IO NON SONO UN VULCANO
Laura Avati
Io non sono un vulcano
Caterina guardava dalla finestra il temporale che si era spostato in alto mare. I fulmini che cadevano nell’acqua creavano un gioco di ragnatele e luci che catalizzavano la sua attenzione: il fuoco in ogni sua forma l’affascinava. C’era stata anche una piccola scossa di terremoto, il che significava che la Montagna era in fermento e una colata di ricordi la travolsero. Pensò al suo paese, Nicolosi, nell’entroterra siciliano ai piedi dell’Etna. Sicuramente i paesani stavano ornando con candele gli altarini dedicati al vulcano, disseminati lungo le vie del paese in segno di devozione.
Abitava in una piccola palazzina di vecchia costruzione al porto di Giarre, in una zona un po’ squallida. Quella stamberga aveva un piccolo balconcino dal quale si vedeva il mare, e questo le era bastato per farla innamorare di quel tugurio. Con il tempo lo aveva sistemato e abbellito un po’: aveva pitturato le persiane e la ringhiera del balcone di azzurro, come quelle delle case di un paese della Grecia che aveva visto su una rivista e dove sognava prima o poi di andare in vacanza; aveva anche restaurato una vecchia credenza, che le ricordava quella della sua adorata nonna, ma non era mai riuscita a liberarsi dell’umidità e degli spifferi che rendevano la casa fredda.
Caterina aveva bisogno di respirare, le accadeva spesso in quel periodo. Decise di uscire. Scesa in strada, si girò per guardarlo: quella notte l’Etna stava dando spettacolo, e il suo pennacchio rosso fuoco si riusciva a vedere bene anche da Giarre. Sorrise. Aveva smesso di piovere da poco e una nebbia gelida saliva dal mare stranamente calmo, invadeva i vicoli deserti rendendo quasi impossibile orientarsi. In lontananza, una vecchia campana suonò ventuno rintocchi, rimbombarono per le strade fino a dileguarsi nel silenzio irreale di quella notte. Le botteghe a quell’ora erano tutte chiuse e l’unica insegna accesa era quella di un caffè i cui neon erano per metà rotti. Il solo punto di riferimento erano i lampioni dell’illuminazione pubblica, che tra la nebbia apparivano e sparivano come miraggi.
Una musica travolse improvvisamente Caterina. La sentiva venire da lontano e le sembrò di riconoscere la ninna nanna che sua nonna le cantava la sera quando era piccola, seduta sulla sua sedia a dondolo proteggendola in un abbraccio per farla addormentare. Il freddo le penetrò le ossa. Strinse un po’ la cinta del cappotto e sprofondò con il naso nella sciarpa di lana che le aveva regalato sua mamma per Natale: l’aveva fatta lei ai ferri, la sera davanti al camino, e aveva infatti un odore un po’ aspro di lana e fumo, ma le dava calore e conforto. Seguendo la
musica e cercando di capire da dove arrivasse, Caterina si era allontanata molto da casa, arrivando così fino al centro della città, dove durante il giorno regnava la confusione, mentre in quel momento era tutto deserto. Si trovava in un posto di cui aveva sempre sentito parlare e sparlare, ma che non aveva mai avuto modo di visitare: il Parco Archeologico dell’Incompiuto. Era una delle tante opere pubbliche iniziate e mai finite della Sicilia; anzi, era stata definita “la capitale delle opere pubbliche abortite”, strutture iniziate a costruire nei primi anni ’80, poi abbandonate e ormai da buttare giù. Il cemento si sgretolava sotto le dita e la vegetazione si impossessava degli spazi abbandonati. I suoi studenti le avevano detto che molti adolescenti andavano in quel posto a fumare di nascosto o a fare l’amore.
Caterina si trovò davanti a quelle strutture fatiscenti, imperfette, enormemente grigie e tristi. In parte le sembrarono un paesaggio surreale e fantastico. S’inoltrò in quella giungla di cemento, come rapita da quei mostri che, a ben guardarli, non erano poi così ostili come a prima vista sembravano. Una bellissima bouganville dai fiori arancioni si arrampicava e addolciva le travi di quelle che avrebbero dovuto essere le tribune del campo di polo. Un grande cactus si era riappropriato del suo territorio, segno che la natura si stava riprendendo ciò che era suo, pensò Caterina. Tali e tante erano le forme e le ombre che si creavano che a Caterina sembrava di guardare attraverso un caleidoscopio.
“Professoressa Amabile, cosa ci fa lei qui a quest’ora?” fece a un tratto un suo ex alunno, appoggiato ad una trave.
“Rocco!” esclamò. “Mi hai fatto spaventare” disse portandosi la mano al petto, come se con quel gesto volesse normalizzare i battiti cardiaci. “Che ci fai qui a quest’ora?”
“Vengo spesso qui” rispose Rocco con voce calma e abbassando lo sguardo, quasi vergognandosi.
“Tutto bene, Rocco?”
“Sono tornato da poco a Giarre” rispose lui, aggrottando le sopracciglia. “Dopo la laurea, sono stato un po’ dai miei cugini al nord, ma non ce l’ho fatta ad ambientarmi”.
“Se ti può consolare, neanche io mi sono mai ambientata qui” rispose Caterina sedendosi accanto a lui.
“E poi, se è vero ca u munnu gira, ri cà avi a passari” fece Rocco sorridendo. Tirò dal mozzicone di sigaretta e buttò fuori il fumo dalle narici.
“Certo, ma non credo proprio che la fortuna si farà vedere in questo posto” rispose sarcasticamente Caterina.
“Lei, professoressa, non è cambiata per niente. Anche il taglio dei capelli è ancora lo stesso”. “Sono cambiata, invece, sicuramente sono invecchiata”.
Restarono in silenzio per un po’. Caterina ricordava che Rocco era sempre stato diverso dai suoi compagni, schivo e silenzioso, chiuso nel suo mondo accessibile solo a pochi amici e a pochissime amiche. Aveva provato più volte a coinvolgerlo in attività extrascolastiche, ma lui non aveva mai partecipato. I suoi testi erano davvero un piacere da leggere, sempre profondi ed emozionanti. Una volta aveva scritto sul tema dell’omofobia, e aveva raccontato di due ragazzi gay di Giarre soprannominati gli “Ziti”, trovati morti mano nella mano a causa di un colpo di pistola alla testa. Aveva parlato con sensibilità e delicatezza di quei dei ragazzi, che probabilmente venivano a nascondersi proprio qui, al Parco dell’Incompiuto, pensò Caterina. “Le faccio fare un giro, professoressa?”
“Sì, grazie” rispose Caterina. Si alzò, spolverandosi il cappotto. Notò una corda vicino a Rocco, poi salirono su delle gradinate da dove riuscivano a vedere tutte le opere. Una civetta cantava e a Caterina vennero in mente gli anatemi che sua nonna lanciava contro quel povero uccello ogni volta che lo sentiva cantare. “Porta scutra” diceva.
“Questa è la pista di atletica, e quello sotto i cassonetti dell’immondizia è il campo da polo” disse Rocco indicando una discarica a cielo aperto. “E quella laggiù è la piscina olimpionica, e ci sono anche una ludoteca, un teatro, una casa per anziani, un mercato per i fiori e una pista per le macchinine: come vede, professoressa, non manca niente”.
Caterina era allibita e senza parole: sarebbe stata davvero una bella realtà per grandi e piccoli se quel progetto fosse stato concluso.
Caterina sospirò, poi disse: “Ma che ci vieni a fare, tu, in questo posto?”
“Sto bene qui, nessuno mi viene a rompere le scatole” rispose Rocco.
“Hai un lavoro?”
“No, qui non c’è un cazzo da fare. O vai a lavorare la terra o fai il pescatore, oppure diventi un criminale” rispose, e aggiunse: “Siccome d’inverno in campagna non c’è molto da fare, sto a casa”.
Caterina notò che Rocco si era rabbuiato. All’improvviso, però, disse: “Si ricorda di Mimmo?” “Sì! Come sta?”
“Si è suicidato: non voleva diventare come il padre, don Ciro. Lei sa chi è. E Carmela… se la ricorda?”
“Carmela era quella ragazzetta tutta pepe, anche un po’ strafottente, biondina. Voleva girare il mondo…”
“Sì, proprio lei. Sa… si è dovuta sposare un latitante, adesso ha tre figli e fa la vita di una carcerata”.
Caterina deglutì a fatica.
“Posso continuare, se vuole. Ne ho da raccontare!”
Caterina fu distratta di nuovo da quella canzone. Chiese a Rocco: “La senti anche tu questa musica?”
“Quale musica? Io non sento niente”.
“Mi sembra che provenga da quella parte” disse Caterina, indicando la piscina olimpionica. “Ok, allora andiamo a vedere se c’è una festa da quelle parti, magari ci offrono da bere” rispose in modo beffardo Rocco, accendendosi un’altra sigaretta.
Scesero la scalinata e si avviarono: “Stia attenta a dove mette i piedi, il pavimento non è ancora finito” disse Rocco con tono scherzoso.
Arrivarono ad una grande buca, immensa, sul cui fondo erano spuntate piante di ogni genere, che evidentemente avevano avuto la meglio sul cemento ormai tutto crepato: “Qui non c’è nessuna festa. Sente ancora la musica, professoressa?” chiese Rocco sorridendo.
“Sì” rispose lei, un po’ infastidita dal tono canzonatorio di Rocco.
Caterina cominciò a camminare intorno a quella pseudo-piscina. C’era qualcosa di mistico in quel posto che l’attraeva, e che faceva di quell’ammasso di cemento un posto sorprendente: forse era questo che si intendeva con la teoria dei non-luoghi, e forse per questo Rocco andava a rifugiarsi lì. Caterina lo guardò: ormai era un uomo, non era più il ragazzo che lei ricordava. Si strinse la cinta del cappotto e si sedette sul bordo della piscina lasciando dondolare le gambe nel vuoto, come faceva da bambina quando il nonno la faceva sedere sul vascone usato dalle donne del suo paese per lavare i panni.
“Lì fuori non c’è posto per me, professoressa. Mi sento incompiuto, come questo posto” confessò Rocco, che si era seduto nel frattempo accanto a lei.
“Non stai bene neanche qui?” chiese Caterina.
“Non riconosco più questo paese come il mio paese” disse Rocco, che fissava il fondo della piscina.
Caterina ricordò con nostalgia quando lei da ragazza trascorreva ore e ore seduta sul muretto della fontana nella piazza di Nicolosi a chiacchierare spensieratamente con i suoi amici, guardandosi in faccia e ascoltandosi davvero.
“Rocco, c’è ancora tanto da scoprire, perfino in questa nostra piccola realtà”.
“Ma si rende conto di che mondo c’è lì fuori?”
Caterina non seppe come replicare, in effetti Rocco non aveva tutti i torti. Viveva in un mondo molto diverso da quello in cui lei era vissuta quando era più giovane, con altri problemi e diverse dinamiche sociali.
La civetta continuava il suo canto e le piante si piegavano al vento, che si era improvvisamente
alzato e sibilava tra le fessure dei muri crepati.
“Cosa vorresti fare? Nasconderti tra queste miserie per tutta la vita?”
“Questa non è vita, professoressa” rispose glaciale il ragazzo.
“Rocco, io e te ci somigliamo in tante cose, capisco il tuo malessere, ma devi reagire: non risolverai alcun problema nascondendoti. Come si dice… Cu ’un fa nenti ’un sbaglia” disse Caterina, poggiando affettuosamente la mano sulla spalla di Rocco che, a testa bassa, si guardava le mani rovinate dal lavoro nei campi.
“Volevo fare l’architetto, sposarmi e avere dei figli. E invece…”
“Invece cosa, Rocco? Sei giovane e hai tutte le capacità per fare quello che senti di voler fare” incalzò Caterina, ma Rocco scuoteva la testa. Lei pensò alla corda che aveva visto prima e un brivido la raggelò. Ebbe la sensazione che quella sera con Rocco avesse fallito, che non fosse riuscita ad aiutarlo, come invece avrebbe voluto.
Caterina gli prese una mano e gli chiese: “Me la offri una sigaretta?”
“E da quando fuma, professoressa?” fece Rocco, evidentemente sorpreso da quella richiesta. Le porse la sigaretta e se ne accese una anche lui.
“Perché quella corda?” chiese improvvisamente Caterina, terrorizzata dalla possibile risposta. “È da un po’ che sta lì, mi fa compagnia…”
Caterina era adesso ancora più spaventata, sentiva che doveva fare qualcosa. Un colpo di tosse a causa del fumo la fece quasi strozzare.
“Tutto bene, professoressa?”
“Sì sì, tranquillo. È che non so fumare” rispose lei con un filo di voce.
Una scossa di terremoto fece tremare tutto, ma Rocco e Caterina rimasero tranquilli, abituati com’erano alle scosse della Montagna.
“Vieni con me” disse lei, alzandosi subito dopo e spegnendo con la scarpa la sigaretta.
“Mi porta a qualche altra festa?” chiese Rocco con tono beffardo.
Caterina non si curò di quelle parole e cercò un punto da dove l’Etna si vedeva bene. Lo raggiunsero senza dire nulla.
“Tu sei come lui, Rocco, una montagna piena” disse guardando estasiata le fiamme sul vulcano. “Devi buttare fuori tutto quello che hai dentro. Prendi il bello da ogni cosa e vivi per quello” disse, con gli occhi puntati sul vulcano e appena velati di lacrime. Con un nodo in gola, Caterina confidò a Rocco: “Sai, l’unica cosa a cui pensano i miei amici e i miei parenti è che sono una donna a metà, visto che non mi sono creata una famiglia. Ma non si sono mai chiesti il perché, probabilmente”. Poi aggiunse, guardando il vulcano: “Non lo trovi affascinante? Ogni tanto si ribella, vomita e distrugge quello che incontra sulla sua strada, senza curarsi di niente e
nessuno. Eppure, lungo le sue pendici spuntano ogni anno meravigliosi cespugli di ginestre. Perché non inizi a scrivere? Eri così bravo…”
“E poi lei mi metterà il voto e correggerà gli errori con la penna rossa?” chiese Rocco. Caterina non capì se fosse l’ennesima battuta sarcastica o una richiesta di aiuto.
“Mi farà piacere leggere quello che scriverai” rispose dolcemente Caterina. “Grazie” si limitò a dire a Rocco.
“Toglimi una curiosità, Rocco: quale era il mio soprannome al liceo?”
“A babba schietta”.
“Ah! Pensavo peggio. Avete avuto sempre poca fantasia” fece lei, sorridendo. Poi aggiunse: “Si è fatto tardi. Sarà meglio avviarmi verso casa, anche perché è una bella passeggiata da qui fino al porto”. Caterina guardò Rocco e disse: “Posso andare via tranquilla?”
“Certo, professoressa. Farò il bravo”.
Lui la salutò stringendole forte la mano. Caterina strinse la cinta del cappotto e si avviò. “Professoressa” urlò Rocco dopo un po’, quando lei già era lontana, “la sente ancora la musica?”
Caterina fece un gesto con un braccio per dire di no, non sentiva più la musica.
Rocco fumò l’ultima sigaretta e accartocciò il pacchetto, rimasto vuoto.
Il suolo tremò di nuovo e lui perse l’equilibrio. Si appoggiò ad un muretto per non cadere. Cercò di tenere dritta almeno la testa per non vomitarsi addosso. Adesso avrebbe voluto un’altra sigaretta per togliere l’amaro dalla bocca. Raccolse il mozzicone che aveva appena spento. Era una notte di luna nuova e sapeva che avrebbe aspettato l’alba fra quei ruderi, come tante altre volte aveva fatto.
“Io non sono un vulcano” disse, guardando la corda.
La civetta di prima cantò.
Laura Avati, Io non sono un vulcano, in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2020, pp. 49-56.