Adagio
di Silvia De Felice
tratto da Voci Nuove 7
a cura di Daniele Falcioni
Rapsodia Edizioni
Catastrofe può essere un virus, un terremoto, una guerra, ma può essere anche un amore finito male, un sogno infranto, una malattia o la morte; la catastrofe, qualunque ne sia la natura, cambia la nostra vita e la stravolge per sempre.
Mentre l’Adagio suonato dalla London Philarmonic Orchestra riempiva morbido la stanza illuminata dal sole, Elizabeth posò la tazza di tè sul tavolino, appena in tempo perché non cadesse. Da diverse settimane, ormai, le mani le tremavano tanto da non riuscire quasi a controllarsi, fece piano, non voleva turbare i sonni tranquilli di Mila. La gatta le riscaldava le gambe e l’anima, mentre lei osservava per l’ennesima volta quei campi verdi e sconfinati, quei cespugli di rododendro dove da bambina tante e tante volte si era nascosta con Arthur e John. Era abituata a stare da sola; in un’epoca in cui le massime aspirazioni di una donna erano il matrimonio, una famiglia numerosa e un marito, lei al contrario gestiva la sua vita senza dipendere da nessuno. Era sempre stata di corporatura robusta, ma era ben proporzionata, e aveva un viso molto femminile, incorniciato da folti capelli color del rame. La debolezza che provava ormai da tempo le aveva tolto quel sorriso con cui ammaliava le persone. La malattia negli ultimi mesi la stava logorando e presto, anche solo per nutrirsi, avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di qualcuno, e questo lei non lo avrebbe mai accettato né permesso.
“Cara, vecchia amica mia” disse, rivolgendosi alla gatta, “quando ero giovane pensavo che avrei girato il mondo, e invece sono rimasta qui. Credevo nel grande amore, e quando arrivò Marc ero sicura che fosse lui, quel grande amore. Erano svanite tutte le mie manie di indipendenza, pensavo solo a lui, vivevo nell’attesa del suo ritorno, pendevo dalle sue labbra. Stenti a crederlo, vero? Eppure è così: ero capace di costruire una staccionata, dipingere la facciata di casa, smuovere pietre enormi per creare aiuole di fiori. Invece con lui perdevo le forze, ero una stupida donnetta innamorata. Sapessi, cara la mia gattona, sapessi di cosa la tua padrona è stata capace, tanto tempo fa…”
Finita la musica, Elizabeth era rimasta sulla sua vecchia bergère ormai logora ad aspettare il tramonto del sole, dopo di che si era sforzata di preparare la cena. Ormai non aveva più fame, mangiava per abitudine e per dare, con i pasti, un ritmo alle sue lunghe giornate. Quando iniziarono a cantare i grilli, fece il giro della casa per controllare che porte e finestre fossero chiuse, spense le luci e salì in camera da letto, confidando in un sonno senza incubi. La sua era, purtroppo, una speranza vana. Da parecchio un unico incubo disturbava il suo riposo notturno. La scena era sempre la stessa: si trovava al buio, sulle scale che portavano giù in cantina, lei scendeva, gradino dopo gradino, e tremava sempre di più, il flebile rumore che le pareva di sentire aumentava fino a diventare un rantolo. Quando poi arrivava in fondo, e faceva per aprire la porta e accendere la luce, qualcosa o qualcuno le si avventava addosso e all’improvviso si svegliava, madida di sudore.
La mattina dopo, Elizabeth venne svegliata dalla gatta che voleva uscire, quasi non riusciva a ricordare cosa avesse fatto la sera precedente, cosa avesse mangiato per cena e a che ora si fosse messa a letto. Sorrise laconicamente al pensiero che anche la sua memoria, sinora fin troppo pronta, stesse perdendo colpi. Con grande sforzo si mise seduta sulla sponda del letto, fece tre grossi respiri e si alzò in piedi. Il risveglio era il momento peggiore della giornata, il suo corpo provato si rifiutava di obbedirle e i dolori erano tanti. Con il passare dei minuti i suoi muscoli si scaldavano e le fitte causate dai movimenti divenivano più sopportabili. Scese la scala che portava al pianterreno tenendosi aggrappata al corrimano, alla fine del quale era appoggiato il bastone che le permetteva di camminare.
Elizabeth entrò in cucina e aprì la portafinestra che dava sul giardino per far uscire Mila, la temperatura era gradevole e decise di servire la colazione in veranda. Una colazione speciale! Mise a scaldare l’acqua per il caffè e lentamente preparò la tavola: apparecchiò con la tovaglia bianca e le tazze in porcellana che le aveva lasciato sua madre, poi tirò fuori dal forno un dolce preparato con fatica il giorno prima e prese dal cassetto della madia le posate in peltro. Fiori non servivano: i cespugli di rose del suo giardino erano stracolmi di boccioli, avrebbero fatto da contorno anche senza reciderli, il loro profumo arrivava fino alla veranda. A breve sarebbero arrivati Arthur e John, ma lei aveva bisogno di riprendere fiato: quelle piccole attività le avevano tolto le forze. Quei due uomini per lei erano più che fratelli, eguali nell’affetto che le dimostravano sempre, ma così diversi nel corpo e nello spirito. Arthur era mingherlino, aveva lo sguardo curioso e la mente sempre alla ricerca del perché della vita. John, un omone dai pochi capelli, aveva un sorriso tenero e lo spirito di chi sa che la vita non finisce con la morte.
Elizabeth si appoggiò dolorante sul dondolo lasciandosi andare ai ricordi. In pochi attimi ritornò a quando era poco più di una bambina, l’estate alle porte e le scuole appena finite. Stacey’s Lane era una stretta strada privata che portava alla grande casa dove viveva con sua madre; Arthur e John abitavano a poche centinaia di metri. La mattina, appena si svegliava aveva un unico pensiero: vestirsi, mangiare un paio di biscotti e uscire a giocare con i suoi compagni di avventure. S’incontravano quasi tutti i giorni, a volte portavano qualche panino e rimanevano fuori fino al tramonto, con buona pace delle loro mamme, che avevano smesso da tempo di sfinirsi per chiamarli, tranquille che, al più tardi per cena, li avrebbero rivisti.
Il rumore di una macchina la svegliò da quel leggero dormiveglia a cui si era abbandonata. I suoi uomini erano arrivati, non voleva farsi trovare semisdraiata sul dondolo. Si sbrigò ad alzarsi non facendo troppo caso alle fitte che avvertiva, si sistemò i capelli d’argento e andò loro incontro sorridendo.
“Che belli che siete!” disse felice mentre li abbracciava.
“Elizabeth, mia cara, come stai?” le chiese John.
“Bella sei tu, come sempre!” fece Arthur, tendendendole la mano.
Entrarono e si diressero sulla veranda che dava sul giardino dietro casa. I due uomini avevano la sua stessa età, ma sembravano più giovani, il fardello che portavano nel cuore era meno pesante di quello di Elizabeth, e non aveva tra l’altro minato il loro fisico. Si sedettero intorno al tavolo apparecchiato ed Elizabeth servì loro il caffè.
“Devo ammettere che mentre vi aspettavo mi sono quasi appisolata sul dondolo” disse loro, ridendo, e aggiunse: “Ho sognato quando ci siamo ritrovati qui il giorno in cui siete ritornati a Wanborough, e tutti i segreti che mi avete rivelato”.
“Mi sembra ieri che la mattina appena alzati ce ne scappavamo a gambe levate da casa per avventurarci nei campi” proseguì John, mentre sbocconcellava il dolce. E aggiunse: “A te proprio non piacevano le bambole, preferivi le avventure e inventavi sempre viaggi fantastici!”
“Vero” si intromise Arthur, “partivamo con gli zainetti pieni di cibo, e le nostre mamme neanche si preoccupavano: sapevano che saremmo ritornati prima di buio. Sono stati anni bellissimi, peccato essere diventati grandi”.
“John, ricordi quanto rimasi stupita quando a Oxford decidesti di dedicare la tua vita a Dio e poi tornare proprio qui, a Wanborough, per essere la nostra guida spirituale?” domandò Elizabeth, e aggiunse: “Quando vidi che portavi quella catena con il crocefisso, rimasi senza parole. Proprio non me lo aspettavo”.
“Già” ammise l’amico sorridendo, “avevi una faccia!”
“E quando vi raccontai che avevo una storia d’amore con un uomo?” proseguì Arthur, “Ve lo ricordate? Calò un silenzio di tomba, ebbi paura che non mi avreste più voluto bene, e invece siete stati splendidi, volevate addirittura conoscerlo, che lo portassi qui a Wanborough. Figuriamoci! Ci avrebbero banditi tutti quanti, se non addirittura lapidati”.
I tre si guardarono sorridendo. La primavera inoltrata, il verde dei campi seminati, i fiori e il canto degli uccelli fecero da sottofondo per qualche minuto alla colazione e ai loro pensieri.
I due uomini aspettavano pazienti, la loro amica aveva qualcosa da dire, ma non volevano forzarla. Sapevano che era qualcosa di importante.
“Che ne dite se facciamo una passeggiata?” propose Elizabeth.
“Te la senti?” le chiese John.
“Sì” rispose la donna, e aggiunse: “Con voi al mio fianco, posso affrontare tutto”.
Arthur le prese uno scialle e s’incamminarono lenti verso i campi dove erano stati centinaia di volte da bambini. Lui aveva scoperto lì la sua passione per la medicina. Osservava curioso tutti gli insetti e i piccoli animali, se ne trovava di morti li apriva con il suo coltellino e cercava di scoprire il segreto della vita.
I tre camminavano piano, lei faceva un po’ fatica, le fitte le toglievano il fiato. Ma sopportava in silenzio, voleva godersi quei momenti. I suoi due cavalieri chiacchieravano, erano molto conosciuti e stimati nel villaggio; un medico e un sacerdote, in tanti si rivolgevano a loro per curare malattie del corpo e dello spirito. Anche Elizabeth non era da meno: negli anni di prosperità che erano seguiti al secondo dopoguerra, lei era stata una delle prime insegnanti di quel piccolo borgo, che pian piano era diventato un paese; quanti ne aveva cresciuti di bambini! Molti, poi, se ne erano andati, ma tanti erano rimasti, e quando la incontravano non scordavano mai di ringraziarla per la pazienza con cui si era dedicata a loro.
Dopo un po’ di cammino arrivarono al grande albero che si trovava quasi alla fine della proprietà. Era incredibile come ancora fosse perfettamente visibile l’incisione a forma di cuore con all’interno due lettere: una E e una M.
Nonostante nessuno di loro avesse fatto il minimo accenno a quel cuore, Elizabeth ebbe un sussulto, John la strinse e Arthur la guardò con tenerezza. La donna sfiorò quelle lettere e i ricordi riaffiorarono.
“Il giorno che ho conosciuto Marc ho subito pensato che fosse l’uomo della mia vita, quando poi l’ho rivisto la seconda volta ne ero già perdutamente innamorata. Come ho potuto essere così cieca e sorda da non capire che mostro fosse? Qualunque storia mi propinava io gli credevo, e perdonavo, aspettavo, speravo” iniziò a ricordare la donna. “Mi ripeteva in continuazione che era il lavoro a tenerlo lontano da me, che presto avrebbe sistemato tutto e sarebbe rimasto. Ogni volta che ripartiva mi diceva che sarebbe stata l’ultima, dovevo solo avere pazienza, avremo presto costruito la nostra famiglia. Gli ho sempre creduto, fino a quel maledettissimo giorno in cui si rivelò per quello che effettivamente era: un maledetto bugiardo”.
Elizabeth con un filo di voce ricordò ai suoi amici della mattina in cui lei gli aveva aperto la porta di casa. Era felice, fremeva nel dirgli della bella novità: dopo diverse settimane di ritardo del ciclo, aveva scoperto di essere incinta. Era sicura che questo suo regalo avrebbe finalmente convinto Marc a fermarsi a Wanborough, lui l’amava e un figlio sarebbe stato il coronamento della loro storia d’amore.
“Credetemi, quando gli comunicai la notizia, si trasformò: gli tremavano le mani, lo sguardo era diventato cupo e la voce roca. Un gelo mi avvolse all’improvviso, ebbi un capogiro mentre lui sbraitava, e persi i sensi”. Raccontava quei fatti come se i suoi due compagni di vita non sapessero già, come se non fossero a conoscenza della catastrofe che di colpo si era abbattuta su di lei. Mentre parlava, John le passava delicatamente le dita tra i capelli d’argento, e Arthur le teneva stretta la mano. Era una donna forte, lo era sempre stata, tranne quel giorno in cui le terribili parole pronunciate da quello che pensava essere l’amore della sua vita l’avevano abbattuta. Elizabeth aveva telefonato ai suoi due amici, che erano subito accorsi e l’avevano trovata seduta a terra, gli occhi pieni di lacrime, tra le gambe una pozza di sangue. Arthur l’aveva visitata e il responso l’aveva quasi annientata: non solo era stata abbandonata dall’ uomo che amava, ma aveva anche perso suo figlio. Elizabeth non voleva più vivere. I giorni successivi erano stati molto difficili, lei si rifiutava di mangiare e bere, voleva solo dormire. I due amici avevano cercato in tutti i modi di consolarla, le parlavano di come avrebbe trovato un altro uomo, migliore, che l’avrebbe amata veramente. Lei non li ascoltava, aveva lo sguardo perso nel vuoto e a volte nel sonno, sentivano che si disperava, mormorava scuse incomprensibili. Dopo giorni di digiuno, accudita da Arthur e John, Elizabeth aveva ripreso a nutrirsi e in poche settimane si era ristabilita. All’inizio dell’anno scolastico, Elizabeth era stata pronta a riprendere il lavoro. Dentro di lei, però, era rimasto qualcosa che l’avrebbe corrosa per sempre, un segreto che non aveva potuto rivelare a chi le aveva sempre voluto bene. L’insegnamento e le gratificazioni dei suoi studenti l’avevano aiutata a vivere, ma un male si era insinuato dentro di lei, subdolo, lento, inesorabile.
Gli anni a venire erano in qualche modo trascorsi: John spesso andava a Londra per incontrare i suoi superiori, voleva rinnovare la canonica e aveva bisogno di fondi. Arthur, invece, a Londra non era più tornato; soltanto in quella città avrebbe potuto continuare la sua storia d’amore, ma ciò lo avrebbe obbligato a lasciare Wanborough e anche Elizabeth. Non ne avrebbe mai avuto il coraggio, aveva quindi soffocato i suoi desideri fino, in parte, a dimenticare.
“Cosa avrei mai fatto senza di voi? Mi avete aiutata senza battere ciglio, mi avete protetto e dato da mangiare affinché non mi lasciassi morire, mi avete consentito di continuare a vivere”.
“Era il minimo che potessimo fare per te” disse John, e proseguì: “Se solo avessimo avuto il coraggio di dirti cosa sospettavamo di lui quando ce lo facesti conoscere, forse…”
“Dai, sediamoci un po’, sei stanca, riprendi fiato” disse Arthur, e l’aiutò a sedersi sul prato, poi ad appoggiarsi con la testa sulle sue gambe. La giornata era splendida, Elizabeth aveva bisogno di parlare, di liberarsi, e i suoi due amici erano gli unici che potevano capirla e rasserenarla.
I tre erano seduti sul prato sotto il grande albero quando iniziò a cadere una fine pioggerella primaverile.
“Andiamo a casa prima che diluvi” disse John.
“Sì, va bene” rispose Arthur. Si rivolse a Elizabeth dicendo: “Mia cara, su, alzati”.
La donna obbedì, ma quando era quasi in piedi una fitta lancinante la fece piegare in due; la prontezza dell’amico impedì che cadesse. Arthur guardò John, erano impalliditi entrambi. Sapevano molto bene della malattia, sapevano che le condizione di Elizabeth si sarebbero aggravate molto quasi all’improvviso, senza alcun preavviso; sapevano che da un momento all’altro la loro amica avrebbe perso forze e conoscenza, ma non erano ancora pronti a lasciarla andare. Il medico aveva interpellato decine di specialisti, scritto lettere, consultato testi di medicina sperimentale; le risposte avute non avevano lasciato spazio alla speranza. C’era, inoltre, un fatto molto importante che incideva sull’evolversi implacabile della malattia, era un fatto che loro non riuscivano in pieno a comprendere: Elizabeth era stanca di vivere e non lottava.
Dopo qualche minuto lei sembrò essersi ripresa, e con un sorriso disse: “Ragazzi, torniamo in veranda, altrimenti ci bagneremo. Io ora sto bene, datemi le vostre braccia per camminare meglio”.
Si diressero verso casa. Fecero appena in tempo ad arrivare che venne giù un forte sgrullone. Il temporale durò poco, e le gocce d’acqua sospese nell’aria, aiutate dai raggi del sole crearono uno splendido arcobaleno. Elizabeth si era accomodata sul dondolo, la gatta sonnecchiava e lei ammirava quei sette colori nel cielo. Arthur e John le sedevano vicino su due poltroncine in vimini un po’ consunte; aspettavano che lei parlasse. In cielo ora splendeva un bel sole, le rose profumavano e le foglie dei cespugli splendevano bagnate. A chi avesse osservato da fuori, quella scena sarebbe parsa quasi un quadro di Monet.
Dopo un po’ Elizabeth guardò amorevolmente i suoi due uomini e disse: “Lo so che non volete, lo so che non siete pronti, ma io lo voglio. Io sono pronta. Ho resistito e lo sapete, l’ho fatto per voi, perché mi volete tanto bene e non volevo farvi soffrire. Ma ora basta, sono stanca, sono ancora lucida, ma non so fino a quando potrò esserlo. Sono stata un peso per voi per gran parte della nostra vita, non voglio esserlo più. Prima, al grande albero, ho creduto fosse arrivato il momento, non riuscivo a respirare, la vista mi si era annebbiata e le gambe non reggevano più. Io, Elizabeth, la vostra Elizabeth, non diventerò un vegetale che anela un soffio di vita sulle vostre spalle. No, non lo diventerò!”
Arthur e John non riuscivono a proferire parola, la guardavano con gli occhi gonfi, deglutivano per non far uscire le lacrime. Elizabeth prese Mila sulle sue ginocchia. Accarezzandola maternamente, continuò: “Arthur, caro amico mio, hai portato quello che ti avevo chiesto?”
John ebbe un brivido, appoggiò con forza entrambe le mani sulle ginocchia per fermare il tremolio delle sue gambe. Il medico mormorò un sì debolissimo. Qualche settimana prima, quando ancora riusciva a camminare più a lungo, Elizabeth era andata allo studio di Arthur, aveva aspettato che i suoi pazienti fossero andati tutti via, ed era entrata. Cercando di apparire serena e ferma più che poteva, aveva chiesto al suo amico medico di aiutarla a morire. Lui aveva fatto finta di non capire, poi si era opposto, l’aveva implorata e supplicata, ma lei era stata irremovibile. Gli aveva chiesto qualcosa che potesse farla andare in un sonno profondo dal quale non si sarebbe più svegliata. Nel momento in cui gli aveva detto che si sarebbe rivolta a sconosciuti se lui non l’avesse aiutata, Arthur aveva ceduto. L’aveva riportata a casa ed era corso in canonica: non poteva portare quel peso da solo. Lui e John avevano fatto insieme tutte le ricerche per riuscire ad avere quanto richiesto dalla loro amica, e avevano trovato qualcosa che l’avrebbe addormentata tranquillamente come avrebbe fatto un qualsiasi normalissimo sedativo, ma lei non si sarebbe più svegliata.
Nelle settimane successive, Elizabeth sembrava quasi migliorata; andavano spesso a Stacey’s Lane e la trovavano sempre fuori in giardino: una volta che tagliava le rose appassite dai cespugli, un’altra che leggeva un libro sul dondolo con Mozart, Bach o Chopin in sottofondo, un’altra ancora che si azzardava a passeggiare quasi fino al grande albero. Lei li accoglieva sorridente, sembrava felice; Arthur e John non potevano sapere che le fitte erano sempre più frequenti, che le gambe di Elizabeth cedevano e le mancava il respiro. In loro presenza, Elizabeth era stata bravissima a fingere. Arthur e John non sapevano che nel suo passato era successo qualcosa che lei non aveva mai confidato a loro due. Un pomeriggio, però, li aveva chiamati al telefono e li aveva invitati a colazione per il giorno successivo. Alla fine della chiamata, aveva detto ad Arthur: “Porta con te ciò che ti ho chiesto”. Lui aveva tremato e capito. La mattina, quando era passato alla canonica per prendere John, non aveva avuto neanche la forza di salutarlo, lo aveva guardato sofferente e non c’era stato bisogno di parole.
“Elizabeth, cara, vuoi salire in camera da letto? Ti aiutiamo noi” disse John ad un certo punto, con un filo di voce.
“No, voglio rimanere qui in veranda, sul mio dondolo. Desidero che il mio ultimo sguardo prenda tutto insieme, una fotografia di ciò che più ho amato nella mia vita: voi due, i cespugli di rose e anche quelli in fondo di rododendro, Mila, i prati dove siamo stati tanto felici”. Poi proseguì: “Nel cassetto della scrivania troverete una lettera: ho lasciato a voi questa casa e la proprietà, vorrei che ne creaste un rifugio per giovani donne sole con un bambino da crescere, donne che come me si sono illuse o sono state ingannate dall’amore, ma al contrario di me hanno potuto far nascere la creatura che avevano in grembo”.
Fece poi un gran respiro e aggiunse: “Quando non ci sarò più, dovrete scendere in cantina, spostare quel vecchio divano marrone che era di mia madre e sollevare le assi del pavimento. Troverete un tappeto, arrotolato, ve ne dovrete liberare subito. Avvolti in quel tappeto ci sono i resti di colui che mi ha rovinato la vita”.
I due uomini balzarono in piedi. Erano senza parole. Gli occhi spalancati, non riuscivano a credere alle loro orecchie.
“Ma che dici, Elizabeth!” urlò Arthur. La gatta corse via, impaurita.
“Che tappeto? Di quali resti parli? Che cosa stai dicendo?” chiese John mentre stringeva in maniera convulsa il crocefisso che portava al collo.
“Sedetevi” disse lei, “vi porto un po’ d’acqua e vi racconto”.
I due uomini si guardarono, erano smarriti, poi la seguirono con lo sguardo e aspettarono che tornasse in veranda con dei bicchieri e una caraffa. Continuarono a fissarla, sbigottiti, senza proferire parola e portandosi l’acqua alla bocca in modo meccanico. Ad entrambi tremavano le mani. Elizabeth si sistemò sulla poltrona e iniziò a rivelare quanto aveva taciuto per anni e anni.
“Il giorno maledetto in cui rivelai a Marc di essere incinta, dopo aver ascoltato le sue accuse e sopportato tutta la sua ira, l’ho aggredito quando si era ormai girato per uscire per sempre da casa mia. Non mi ero neanche resa conto di aver preso in mano l’attizzatoio che era appoggiato al camino. Mentre era di spalle, l’ho colpito con tutta la forza che potevo. Non lo uccise il colpo in sé, ma il fatto che Marc, cadendo, aveva sbattuto la testa sul gradino. Passato un primo momento di disperazione, non so in che modo trovai la forza per avvolgerlo nel tappeto dell’ingresso e trascinarlo per le scale fino alla cantina. Qui c’erano delle assi del pavimento che avrei dovuto sistemare da anni, ma non lo avevo mai fatto. Questo mi tornò utile: le spostai, sotto c’era spazio a sufficienza per nascondere un cadavere. E così feci. Mi ricordai che avevo conservato dei sacchetti di calce avanzata da alcuni lavoretti svolti in precedenza. Misi un po’ di quella calce intorno, sopra e sotto al tappeto che avvolgeva il corpo. Lo sforzo era stato tale che, una volta tornata di sopra, ebbi delle fortissime fitte al ventre. Dopo pochi istanti sentii del liquido colarmi tra le gambe. Riuscii a telefonarvi prima di accasciarmi sul pavimento, proprio dove poi mi avete trovata”.
Arthur e John erano ancora senza fiato, si guardarono smarriti per qualche istante, poi le si avvicinarono e l’abbracciarono forte. Elizabeth si lasciò stringere per qualche istante, poi si sciolse dal loro abbraccio, li guardò con affetto e disse: “Ora è giunto il momento. Aiutatemi ad andarmene”.
foto da Comfreak by Pizabay