BRUNO FORZAN – TRADUTTORE DI NETTUNO – VINCE IL PREMIO “TOKIO-ROMA. PAROLE IN TRANSITO” 

A vincere l’edizione 2024 del Premio “Tōkyō-Roma, Parole in transito” è stato Bruno Forzan, nettunese di adozione, per la traduzione italiana del romanzo “Dendera” dello scrittore giapponese Satō Yūya, pubblicato da Rizzoli.

La premiazione

La premiazione è avvenuta sabato scorso a Roma, presso la Nuvola, nell’ambito di “Più libri più liberi”, la Fiera della piccola e media editoria.  La giuria ha elogiato Forzan per “la capacità di rendere in modo impeccabile in italiano le sfumature della complessa narrazione del romanzo, dimostrando alte capacità di scrittura e profonda conoscenza del mondo e della cultura giapponese”. Insomma, grazie alla sua esperienza e sensibilità, è riuscito a trasferire al pubblico italiano la profondità dell’universo narrativo di Satō Yūya.

Il premio

Questo premio è  un riconoscimento unico nel panorama letterario internazionale, istituito nel 2022 dalla Fondazione Italia Giappone. Ideato per valorizzare il contributo essenziale dei traduttori nell’avvicinare mondi e culture attraverso la letteratura, si distingue tra i riconoscimenti italiani per il suo focus specifico sulla traduzione di opere giapponesi. Sotto la guida del presidente della Fondazione, Umberto Vattani, e con una giuria composta da illustri personalità del mondo accademico e letterario sia italiano che giapponese, il premio mira a celebrare l’eccellenza di chi, con pazienza e abilità, trasforma le parole di un autore giapponese in un testo capace di emozionare il lettore italiano.

L’opera

Scegliere “Dendera” non è stato casuale: l’opera, ricca di simbolismi e riflessioni esistenziali, rappresenta una sfida per qualsiasi traduttore. Il romanzo narra di anziani che, per non essere di peso ai giovani, sono chiamati a un ultimo sacrificio per la comunità, l’ascensione: si addentrano nel bosco innevato e non fanno ritorno, destinati a morire di stenti e di freddo. La settantenne Kayu Sato, arrivato il suo momento, lascia il Villaggio e la vita, ma sulla montagna non troverà la morte, troverà Dendera: una comunità di donne che hanno rifiutato l’antica tradizione, lasciando però morire gli uomini, e hanno fondato una società autonoma tra i boschi, dove vivono tra una spietata lotta per la vita, la costante ricerca di risorse per sopravvivere al rigido e letale inverno e i giochi di potere portati avanti da anziane indurite dal tempo.

Bruno Forzan

Con una laurea in Lingua e Letteratura giapponese conseguita presso l’Università di Ca’ Foscari di Venezia, Bruno Forzan è un nome di spicco nel panorama della traduzione letteraria. Dopo anni di collaborazione con la televisione giapponese NHK, dove ha curato programmi culturali come consulente e coordinatore, si è dedicato alla traduzione, portando in Italia alcune delle voci più significative della letteratura contemporanea giapponese.




UOVA di Hitonari Tsuji

UOVA

Di Hitonari Tsuji

Ed. Rizzoli

 

Titolo brevissimo per un romanzo all’insegna della delicatezza che ci viene proposto in un formato diverso dal solito: il libro è quadrato.

Spiccava nel suo colore giallo in mezzo a tutti gli altri, come non esserne attratti? Come non acquistarlo e leggerlo subito?

 

Era un uomo terribilmente impacciato

e ci mise ben dodici anni per rivelare il suo cuore innamorato.

 

Nonostante l’incipit, la storia che ci viene narrata da Hitonari Tsuji non è una storia d’amore, o almeno non lo è nel senso esclusivo della definizione.

Uova è un romanzo ambientato nel Giappone contemporaneo, il cui filo conduttore è dato dal saper cucinare in modo unico e prelibato le uova. La preparazione attenta e meticolosa delle pietanze ci viene presentata come preliminare al cibo consolatorio e curativo dei malesseri; in semplicità e senza l’utilizzo di stereotipi.

Attraverso la sapiente preparazione di piatti a base di uova Hitonari Tsuji affronta temi come l’amore, la violenza domestica, il bullismo, l’altruismo, la vecchiaia, la malattia: in punta di piedi il protagonista chef Satoij entra nella difficile vita di Mayo e piano piano in quella di sua figlia, cucinando piatti succulenti con le uova.

Lo snodo principale della storia è rappresentato da un locale come tanti chiamato izakaya che in giapponese significa “luogo dove bere e divertirsi”; è proprio qui che Satoij aspetta anni e anni prima di riuscire anche solo ad avvicinarsi e a bere una birra per pochi minuti con la donna di cui è innamorato.

Mayo è una madre sola per essere fuggita da un marito violento, che cresce con dedizione assoluta sua figlia Oeuf, adolescente silenziosa e chiusa all’universo maschile fino all’incontro con Satoij.

Hitonari Tsuji usa le uova anche nella scelta dei nomi: Mayo è tutt’altro che un nome giapponese, semplicemente l’abbreviazione del francese mayonnaise. Stessa cosa per Oeuf, nome scelto in onore del nonno materno che era francese e amava le uova.

Leggendo Uova entriamo in un mondo dove la cura e l’amore messi nella preparazione di pietanze gustose viene usata come un poetico mezzo di espressione di emozioni e sentimenti.

 

Era un piatto dall’aria appetitosa, ricoperto da una dose abbondante di uovo lucente.

Le tre donne non avevano assistito alla preparazione.

Quando lui le chiamò si sedettero e furono servite […]

Non appena tutte e tre assaporarono il primo boccone, si bloccarono e cambiarono espressione.

Quando qualcosa è davvero buono, le persone perdono la parola.

E Satoij lo sapeva.

 

SINOSSI

 

Tutto era iniziato quattordici anni prima nell’izakaya Yururi, di cui Satoij era cliente abituale. Lui se ne stava seduto in fondo di lato, in uno dei quattordici coperti del bancone a forma di ferro di cavallo del locale nel quartiere di Nishi-Azabu e osservava di sottecchi il viso radioso della donna che gli stava di fronte. Che sorriso meraviglioso, aveva pensato, e quello era stato il principio di ogni cosa.

 

Una particolarità: nel libro troviamo descritta anche la ricetta del nostro italianissimo tiramisù

 

 




L’ISOLA DEGLI ALBERI SCOMPARSI di Elif Shafak

L’ISOLA DEGLI ALBERI SCOMPARSI

di Elif Shafak

Ed. Rizzoli

 

 

Il tempo umano è lineare, un continuum uniforme tra un passato teoricamente finito e concluso e un futuro che si ritiene intatto, immacolato.

Il tempo arboreo è ciclico, ricorrente, perenne; passato e futuro respirano in un unico istante, e il futuro non scorre per forza in un’unica direzione…

Sono incompatibili, il tempo umano e il tempo vegetale.

 

L’isola degli alberi scomparsi di Elif Shafak è una bella lettura; la copertina mi aveva colpito mentre spulciavo in una libreria del quartiere romano del Testaccio. Lì per lì non l’ho acquistato, ma mi è rimasto dentro; poche settimane dopo l’ho ritrovato a casa di una cara amica, preso in prestito e letto, subito, tutto d’un fiato.

L’immagine rappresenta una pianta di fico, nata e cresciuta a Cipro, al sole, al caldo, tra amori, guerre, felicità e disperazione.

La pianta viene trapiantata in Inghilterra, rappresenta un filo che mantiene unite persone e ricordi di una terra lontana; il freddo e la nebbia non le hanno impedito di continuare a vivere, silenziosa testimone di dolori e gioie, nascite e morti.

Elif Shafak ci racconta le storie di famiglie, di amanti e di amici a Cipro, nella sua capitale Nicosia: l’unica città al mondo ancora divisa in due da una guerra che non ha riportato vittorie, ma solo sconfitti.

Due sono le voci narranti in questa storia: inizia Ada figlia di un amore che non conosce confini, etnie e religioni. Poi segue la pianta di fico, che fa da filo conduttore, osserva e vede tutto, ricorda. Un velo di mistero circonda questa pianta che sembra avere un’anima umana.

 

L’amore è una spavalda affermazione di speranza, e quando comandano morte e distruzione non si abbraccia la speranza.

Non si indossa il vestito più bello e non ci si infila un fiore tra i capelli quando si è circondati da schegge e rovine.

Non si regala il cuore quando ogni cuore deve restare sigillato, e soprattutto non a quelli che non credono nella nostra religione, non parlano la nostra lingua, non sono del nostro sangue.

 

L’isola degli alberi scomparsi  è scritto in modo liscio, non stucchevole né tantomeno lamentoso.

Ci immerge in vite segnate, a volte mortalmente, da un conflitto senza ragioni, perché la guerra non ne ha mai.

Elif Shafak ci fa commuovere, sperare e anche assaporare usi e costumi di popoli in effetti neanche troppo lontani; in questa bella storia, non ci sono né greci, né turchi, ma solo isolani, ciprioti.

Dopo il primo breve capitolo che fa da introduzione e anche quasi da riassunto, ci ritroviamo in una classe di un liceo, a fine 2010, a Londra: Ada, una delle due voci narranti, 16 anni all’improvviso emerge dal suo silenzio, e urla.

Un urlo che sconvolge chi ha intorno, un urlo che chiede verità, perché solo la verità potrà permettere ad Ada di superare la perdita e guardare fiduciosa verso il suo futuro.

Ho riflettuto molto sul titolo di questo romanzo, perché a Cipro non sono scomparsi gli alberi, a Cipro sono scomparse le persone.

 

 

SINOSSI

Siamo a Londra, e qui vive Ada, figlia sedicenne di Kostas, esule greco fuggito da Cipro durante la guerra.

Nella loro casa c’è una pianta di fico, sopravvissuta grazie ad una talea, trasportata nella stiva di un aereo e trapiantata a Londra; unico legame con quella terra dilaniata dal conflitto, e con quelle famiglie divisa da usi e religione.

A casa di Ada e Kostas arriverà improvvisamente Meryem, sorella di Dafne la madre turca cipriota di Ada, morta da pochi mesi.

Grazie alla zia, inizialmente quasi odiata, Ada prenderà consapevolezza delle sue origini e acquisterà quella coscienza di sé che gli era stata inibita da anni di silenzi.

 




Una volta è abbastanza di Giulia Ciarapica

La storia di due sorelle e di un territorio: Casette d’Ete nelle Marche

Ci sono libri che oltre ad avere una trama intrigante e personaggi affascinanti, hanno la capacità di trasformare il territorio in un protagonista  elevandolo ad un ruolo importante e non solo come proscenio alle vicende narrate.

È ciò che mi è capitato leggendo il primo romanzo di Giulia Ciarapica, Una volta è abbastanza, pubblicato dalla casa editrice Rizzoli nel 2019, che fa parte di una trilogia, una vera e propria saga famigliare italiana.

Il romanzo si sviluppa entrando in punta di piedi nei ricordi del nonno, Valentino Verdini, che racconta alla nipote Oriana come abbia conosciuto la moglie Giuliana Betelli e sua sorella Annetta.

Una volte è abbastanza è la storia di due sorelle e del destino che si sono costruite nell’arco degli anni che vanno dal dopoguerra fino all’avvento della televisione. Anni di sacrificio in una paese marchigiano dove si inizia a lavorare all’alba e si finisce quando il sole tramonta dietro le colline, in scantinati bui e laboratori affollati dove tutti sono intenti a battere chiodi, incollare suole e a passare il mastice per costruire le scarpe.

Un romanzo che trasuda orgoglio e fierezza per le proprie radici, per i propri compaesani, per la loro determinazione e inesauribile forza che li spinge a costruirsi un futuro migliore nonostante le difficoltà e il periodo storico che vivono. Sono marchigiani, esattamente come lo è l’autrice, e si percepisce benissimo come quell’intorno che sovrasta la storia del libro non sia un semplice corollario per accomodare meglio i personaggi bensì rappresenti un profondo atto d’amore di Giulia Ciarapica verso la propria terra natia, Casette d’Ete nelle Marche.

Ma torniamo alle due sorelle.

Giuliana e Annetta sono una l’opposto dell’altra e, senza togliervi la sorpresa di appassionarvi a loro anticipandovi le loro gesta, eccomi che torna  la capacità di Giulia Ciarapica di mettere in chiaro come il rispetto tra due persone sia la base solida di ogni relazione. Si può vivere lontane o restare vicine; parlarsi sempre o restare in silenzio per lungo tempo, ma quando si ha realmente bisogno l’una dell’altra, è fondamentale esserci, nonostante tutto.

Ed è questo profondo rapporto di sangue tra le sorelle, il radicale attaccamento alla famiglia che si rivela autentico e fresco nelle parole che Giuliana urla a Annetta, parole che chiunque vorrebbe sentirsi dire almeno una volta nella vita:

 

«Che se ora mi sbatterai fuori di casa, perché sei testarda, menefreghista e presuntuosa, io tornerò domani, dopodomani e domani l’altro. Tornerò fino a quando non mi farai neanche più entrare. Anche quando non potrà più metterci piedi, io aspetterò là fuori. […] io sarò lì accanto a te, pronta a rinfacciarti ogni gesto, ogni parola storta, pronta a dirti che non ci si comporta come fai tu, che non puoi governare la vita degli altri, che non sei il dittatore di nessuno, tranne che di te stessa.[…] Sei una delle donne più egoiste che io abbia mai conosciuto, riesci a passare sopra ai sentimenti della gente come un carro armato; non sono mai stata in grado di arginarti, sei ingombrante e spietata. […] Ma sei mia sorella, e se la mia famiglia. Io ti voglio bene perché mi appartieni, nel bene, e anche nel male. Che ti piaccia oppure no, non mi interessa. È così, e basta.»

 

Una volte è abbastanza merita davvero di essere letto per la sua freschezza e per lo stile con cui ci presenta un mondo materialmente lontano eppure così presente nei ricordi famigliari di tantissimi italiani perché sono i nostri nonni ad aver ricostruito l’Italia distrutta dalla seconda guerra mondiale, non dimentichiamolo mai!

 

Piccole chicche.

  • Nelle prime pagine di Una volte è abbastanza troverete l’albero genealogico così da non perdere alcun intreccio familiare;
  • Ogni capitolo è arricchito da un epigrafe di grandi autori e dalla data cronologica per meglio determinare l’azione;
  • Pare che sia imminente l’uscita del secondo volume della saga.
  • Ah, dimenticavo, se siete sempre alla ricerca di nuovi libri, non mancate di seguire su Instagram il profilo di Giulia Ciarapica: è un vulcano di iniziative con diverse dirette settimanali e, secondo me, è un po’ Giuliana e un po’ Annette.Foto libro Una volta è abbastanza di Giulia Ciarapica. Foto di Stefania Piumarta



Un’amicizia di Silvia Avallone

Quando gli opposti si attraggono

Un’amicizia di Silvia Avallone è uscito a novembre per la casa editrice Rizzoli e penso che sia uno di quei libri capace di restare e, anzi, di migliorare nel tempo.

Come detta in modo esplicito la copertina, Un’amicizia narra la storia nata tra due adolescenti, Elisa e Beatrice, così agli antipodi l’una dall’altra che a prima vista tutto si potrebbe immaginare tranne che tra di loro si possa instaurare una profonda relazione di amicizia.

Elisa è la classica adolescente tutta presa dalla lettura, che indossa il primo indumento che le capita e che tiene tutto dentro, nascosto nel profondo del suo cuore. Sognatrice, ribelle e silenziosa all’apparenza quanto determinata e testarda nella realtà. Con genitori separati, si trova a vivere con il padre, che non ha mai conosciuto davvero, e si sente abbandonata dalla madre.

Beatrice, al contrario, nasce in una famiglia borghese, è bella, anzi bellissima, e assolutamente perfetta agli occhi di tutti: capello sempre in tiro come appena uscita dal parrucchiere, abiti all’ultima moda, famiglia in vista, ricca e ben voluta da tutti. All’apparenza spavalda quando invece nasconde una carattere fragile e bisognoso di attenzioni.

Elisa e Beatrice sono due opposti e, nel loro vivere, sembrano rappresentare proprio la realtà della società in cui stiamo vivendo: dare valore all’apparire e mostrarsi sempre o negarsi all’obiettivo della macchina fotografica e del selfie ad ogni costo?

Beatrice, sicura e ossessionata della propria bellezza, cerca quasi di immobilizzare la propria immagine per l’eternità, trasformandosi in una ricchissima fashion blogger, interessata solo ed esclusivamente a mostrare tutto ciò che fa e che ha.

Elisa, al contrario, è assolutamente convinta del valore della cultura e delle parole, è intraprende un percorso universitario raggiungendo il suo scopo di diventare una scrittrice, anche superando diversi ostacoli lungo il proprio cammino che non voglio spoilerare per non rovinarvi le sorprese.

Perché si legge?
Perché non rimane altro.

Il romanzo è raccontato con la voce di Elisa che torna indietro nel passato colmando un vuoto di tredici anni, cioè dal giorno in cui la loro amicizia si interrompe.
La scrittura di Silvia Avallone è coinvolgente tenendo il lettore avvinghiato alle pagine e punta sul valore assoluto dell’amicizia, di quello vero, quello che ti fa perdonare un’affronto, quello che ti permette di comprendere, quello che ti fa avere una parte di cuore sempre in pena per chi ami, nonostante tutto.

Raccontando l’amicizia tra Elisa e Beatrice, Avallone mette l’accento su quanto siamo tutti influenzati dal giudizio degli altri, di come sia rilevante l’essere accettati e degli sforzi, a volte troppo gravosi, che si affrontano cercando di soddisfare ciò che la società e la famiglia richiede da noi.

Ma è davvero così importante raccontarsi o non è meglio vivere semplicemente la propria vita per quello che siamo?

Questa credo sia la domanda chiave di Un’amicizia sebbene siano diverse le riflessioni che scaturiscono dalla lettura del romanzo. All’apparenza può sembrare addirittura scontata come trama ma in effetti, tra i sui dialoghi e nei suoi capitoli, si nascondono svariate sfumature che, quasi quasi, richiederebbero un’ulteriore lettura per poterle apprezzare tutte.

Ho adorato i diversi richiami che Avallone fa al romanzo di Elsa Morante, Menzogna e sortilegio, così come ho apprezzato l’inserimento nel finale del romanzo dei Libri citati.
Li chiamo libri a matrioska quando un testo inserito in un romanzo diventa il prossimo da leggere.

 

Ultima chicca, ma non per importanza, è l’originale modo in cui l’autrice conduce il lettore alla scoperta della piccola città di provincia in cui si svolge la storia.
Definita semplicemente T, nel corso del libro, il lettore troverà diversi indizi e dettagli tali da iniziare a farsi un’idea di quale località balneare si tratti, ma è solo verso la fine del libro che se ne avrà certezza sebbene la Avallone non ne faccia menzione e tantomeno lo farò io.




Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci

Struggente monologo di Oriana Fallaci

 

Il libro Lettera a un bambino mai nato è stato pubblicato la prima volta nel 1975 riscuotendo immediatamente un grande successo e non solo per la fama di Oriana Fallaci ma soprattutto per il tema caldissimo in quegli anni sulla legalizzazione dell’aborto che si tramuterà da reato in diritto nel 1978 con la legge 194.

 

Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì c’eri. Esistevi.

 

Un incipit difficile da dimenticare che traccia sin dalle sue battute la magia del dialogo di una donna al suo bambino.

Il dibattito rivela tutti i dubbi e le incertezza di una donna che, inizialmente, vive come ingombrante questa nuova vita che si è insinuata in lei ma che, andando avanti, ama e desidera con sempre maggiore attaccamento.

L’esito finale del libro è esplicito già dal titolo e leggendo Lettera a un bambino mai nato non è il finale che si cerca bensì quell’introspezione che porta la donna a chiedersi quale diritto abbia lei di mettere al mondo un essere umano in un mondo cattivo, carico di odio e disparità, un mondo fatto di guerra e di lotte continue, un mondo dove essere donna significa iniziare con un passo indietro rispetto agli uomini, dove ogni essere umano è costretto a lottare con le unghie e con i denti per difendersi dagli altri essere umani.

Se in alcune pagine sembra parlare come una donna priva di alcun senso materno in altre dimostrando di avere una visione della maternità moderna e all’avanguardia rispetto agli anni in cui ha scritto il libro.

È un libro forte, a volte cinico, e la Fallaci ci regala pagine struggenti. È una donna libera e coraggiosa che scrive come madre libera e coraggiosa perché i figli, in fondo, non sono i nostri; i figli ci accompagnano per la vita e non è madre colei che lo partorisce ma colei o colui che lo cresce con quello spirito libero e coraggioso affinché il bambino possa affrontare al meglio le sfide della vita.

Lessi la prima volta Lettera a un bambino mai nato che ero giovanissima e ne rimasi affascinata. L’ho riletto ora, oltre trent’anni dopo e con una figlia grande, e le sensazioni sono state più intense per una maggiore consapevolezza verso i timori e le gioie vissute dalla protagonista e, sicuramente, con un occhio meno critico e più indulgente al suo monologo di donna.

Lettera a un bambino mai nato è un libro di sole 100 pagine che offre momenti di riflessione che vi faranno commuovere, sorridere, pensare e che vi confermeranno come sia bellissimo poter dare la vita. Perché la vita, nel bene e nel male, è meravigliosa.

 

Ma il niente è da preferire al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente.