al botteghino dei cinema, con una musica e una fotografia da kolossal, ma Spielberg non gira solo un grande film, lui come sempre va oltre l’ostacolo, parlando al cuore libero di ognuno di noi, per gridare ancora una volta, l’ennesima nella sua filmografia, che si può e si deve dire basta ai conflitti. Che si può vivere in pace.

Mauro Valentini




The Reach

Caccia all’uomo

Un milionario senza scrupoli, terrificante e ammaliatore cerca una giovane guida per una battuta di caccia nel meraviglioso deserto del New Mexico.

Ben, il giovanotto è un idealista appassionato e appassionante, il migliore per orientarsi in quel deserto dagli scenari mozzafiato. Poi, un incidente, almeno così appare e tutto cambia, precipita, cade il velo falso della gita turistica e tutto si rivela per quello che è, o almeno per quello che sembra.

Tratto dal bestseller “Deathwatch” di Robb White, “The Reach – Caccia all’uomo” è un film che affonda quasi subito nella sabbia rossa del deserto per portare in un insolito percorso “on the road” lo spettatore al sempre eterno tema della caccia all’uomo, che rimanda ai grandi western americani del primo dopoguerra.

Il buono ed il cattivo dunque, con un cattivo che ha l’aspetto, la grinta e lo sguardo spietato di un redivivo Michael Douglas, che torna al suo ruolo perfetto, sempre in bilico tra ironia e follia.

Molti sono i richiami, non solo al western ma anche a certi thriller psicologici d’oltreoceano, come non pensare per esempio a “U-Turn” di Oliver Stone di qualche anno fa, o al meraviglioso “Duel” di Steven Spielberg, ma qui il regista francese Jean Baptiste Leonetti separa con dovizia i ruoli di vittima e carnefice, non confonde in questi 91 minuti lo spettatore, concentrandosi più sull’azione e sulla suspance, dove la lotta per la sopravvivenza è l’unico elemento essenziale dei protagonisti.

Una corsa a perdifiato dove la vittima ha lo sguardo dolce e delicato di Jeremy Irvine, attore britannico al primo film importante da protagonista, che dovrà sporcare con la sabbia rossastra dei Grand Canyon il suo faccino un po’ troppo da rivista patinata, risultando però credibile e godibile.

Un film a tratti ironico, ma sempre con una missione: quella di far trepidare lo spettatore per la sorte del giovane Ben, minacciato e sotto il tiro di un formidabile tiratore di fucile quale è quel folle di John Madec.

La fotografia, il colore e la dinamica regia confezionano un film godibile e intenso, spietato come solo gli eroi del grande western sanno essere.

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Jurassic World – Quando la natura si ribella alla genetica-spettacolo

Sono passati più di venti anni, il sogno di John Hammond è diventato realtà: In quel luogo lontano e misterioso chiamato Isla Nublar il Jurassic World richiama ogni giorno migliaia di visitatori e, si cerca sempre di inserire spettacolari e nuove attrazioni . Dopo qualche anno però, il terribile T-Rex, i Velociraptor, e gli enormi erbivori sembrano non richiamare più la stessa mole di visitatori. Ci si abitua a tutto, anche all’esistenza di un parco con dinosauri.

JurassicWorldlocandinaEd allora, per ravvivarne l’interesse, la responsabile delle operazioni del parco Claire Dearing e quel monello di un genetista capo Henry Wuche già si era distinto in follie all’epoca del mitico “Jurassic Park” decidono di creare un nuovo dinosauro usando tecniche di ingegneria genetica, combinando i DNA di diverse specie.

Il nuovo mostro che dovrà sorprendere tutti, nascerà da questa fusione folle e sarà l’agghiacciante Indominus Rex. Cresciuto in isolamento dopo aver divorato il suo unico fratello, l’Indominus sta per essere presentato al pubblico. Ma proprio sul più bello, il gigantesco dinosauro riuscirà a fuggire dal suo imponente recinto, scatenando il panico tra le migliaia di visitatori del parco.

In poche parole la nuova creatura dell’ex regista, ora produttore Steven Spielberg è tutta qui. Una prosecuzione ideale del primo Jurassic Park, questo imponente kolossal promette di battere tutti i recod dei film di genere. Sono lontani i tempi di “Godzilla” eppure il plot narrativo esplode sempre allo stesso modo, con questa ribellione della natura (in questo caso della manipolazione genetica diremmo meglio) contro l’uomo, sempre avido di emozioni nuove e senza nessun limite etico e ecologico.

Sicuramente questo progetto, perché chiamarlo film sarebbe riduttivo, riaccenderà nei giovanissimi la nuova “dinosauro-mania”, così come la generazione dei genitori di adesso fu folgorata da quel primo epico film diretto dal Maestro Spielberg, che sembra giocare con le sue creature più mostruose della sua carriera, addirittura facendo in una sequenza divorare il “suo” squalo, quasi un tenero peluche a confronto del mostruoso “Indominus Rex” di adesso.

Diretto con anonima mano da  Colin Trevorrow , il film ha il cast giusto per arrivare in quota, con Chris Pratt JurassicWorldscena1su tutti, che dopo la caccia a Bin Laden in “Zero dark thirty” si cimenterà in una cattura ancor più spietata, brava anche Bryce Dallas Howard, già vista in “Spiderman 3” e nel meraviglioso “Hereafter” del grande Clint, qui direttrice del terrificante parco sempre schiacciata tra le regole del business e le sue emozioni più intime.




Locke

Locke_QUAD_Art 1 pack.inddLa fuga incontro alla realtà

Provate a fuggire dai propri fantasmi interiori e allo sgretolarsi di una vita di successo con una macchina ed un telefono quanto mai invasivo eppure necessario.

Steven Knight dopo “Redemption” suo esordio da regista racconta ancora di una fuga, seppur diversa da quella del criminale di guerra in cerca di redenzione, qui il protagonista “Locke” in quella corsa notturna sulle strade inglesi dovrà con la sola forza della persuasione risolvere molte cose della sua esistenza fino a quella sera apparentemente serena.

Un film tutto giocato con abilità e ritmo dentro un abitacolo, dove l’azione si svolge tutta nei dialoghi serrati e adrenalinici urlati e sussurrati via GSM. La moglie Katrina la misteriosa Bethan, i suoi colleghi tutti concorrono alla destabilizzazione di Locke che cercherà anche attraverso i dialoghi interiori di risolvere le questioni contingenti ed esistenziali con una chiave unica che lo cambierà per sempre.

Locke” si potrebbe definirlo un esperimento, figlio di quel “Duel” che segnò l’esordio di Steven Spielberg alla regia oltre quarant’anni fa, l’auto come set perenne e la lotta non contro un inseguitore che sembra ad un certo punto raggiungerlo e sbalzarlo fuori non dall’autostrada ma dalla vita.

Ardimentoso e vincente dunque, un film rivelazione che presentato con successo alla Mostra di Venezia 2013 ha poi vinto il premio come Miglior Sceneggiatura ai “British indipendent Film Award” proprio per questo straniante tocco di suspance che rende inquieti e coinvolge lo spettatore che viene  quasi catapultato nell’auto in corsa.

Qualche difficoltà eppure si nota nel racconto e nello snodo della trama che avviene come detto solo attraverso i pensieri a voce alta del protagonista, ma questo non pregiudica il giudizio su un film ben riuscito, con Tom Hardy unico attore che al volante sbraita e intenerisce quasi da subito, spogliandosi della maschera noiosa e presuntuosa da antieroe costruitagli da Christopher Nolan ed esprimendosi qui con grande efficacia, un’interpretazione da gran solista che “guida” letteralmente tutta la storia con grande coraggio.