L’ESTATE DELL’ INCANTO di Francesco Carofiglio

L’ESTATE DELL’INCANTO

di Francesco Carofiglio

Ed. Pickwick

 

 

 

È successo d’estate, molti anni fa.

Tra le nebbie che affollano adesso i miei pensieri di vecchia, una luce rischiara una piccola porzione di mondo.

[…]

Avevo dieci anni, e il mondo stava per affondare nell’abisso.

Ma per me era solo estate e campagna.

La più bella estate della mia vita.

 

 

Queste che precedono, sono le brevi frasi che compongono l’esaustivo e intrigante incipit di un bel romanzo. In pochi istanti, tanti sono quelli necessari a leggerle, il lettore si trova immediatamente catapultato in uno spazio relativamente ristretto dove il tempo pare essersi fermato, e dove il baratro che si sta avvicinando all’insaputa della protagonista, sembra non debba arrivare mai.

Questa storia delicata, intensa e a tratti commovente, ci viene raccontata dalle due voci di Miranda, quella di una bambina di dieci anni, e l’altra, di una donna anziana ottant’anni dopo.

Incredibile come l’autore, Francesco Carofiglio, evidentemente un uomo, riesca a calarsi nei panni, nella testa e nelle azioni di una donna; così tanto che la storia sembra opera di una scrittrice.

L’avvicendarsi e l’intrecciarsi delle due voci della protagonista, creano una dilatazione temporale notevole degli eventi, delle loro cause, delle loro conseguenze.

Uno stile, quello di F. Carofiglio, fluido, dotato di un’accelerazione che costringe lo scrittore a non voler più mollare il libro fino alla fine.

La trama può sembrare ovvia: una bambina che trascorre un’estate felice a casa del nonno in campagna, poco distante da Firenze.

Ciò che però, rende unica questa lettura, è il trasparire tra le righe l’imminenza di avvenimenti tragici che di lì a poco porteranno il mondo in un abisso quasi senza fine.

Abbiamo quindi  ne L’estate incantata, una specie di bolla, con un dentro fatto di sole, avventure, caldo, fantasia e della spensieratezza inconsapevole dell’infanzia.

C’è poi un fuori dato dalla tragicità del conflitto imminente prima, e dalla caducità del susseguirsi fragile dei giorni di una donna molto anziana che recupera immagini di felicità per aggrapparsi ai suoi ultimi batti d’ali.

Miranda bambina, con la mamma, con Lapo, con la lince Luana; e Miranda novantenne, con i suoi ricordi, le sue malinconie, con Nives e Carolina amiche da sempre.

Un duetto avvincente che termina con un finale degno dell’incipit, che lascia il lettore soddisfatto e gratificato da una lettura veramente molto piacevole.

 

 

La nostra vita è una cascata inarcata nel vuoto, lo ha scritto una poetessa di cui non ricordo il nome (1).

Mi chiamo Miranda, e dalla riva dell’isola guardo la tempesta.

Forse questo voleva dire mio padre, forse mio padre lo ha sempre saputo.

Sento le voci intorno, adesso, e una leggerezza inattesa.

Guardo le altre ragazze. Stanno ridendo.

Allora scarto un cioccolatino e lo metto in bocca.

 

 

(1) Antonia Pozzi

 

 

 

 

SINOSSI

 

Estate 1939. Il mondo è sull’orlo dell’abisso, ma Miranda non lo sa quando con la madre raggiunge la tenuta del nonno Villa Ada.

Il bosco misterioso che circonda la proprietà è il palcoscenico perfetto per le avventure estive di Miranda con Lapo, il nipote del fattore.

Ma il bosco è anche il luogo abitato dalle creature parlanti che l’anima di bambina vede o crede di vedere.

Miranda, ormai novantenne, ci racconta la luce magica che rischiara quella porzione di mondo e l’incantesimo di una giovinezza improvvisa.




GLI ANNI DIFFICILI di Almudena Grandes

GLI ANNI DIFFICILI

Di Almudena Grandes

Ed. Guanda

 

 

 

Quando gli Olmedo arrivarono nella loro nuova casa, soffiava il levante.

Il vento gonfiava i tendoni di tela fino a staccarli dall’armatura d’alluminio e li lasciava cadere di colpo, un attimo solo, per poi risollevarli, producendo un rumore continuo, sordo e pesante come lo svolazzio di uno stormo di uccelli mostruosamente grandi.

 

L’incipit di questo romanzo ci presenta quello che poi si rileverà essere il trait d’union della storia: il vento.

Il levante è un vento potente, capriccioso, indomabile che può influenzare le vite degli esseri umani; può abbattere le persone, farle volare, cadere e ancora risollevare come i tendoni di tela delle verande.

Almudena Grandes, con la sua penna vigorosa, ci introduce nella vita di due famiglie fuggite da Madrid e dai loro segreti, per rifugiarsi dietro alle mura delle loro nuove case sulla costa.

Una storia intricata e densa questa de Gli anni difficili, i cui ripetuti flash back e cambi di voce narrante, occupano il lettore dalla prima all’ultima frase. La lettura invece, fila via grazie alla potenza narrativa di questa scrittrice madrilena, purtroppo scomparsa da poco tempo.

Il sentimento che permea tutta la storia non è però la vendetta o la paura, come a prima vista potrebbe sembrare.

Ciò che fuoriesce dalle parole dei protagonisti è, in verità, la ricerca di un riscatto, di una rinascita, di una vita che possa regalare serenità ad animi tormentati per troppo e troppo tempo.

 

 

…ma pensava tante volte agli Olmedo, a Sara, alla madre, come a persone isolate in un paese estraneo, in un bosco, su una zattera, in uno di quegli aeroporti complicati e grandissimi […], persone smarrite che solo conoscendosi piano piano a vicenda avevano iniziato a salvarsi…

 

 

Per persone come me che leggono tanti libri, non è difficile trovare rimandi a storie lette: già dall’inizio il vento mi ha fatto pensare ad un libro letto molti anni fa: Chocolat di Joanne Harris. In questa storia il vento del Nord era quello che preannunciava cambiamenti.

Poi, proseguendo la lettura, e iniziando a conoscere la storia di Sara Gomez, la mia mente è andata all’ Arminuta, la cui protagonista è stata sradicata dalla famiglia di origine per essere cresciuta da parenti benestanti. Anche lei verrà poi riportata dai suoi genitori nel complicato momento dell’adolescenza.

Gli anni difficili può risultare a tratti un po’ prolisso e impegnativo, ma l’abbondanza delle descrizione degli stati d’animo ha semplicemente l’intento, ben riuscito, di trasportare il lettore nella mente e nei pensieri dei protagonisti.

 

 

 

SINOSSI

 

Juan Olmedo e Sara Gomez sono due vicini di casa  in un complesso residenziale a Rota, un paese sulla costa di Cadice. Entrambi vengono da Madrid e si sono lasciati alle spalle un passato di amori contrastati e di sofferenza.

Juan ha vissuto un amore impossibile per la moglie di suo fratello dalla quale ha avuto una bambina. Sara, a sua volta, sottratta da bambina alla sua famiglia di origine per essere cresciuta da una famiglia dell’alto borghesia per poi essere rispedita alla casa natale, in cui oramai è un’estranea.

Ma tutto può cambiare.




L’ISOLA DEGLI ALBERI SCOMPARSI di Elif Shafak

L’ISOLA DEGLI ALBERI SCOMPARSI

di Elif Shafak

Ed. Rizzoli

 

 

Il tempo umano è lineare, un continuum uniforme tra un passato teoricamente finito e concluso e un futuro che si ritiene intatto, immacolato.

Il tempo arboreo è ciclico, ricorrente, perenne; passato e futuro respirano in un unico istante, e il futuro non scorre per forza in un’unica direzione…

Sono incompatibili, il tempo umano e il tempo vegetale.

 

L’isola degli alberi scomparsi di Elif Shafak è una bella lettura; la copertina mi aveva colpito mentre spulciavo in una libreria del quartiere romano del Testaccio. Lì per lì non l’ho acquistato, ma mi è rimasto dentro; poche settimane dopo l’ho ritrovato a casa di una cara amica, preso in prestito e letto, subito, tutto d’un fiato.

L’immagine rappresenta una pianta di fico, nata e cresciuta a Cipro, al sole, al caldo, tra amori, guerre, felicità e disperazione.

La pianta viene trapiantata in Inghilterra, rappresenta un filo che mantiene unite persone e ricordi di una terra lontana; il freddo e la nebbia non le hanno impedito di continuare a vivere, silenziosa testimone di dolori e gioie, nascite e morti.

Elif Shafak ci racconta le storie di famiglie, di amanti e di amici a Cipro, nella sua capitale Nicosia: l’unica città al mondo ancora divisa in due da una guerra che non ha riportato vittorie, ma solo sconfitti.

Due sono le voci narranti in questa storia: inizia Ada figlia di un amore che non conosce confini, etnie e religioni. Poi segue la pianta di fico, che fa da filo conduttore, osserva e vede tutto, ricorda. Un velo di mistero circonda questa pianta che sembra avere un’anima umana.

 

L’amore è una spavalda affermazione di speranza, e quando comandano morte e distruzione non si abbraccia la speranza.

Non si indossa il vestito più bello e non ci si infila un fiore tra i capelli quando si è circondati da schegge e rovine.

Non si regala il cuore quando ogni cuore deve restare sigillato, e soprattutto non a quelli che non credono nella nostra religione, non parlano la nostra lingua, non sono del nostro sangue.

 

L’isola degli alberi scomparsi  è scritto in modo liscio, non stucchevole né tantomeno lamentoso.

Ci immerge in vite segnate, a volte mortalmente, da un conflitto senza ragioni, perché la guerra non ne ha mai.

Elif Shafak ci fa commuovere, sperare e anche assaporare usi e costumi di popoli in effetti neanche troppo lontani; in questa bella storia, non ci sono né greci, né turchi, ma solo isolani, ciprioti.

Dopo il primo breve capitolo che fa da introduzione e anche quasi da riassunto, ci ritroviamo in una classe di un liceo, a fine 2010, a Londra: Ada, una delle due voci narranti, 16 anni all’improvviso emerge dal suo silenzio, e urla.

Un urlo che sconvolge chi ha intorno, un urlo che chiede verità, perché solo la verità potrà permettere ad Ada di superare la perdita e guardare fiduciosa verso il suo futuro.

Ho riflettuto molto sul titolo di questo romanzo, perché a Cipro non sono scomparsi gli alberi, a Cipro sono scomparse le persone.

 

 

SINOSSI

Siamo a Londra, e qui vive Ada, figlia sedicenne di Kostas, esule greco fuggito da Cipro durante la guerra.

Nella loro casa c’è una pianta di fico, sopravvissuta grazie ad una talea, trasportata nella stiva di un aereo e trapiantata a Londra; unico legame con quella terra dilaniata dal conflitto, e con quelle famiglie divisa da usi e religione.

A casa di Ada e Kostas arriverà improvvisamente Meryem, sorella di Dafne la madre turca cipriota di Ada, morta da pochi mesi.

Grazie alla zia, inizialmente quasi odiata, Ada prenderà consapevolezza delle sue origini e acquisterà quella coscienza di sé che gli era stata inibita da anni di silenzi.

 




ASTENERSI ASTEMI

ASTENERSI ASTEMI

Di Héléna Marienské

Ed. Clichy

 

 

 

Un romanzo questo a più voci, 291 pagine in cui Héléne Marienské ci parla senza moralismi di come la differenza tra passione sfrenata e dipendenza, sia estremamente sottile.

L’idea su cui è costruita la storia è veramente originale: curare dipendenze diverse senza creare gruppi omogenei di persone che ne sono affette, ma mischiando le varie ossessioni. La protagonista iniziale è Clarice, una terapeuta che decide di sperimentare un nuovo e personalissimo approccio per la cura delle dipendenze.

La sua convinzione è che riunendo più persone con nevrosi differenti, queste possano essere curate  annullandosi una con l’altra.

L’elemento dell’ unexpected arriva con l’inversione dei ruoli: i pazienti decidono di autocurarsi formando una squadra e diventando i protagonisti indiscussi della storia, la psichiatra quasi svanisce.

 

“Hai detto che avevi un’idea in testa…”

“Una grande idea”.

“Sentiamo”.

“Sarai d’accordo che per la maggior parte di noi il problema della dipendenza è rappresentato dalle conseguenze finanziarie”, inizia Pablo.

“Eh, sì! Esattamente. Essere dipendente non mi fa stare male. Sono dipendente, tutto qui. Il problema è permettersi i mezzi per la propria dipendenza”.

“Ma quel’è la tua idea? Rapiniamo una banca? Non sarebbe una cattiva idea…Al punto in cui sono, sono pronto a tutto pur di rifarmi. Ma non ho esperienza di rapine”.

“No. Formiamo una squadra”.

 

Probabilmente lo stile non sarà ineccepibile, ma quello che colpisce è l’assoluta mancanza di giudizio e condanna.

Il modo irriverente con cui Héléne Marienské descrive quelle che per la maggior parte delle persone normali sono pericolosi ossessioni, ci fa sorridere ma anche riflettere.

In una società come la nostra, le dipendenze non possono più essere circoscritte all’uso di droghe o al gioco d’azzardo. Oggi anche la passione più sana può, se portata all’eccesso, trasformarsi in un’ossessione letale con disastrose conseguenze per chi ne è affetto e per tutto ciò che lo circonda.

Quello che infine emerge, è una visione in controtendenza: chi lo dice che non si possa vivere una bella vita assecondando la propria dipendenza? Possono le diverse nevrosi, se dosate e incastrate nel modo giusto, essere la salvezza?

Al lettore il responso finale, pagina dopo pagina sarà lui, voi, a decidere se giudicare Héléne Marienské una persona immorale o una visionaria.

 

 

 

SINOSSI

 

Clarisse, psichiatra specializzata in dipendenze, decide di sperimentare una terapia di gruppo ispirata a principi del tutto nuovi. Decide così di riunire  persone completamente diverse, per estrazione e per ossessione: un prete cocainomane sosia di Papa Francesco, un’ alcolizzata, un professore universitario sessuomane, una giovane tossicodipendente, un giocatore d’azzardo, un bancario ossessionato da qualunque tipo di sport e una fashion-addict  dominata dall’acquisto compulsivo di abiti d’alta moda.

Devastati e sull’orlo del baratro sfidano la loro terapeuta, formando una squadra e scoprendo la solidarietà, la complicità, l’amicizia e perfino l’amore.