MAENZA, IL READING DEI RACCONTI DI ROBERTO CAMPAGNA

 

L’incontro, in programma sabato pomeriggio alle 18.30, si terrà presso la Pizzeria “Nonna Orgilla”   

 

Nell’ambito della “Festa della caldarrosta e dell’olio d’oliva”, i giovani di Maenza leggeranno sabato pomeriggio, alle 18.30, presso la Pizzeria “Nonna Orgilla”, i racconti del libro “Il sapore dei ricordi” di Roberto Campagna.

L’incontro sarà presentato e moderato dallo storico Alessandro Pucci.

“Un racconto – ha affermato Pucci – tita l’altro come le nostre ‘cirase’, la rinomate ciliegie maenzane. Si tratta di un libro in cui Campagna dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, tutte le sue doti narrative. Il suo è un linguaggio alla portata di tutti, colloquiale, che cattura il lettore. Leggere questi racconti è anche un modo per riscoprire l’identità culturale del comprensorio lepino sul cui territorio diversi di tali racconti sono stati ambientati. Non solo, ma il libro contribuisce anche al marketing territoriale”.

Il libro

Tredici i racconti, il cui protagonista è sempre Flavio, che in pratica funge da filo conduttore tra passato e presente, tra realtà e nostalgia. È un libro che si nutre della tradizione della letteratura popolare e del racconto orale, dove Campagna mescola abilmente elementi pseudo-autobiografici con la sua inconfondibile voce narrativa. Flavio, il riflesso nostalgico dell’autore stesso, rivive attraverso gli occhi di Campagna luoghi, sapori e atmosfere che potrebbero essere altrimenti dimenticati o destinati a scomparire. I ricordi che permeano le pagine di questo libro sono evocati da odori e gusti sepolti nel tempo, e l’autore li trasmette con una verve narrativa frizzante e ironica. Campagna impasta le sue storie, usando lo stesso timbro scanzonato di un moderno Balzac e lo fa trasportando il lettore nel suo mondo di nostalgiche disillusioni politiche, di scorribande canagliesche, di scherzi e alambicchi giovanili, di ripicche e fughe e amorazzi scollacciati. Leggendo dunque il libro non si può non pensare a una tenerezza antica – ma come fa la tenerezza a non essere anche gioia rabbiosa per un tempo ormai perduto? – e soprattutto a una operazione di recupero sociale e culturale, a un “amarcord” che vuole farsi scatola magica, scrigno di ricordi, perché il vero miracolo dell’uomo è sapere di appartenere a un luogo e di portarselo sempre dentro. “Il sapore dei ricordi – sottolinea Pucci – non è solo una raccolta di storie: è un viaggio nella memoria di un autore che sa dipingere con le parole, mescolando ricordi personali con una finzione che brilla per la sua autenticità. È un libro che incanta e sorprende, lasciando un retrogusto persistente di emozioni e riflessioni sulla fugacità del tempo e sul potere immortale dei ricordi”.

La festa

Circa la “Festa della caldarrosta e dell’olio d’oliva”, si terrà a Piazza Santa Reparata a partire dalle 16 di sabato. In programma: degustazione di olio Evo, piatti preparati con le castagne e spettacolo musicale.




MESSICO di Ninni Caraglia

Messico

di Ninni Caraglia

tratto dalla raccolta Tortelilini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

L’ospedale aveva sei piani ed era tutto rivestito da vetri specchiati per riflettere le colline di querce e ontani che lo circondavano. Un bianco sentiero contornato da bosso e ginestre conduceva alla reception in stile alberghiero più che di struttura sanitaria. Anche la malattia deve avere la sua parte di bellezza per diminuire il dolore: su questo concetto il dottor Rifkin, fondatore, aveva concepito e costruito il suo ospedale per chi il dolore poteva eliminarlo con trasfusioni di dollari. L’ultimo piano era una top suite, sia per il paziente sia per chi soggiornava per  assisterlo. Il piano sottostante dedicato agli uffici direzionali garantiva la privacy più assoluta; c’erano perfino due ascensori dedicati, uno esclusivo per il paziente ed uno per i sanitari.

La bionda e lentigginosa Linda Janssen era arrivata al Rifkin’s con la sua assistente Ana Sanchez il giorno prima, ovviamente in gran segreto per evitare il clamore della stampa. Linda e Ana erano coetanee, si erano conosciute al college e avevano mantenuto i contatti nonostante le loro vite completamente diverse. Ana era segretaria di direzione nel giornale della sua città: conosceva il mondo e la stampa; i “coccodrilli”, come diceva lei, crescevano in entrambi quei mondi e non solo nella sua Florida. Linda Janssen, bionda e procace, era in ogni foto del gruppo di cheerleader del college. Un sorriso fresco e una bella voce la portarono fino alla televisione: dai programmi per bambini a quelli del mattino, dove il suo sorriso apriva le finestre delle case di quella parte d’America che avevano cominciato a volerle un gran bene. Si ritrovarono quando Ana fu incaricata dal giornale di organizzare un’intervista a Linda. Quell’intervista ebbe molto successo, piacque come piacque a loro ritrovarsi. Decisero, dopo un paio di mesi, di continuare a lavorare insieme. Linda era serena, sapeva di poter contare sulla fiducia di Ana e a loro non interessavano i gossip dei rotocalchi su un presunto loro amore omosessuale. Affiatate ma diversissime nell’aspetto e nel carattere: Linda aveva giurato amore eterno alla sua bellezza e alla sua professione; Ana era di pelle dorata, dono del sole del Messico ai suoi nativi. Le canzoni di Linda risuonavano sempre nello studio di Ana e in mille altri sperduti motel, dove cameriere indaffarate cantavano quelle melodiche canzoni per divagarsi. “Ana, mi porteresti a trovare la tua famiglia in Messico? Ci meritiamo una vacanza”. Da allora, due volte l’anno si rifugiavano in un paesino sulla costa dell’Oceano Pacifico. C’era il giusto tempo per tutto: famiglia, sole, mare e anche il lavoro, visto che Linda aveva cominciato a pubblicare video sui social mentre cantava in spiaggia con i bagnanti. Linda non era abituata a vedersi così abbronzata, si vedeva più bella. Ana non era così amante del sole, quello del primo mattino era il suo vero caffè, poi era meglio lavorare all’ombra di casa.

Mentre disfacevano i bagagli nella suite dell’ospedale, ripensavano a quanti anni erano passati dalla prima vacanza in Messico, ormai la loro gioventù era trascorsa, per entrambe il successo professionale ed economico era al top. Le grandi vetrate del Rifkin’s sembravano membrane osmotiche per la luce del sole, che ora dava l’impressione di disturbarle. Le fronde ondeggiavano ipnotiche, assopite sui bianchi sofà.

Suonarono alla porta. Entrò un dottore con parecchi documenti in mano. “Buongiorno signora Janssen, mi chiamo Leonard Lewis e sarò il suo specialista dermatologo. Le lascio alcuni moduli da compilare e il calendario delle indagini che faremo in questi giorni. Si prenda del tempo per darci un’occhiata, può chiamarmi al 713 a qualsiasi ora”.

“La ringrazio, leggerò tutto subito e la richiamerò presto” rispose Linda stringendogli vigorosamente la mano per salutarlo.

“Ana, per favore, potresti ordinare in anticipo la cena? Così guardiamo insieme questi moduli” chiese sbuffando Linda. “Aggiungi anche una bottiglia di prosecco ben fresco!” aggiunse mentre disponeva sul tavolo i documenti.

“Alcol il giorno prima degli esami?” chiese stupita Ana.

“Ana, per favore! Ho già visto che il primo appuntamento, che fra l’altro è un semplice colloquio, è alle 11, quindi ho tutto il tempo per smaltire una bottiglia di prosecco. Anzi mezza, visto che beviamo insieme. Per favore! Già non dovrei essere qui! Sei stata tu ad insistere”.

Mentre Linda era di spalle, Ana alzò gli occhi al cielo e telefonò alla reception per ordinare.

La bottiglia di prosecco finì presto, Ana leggeva a Linda le domande del questionario anamnestico e poi scriveva subito la sua risposta. Ana evitava domande pensando che l’atteggiamento dell’amica fosse solo normale nervosismo. Due ore dopo telefonarono al dottor Lewis, che le raggiunse subito in stanza. Lewis era alto e ben piazzato, il camice bianco e gli occhiali tondi e dorati risaltavano sulla sua carnagione scura. Anzi, decisamente nera. Linda non era razzista ma quel colore la intimoriva. Ana gli fece cenno di accomodarsi al tavolo.

“Grazie per aver compilato tutto così presto. Leggerò e domani, se ne avrò bisogno, le farò altre domande. Domattina faremo un’epiluminescenza, una radiografia al torace e una biopsia. Se ci sono segnali dubbi faremo anche una tac. Meglio una cosa in più che una in meno, giusto? Tutto chiaro? Domande? Allora ci vediamo domani alle 11 al primo livello sotterraneo, stanza 10. Usi il suo ascensore e stia tranquilla, non la vedrà nessuno, anche se il nostro centralino oggi è andato in tilt per le telefonate dei giornalisti. Vi consiglio di usare la linea telefonica privata a voi dedicata. Buonanotte, signore”. Rimasero entrambe in silenzio sino al mattino successivo. Dopo gli esami del caso, pranzarono di gusto, visto che si era fatto tardi. Il dottor Lewis sarebbe ritornato in serata per parlare di alcuni risultati, quindi c’era tutto il tempo per un riposino.

Squillò il telefono, era Lewis che le invitava nel suo studio.

Il dottore iniziò mostrando la lastra al torace sullo schermo luminoso. “Alcuni linfonodi sul mediastino appaiono ingrossati, Linda”.

“Cosa vuol dire? È un tumore? O sono già metastasi?” chiese lei.

Lewis fece il giro della scrivania e prese le mani di Linda. Le indicò, nell’incavo dorsale tra pollice e indice della mano destra, alcune piccole piaghette rosse. “Linda, con grande probabilità questo è un melanoma. Anche il piccolo neo tra il dito indice e il medio è coinvolto. Faremo una nuova biopsia del tessuto vicino”.

Erano ammutolite da quella notizia.

“Dottore, io mi sento bene! I nei potrebbero essersi ingrossati per il sole e il prurito che la sabbia provoca. Non è possibile. Non ci credo!” insistette Linda.

“Vedremo gli altri risultati nei prossimi giorni e poi decideremo il da farsi. Buona serata, signore”.

Neanche il loro respiro si sentiva in ascensore, ma nella suite esplose la rabbia di Linda verso Ana. “Hai insistito e mi ritrovo in questo casino! È una cazzata! Non è possibile che sia così! Tutta colpa delle tue paure! Io sto benissimo!”

Ana le augurò la buona notte e si ritirò nella sua stanza. Linda ordinò vino e cantò fino a mezzanotte.

Il mattino seguente, Lewis rimase perplesso nel vedere Linda salutare dalla finestra alcuni fan che erano giù all’ingresso dell’ospedale e cantavano sventolando fiori per lei. Era sorridente quando si voltò per ascoltare il dottore.

È molto amata, vedo” disse Lewis accennando un mezzo sorriso.

“Sì! Perché sanno che il mio affetto per loro è sincero. Non fingo”.

Linda si sedette mantenendo la schiena orgogliosamente diritta e non rivolgendo lo sguardo all’amica.

“Sono qui per confermarle la diagnosi di melanoma. Ci sono piccole infiltrazioni linfovascolari che stanno cominciando ad ingrossare altri linfonodi. Tutto parte dalle prime tre dita della mano destra, come confermato dalla risonanza magnetica con contrasto. Abbiamo due strade che possiamo percorrere”. Lewis si fermò per riprendere fiato e concentrarsi sulle brutte notizie conclusive.

Linda si alzò di scatto andando nuovamente alla finestra per lanciare sue foto autografate agli ammiratori urlanti. Chiudendo la finestra disse al dottore: “Qual è la strada più breve?”

“Amputare le tre dita della mano destra per tentare di rallentare l’infiltrazione di cellule tumorali. Prima dell’amputazione ci sarebbero, tuttavia, tre cicli di chemioterapia per cicatrizzare il più possibile”. Lewis si fermò perché aveva visto il volto incredulo delle donne.

“E secondo lei mi faccio tagliare tre dita? Non basta fare la chemioterapia senza tagliare? E se le tagliassero a lei, le dita? No, dottore, questa strada non è per me. Mi prenderò del tempo per pensare, partiamo domani e poi le farò sapere” concluse Linda accendendosi una sigaretta.

“Non aspetti troppo, Linda. Ha il mio numero di telefono, mi chiami” disse lui tendendo la mano, che Linda non volle stringere.

Andarono via prima dell’alba il mattino dopo. Linda non rispose a nessuna domanda e proposta di Ana. Si ritrovarono negli studi televisivi dopo qualche giorno come se nulla fosse accaduto.

 

“Chiama Lewis, partiamo domani” disse Linda quasi senza voce. Si era presentata nell’ufficio di Ana scalza e claudicante. Gli ematomi sotto le unghie e le piante dei piedi ormai rendevano faticoso stare in piedi. Decisero tutto in quel momento: Linda avrebbe fatto con Ana un’ultima intervista. Ana avrebbe organizzato lo studio televisivo con le ultime foto fatte in Messico. Linda, dietro un ampio tavolo, sarebbe stata seduta normalmente nonostante la sedia a rotelle, il piccolo vaso di fiori rossi avrebbe coperto la mano mutilata mentre con l’altra avrebbe salutato in spagnolo il pubblico, una vez mas.

 

foto di Petra by Pixabay




IL TROLLEY di Silvia De Felice

IL TROLLEY

di Silvia De Felice

tratto dalla raccolta Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

Ed. Rapsodia

 

Francesca quel giorno proprio non riusciva a trattenersi dal sorridere, eppure era consapevole che sarebbe stata una serata lunga e faticosa. Tutto intorno a lei esultava: il mestolo sporco di sugo, la presina macchiata appoggiata sul lavandino, la scopa nell’angolo della cucina. Mentre spadellava guardava le zucchine, anche quelle sembravano ballare insieme ad aglio, olio e peperoncino. Era sicura che non sarebbe stato facile, che i toni si sarebbero alzati, e che forse qualche piatto sarebbe volato durante la cena con Antonio, ma non era preoccupata più di tanto, Francesca si sentiva forte e felice.

Era ormai tutto pronto, aveva preparato i piatti preferiti di suo marito, che sarebbe ritornato a breve dal lavoro, affamato come sempre ma totalmente all’oscuro di ciò che lo attendeva. La casa era in ordine, il frigo pieno, le lenzuola del letto matrimoniale fresche di bucato, fiori freschi nel vaso in corridoio; Francesca si guardava intorno soddisfatta. “Ho fatto proprio un bel lavoro” disse tra sé e sé, mentre il suo trolley da viaggio, nascosto dietro la porta, le faceva l’occhiolino. Oggi sembrava che tutti gli oggetti facessero comunella intorno a lei.

Il tintinnio delle chiavi alla porta la fece sobbalzare. Antonio era rientrato, iniziavano le danze.

“Mmmmm, che buon profumo” esordì suo marito, “una bella cena è proprio quello che mi ci voleva dopo una giornata di merda”. Dopo aver lanciato il soprabito sul divano, si diresse in bagno.

“Ciao” rispose Francesca mentre lui già non la sentiva più, “tra dieci minuti la cena è in tavola” aggiunse mentre scrosciava l’acqua della doccia.

“Devo decidermi a guardarmi intorno, l’aria dello studio è diventata davvero irrespirabile”. Queste furono le prime parole che le rivolse suo marito dopo essersi seduto e aver iniziato a mangiare. Parlava e neanche la guardava, Francesca sembrava invisibile per lui. “D’altronde sono ancora giovane, ho un curriculum di tutto rispetto e le riaperture dopo l’estate mi favoriranno” continuò lui.

“Sono contenta che la cena ti sia piaciuta, anche perché questa era l’ultima che ti preparo. Ho deciso di andarmene, ma ti ho lasciato il frigo pieno e la casa pulita” disse Francesca con tranquillità.

“Pensa che oggi quella stronza di Roberta ha avuto da ridire sul progetto che ho presentato in riunione, proprio lei che di fondamenta e pilastri non capisce un cazzo!”

Antonio non l’aveva ascoltata, anzi non l’aveva proprio sentita.

“Ho anche messo dei piatti pronti nel surgelatore e pulito tutta la casa, così avrai qualche giorno di autonomia finché non troverai una persona che possa aiutarti con le pulizie e i pasti” continuò lei, poi si alzò per cambiare i piatti.

“Quella crede che possedere qualche quota in più della società le dia il diritto di spadroneggiare con chi si sobbarca della maggior parte del lavoro. Se ne accorgerà, la deficiente, quando me ne andrò”.

“Non mi hai sentita neanche questa volta?” si azzardò a chiedere lei.

“Sono mesi che lavoro come un pazzo per rispettare i termini e le scadenze concordate con i clienti, per evitare allo studio di dover pagare delle penali, per far fare bella figura a quel manico di scopa travestito da donna in carriera! E lei che fa? Cerca la magagna per screditarmi davanti agli altri e risultare la più competente. Sai cosa penso, Francesca?”

Lei non rispose, ma lui continuò lo stesso.

“Penso proprio che quella volta che mi si buttò addosso, anziché fare la parte del marito fedele, me la dovevo scopare! Ecco che penso!”

“Sì, hai ragione” disse Francesca, e aggiunse: “Così avremmo deciso prima e con più facilità di non portare avanti questo nostro pseudomatrimonio”.

Chissà se ora l’aveva sentita.

“Lo capisco che potrò sembrarti brutale, cara, ma forse se non l’avessi rifiutata mi sarei evitato di ritrovarmi i bastoni tra le ruote per tutti questi mesi”.

Francesca si alzò di nuovo, tolse piatti e posate e li sostituì con quelli per il dolce; aveva preparato anche il dessert: un’ultima cena perfetta. Davanti ad un tripudio di pasta sfoglia, crema pasticcera e fragole, Antonio sembrò riscuotersi dal suo monologo.

“Scusami, tesoro, stasera ho parlato solo io, com’è andata la tua giornata?”

“Molto bene, direi, anche se un po’ faticosa”.

“Immagino: spesa, cucina e gli altri tuoi numerosi impegni domestici ti avranno stancata. Non avrai avuto neanche il tempo per scambiare due chiacchiere con quella pettegola del banco al mercato”.

Le fece un sorriso benevolo, accarezzandole la mano in modo comprensivo, e concluse dicendo: “Povero, il mio tesoro”.

“No, Antonio, niente di tutto questo” disse Francesca, facendo un bel respiro e pensando a chi e cosa l’attendeva. Finalmente suo marito la guardò e, soprattutto, sembrava che ora la stesse ascoltando, quindi senza aspettare oltre proseguì, guardandolo negli occhi: “Mi sono un po’ stancata, è vero, ma sono contenta perché ho lasciato tutto in ordine, i tuoi vestiti sono lavati e stirati e il frigo è pieno di cose da mangiare, crude e cotte, così per i primi giorni in cui sarai solo non avrai problemi”.

“Da solo io? E perché? Vai da tua madre? Sta male?” le chiese.

“No, sta bene per fortuna, e finalmente starò bene anche io, dopo tanto tempo”.

Lui ora la guardava senza parlare, incerto se finire il dolce o iniziare a preoccuparsi.

“Qualche mese fa, proprio al banco della verdura al mercato, ho conosciuto una persona, per caso. La settimana dopo l’ho incontrata di nuovo mentre curiosavo tra i libri usati: ci siamo scambiate qualche parola sui romanzi letti e poi, davanti ad un caffè, abbiamo scoperto di avere molte cose in comune”.

Sentendo queste parole, Antonio poggiò la forchetta sul piatto e strinse il tovagliolo. Francesca continuò: “Mi dispiace, Antonio, me ne vado”. Non aggiunse altro, per qualche istante aspettò che il marito le dicesse qualcosa, si arrabbiasse, sbattesse i pugni sul tavolo o magari si mettesse a piangere, ma niente di tutto questo successe. Antonio era ammutolito, si sentiva solo il suo respiro, leggermente affannato. Francesca allora si alzò da tavola e si mise a sistemare, pulì la cucina, riempì e attaccò la lavastoviglie, tolse e ripiegò la tovaglia. Suo marito era rimasto immobile sulla sedia, ora un po’ ingobbito. Decise di evitare di guardarlo, non voleva farsi prendere dalla compassione. Andò in camera, prese il trolley che l’aspettava dietro la porta e si guardò intorno un’ultima volta. Infine Francesca appoggiò il suo mazzo di chiavi sul tavolo, uscì e chiuse la porta.

Lui si alzò e lanciò furioso le chiavi, che finirono sulla portafinestra rompendone il vetro.  Antonio uscì sul balcone urlando: “Francesca! Dove pensi di andare?”

Si affacciò per vedere se riusciva a richiamarla, ma anche per capire chi fosse quella maledetta persona che si stava portando via la sua vita. Francesca però non aveva sentito il suo richiamo. Antonio fece appena in tempo a vedere che saliva decisa in una macchina scura; il lampione bordo strada fece brillare i gioielli sul polso e sulle dita di una mano femminile che gettava una sigaretta dal finestrino del guidatore. Sul sedile posteriore spiccava, insolente, la macchia fucsia del trolley di sua moglie. Lo stava facendo davvero, se ne stava andando.

 

 

foto Pizabay voltamax/97 images

 

 

 




TORTELLINI di Valentina Pucillo

Tortellini

di Valentina Pucillo

tratto da Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

“Quest’anno quanti ne facciamo? L’anno scorso erano davvero pochi” disse Maura con un sorrisetto ingolosito sul viso.
“Io ne ho calcolati una cinquantina per persona: per un piatto abbondante ne servono circa trenta, e con cinquanta viene fuori anche il bis per tutti” rispose zia Claudia mentre spargeva la farina sulla spianatoia. “Anche perché, a parte questi in brodo, il lesso e le verdure, io e Antonia abbiamo deciso di non preparare altro. Ci sono anche tutti i dolci. Altrimenti poi finisce che mangiamo troppo come tutti gli anni” continuò, prendendo l’impasto della sfoglia e iniziando a stenderlo col mattarello.

“È sufficiente il ripieno? Mi sembra poco, considerando che domani ci saranno anche altri ospiti. Dovremmo farne almeno 700” disse preoccupata nonna Mimì, che temeva sempre che il cibo non fosse sufficiente.
Il grande tavolo del tinello era allestito per l’occasione. Una tovaglia incerata era stesa su tutta la superficie per evitare che il legno scuro si rovinasse. Sopra c’erano la spianatoia, il recipiente contenente il ripieno profumato di mortadella e noce moscata, e svariati vassoi coperti da strofinacci candidi, incastrati con i bordi l’uno sull’altro, pronti ad accogliere le file ordinate di tortellini che tutta la famiglia, come ogni anno nel pomeriggio della vigilia di Natale, stava preparando per il pranzo del giorno dopo.

“Sòrbole, Claudia, tirala più sottile quella sfoglia, eh! Mario, mescola mo’ quel ripieno che lo vedo un po’ grumoso”: come ogni anno, forte delle sue origini emiliane, zio Paolo dispensava consigli e perle di saggezza a destra e a manca con il suo marcato accento bolognese.
La ripartizione dei compiti era più o meno sempre la stessa. Zia Claudia, avendo acquisito dal marito quel tanto di bolognesità che bastava, preparava e stendeva la sfoglia quasi come una perfetta sfoglina e tagliava i quadrelli di pasta delle giuste dimensioni; “Piccolini! Il vero tortellino deve essere grande come una moneta da venti centesimi!” continuava a ripetere zio Paolo fino allo sfinimento; Antonia, la sorella, insieme ai figli Maura e Valentino, era addetta alla preparazione del ripieno, a porzionarne la giusta quantità nei quadrati di pasta e a chiudere questi ultimi su sé stessi per formare i triangoli; zio Paolo e il cognato Mario, i due ‘precisi’ della famiglia, avevano il compito di sigillare i triangoli bagnando leggermente i bordi e di dar loro la tipica forma del tortellino ripiegandoli attorno al dito. Il tutto era supervisionato da nonna Mimì che, forte dell’immunità ai rimproveri datale dai suoi ottant’anni, danzava da una postazione all’altra, metteva le mani ovunque e pasticciava senza che nessuno avesse il coraggio di dirle nulla.

La famiglia Brambilla era molto unita; tuttavia, per qualche scherzo del destino, ognuno dei componenti aveva scelto di stabilirsi in posti piuttosto lontani l’uno dall’altro. Non erano quindi molte le occasioni in cui la famiglia Brambilla riusciva a riunirsi. Per questo il Natale tutti insieme nella casa dei nonni, con annesso il rito di preparazione dei tortellini, era un appuntamento che nessuno aveva mai messo in discussione. Intorno a quel tavolo del tinello si creava sempre un’atmosfera armoniosa. Claudia, che con movimenti sicuri preparava la pasta da riempire, ciarlava allegramente con Antonia e Mimì di parenti, storie del paese e ricette. I bisticci tra Valentino e Maura sui reciproci stili di vita sembravano quasi addolcirsi grazie all’odore denso del brodo di cappone che, sobbollendo in cucina per ore, li accompagnava durante tutta la preparazione dei tortellini.

Anche i due cognati, che normalmente non facevano che stuzzicarsi, in quell’occasione sotterravano l’ascia di guerra, concentratissimi sulle operazioni di chiusura della pasta; uno sguardo attento avrebbe comunque percepito una sorta di sfida silenziosa su chi dei due riuscisse a formare il maggior numero di tortellini chiusi a regola d’arte. A rallegrare la laboriosa famiglia c’era la sempre presente televisione che strepitava a tutto volume, spesso sintonizzata da nonno Giulio su affascinanti programmi di interesse generale quali, ad esempio, documentari sugli gnu.

Quel pomeriggio nonno Giulio era di umore variabile. Dopo aver imposto a tutti una mezz’ora di televendite di utensili da cucina di discutibile utilità, aveva di botto abbassato il volume della televisione e si era accomodato intorno al tavolo con gli altri, osservando la scena con espressione arcigna. Sembrava interessato a studiare la preparazione della sua portata preferita del pranzo di Natale. Aveva scelto una sedia a capotavola in posizione strategica, proprio davanti ai vassoi che iniziavano a riempirsi di tortellini; non appena gli altri si distraevano, il buon vecchio Giulio ne rubava qualcuno con movimenti fulminei e lo ingoiava crudo con colpevole voluttà.

Tutti lavoravano in silenzio, concentrati, essendo generalmente difficile chiacchierare a causa del baccano della televisione.
“Ma che silenzio stasera! Perché non mettiamo un po’ di musica?” chiese Maura rendendosi conto che il rimbombo della televendita era cessato.

“Sì, dai, passami lo zaino, ho un cd di etno marocchina che mi ha regalato Karima” ribatté subito Valentino, sempre voglioso di condividere le sue passioni con chiunque gli capitasse sotto tiro.
“Veramente pensavo a qualcosa di allegro, magari canzoni che conosciamo tutti e che possiamo canticchiare insieme” replicò seccata Maura, fulminando il fratello con lo sguardo. “Allora dovremmo cantare Nilla Pizzi, se teniamo conto dell’età di qualcuno intorno a questo tavolo, oppure tormentoni estivi idioti, se teniamo invece conto della cultura musicale di qualcun altro sempre intorno a questo tavolo” rispose Valentino, sostenendo ironico lo sguardo della sorella.

La discussione venne subito zittita da zio Paolo che, con un veloce click, fece partire uno dei suoi pezzi preferiti di musica classica, un requiem di Mozart.
“Allegro si era detto, eh? Qua mi pare il festival delle melodie d’oltretomba” mugugnò Mario guardando il cognato di sottecchi.

“E piantala di essere sempre polemico, diamine!” ribatté Antonia dando una gomitata al marito, cercando di capire se la sua lamentela fosse stata sentita da Paolo e Claudia.
Nonno Giulio ascoltava impassibile ma divertito i vari battibecchi; sentendosi piuttosto invisibile afferrava, ormai spudoratamente, un tortellino dopo l’altro e se li infilava meccanicamente in bocca. I suoi movimenti, per quanto scaltri, vennero tuttavia intercettati dall’occhio di falco di Mimì.

“Giulio! Ma tu guarda che disgraziato, questi sono per domani! Quanti ne hai mangiati già?” inveì nonna Mimì contro il marito, mettendosi le mani tra i capelli con fare angosciato. “Non hai nemmeno preso la pasticca! Adesso basta, tornatene a guardare la televisione!”
Non gradendo che l’attenzione di tutti fosse ormai su di lui, e ritenendosi probabilmente soddisfatto della scorpacciata, nonno Giulio assunse un’espressione di infastidita dignità e si accinse ad alzarsi dalla sedia per tornare alla poltrona davanti alla televisione. Per aiutarsi appoggiò con una certa foga entrambe le mani sul bordo del tavolo, che coincideva con il bordo di uno dei vassoi ormai stracolmi di tortellini. Ci fu un effetto domino al contrario: volo di vassoi, pioggia di tortellini che rotolarono ovunque, sotto il tavolo, sul pavimento impolverato, sotto i mobili. Intorno alla tavolata, tutti ammutoliti. Nel caos generale restarono sul tavolo solo tre tortellini, nascosti sotto uno strofinaccio. Nonno Giulio, ormai in piedi, li intercettò prontamente e li mangiò prima di tornare alla sua poltrona.




Di seconda mano di Chris Offutt

Raccolta di racconti editi da Minimum Fax

 

Di seconda mano è una raccolta di racconti dello scrittore americano contemporaneo Chris Offutt pubblicato dalla casa editrice romana Minimum Fax e uscito a luglio 2022 con la traduzione di Roberto Serrai.

Leggere racconti è un po’ come sedersi ad un tavolino di un bar e ascoltare di nascosto le chiacchiere dei vicini. Non arriverà l’intera storia ma solo uno stralcio. Non si conosceranno le vicissitudine prima e dopo quell’intervallo di tempo in cui si ha avuto modo di ascoltare e spesso non si saprà neanche come andrà a finire ed è proprio questo il fascino del racconto: riportare una storia succinta, incisiva, determinante senza entrare troppo nelle descrizioni, lasciando al lettore ampia possibilità di immaginare.

Di seconda mano raccoglie storie intime di solitudine, disagi e povertà dove non si trovano gli Stati Uniti stereotipati del sogno americano bensì quella degli ultimi, dei dimenticati, di coloro che non fanno notizia, in poche parole quelli di seconda mano, di coloro che fanno fatica ad andare avanti, coloro che non hanno più santi ai quali rivolgersi, coloro che si adattano e sopravvivono.

Chris Offutt ha una penna che non lascia spazio a alternative e i suoi personaggi sono pieni, tondi, indimenticabili.

 

 

Come la protagonista del primo racconto che dà il titolo al libro che impegna la cosa più preziosa che ha, un paio di stivali di pelle di struzzo, per regalare una bicicletta alla figlia del suo compagno per conquistarne la fiducia. Si può permettere solo un oggetto usato, da acquistare in un luogo dove «Ogni cosa, lì dentro, è appartenuta a gente al capolinea, e la loro disperazione la senti nell’aria» esattamente come lei che dichiara «I miei vestiti hanno già coperto il corpo di un altro. Anche il mio ragazzo prima era sposato» però è capace di rinunciare ai propri amati stivali perché «le mani di una bambina che tremano di gioia sono lo spettacolo più bello che abbia mai visto».

Chris Offutt ha un stile pungente e diretto che si intrufola nelle pagine senza inutili fronzoli per schermarsi nella mente del lettore togliendo il fiato perché sono personaggi sofferenti, soli e malmenati dal destino ma sono soprattutto persone reali, vere, concrete e sincere.

Il bello dei racconti è che non c’è bisogno di terminare il libro per fermarsi a riflettere; bastano poche pagine, anche sotto l’ombrellone, in riva ad un fiume o in cima ad una montagna, per leggere una storia e poi fermarsi a riflettere come Darla, la protagonista del terzo racconto che «si sdraiò nel letto basso del torrente, allargò le braccia e lasciò andare l’anello [fede nuziale]. L’acqua fredda le scorse sul volto, mescolandosi alle lacrime, e le sembrò che il torrente, adesso, sgorgasse dai suoi occhi

Non bastano questi brevi stralci per innamorarsi della scrittura di Offutt?




In giro per la Grecia, siga,siga!

Ivana, 2 figli, vive a Roma e lavora presso un istituto di ricerca dove, tra le varie mansioni e come unica donna, ‘guida’ il carro dinamometrico, una struttura mobile di circa 40 tonnellate preposta all’esecuzione di esperimenti di idrodinamica, primi fra tutti i test su modelli di navi. Ama viaggiare, dipingere e leggere: tra i suoi autori preferiti, ci sono Oriana Fallaci e Isabel Allende, il cui ultimo libro, ‘Violeta’, è pronto per essere letto. Per la nostra rubrica ci propone la ‘sua adorata’ Grecia, passione che condivide con il marito.

Direzione Grecia

La mia prima volta in terra ellenica risale al lontano 1985. L’ho amata da subito, e non l’ho più lasciata. Andammo a Paros, un’isola delle Cicladi, suggerita da alcuni nostri amici che già erano stati lì. Nel corso di tutti questi anni ho visitato, oltre alle isole Cicladi, Antiparos, Santorini, Kaufonissi, le Ionie, Corfù, Cefalonia, Itaca, oltre alla Grecia continentale, l’Epiro, la Calcidica, Creta e il Peloponneso, una penisola nel sud del Paese dove ho sempre vissuto la sensazione di ‘entrare’ nei libri di storia, di vivere in quei periodi e in quei territori che trasudano vissuti storici magici. Due località su tutte: Micene, dove i micenei, conosciuti anche come achei, furono coloro che sconfissero Troia, nella guerra di Troia. E poi Mani, una terra aspra, affascinante per paesaggi e cultura, lontana dal turismo di massa, che ti accoglie tra il mare, i villaggi di pescatori e i ristoranti sulla spiaggia.

La sensazione di stare a casa

Ogni volta che arrivo ho la sensazione di essere a casa, non torno mai nello stesso posto, ogni anno cambio isola o luogo della Grecia continentale. Dei greci mi piace la loro ospitalità, il loro modo di accogliere le persone, perché ti fanno sentire ‘uno di loro’. Nei ristoranti, per esempio, a fine pasto, ti offrono dolci o frutti, un modo per essere cordiali con i clienti. Ricordo con piacere, per esempio, alcuni anni fa a Naxos, quando la proprietaria del B&B in cui alloggiavamo, preparò una cena per tutti noi ospiti, ottima e con tutti i piatti tipici greci.

Come organizzi i tuoi soggiorni?

Mi piace organizzare il viaggio in autonomia. Già durante l’inverno penso  a quale sarà la mia meta estiva. Mi metto allora sul web alla ricerca della location che mi piacerebbe visitare, anche con l’aiuto di un gruppo fb a cui sono iscritta che si chiama ‘Grecia senza pensieri’, dove gli iscritti mettono a disposizione foto, consigli, pareri e strutture. Scelta la destinazione, mi metto in azione e da lì parte tutto il resto, volo o traghetto, noleggio auto e alloggio. Di solito viaggio con mio marito, ma capita anche di organizzare con amici, e  allora diventa tutto un pochino più complicato, non fosse altro per questioni logistiche, legate alle diverse aspettative ed esigenze di ognuno.

Qual è la location ‘più bella del reame’?

Sono stata in posti bellissimi, ma se qualcuno mi chiedesse: quale di questi luoghi ti è piaciuto di più? Dove torneresti? Dov’è il tuo posto del cuore? Io risponderei che il mio posto del cuore è un’isoletta piccolissima, a sud del Peloponneso, a cinque ore di auto da Atene, che si chiama Elafonissos (Cervi in italiano), di circa 20 km quadrati, raggiungibile grazie ad una traversata di soli dieci minuti di traghetto. Un’isola a misura d’uomo, un centro piccolissimo, un lungomare con qualche taverna per mangiare, un piccolo porto con le barche dei pescatori dove la mattina al loro arrivo puoi  incontrare le tartarughe “Carretta Carretta”. Ma quello che più mi ha colpito è il colore del mare che va dal celeste  al turchese, con sfumature caraibiche, e la spiaggia Simos o la piccola lefki. Sì, questo è il mio posto del cuore dove sicuramente tornerò, perché qui la vita scorre ‘Siga Siga’, lenta, lenta come dicono i greci, dove puoi trovare la carica per affrontare un nuovo anno di impegni e di lavoro. Spero che rimanga uguale, senza essere stravolta dalla frenesia del turismo. Lì mi rilasso, mi ‘ritrovo’ e vivo il mare. Lì ho conosciuto Francesca, una ragazza milanese che gestisce insieme ai genitori il “Vecchio Frantoio”, appartamenti ricavati appunto da un frantoio che hanno ristrutturato.  

Che piani hai per il prossimo tour?

Di ritornare nel Mani a settembre, periodo in cui viaggio volentieri, perché c’è meno affollamento e i ritmi sono più lenti. Siga siga!




ARRIVEDERCI E GRAZIE di Laura Avati

ARRIVEDERCI E GRAZIE

di Laura Avati

tratto dalla raccolta Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

Era una delle prime giornate calde dell’estate e nella cucina del ristorante si iniziava a sudare. Anche in sala faceva molto caldo, e infatti avevamo deciso di indossare le nuove divise estive.

A me andava decisamente stretta: il camice mi strizzava come una camicia di forza. Non mi sentivo a mio agio: mi specchiavo continuamente nel vetro del frigo dei gelati, cercando di capire come fare per non far notare i chili di troppo.

I clienti cominciavano ad arrivare:

“Buongiorno signor Marcello”.

“Buongiorno Laura, inizia a fare caldo” disse asciugandosi la fronte con il fazzoletto di stoffa.

“Eh sì, è arrivata l’estate e purtroppo non possiamo accendere l’aria condizionata”.

“Come mai?”

“Dobbiamo fare la sanificazione dei filtri. Il tecnico viene domani”.

“Ah va bene, per oggi sopportiamo il caldo”.

Il signor Marcello era uno dei nostri primi clienti e tutti i giorni, da trenta anni più o meno, veniva a mangiare da noi: ero molto affezionata a lui.

“Che belle le nuove divise!” disse il signor Marcello.

“Ha visto che bei colori?” risposi, senza alzare lo sguardo dalla calcolatrice e cercando di allentare un po’ il camice, tirandolo da una parte e dall’altra.

“Sì, sono molto belle e mettono tanta allegria”.

“Grazie, lei è sempre tanto gentile. Buon pranzo, signor Marcello, e a domani”.

“Grazie e buon lavoro a te”.

I clienti scorrevano con i loro vassoi pieni di piatti stracolmi. Non avevo pranzato, lo stomaco mi brontolava, avevo una fame assurda e tanto caldo. Alzai lo sguardo, in fila c’era Paolo, il cliente per me più affascinante. Tiravo il camice verso il basso illudendomi di coprire le mie rotondità. Gli preparai la sua solita acqua liscia fredda e la macedonia.

“Ciao Paolo, buon pranzo” mi affrettai a dirgli, facendo in modo che non si fermasse più di tanto davanti a me, tanto lui pagava a fine mese.

“Grazie Laura”, e se ne andò a tavola, strizzando l’occhio e sorridendomi.

Forse è soltanto una mia fissazione, forse non si nota poi così tanto, pensavo, continuando a fare i conti e a tirare il camice. Ecco Nella, sempre sorridente, con una longuette gessata che la avvolgeva in tutta la sua magrezza. E guarda quanto mangia! Beata lei, pensavo mentre le facevo il conto.

“Mi daresti una porzione di tiramisù alle fragole?” chiese Nella.

“Certo” le risposi porgendole il dolce.

“L’hai fatto tu, vero?”

“Sì sì” risposi con l’acquolina in bocca.

Lei si può permettere anche il dolce, pensai.

“Buon pranzo, Nella” le augurai con tutta l’invidia possibile.

“Buongiorno Cinzia, mangi solo l’insalata o aspetti altro dalla cucina?”

“No, mangio solo questo, con questo caldo mi si chiude lo stomaco e non riesco a mangiare”.

“Capisco, buon pranzo”.

No, non capisco invece. Possibile che solo a me l’appetito non manca mai?

I clienti in fila erano ancora tanti.

“Buongiorno signor Giovanni”.

“Ecco la nostra signora Laura. Come sei bella con questa divisa bianca e rossa!” disse, con quell’accento siciliano che rafforzava la erre e che mi piaceva tanto.

“Grazie Giovanni, è sempre tanto gentile. Lo prende il caffè, o anche oggi è nervoso?”

“Oggi lo prendo, ma tu sai come”.

“Come al solito, ristretto e schiumato. Buon pranzo” gli dissi dandogli il resto.

Mi ero un po’ rilassata; nessuno si era accorto del camice stretto e ormai anche sudato.

“Buongiorno Marco, scommetto che aspetti il petto di pollo alla griglia”.

“Ciao Laura, lo so che sono monotono, ma io adoro il vostro petto di pollo alla griglia”.

“Sì, ma non so come fai a mangiarlo tutti i giorni, prima o poi ti cresceranno le piume”.

“Me lo dice sempre anche mia moglie” disse ridendo di gusto.

“Ecco la tua acqua liscia a temperatura ambiente, e buon pranzo”.

Mi divertivo a scherzare con i clienti abituali. Con molti di loro si era creata una bella amicizia, tanto che spesso andavamo a cena insieme e con alcuni anche in vacanza.

“Ciao Emilio, metto un po’ di peperoncino sulla pasta, come piace a te?”

“Tu mi vizi, poi mia moglie è gelosa”.

“Maria non è gelosa di me, lo sai”.

“Ecco a te anche il tuo mezzo litro di vino bianco. Buon pranzo”.

“Grazie, e buon lavoro”.

Il servizio era quasi finito. Avevo iniziato a fare le registrazioni di fine giornata quando entrò un cliente. L’ultimo è sempre quello un po’ malvisto, ma questo era un cliente che non vedevo da tanto tempo. Mi faceva sempre piacere rivedere i vecchi clienti.

“Buongiorno, bentornato” gli dissi appena arrivò in cassa.

“Grazie”.

“Cosa le preparo da bere?”

“Un quartino di vino bianco frizzante e acqua gassata”.

“È tanto tempo che non ci viene a trovare!”

“Eh sì, sto lavorando a Roma e non sono più capitato da queste parti”.

“Basta che si sta bene e si lavori. Vuole altro?

“Sì, un caffè e una grappa”.

“Ok. Sono 15 euro, grazie”.

“Ti trovo ingrassata”.

Alzai lo sguardo dal registratore di cassa e fissai per qualche secondo quel cliente. Brutto ciccione che non sei altro, ma ti sei guardato, con quella pancia che a stento sta in quella camicia sudicia e con quei capelli ridicoli e unti?, gli avrei voluto rispondere. Ora, non è che io con questo cliente avessi mai avuto confidenza o amicizia; non era un cliente assiduo, e con lui avevo sempre scambiato battute convenevoli e di circostanza, niente di più. Come ti permetti, tu che non sai neanche il mio nome! Feci un respiro profondo e cercai di recuperare quel poco di autocontrollo che mi era rimasto: era pur sempre un cliente, e non potevo rispondergli male.

Stizzita, mi avvicinai come per fargli una confidenza e quasi sussurrando gli risposi:“Sa, ho una malattia abbastanza grave, sto facendo una cura di farmaci molto aggressiva e prendo anche molto cortisone. Questo è tutto gonfiore” gli dissi pizzicandomi il bicipite.

Lui, imbarazzato e forse anche dispiaciuto per la mia salute, balbettando disse: “Ah, mi dispiace, spero che vada tutto bene”.

Immagino quanto ti dispiace, brutto insolente! “Lo spero anch’io” gli risposi garbatamente e sfoderando uno dei miei migliori sorrisi.

Lui prese il resto, il vassoio e andò a tavola. Lo guardavo allontanarsi un po’ claudicante, soddisfatta della menzogna appena raccontata.

Più di una volta incrociai il suo sguardo compassionevole mentre mangiava, ma ero troppo contenta della mia piccola vendetta e poco mi importava se lui fosse preoccupato per me.

“Alla prossima, e spero di avere buone notizie” mi disse il ciccione andandosene.

“Arrivederci e grazie”.




LE TRACCE SUL VETRO di Cristina Cortelletti

Le tracce sul vetro

di Cristina Cortelletti

tratto da Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Non è mai piovuto così tanto a settembre, pensò Vincent fissando, dalla finestra della cucina, la fermata dell’autobus sul lato opposto della strada. Tutti i giorni, da sempre, alle 19:00 passava l’ultima corsa. “Accidenti, proprio oggi!” esclamò. La pioggia peggiorava il suo già altalenante umore, non doveva perdere di vista l’obiettivo, stavolta ce l’avrebbe fatta e Martin non sarebbe arrivato in tempo. Il sottofondo musicale trasmesso dalla emittente radiofonica, sulla quale si era sintonizzato dallamattina, gli teneva compagnia mentre osservava l’umida foschia pomeridiana che offuscava il paesaggio e intensificava il dolore alla sua stramaledetta gamba. Sobbalzò quando suonarono alla porta. Deve essere Jennifer con la terapia, pensò. Diede un’occhiata all’orologio: le 18:25. Era ancora presto per le medicine. Non andò ad aprire, tutto sarebbe andato secondo i piani. La sua attenzione fu richiamata dal ticchettio della pioggia che, frustando i vetri da ore, lo stava irritando.

Non si sorprese quando, appoggiando il dito sulla superficie del vetro, iniziò a seguire le tracce irregolari delle gocce che scendevano, una cosa che faceva quando era piccolo e gli sembrava di essere un esploratore a caccia di un codice cifrato. Con il dito tracciava linee virtuali che univano gocce, rivoli e chiazze, fino al palesarsi di una visione che siglava con l’iniziale del suo nome.

Ritornò improvvisamente in sé al rumore sordo dei colpi alla porta, in simultanea con la voce che gridava: “Martin! Martin! Apri la porta!”

“Andate via, andate via!” urlò. “Oggi no… voglio stare solo!” disse Vincent.
Il chiarore che entrava dalla finestra illuminava fiocamente il termosifone sulla parete di fronte. Vincent guardò distrattamente i calzettoni stesi lì sopra ad asciugare, gettati malamente, spaiati e stropicciati; non ricordava neanche di averceli messi, rispecchiavano perfettamente la sua vita disordinata e caotica.
Fremeva, ancora un po’ di pazienza e tutto sarebbe passato.

Per tutta la mattina Martin era stato alle prese con il televisore e poi con la sostituzione della lampadina del lume, poi con la preparazione del pranzo e infine con le scartoffie da riordinare. Martin era il suo punto di riferimento: negli ultimi tempi avevano condiviso ogni accadimento delle loro vite. Vincent, in poche parole, dipendeva da lui.

Condividevano da due anni quella che era stata la casa dei loro avi, una piccola dimora a mattoncini rossi con le finestre bianchesituata in una zona isolata nella periferia del paese, tipica della contea di West Midlands. “Rifugio e capanna, riferimento e radice”. Così diceva Martin, e in quanto tale andava difesa. Martin era conosciuto da tutti nel quartiere, lo chiamavano “l’insegnante degli ultimi”, ovverogli abitanti del quartiere più isolato e meno abitato di Rednal.

Vincent era arrivato all’improvviso, disperato e vulnerabile, e Martin dal principio aveva cercato di gestire le sue manie e gli sbalzi di umore con i farmaci. Ma nessuna terapia era riuscita nell’arduo compito di sollevarlo dai momenti di follia. Decise così di vivere in simbiosi con lui, senza più separarsene. Vincent adorava quella casa e soprattutto Martin, ammirava la sua tenacia, la forza, l’ottimismo e la gioia con la quale affrontava la quotidianità. Soprattutto, adorava la sua disponibilità incondizionata e senza pretese per chiunque. Avrebbe voluto essere lui, Martin. Una volta lo era stato, in effetti: prima di diventare un povero storpio e scemo.

Nella testa i rumori si mescolavano, rimbombavano, si espandevano a comprimere il cervello, fino a che Vincent si augurava che esplodessero le membrane per farli uscire da ogni possibile orifizio.
Il rumore metallico della chiave nella toppa lo distolse dall’ansia che lo attanagliava. Nel voltarsi riconobbe il familiare riflesso che balenò sul vetro della finestra, sorrise. Mordendosi il labbro inferiore cercò un nascondiglio, proprio come quelli nei quali si rifugiano i bambini quando giocano o quando sono impauriti, o come quelli sempre più reconditi che, da tempo, anche le sue emozioni scovavano e ne facevano una tana.In quei nascondigli si abbandonava e aspettava che Martin lo trovasse e si prendesse cura di lui. Ma non oggi.

Improvvisamente la porta sbatté. “Maledizione, troppo presto” sussurrò. “Sei già tornato?” chiese Vincent. Ma non ebbe risposta. Erano le 18:35. Per andare verso l’ingresso dalla cucina bisognava attraversare un lungo e stretto corridoio semibuio. Non c’erano fonti di luce artificiale, e inoltre il corridoio era reso ancora più angusto da due grandi poster speculari appesi alle pareti. Le riempivano per tutta la loro lunghezza, interrotti solamente dalle due porte delle camere da letto, rivestite di carta da parati. Martin le teneva sempre chiuse per suscitare il forte impatto visivo creato dalle stampe in stile neoplastico. Le geometrie in bianco e nero riempivano il vano, infinite forme si susseguivano ad oltranza originandone altre man mano che lo si attraversava: pareva di essere in un caleidoscopio, all’interno del quale Vincent tentennò un attimo prima di avventurarsi. Nonostante condividesse questa stranezza di Martin, infatti, ogni volta che lo attraversava veniva sopraffatto dall’inquietudine. Un effetto allucinante, che lo destabilizzava e confondeva.Aveva smesso di porsi interrogativi sui gusti di Martin da quando si era convinto che, più che uno stile d’arredo, quei decori fossero una strategia a scopo terapeutico.

Devo evitare di fissare le pareti per non restare ipnotizzato, pensò, poi si concentrò sulla lampada di stoffa nera, unica fonte luminosa alla fine del lungo corridoio, e si incamminò. Lo strusciamento pesante e prolungato della ciabatta sul pavimento echeggiava in tutta la casa. Costretto alla lentezza dalla gamba offesa, imprecò. “Martin!” chiamò, e l’eco della sua voce risuonò. Continuò a camminare, ma il corridoio era più lungo del solito, le stampe nere prevalevano sulle bianche e si allargavano, si deformavano fino ad intrecciarsi sul soffitto, che ricadeva all’ingiù come fosse molle, formando lunghe stalattiti che lo lambivano ed erano pronte a trafiggerlo.

Il silenzio si era fatto fitto e un tremore dolente gli attraversò lo stomaco. “Martin… Martin!?”
Erano passati pochi ma interminabili minuti. Sentì una forte fitta alla gamba, che subito dopo cedette e lo fece cadere. Temendo di essere inghiottito dal famelico tunnel, chiuse gli occhi e, disorientato proseguì a carponi per pochi metri. Urtò qualcosa, spalancò gli occhi e la fioca luce della lampada gli rivelò la sagoma di un uomo a terra riverso e immobile, tutto sporco di una melma nera, in una posizione inverosimilmente innaturale.

“Martin… Martin” balbettò senza toccarlo. Non vedeva bene, maledizione, c’era pochissima luce. Poi sentì l’odore, rabbrividì e fu catapultato nel passato.Davanti agli occhi ricominciarono a scorrere i flash remoti, sempre gli stessi, ricordò Eva, bellissima, sorridente e felice, e anche quella condivisione dell’amaro delle sconfitte e della gioia nel raggiungere piccoli traguardi che li aveva uniti in una perfetta sintonia.

Rivide quando si trasferirono lì, a Rednal, in quella stessa casa in cui si trovava ora, la spensieratezza preziosa e impagabile di quel periodo che, lo avrebbe scoperto poco dopo, sarebbe stato l’inizio della fine. Le sorprese che la vita riserva sono sempre in agguato. Avrebbe appurato con rabbia che alcuni, purtroppo, non hanno accesso al lieto fine. Ricordò la cruenta esplosione in cui Eva perse la vita. In quella stessa occasione lui perse la ragione di vita. Il cielo divenne di un malinconico sapore cupo, e una profonda tristezza lo condusse in un viaggio psichedelico senza ritorno.

Il dolore lo attanagliava ogni volta che i ricordi riaffioravano. Se le ferite del corpo si erano cicatrizzate, a dominare la sua vita, pesanti come un fardello straziante, erano rimasti il buio, le paure e l’odore dei loro due corpi dilaniati.

Era una persona inutile. Sperava, Dio solo sa quanto, di svegliarsi un mattino di settembre con un cielo azzurro, completamente diverso e finalmente libero da se stesso.
Eccoci nuovamente, bella gente, il prossimo brano sarà… la voce dello speaker radiofonico lo riportò al presente. Spaventato e fragile, si asciugò le lacrime che gli appannavano la vista, strofinando l’avambraccio sul viso. Si fece coraggio, infilò un braccio sotto le spalle dell’uomo e, con una delicata manovra, lo rigirò per metterlo in posizione supina. Gli sollevò la testa, e in quel momento un brivido gelido gli bloccò il fiato: il fango chiazzava il volto dell’uomo e, sebbene i lineamenti non fossero bendefiniti, la fisionomia era famigliare. Si alzò e indietreggiando urtò la consolle, facendo così cadere a terra l’unica lampada, che rotolò e si fermò sulla gamba scomposta del corpo senza vita.Il buio improvviso lo immobilizzò, e le narici furono nuovamente sature di quell’odore. Cercò disperatamente l’interruttore tastando le pareti, senza trovarlo. “Aiuto! Aiuto!” provò a gridare, ma la voce spezzata non emise suoni. Il respiro si fece affannato, sentì i rivoli di sudore scendere lungo la schiena e iniziò a dondolarsi avanti e indietro, strofinando freneticamente le mani umidicce sulle cosce. Che diamine sta succedendo? Che ci fai qui? pensò senza capacitarsi di quello che stava succedendo.

Il buio spense anche l’ultimo barlume di ragione che gli era rimasta. Improvvisamente, eccola: la voce di Eva risuonò frastornante nella sua testa. Era diventato sempre più difficile scacciarla, e ogni volta gridava più forte, non riusciva più a sopportarla. Si strinse la testa fra le mani, chiuse gli occhi e si mise a battere forte il piede illeso a terra per sovrastare, con il rumore, quella voce che non perdonava la sua fragilità.

Quando aveva iniziato a sentirla, le parole erano state confortanti, lo aiutavano a sostenere il peso gravoso di essere sopravvissuto; non avrebbe mai voluto smettere di sentirle, ma il silenzio della solitudine lo aveva schiacciato, il delirio e il caos si erano impossessati di lui e le parole erano diventate di biasimo e offesa. In questa casa periferica, situata ai margini della vita, aveva riposto infine il suo dolore. Era un codardo, lo sapeva, e per questo si rifugiava in Martin.

Finalmente la voce fu smorzata dalla musica della radio. Vincent aprì gli occhi, si fece coraggio e guardò nuovamente l’uomo che, stranamente, ora pareva evanescente. Quando si accorse che era il ritratto del proprio corpo disarticolato, una lacrima gli scivolò sul ciondolo a forma di M che aveva al collo. Quella fu la conferma che era giunto il momento di sconfiggere i fantasmi della sua vita una volta per tutte.

Alternò lo sguardo tra la porta d’ingresso e il corridoio; avrebbe voluto oltrepassare quella porta aperta sul mondo tante e tante volte, ma era stato meno doloroso restare dentro, esule nel suo stesso rifugio. Non gli restava che ripercorrere per l’ultima volta il corridoio, che appariva ora più che mai soffocante e cieco. Il corridoio: l’inesorabile condotto che quotidianamente collegava il passato al presente.S’incamminò, sperando che stavolta le mille sfaccettature nere che lo riempivano si combinassero in modo ordinato nella sua mente di uomo alla deriva.

“Santo cielo, Martin, rispondi! Dove sei?” urlò Jennifer. Erano le 19:00 ed era in ritardo per la medicina. “Eccomi, arrivo. Non preoccuparti, sono qui” rispose. L’autobus era passato, si allontanò dalla finestra. L’acqua aveva lavato le tracce della sua vita confusa, Martin era tornato appena in tempo.

Con la mano cancellò dal vetro, forse per sempre, il riflesso di Vincent lo storpio.

foto di Pexels da Pixabay




CHICCHI DI CAFFÈ di Meri Borriello

CHICCHI DI CAFFÈ

di Meri Borriello

tratto da Voci Nuove 6

ed. Rapsodia

a cura di Daniele Falcioni

 

Dalla sua finestra poteva vedere due alberelli. Non avevano nulla di speciale, ma erano speciali per lei. Erano anche un po’ miseri, a dire la verità, eppure lei li trovava belli, e li osservava sorridendo tutte le mattine mentre beveva il suo caffè. Ogni tanto li potavano, e questo un po’ la rattristava. Lei immaginava che le radici dei due alberelli fossero intrecciate. Le radici se ne fregavano di chi aveva tanta premura di separarli: aveva letto questa cosa delle radici intrecciate da qualche parte, e da allora l’immagine che quelle parole avevano evocato non l’aveva più abbandonata.

Beveva il suo caffè ogni mattina verso le otto, prima di andare al lavoro, e pensava al suo amico. Erano distanti: tentava di convincersi che lui avesse trovato un’entrata segreta, come quando giocavano a fare gli esploratori, che avesse trovato la porta d’accesso per un mondo pieno di gelato e caffè. Entrambi adoravano il caffè: toglieva quel brutto senso di nausea che saliva su, che invadeva le bocche dopo che l’infermiera aveva inserito l’ago nelle loro vene: piccoli sorsi di caffè freddo rinfrescavano le labbra mentre aspettavano pazientemente che quella tortura avesse fine. Si erano conosciuti così, in una stanzetta asettica, mentre li bucherellavano, ed erano diventati subito amici. Bevevano caffè e mangiavano gelato sciolto: erano le uniche cose che riuscivano a mandar giù in quei momenti. Non avevano la forza di parlare, cercavano di comunicare mentalmente da un lettino all’altro: ridipingevano le pareti di quelle grigie stanzette. Contemplavano la piantagione di caffè che dipingevano indossando cappelli di paglia: proteggevano i loro lunghi capelli, il volto rosso per il troppo sole, i piedi nudi e sporchi di terra.

Per arrivare a quella piantagione dovevano fare un lungo viaggio: erano pirati clandestini imbarcati su navi senza bandiera, sconfiggevano loschi figuri che tentavano di gettarli in mare, che impedivano loro di raggiungere la meta. Quando, invece, non riuscivano ad avere la meglio, nuotavano nelle profondità del mare alla ricerca di tesori nascosti nei fondali. Qualche tesoro li riportava a galla ed erano pronti a salire su un’altra nave, che li avrebbe condotti in una terra sconosciuta che li avrebbe accolti e gli avrebbe permesso di realizzare il loro sogno. Si raccontavano i frammenti di quei sogni qualche ora dopo che l’ago dal braccio era stato tolto ed erano liberi di tornare ad essere umani. A volte ci voleva più di qualche ora per tornare umani, ci volevano giorni interi per recuperare le forze, ma i sogni non si interrompevano mai. Frenavano l’invadenza delle gocce che lentamente penetravano nei loro corpi bevendo caffè per placare la nausea, immergendosi nei potenti chicchi.

Anche quella mattina, Marta sorseggiava caffè ed osservava i due alberelli. Aveva smesso di piovere da poco. D’un tratto chiuse gli occhi, si immerse nel silenzio e vide le radici intrecciate, sentì l’odore della terra mischiato all’aroma di caffè, e la sua mente prese a rincorrere i ricordi. Il suo amico le stringeva forte la mano, aveva il respiro affannato. Avevano corso quasi per tutto il pomeriggio in mezzo alla terra rossa dietro la casa di Maurizio. Andavano spesso a giocare lì la domenica pomeriggio. Non era stato costruito nulla su quel piccolo pezzo di terreno. Correvano avanti e indietro col sole di inizio autunno che li scaldava e creava, solo per loro, frammenti di luci che si incastravano tra le foglie. Registravano tutto con gli occhi mentre correvano, finiva tutto in uno scrigno segreto. Cantavano una canzone, quando si fermavano per riposarsi un pochino; la trovavano un po’ sciocca, ma in fondo credevano al primo verso quando lo intonavano: “Nella notte delle favole / esprimi un desiderio pure tu”.1
Avevano entrambi compiuto dieci anni, passavano tutto il tempo che potevano giocando, inventando storie: stavano bene insieme. Lui era un portento, lei lo guardava ammirata: sentiva le sue labbra aprirsi in un sorriso ogni volta che, osservandolo di nascosto, sapeva di averlo sorpreso a pensare a un nuovo progetto, a un nuovo sogno da realizzare. Sopportava tutto quello che lei non riusciva atollerare, aveva un senso innato dell’umorismo. E, se proprio non si riusciva a ridere in certi momenti, almeno si poteva tentare di sorridere.

Niente sentimentalismi con Maurizio. “La notte è giovane e la vita breve” diceva sempre quando cercavano di farlo andare a dormire distogliendolo dai suoi giochi. E lo sapevano tutti e due quanto fosse vero, ma lui forse lo sapeva di più.
Il sole li stava salutando: dovevano rientrare. Il programma della serata era guardare un film dell’orrore. Lui voleva assolutamente vedere un film con un pagliaccio che dicevano essere spaventoso. Ne parlavano da qualche settimana. Entrarono in casa e se ne fregarono di darsi una pulita, piaceva a entrambi sentire la terra ancora addosso, sui jeans, sulle scarpe. Accendendo la luce, lui le disse: “Dai, lavati almeno le mani e prepara il popcorn”.
“Okay” rispose lei, e continuò: “C’è anche il gelato, lo facciamo sciogliere e ci mettiamo il popcorn dentro?”
Lui non rispose, stava armeggiando con il televisore e il lettore dvd; lei si fermò a guardare l’ingrandimento di una foto appesa al muro: era stata scattata a carnevale l’anno prima. Lui era vestito e truccato come Brandon Lee nel film Il Corvo.

“Sei proprio bello in questa foto” disse mentre andava in bagno. Lui, alzando un po’ la voce per farsi sentire, rispose: “Guarda che io sono sempre bello”. Lei rise mentre si insaponava le mani. Quando rientrò nel salone, dopo aver messo in una padella l’olio e i chicchi di mais, lo trovò intento a leggere degli appunti su un quadernino. Gli si avvicinò e chiese: “Che combini?”

“Contabilizzo i miei guadagni” rispose lui, e lei rise di nuovo perché sapeva del suo piccolo commercio di giocattoli. Ne aveva tanti e non sapeva che farci, così aveva pensato di venderli, improvvisando un mercatino delle pulci sul vialetto di casa.

“Dovresti darti da fare anche tu. So che non hai giocattoli da vendere, ma potresti provare a piazzare quella roba da femmina che sta ammucchiata nella tua camera. Di questo passo, chissà quando potremo dare vita al nostro progetto” disse lui, la testa china su una calcolatrice. “Allora, lo guardiamo questo film?” chiese poi, chiudendo il quadernino. Lei si era risentita un pochino. Esclamò: “Aspettiamo almeno che siano pronti i popcorn!”

Mentre lui borbottava, Marta tornò in cucina per vedere se avessero cominciato a scoppiettare. Stavano scoppiettando. Finì di prepararli, prese anche il gelato e lo mise in due bicchieri, poi portò tutto nel salone.
Maurizio si era sistemato sul divano e aveva poggiato sulle gambe una copertina di lana a quadretti. Guardò Marta e le disse: “Non te la devi prendere se ho sempre fretta”.

Lei gli sorrise, appoggiò tutto su un vecchio tavolino che stava accanto al divano. Si sedette tirando un pochino la coperta per coprirsi le gambe. “Non me la prendo, tranquillo. Non fare il tirchio e dammi un altro po’ di coperta” disse. Dopo essersi sistemata meglio, riprese: “Stavo pensando di fare un salto al mercatino delle pulci vicino casa uno di questi giorni, per vedere di piazzare, come dici tu, le miecianfrusaglie”. Lui annuì, poi fecero silenzio e si concentrarono sul film. Fotogramma dopo fotogramma il film scorreva via. Non avevano paura, non avevano nemmeno voglia di giocare a far finta di aver paura. Peccato non ci fossero altri bambini, pensò lei stiracchiandosi: lo spasso più grande sarebbe stato vederli terrorizzati. Lui, quasi leggendola nel pensiero, spense il televisore e disse: “Mi sto annoiando. Prepariamo del caffè, poi ti insegno a giocare a dama. Mia madre ha comprato una nuova miscela, devi assaggiarla. Forse dovremmo fare un’indagine di mercato per capire cosa manca, quale potrebbe essere l’ingrediente che possa rendere speciale il nostro caffè. Voglio creare una miscela tutta nostra, non so, mi piacerebbe qualcosa che avesse anche un gusto alla vaniglia, oppurealla liquirizia”.

Lei lo ascoltava mentre prendeva la scacchiera che era sotto il mobiletto della tv, poi, rimuginando su quello che aveva detto a proposito di creare una miscela originale, andò in cucina e mise su il caffè. Lui stava finendo di sistemare le pedine sulla scacchiera. Aveva provato a insegnarle a giocare qualche anno prima, quando entrambi, nello stesso periodo, avevano avuto la varicella. Ma forse a causa della febbre, del prurito costante e del talco mentolato sparso dappertutto, lei non era riuscita a concentrarsi, e quindi non aveva imparato quel gioco.

“Te la ricordi la regola numero uno?” le chiese serio Maurizio quando lei fece ritorno dalla cucina. Marta lo guardò confusa, lui continuò: “Non si soffia”. Pazientemente le rispiegò le regole del gioco e lei stavolta sembrò capire. Cominciarono una partita. A un certo punto, lui disse: “Hanno visto di nuovo una macchia. Stavolta è vicina all’intestino. Che dici, dovrei preoccuparmi?”

Lei rimase immobile con la pedina tra le mani, non aveva idea di dove piazzarla. Sapeva cosa significava quella macchia, sapeva anche che non avrebbe potuto raccontargli balle. Così disse l’unica cosa che non potesse tradirla: “Direi di aspettare prima di fasciarci la testa”. Provando a sorridere, continuò: “Anche se ci donassero le fasciature e i turbanti”.

Marta non riusciva a concentrarsi. Disse: “Vado a vedere se è pronto il caffè. Tra un po’ i miei vengono a prendermi. Beviamoci il caffè in santa pace, concentriamoci sul sapore, sull’aroma, altrimenti non riusciremo mai a realizzare il nostro sogno”. Andò in cucina e, come un automa, versò il caffè e lo zuccherò, poi tornò nel salone e passò la tazzina a Maurizio.

Chiusero gli occhi.
I genitori di Marta arrivarono puntuali e la loro serata si concluse. Lei si rigirò tutta la notte nel letto, non riuscì a chiudere occhio: pensava ai loro progetti, al latte freddo che macchiava il loro caffè e i loro sogni.

Passò un po’ di tempo prima che si rivedessero: lui aveva avuto da fare, lo immaginava con i suoi genitori andare da un ospedale all’altro in cerca di nuove risposte. Lei, tra la scuola e tutto il resto, non aveva avuto molto tempo, ma pensava sempre a lui, sperava che si fossero sbagliati, che sarebbe saltato fuori un modo per risolvere il problema, come era già accaduto altre volte. Aveva cercato di non pensare al peggio concentrandosi sul loro progetto: non solo aveva comprato tutte le miscele di caffè che aveva trovato al supermercato, ma prendeva continuamente appunti sul sapore, il colore e la tostatura di ogni miscela che assaggiava.

Arrivò il 15 novembre. I genitori di Maurizio avevano organizzato una festa per il suo compleanno: palloncini colorati, decorazioni per i suoi undici anni, ogni tipo di dolcetto.

Maurizio aveva versato in certe caraffe colorate il caffè, in alcune aveva aggiunto un po’ di gelato alla vaniglia, in altre galleggiavano pezzetti di liquirizia. Pochi giorni prima erano arrivati anche i risultati delle analisi: quella macchia non si poteva far sparire in alcun modo. Tutti lo sapevano, ma lui voleva festeggiare lo stesso, e Marta era d’accordo con lui.

Arrivò il momento di tagliare la torta. Lui si fece scattare una foto col suo cappellino da baseball degli Yankees, le dita in segno di vittoria. Spense le candeline con un sorriso che illuminò tutta la stanza. Il suo papà, la sua mamma, le sue sorelline erano accanto a lui. La sua mamma sembrava aver disegnata sul viso un’eterna preghiera mentre lo guardava, mentre lo stringeva con dolcezza per la foto con la torta. Le sue sorelline si tenevano per mano, aspettavano il loro turno per la foto. Quando anche gli ultimi invitati se ne stavano andando, lo salutò anche Marta e la sua famiglia.

La festa era finita.

Puntuale arrivò maggio con i suoi raggi delicati e i boccioli di rosa. Prima di andare a trovare Maurizio un pomeriggio, Marta e la sua mamma si erano fermate a prendere del gelato. Sulla copertina del quadernino che aveva nella borsa, lei aveva disegnato due chicchi di caffè. Il quadernino conteneva le annotazioni degli ultimi mesi, tutte le osservazioni, i commenti sulle miscele che aveva assaggiato e mescolato. C’era anche una colonnina con il riepilogo dei guadagni ottenuti vendendo le sue cianfrusaglie.

Quando entrarono in casa, lei si sentì mancare vedendo Maurizio sul divano. Si aggrappò al braccio di sua madre, ma lui le sorrise. Si sedette sul divano accanto a lui mentre aspettavano insieme che il gelato si ammorbidisse un po’. Prese un pezzetto della sua coperta, lui sorridendo le disse: “Mi sento molto meglio oggi”. Lei annuì fissando il pavimento, si fece coraggio e mormorò: “Ho portato il mio quadernino: rimarrai stupito nel vedere il lavoro che ho fatto in questi mesi”. Maurizio si girò verso il muro dall’altra parte della stanza e disse: “Magari me lo fai vedere più tardi, okay?”

Lei annuì, ma lui non poté vederla.
Stettero un po’ in silenzio. Lei girava il cucchiaino nel bicchiere pieno di gelato, poi, con voce stanca, Maurizio le domandò: “Ti va un caffè?”
“Sai che non so dire di no al caffè. Vado a prepararlo”.
Lui la fermò con un cenno e le disse: “Lascia, lo prepara mamma. Resta qui con me”. Poi, accarezzando distrattamente un lembo della coperta, le chiese: “Non ti sembra che alcune persone siano ridicole?”

“Io sono ridicola e la cosa mi piace molto!”
Lui la guardò in modo strano e lei capì che non avrebbe potuto usare alcun trucco: doveva fare silenzio. Stavano giocherellando con i loro cucchiaini quando la mamma di Maurizio portò il caffè. Aspettarono un pochino, poi chiusero gli occhi e strinsero le loro tazzine.

Lentamente, scegliendo parole conservate chissà dove, lui le disse quasi in un sussurro: “Prometti che non permetterai a nessuno di dire che siamo dei mostri”. Stringendo di più la tazzina, riprese: “Tutte le porcherie che ci hanno fatto prendere e tutto quello che ci hanno fatto non ci ha reso mostruosi. Siamo come due chicchi di caffè. Probabilmente io rimarrò un chicco verde, mai pronto per la tostatura, oppure sono stato tostato troppo, non lo so. Non siamo mostri. Siamo solo due chicchi di caffè usciti fuori da una piantagione strana”. La guardò mentre lei continuava a stringere la sua tazzina, poi riprese: “Promettimi che non coprirai le tue cicatrici. Ci sono anche io tra quelle linee. Fammi questo regalo: coltiva la nostra piantagione tra quelle linee, inventa nuove storie che si intreccino con la mia. Non dimenticare quello che abbiamo sognato insieme, non dimenticare i nostri viaggi, le nostre avventure”.

Lei voleva piangere, ma sapeva che lui l’avrebbe detestata se lo avesse fatto. Deglutì e disse: “Lo farò. Te lo prometto”. Posò la tazzina sul tavolino e gli sussurrò: “Ti voglio bene”.
“Non sei male per essere una femmina” disse lui, e le strinse forte la mano.

 

1 Libera citazione da La notte delle favole, canzone di Tania Tedesco (Festival di Sanremo 1988).

 




ADAGIO di Silvia De Felice

Adagio

di Silvia De Felice

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

Rapsodia Edizioni

 

Catastrofe può essere un virus, un terremoto, una guerra, ma può essere anche un amore finito male, un sogno infranto, una malattia o la morte; la catastrofe, qualunque ne sia la natura, cambia la nostra vita e la stravolge per sempre.

 

Mentre l’Adagio suonato dalla London Philarmonic Orchestra riempiva morbido la stanza illuminata dal sole, Elizabeth posò la tazza di tè sul tavolino, appena in tempo perché non cadesse. Da diverse settimane, ormai, le mani le tremavano tanto da non riuscire quasi a controllarsi, fece piano, non voleva turbare i sonni tranquilli di Mila. La gatta le riscaldava le gambe e l’anima, mentre lei osservava per l’ennesima volta quei campi verdi e sconfinati, quei cespugli di rododendro dove da bambina tante e tante volte si era nascosta con Arthur e John. Era abituata a stare da sola; in un’epoca in cui le massime aspirazioni di una donna erano il matrimonio, una famiglia numerosa e un marito, lei al contrario gestiva la sua vita senza dipendere da nessuno. Era sempre stata di corporatura robusta, ma era ben proporzionata, e aveva un viso molto femminile, incorniciato da folti capelli color del rame. La debolezza che provava ormai da tempo le aveva tolto quel sorriso con cui ammaliava le persone. La malattia negli ultimi mesi la stava logorando e presto, anche solo per nutrirsi, avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di qualcuno, e questo lei non lo avrebbe mai accettato né permesso.

“Cara, vecchia amica mia” disse, rivolgendosi alla gatta, “quando ero giovane pensavo che avrei girato il mondo, e invece sono rimasta qui. Credevo nel grande amore, e quando arrivò Marc ero sicura che fosse lui, quel grande amore. Erano svanite tutte le mie manie di indipendenza, pensavo solo a lui, vivevo nell’attesa del suo ritorno, pendevo dalle sue labbra. Stenti a crederlo, vero? Eppure è così: ero capace di costruire una staccionata, dipingere la facciata di casa, smuovere pietre enormi per creare aiuole di fiori. Invece con lui perdevo le forze, ero una stupida donnetta innamorata. Sapessi, cara la mia gattona, sapessi di cosa la tua padrona è stata capace, tanto tempo fa…”

Finita la musica, Elizabeth era rimasta sulla sua vecchia bergère ormai logora ad aspettare il tramonto del sole, dopo di che si era sforzata di preparare la cena. Ormai non aveva più fame, mangiava per abitudine e per dare, con i pasti, un ritmo alle sue lunghe giornate. Quando iniziarono a cantare i grilli, fece il giro della casa per controllare che porte e finestre fossero chiuse, spense le luci e salì in camera da letto, confidando in un sonno senza incubi. La sua era, purtroppo, una speranza vana. Da parecchio un unico incubo disturbava il suo riposo notturno. La scena era sempre la stessa: si trovava al buio, sulle scale che portavano giù in cantina, lei scendeva, gradino dopo gradino, e tremava sempre di più, il flebile rumore che le pareva di sentire aumentava fino a diventare un rantolo. Quando poi arrivava in fondo, e faceva per aprire la porta e accendere la luce, qualcosa o qualcuno le si avventava addosso e all’improvviso si svegliava, madida di sudore.

La mattina dopo, Elizabeth venne svegliata dalla gatta che voleva uscire, quasi non riusciva a ricordare cosa avesse fatto la sera precedente, cosa avesse mangiato per cena e a che ora si fosse messa a letto. Sorrise laconicamente al pensiero che anche la sua memoria, sinora fin troppo pronta, stesse perdendo colpi. Con grande sforzo si mise seduta sulla sponda del letto, fece tre grossi respiri e si alzò in piedi. Il risveglio era il momento peggiore della giornata, il suo corpo provato si rifiutava di obbedirle e i dolori erano tanti. Con il passare dei minuti i suoi muscoli si scaldavano e le fitte causate dai movimenti divenivano più sopportabili. Scese la scala che portava al pianterreno tenendosi aggrappata al corrimano, alla fine del quale era appoggiato il bastone che le permetteva di camminare.

Elizabeth entrò in cucina e aprì la portafinestra che dava sul giardino per far uscire Mila, la temperatura era gradevole e decise di servire la colazione in veranda. Una colazione speciale! Mise a scaldare l’acqua per il caffè e lentamente preparò la tavola: apparecchiò con la tovaglia bianca e le tazze in porcellana che le aveva lasciato sua madre, poi tirò fuori dal forno un dolce preparato con fatica il giorno prima e prese dal cassetto della madia le posate in peltro. Fiori non servivano: i cespugli di rose del suo giardino erano stracolmi di boccioli, avrebbero fatto da contorno anche senza reciderli, il loro profumo arrivava fino alla veranda. A breve sarebbero arrivati Arthur e John, ma lei aveva bisogno di riprendere fiato: quelle piccole attività le avevano tolto le forze. Quei due uomini per lei erano più che fratelli, eguali nell’affetto che le dimostravano sempre, ma così diversi nel corpo e nello spirito. Arthur era mingherlino, aveva lo sguardo curioso e la mente sempre alla ricerca del perché della vita. John, un omone dai pochi capelli, aveva un sorriso tenero e lo spirito di chi sa che la vita non finisce con la morte.

Elizabeth si appoggiò dolorante sul dondolo lasciandosi andare ai ricordi. In pochi attimi ritornò a quando era poco più di una bambina, l’estate alle porte e le scuole appena finite. Stacey’s Lane era una stretta strada privata che portava alla grande casa dove viveva con sua madre; Arthur e John abitavano a poche centinaia di metri. La  mattina, appena si svegliava aveva un unico pensiero:  vestirsi, mangiare un paio di biscotti e uscire a giocare con i suoi compagni di avventure. S’incontravano quasi tutti i giorni, a volte portavano qualche panino e rimanevano fuori fino al tramonto, con buona pace delle loro mamme, che avevano smesso da tempo di sfinirsi per chiamarli, tranquille che, al più tardi per cena, li avrebbero rivisti.

Il rumore di una macchina la svegliò da quel leggero dormiveglia a cui si era abbandonata. I suoi uomini erano arrivati, non voleva farsi trovare semisdraiata sul dondolo. Si sbrigò ad alzarsi non facendo troppo caso alle fitte che avvertiva, si sistemò i capelli d’argento e andò loro incontro sorridendo.

“Che belli che siete!” disse felice mentre li abbracciava.

“Elizabeth, mia cara, come stai?” le chiese John.

“Bella sei tu, come sempre!” fece Arthur, tendendendole la mano.

Entrarono e si diressero sulla veranda che dava sul giardino dietro casa. I due uomini avevano la sua stessa età, ma sembravano più giovani, il fardello che portavano nel cuore era meno pesante di quello di Elizabeth, e non aveva tra l’altro minato il loro fisico. Si sedettero intorno al tavolo apparecchiato ed Elizabeth servì loro il caffè.

“Devo ammettere che mentre vi aspettavo mi sono quasi appisolata sul dondolo” disse loro, ridendo, e aggiunse: “Ho sognato quando ci siamo ritrovati qui il giorno in cui siete ritornati a Wanborough, e tutti i segreti che mi avete rivelato”.

“Mi sembra ieri che la mattina appena alzati ce ne scappavamo a gambe levate da casa per avventurarci nei campi” proseguì John, mentre sbocconcellava il dolce. E aggiunse: “A te proprio non piacevano le bambole, preferivi le avventure e inventavi sempre viaggi fantastici!”

“Vero” si intromise Arthur, “partivamo con gli zainetti pieni di cibo, e le nostre mamme neanche si preoccupavano: sapevano che saremmo ritornati prima di buio. Sono stati anni bellissimi, peccato essere diventati grandi”.

“John, ricordi quanto rimasi stupita quando a Oxford decidesti di dedicare la tua vita a Dio e poi tornare proprio qui, a Wanborough, per essere la nostra guida spirituale?” domandò Elizabeth, e aggiunse: “Quando vidi che portavi quella catena con il crocefisso, rimasi senza parole. Proprio non me lo aspettavo”.

“Già” ammise l’amico sorridendo, “avevi una faccia!”

“E quando vi raccontai che avevo una storia d’amore con un uomo?” proseguì Arthur, “Ve lo ricordate? Calò un silenzio di tomba, ebbi paura che non mi avreste più voluto bene, e invece siete stati splendidi, volevate addirittura conoscerlo, che lo portassi qui a Wanborough. Figuriamoci! Ci avrebbero banditi tutti quanti, se non addirittura lapidati”.

I tre si guardarono sorridendo. La primavera inoltrata, il verde dei campi seminati, i fiori e il canto degli uccelli fecero da sottofondo per qualche minuto alla colazione e ai loro pensieri.

I due uomini aspettavano pazienti, la loro amica aveva qualcosa da dire, ma non volevano forzarla. Sapevano che era qualcosa di importante.

“Che ne dite se facciamo una passeggiata?” propose Elizabeth.

“Te la senti?” le chiese John.

“Sì” rispose la donna, e aggiunse: “Con voi al mio fianco, posso affrontare tutto”.

Arthur le prese uno scialle e s’incamminarono lenti verso i campi dove erano stati centinaia di volte da bambini. Lui aveva scoperto lì la sua passione per la medicina. Osservava curioso tutti gli insetti e i piccoli animali, se ne trovava di morti li apriva con il suo coltellino e cercava di scoprire il segreto della vita.

I tre camminavano piano, lei faceva un po’ fatica, le fitte le toglievano il fiato. Ma sopportava in silenzio, voleva godersi quei momenti. I suoi due cavalieri chiacchieravano, erano molto conosciuti e stimati nel villaggio; un medico e un sacerdote, in tanti si rivolgevano a loro per curare malattie del corpo e dello spirito. Anche Elizabeth non era da meno: negli anni di prosperità che erano seguiti al secondo dopoguerra, lei era stata una delle prime insegnanti di quel piccolo borgo, che pian piano era diventato un paese; quanti ne aveva cresciuti di bambini! Molti, poi, se ne erano andati, ma tanti erano rimasti, e quando la incontravano non scordavano mai di ringraziarla per la pazienza con cui si era dedicata a loro.

Dopo un po’ di cammino arrivarono al grande albero che si trovava quasi alla fine della proprietà. Era incredibile come ancora fosse perfettamente visibile l’incisione a forma di cuore con all’interno due lettere: una E e una M.

Nonostante nessuno di loro avesse fatto il minimo accenno a quel cuore, Elizabeth ebbe un sussulto, John la strinse e Arthur la guardò con tenerezza. La donna sfiorò quelle lettere e i ricordi riaffiorarono.

“Il giorno che ho conosciuto Marc ho subito pensato che fosse l’uomo della mia vita, quando poi l’ho rivisto la seconda volta ne ero già perdutamente innamorata. Come ho potuto essere così cieca e sorda da non capire che mostro fosse? Qualunque storia mi propinava io gli credevo, e perdonavo, aspettavo, speravo” iniziò a ricordare la donna. “Mi ripeteva in continuazione che era il lavoro a tenerlo lontano da me, che presto avrebbe sistemato tutto e sarebbe rimasto. Ogni volta che ripartiva mi diceva che sarebbe stata l’ultima, dovevo solo avere pazienza, avremo presto costruito la nostra famiglia. Gli ho sempre creduto, fino a quel maledettissimo giorno in cui si rivelò per quello che effettivamente era: un maledetto bugiardo”.

Elizabeth con un filo di voce ricordò ai suoi amici della mattina in cui lei gli aveva aperto la porta di casa. Era felice, fremeva nel dirgli della bella novità: dopo diverse settimane di ritardo del ciclo, aveva scoperto di essere incinta. Era sicura che questo suo regalo avrebbe finalmente convinto Marc a fermarsi a Wanborough, lui l’amava e un figlio sarebbe stato il coronamento della loro storia d’amore.

“Credetemi, quando gli  comunicai la notizia, si trasformò: gli tremavano le mani, lo sguardo era diventato cupo e la voce roca. Un gelo mi avvolse all’improvviso, ebbi un capogiro mentre lui sbraitava, e persi i sensi”. Raccontava quei fatti come se i suoi due compagni di vita non sapessero già, come se non fossero a conoscenza della catastrofe che di colpo si era abbattuta su di lei. Mentre parlava, John le passava delicatamente le dita tra i capelli d’argento, e Arthur le teneva stretta la mano. Era una donna forte, lo era sempre stata, tranne quel giorno in cui le terribili parole pronunciate da quello che pensava essere l’amore della sua vita l’avevano abbattuta. Elizabeth aveva telefonato ai suoi due amici, che erano subito accorsi e l’avevano trovata seduta a terra, gli occhi pieni di lacrime, tra le gambe una pozza di sangue. Arthur l’aveva visitata e il responso l’aveva quasi annientata: non solo era stata abbandonata dall’ uomo che amava, ma aveva anche perso suo figlio. Elizabeth non voleva più vivere. I giorni successivi erano stati molto difficili, lei si rifiutava di mangiare e bere, voleva solo dormire. I due amici avevano cercato in tutti i modi di consolarla, le parlavano di come avrebbe trovato un altro uomo, migliore, che l’avrebbe amata veramente. Lei non li ascoltava, aveva lo sguardo perso nel vuoto e a volte nel sonno, sentivano che si disperava, mormorava scuse incomprensibili. Dopo giorni di digiuno, accudita da Arthur e John, Elizabeth aveva ripreso a nutrirsi e in poche settimane si era ristabilita. All’inizio dell’anno scolastico, Elizabeth era stata pronta a riprendere il lavoro. Dentro di lei, però, era rimasto qualcosa che l’avrebbe corrosa per sempre, un segreto che non aveva potuto rivelare a chi le aveva sempre voluto bene. L’insegnamento e le gratificazioni dei suoi studenti l’avevano aiutata a vivere, ma un male si era insinuato dentro di lei, subdolo, lento, inesorabile.

Gli anni a venire erano in qualche modo trascorsi: John spesso andava a Londra per incontrare i suoi superiori, voleva rinnovare la canonica e aveva bisogno di fondi. Arthur, invece, a Londra non era più tornato; soltanto in quella città avrebbe potuto continuare la sua storia d’amore, ma ciò lo avrebbe obbligato a lasciare Wanborough e anche Elizabeth. Non ne avrebbe mai avuto il coraggio, aveva quindi soffocato i suoi desideri fino, in parte, a dimenticare.

“Cosa avrei mai fatto senza di voi? Mi avete aiutata senza battere ciglio, mi avete protetto e dato da mangiare affinché non mi lasciassi morire, mi avete consentito di continuare a vivere”.

“Era il minimo che potessimo fare per te” disse John, e proseguì: “Se solo avessimo avuto il coraggio di dirti cosa sospettavamo di lui quando ce lo facesti conoscere, forse…”

“Dai, sediamoci un po’, sei stanca, riprendi fiato” disse Arthur, e l’aiutò a sedersi sul prato, poi ad appoggiarsi con la testa sulle sue gambe. La giornata era splendida, Elizabeth aveva bisogno di parlare, di liberarsi, e i suoi due amici erano gli unici che potevano capirla e rasserenarla.

I tre erano seduti sul prato sotto il grande albero quando iniziò a cadere una fine pioggerella primaverile.

“Andiamo a casa prima che diluvi” disse John.

“Sì, va bene” rispose Arthur. Si rivolse a Elizabeth dicendo: “Mia cara, su, alzati”.

La donna obbedì, ma quando era quasi in piedi una fitta lancinante la fece piegare in due; la prontezza dell’amico impedì che cadesse. Arthur guardò John, erano impalliditi entrambi. Sapevano molto bene della malattia, sapevano che le condizione di Elizabeth si sarebbero aggravate molto quasi all’improvviso, senza alcun preavviso; sapevano che da un momento all’altro la loro amica avrebbe perso forze e conoscenza, ma non erano ancora pronti a lasciarla andare. Il medico aveva interpellato decine di specialisti, scritto lettere, consultato testi di medicina sperimentale; le risposte avute non avevano lasciato spazio alla speranza. C’era, inoltre, un fatto molto importante che incideva sull’evolversi implacabile della malattia, era un fatto che loro non riuscivano in pieno a comprendere: Elizabeth era stanca di vivere e non lottava.

Dopo qualche minuto lei sembrò essersi ripresa, e con un sorriso disse: “Ragazzi, torniamo in veranda, altrimenti ci bagneremo. Io ora sto bene, datemi le vostre braccia per camminare meglio”.

Si diressero verso casa. Fecero appena in tempo ad arrivare che venne giù un forte sgrullone. Il temporale durò poco, e le gocce d’acqua sospese nell’aria, aiutate dai raggi del sole crearono uno splendido arcobaleno. Elizabeth si era accomodata sul dondolo, la gatta sonnecchiava e lei ammirava quei sette colori nel cielo. Arthur e John le sedevano vicino su due poltroncine in vimini un po’ consunte; aspettavano che lei parlasse. In cielo ora splendeva un bel sole, le rose profumavano e le foglie dei cespugli splendevano bagnate. A chi avesse osservato da fuori, quella scena sarebbe parsa quasi un quadro di Monet.

Dopo un po’ Elizabeth guardò amorevolmente i suoi due uomini e disse: “Lo so che non volete, lo so che non siete pronti, ma io lo voglio. Io sono pronta. Ho resistito e lo sapete, l’ho fatto per voi, perché mi volete tanto bene e non volevo farvi soffrire. Ma ora basta, sono stanca, sono ancora lucida, ma non so fino a quando potrò esserlo. Sono stata un peso per voi per gran parte della nostra vita, non voglio esserlo più. Prima, al grande albero, ho creduto fosse arrivato il momento, non riuscivo a respirare, la vista mi si era annebbiata e le gambe non reggevano più. Io, Elizabeth, la vostra Elizabeth, non diventerò un vegetale che anela un soffio di vita sulle vostre spalle. No, non lo diventerò!”

Arthur e John non riuscivono a proferire parola, la guardavano con gli occhi gonfi, deglutivano per non far uscire le lacrime. Elizabeth prese Mila sulle sue ginocchia. Accarezzandola maternamente, continuò: “Arthur, caro amico mio, hai portato quello che ti avevo chiesto?”

John ebbe un brivido, appoggiò con forza entrambe le mani sulle ginocchia per fermare il tremolio delle sue gambe. Il medico mormorò un sì debolissimo. Qualche settimana prima, quando ancora riusciva a camminare più a lungo, Elizabeth era andata allo studio di Arthur, aveva aspettato che i suoi pazienti fossero andati tutti via, ed era entrata. Cercando di apparire serena e ferma più che poteva, aveva chiesto al suo amico medico di aiutarla a morire. Lui aveva fatto finta di non capire, poi si era opposto, l’aveva implorata e supplicata, ma lei era stata irremovibile. Gli aveva chiesto qualcosa che potesse farla andare in un sonno profondo dal quale non si sarebbe più svegliata. Nel momento in cui gli aveva detto che si sarebbe rivolta a sconosciuti se lui non l’avesse aiutata, Arthur aveva ceduto. L’aveva riportata a casa ed era corso in canonica: non poteva portare quel peso da solo. Lui e John avevano fatto insieme tutte le ricerche per riuscire ad avere quanto richiesto dalla loro amica, e avevano trovato qualcosa che l’avrebbe addormentata tranquillamente come avrebbe fatto un qualsiasi normalissimo sedativo, ma lei non si sarebbe più svegliata.

Nelle settimane successive, Elizabeth sembrava quasi migliorata; andavano spesso a Stacey’s Lane e la trovavano sempre fuori in giardino: una volta che tagliava le rose appassite dai cespugli, un’altra che leggeva un libro sul dondolo con Mozart, Bach o Chopin in sottofondo, un’altra ancora che si azzardava a passeggiare quasi fino al grande albero. Lei li accoglieva sorridente, sembrava felice; Arthur e John non potevano sapere che le fitte erano sempre più frequenti, che le gambe di Elizabeth cedevano e le mancava il respiro. In loro presenza, Elizabeth era stata bravissima a fingere. Arthur e John non sapevano che nel suo passato era successo qualcosa che lei non aveva mai confidato a loro due. Un pomeriggio, però, li aveva chiamati al telefono e li aveva invitati a colazione per il giorno successivo. Alla fine della chiamata, aveva detto ad Arthur: “Porta con te ciò che ti ho chiesto”. Lui aveva tremato e capito. La mattina, quando era passato alla canonica per prendere John, non aveva avuto neanche la forza di salutarlo, lo aveva guardato sofferente e non c’era stato bisogno di parole.

“Elizabeth, cara, vuoi salire in camera da letto? Ti aiutiamo noi” disse John ad un certo punto, con un filo di voce.

“No, voglio rimanere qui in veranda, sul mio dondolo. Desidero che il mio ultimo sguardo prenda tutto insieme, una fotografia di ciò che più ho amato nella mia vita: voi due, i cespugli di rose e anche quelli in fondo di rododendro, Mila, i prati dove siamo stati tanto felici”. Poi proseguì: “Nel cassetto della scrivania troverete una lettera: ho lasciato a voi questa casa e la proprietà, vorrei che ne creaste un rifugio per giovani donne sole con un bambino da crescere, donne che come me si sono illuse o sono state ingannate dall’amore, ma al contrario di me hanno potuto far nascere la creatura che avevano in grembo”.

Fece poi un gran respiro e aggiunse: “Quando non ci sarò più, dovrete scendere in cantina, spostare quel vecchio divano marrone che era di mia madre e sollevare le assi del pavimento. Troverete un tappeto, arrotolato, ve ne dovrete liberare subito. Avvolti in quel tappeto ci sono i resti di colui che mi ha rovinato la vita”.

I due uomini balzarono in piedi. Erano senza parole. Gli occhi spalancati, non riuscivano a credere alle loro orecchie.

“Ma che dici, Elizabeth!” urlò Arthur. La gatta corse via, impaurita.

“Che tappeto? Di quali resti parli? Che cosa stai dicendo?” chiese John mentre stringeva in maniera convulsa il crocefisso che portava al collo.

“Sedetevi” disse lei, “vi porto un po’ d’acqua e vi racconto”.

I due uomini si guardarono, erano smarriti, poi la seguirono con lo sguardo e aspettarono che tornasse in veranda con dei bicchieri e una caraffa. Continuarono a fissarla, sbigottiti, senza proferire parola e portandosi l’acqua alla bocca in modo meccanico. Ad entrambi tremavano le mani. Elizabeth si sistemò sulla poltrona e iniziò a rivelare quanto aveva taciuto per anni e anni.

“Il giorno maledetto in cui rivelai a Marc di essere incinta, dopo aver ascoltato le sue accuse e sopportato tutta la sua ira, l’ho aggredito quando si era ormai girato per uscire per sempre da casa mia. Non mi ero neanche resa conto di aver preso in mano l’attizzatoio che era appoggiato al camino. Mentre era di spalle, l’ho colpito con tutta la forza che potevo. Non lo uccise il colpo in sé, ma il fatto che Marc, cadendo, aveva sbattuto la testa sul gradino. Passato un primo momento di disperazione, non so in che modo trovai la forza per avvolgerlo nel tappeto dell’ingresso e trascinarlo per le scale fino alla cantina. Qui c’erano delle assi del pavimento che avrei dovuto sistemare da anni, ma non lo avevo mai fatto. Questo mi tornò utile: le spostai, sotto c’era spazio a sufficienza per nascondere un cadavere. E così feci. Mi ricordai che avevo conservato dei sacchetti di calce avanzata da alcuni lavoretti svolti in precedenza. Misi un po’ di quella calce intorno, sopra e sotto al tappeto che avvolgeva il corpo. Lo sforzo era stato tale che, una volta tornata di sopra, ebbi delle fortissime fitte al ventre. Dopo pochi istanti sentii del liquido colarmi tra le gambe. Riuscii a telefonarvi prima di accasciarmi sul pavimento, proprio dove poi mi avete trovata”.

Arthur e John erano ancora senza fiato, si guardarono smarriti per qualche istante, poi le si avvicinarono e l’abbracciarono forte. Elizabeth si lasciò stringere per qualche istante, poi si sciolse dal loro abbraccio, li guardò con affetto e disse: “Ora è giunto il momento. Aiutatemi ad andarmene”.

 

foto da Comfreak by Pizabay

 




TETRA- una nuova casa editrice dedicata ai racconti

TETRA-
Quattro racconti – il Quattro del mese – a Quattro euro – per Quattro autori

 

 

TETRA- è una nuova casa editrice nata da un’idea di Danilo Bultrini e Luca Verduchi, gli editori di Alter Ego Edizioni, una casa editrice indipendente di Viterbo specializzata nella pubblicazione di narrativa italiana e straniera.

La direzione editoriale è affidata a Roberto Venturini, editor e scrittore candidato al Premio Strega 2021 con il romanzo “L’anno che a Roma fu due volte Natale“. (ne abbiamo parlato qui)

TETRA- ha scelto di aprirsi nel panorama editoriale indirizzandosi verso una forma particolare di letteratura, quella del racconto o short story, che meglio di altre sembra soddisfare le esigenze dell’epoca in cui viviamo e di avvicinarsi con maggiore attenzione alle nuove generazioni che prediligono una comunicazione veloce, immediata, a volte scarna ma non certo di parole.

E cosa di dire ne hanno di sicuro i quattro scrittori scelti per la prima uscita del 4 maggio: Andrea Donaera, Paolo Zardi, Emanuela Canepa e Valerio Aiolli.

Così come il nutrito elenco dei prossimi autori: Daniele Petruccioli, Romana Petri, Eduardo Savarese, Valeria Viganò, Ilaria Gaspari, Giorgia Tribuiani, Alfredo Palomba, Antonio Moresco, Demetrio Paolin, Alessandro De Roma, Irene Chias e tanti altri scrittori e scrittrici

La scelta del nome, TETRA-, racchiude in sé gli elementi distintivi dell’idea stessa visto che tetra significa quattro e Quattro saranno le uscite come per le stagioni, da Quattro scrittori diversi, al prezzo di Quattro euro, il Quattro del mese, e nella forma cartacea di un quadrato.

Anche per le illustrazioni di copertina si nota una grande cura e attenzione scegliendo la tecnica del collage “per rimarcare ciò che Tetra- si pone come obiettivo:unire le differenti voci del panorama letterario italiano e internazionale, per raccontare la complessità e il fascino del mondo contemporaneo.

Considerando che Quattro sono anche gli elementi fondamentali della vita attraverso i quali il microcosmo umano si unisce con quello naturale, c’è da aspettarsi grandi cose da questa esuberante iniziativa editoriale.

Mentre a noi lettori non resta altro che attendere il 4 maggio per leggere i racconti e augurare che il Fuoco, la Terra, l’Aria e l’Acqua siano sempre energia pura per l’intero team.

 

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LA STANZA DEI BOTTONI di Cristina Cortelletti

La stanza dei bottoni

di Cristina Cortelletti

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Marco contrasse il viso stanco allo stridio della serranda che finiva di avvolgersi nel cassonetto. Doveva lubrificare le guide di ferro, pensò, l’avrebbe fatto l’indomani. Erano le 19,30 e aveva promesso a Sara di cucinare le linguine al limone per cena.
Dalle vetrate in fondo al capannone si intravedeva in tutta la sua bellezza l’ultimo crepuscolo di settembre, e Marco si incantò a guardare le sfumature rosa. Penetravano la spessa coltre di polvere che ricopriva i vetri. Quel frammento di natura era una di quelle cose per cui valeva la pena trattenersi al lavoro fino a tardi.

Sulle pareti in penombra le crepe avanzavano inesorabili, rendendo la superficie una scorza avvizzita. Marco s’incupì constatando che le mura non mentivano, stava invecchiando anche lui. Il capannone, insieme alla portineria e alla torre quadrangolare, faceva parte di un vecchio polo industriale, costruito negli anni Sessanta. Un’unica grande costruzione comprendente tre edifici a schiera, con mura portanti comunicanti; all’interno del capannone c’erano quattro grandi pilastri sui quali poggiavano le capriate in cemento a sorreggere la copertura curva. Sulla parete destra erano posizionati i macchinari principali per la produzione, compresa la grande pressa che occupava un terzo del capannone e invadeva parzialmente il camminamento pedonale: bisognava avanzare a zig zag.

Marco avanzò a naso, l’odore dell’olio da taglio impregnava l’aria in corrispondenza della cesoia, sulla quale lampeggiava la piccola luce rossa che era tornato a spegnere. Notò sul pavimento le due chiazze nere che aveva dimenticato di pulire. Le schivò, sperando che dopo la riparazione che lo aveva impegnato tutta la giornata, il macchinario non perdesse più olio. Gli borbottò lo stomaco e si ricordò delle linguine che aveva programmato di cucinare per cena. Avrebbe fatto una sorpresa a Sara.

Marco accelerò il passo, girò la manopola, il led si spense e nel capannone tutto assunse un aspetto dormiente. In quel momento sentì l’ululato sommesso della colonna sonora de Il Buono, il Brutto, il Cattivo, abbassò lo sguardo verso la parete in fondo al capannone e vide lo spiraglio di luce che filtrava dalla piccola fessura vicino al pavimento. La stessa feritoia dalla quale proveniva la musica.

“Ciao Tuco” gridò Marco tendendo inutilmente l’orecchio, difatti non ebbe risposta. Marco guardò l’orologio, non aveva molto tempo, ma decise comunque di passare in portineria a salutare Tuco. Aveva soprannominato Tuco uomo nuvola perché era impercettibile, sfuggente e soprattutto indecifrabile. Aveva avuto il posto di custode notturno, in quanto unico candidato con un requisito fondamentale: non dormire mai. Di lui si diceva che era stato membro dell’Agenzia, designato all’effrazione di siti potenzialmente pericolosi e poi congedato per disturbi mentali. Dopodiché era scomparso.

Marco costruiva serrature di sicurezza antiscasso e Tuco rappresentava l’antagonista per eccellenza; fu così che tra i due iniziò una fortissima competizione. Marco s’era imposto di costruire delle serrature che resistessero all’abilità manuale di Tuco. Di giorno le realizzava e la sera le lasciava in portineria. Tuco le testava e poi la mattina, prima di andare via, le metteva in un sacchetto che appendeva al portone del capannone. I primi tempi Marco trovava nel sacchetto tutte le serrature divelte, e impegnò tutto il suo ingegno per costruire ingranaggi sempre più sofisticati e combinazioni cifrate che le rendessero inattaccabili. Fino a quando una mattina trovò nel sacchetto tutte le serrature intatte, guadagnandosi l’apprezzamento di quell’introverso e nebuloso custode. Sorrise, ripensandoci.

Da qualche mese aveva iniziato a lavorare sull’idea di Tuco, e non aveva più orari. Sara condivideva lo stesso entusiasmo, ma ultimamente si lamentava dell’ossessione che lui rasentava per quel progetto. Un’idea ardita per lei, ma non per Marco, che s’era messo alla prova per vincere la sfida più difficile di tutte: quella con se stesso.

S’incamminò senza esitare verso la porticina di servizio sul retro del capannone, superò il tavolo da lavoro, scantonò la pila di pallets che, come tutto, intorno alle pareti si ergeva fino al soffitto a volta. Si fermò subito dopo la pressa.
“Tuco!” disse, provando a girare la maniglia della porticina.

“Cosa vuoi?”
“Finire il lavoro” rispose, pentendosi immediatamente.
Sara stavolta non l’avrebbe perdonato. Il tono della musica si affievolì. Qualcosa nella porta scattò diverse volte, il battente girò cigolando sui cardini e si aprì. Lo investì un’aria satura di canfora e dell’inconfondibile odore dei fagioli al sugo in barattolo della Star. Marco detestava i cibi in scatola, rabbrividì.
“Credevo non venissi stasera” disse Tuco.
“Voglio finire il lavoro prima che arrivino gli ospiti” rispose Marco.
Tuco gli fece cenno di stare zitto.
“Gli uomini si dividono in due categorie, quelli con la pistola carica e quelli che scavano; tu scava!” riecheggiò la voce di Clint Eastwood.
Illuminato dalla luce calda della lampadina, Tuco sembrava più smilzo e più vecchio, teneva la testa sprofondata fra le spalle e lo sguardo incollato alla TV. Tra la barba rada e incolta facevano capolino delle piccole briciole, e tutto intorno c’erano mosche e tafani. Un duello tra desolazione e solitudine.
“Non hai una bella cera” disse Marco.
“Sono appena uscito dall’ospedale”.
“Ho sentito dire che ti hanno tolto un pezzo di fegato”.
“No… è andata bene”.

L’aveva scampata per un pelo. Gli spari rimbombarono, il Biondo aveva reciso con una pallottola la corda al collo del Cattivo, che saltava sul cavallo e scappava.
Tuco vedeva tutte le sere lo stesso film. Spinse verso Marco una scatola di legno piena di sigarette.

“Prendi” disse.
“No” rispose Marco, facendo un cenno con la mano. Aggiunse: “Ora no”.
Tuco si sedette davanti al contenitore di latta pieno zeppo di fagioli al sugo, senza distogliere lo sguardo dal televisore.
“È ora di cena” disse portandosi il cucchiaio alla bocca.

“Finiremo stasera?” chiese Marco.
Non ebbe risposta. Poteva farcela, pensò, picchiettando l’avampiede a terra; in fondo tutto era pronto, sarebbero bastati pochi minuti e avrebbe raggiunto Sara. La lentezza lo metteva a dura prova: sin da quando aveva imparato a camminare, a Marco piaceva correre. Per lui il tempo che passava infruttuoso era sprecato. Mentre aspettava che Tuco finisse, si guardò intorno. La portineria non aveva finestre e in tutte le pareti, grezze e aggredite da colature giallastre, si annidavano tante varietà di insetti, soprattutto falene. Restò sorpreso nel vedere che, mentre tutto ciò che riempiva la stanza era interamente ricoperto di polvere e briciole, il pavimento era pulito nonostante fosse usurato.
Cercò con gli occhi la fessura sul muro e poi puntò lo sguardo in basso sulla parete in fondo, dove c’era l’armadietto arrugginito, e la vide. La fessura era comunicante con il suo capannone in prossimità di quella che aveva definito la stanza dei bottoni, precisamente l’area tra la pressa e la troncatrice.
Tutte le sere da quella fessura filtrava la musica di Morricone che si diffondeva nel capannone, rimbalzava sulle pareti e si amplificava nella volta. Le note degli ottoni e dei violini si espandevano fino a riempire tutta l’aria. Tuco non poteva essere un burbero animale se la musica lo afferrava a tal punto, pensò.
“Ecco, prendi” disse Tuco versando il caffè nelle solite tazze.
“Buono come sempre” rispose Marco sorseggiandolo. “Dobbiamo sbrigarci” proseguì, “ci resta poco tempo”.
Tuco, con fare calmo, accese una sigaretta e soffiò il fumo, che salendo scomparve nell’oscurità; prese la lista sulla parete di fianco al televisore e fece cadere a terra la puntina con la quale era fissata. Marco si chinò per raccoglierla e vide una nuova fessura sul muro, identica all’altra. “Accidenti!” esclamò tirandosi su a fatica.
“Cosa ti preoccupa?” chiese Tuco.
“Inizio ad essere vecchio per queste cose, e non dormo da troppe ore”.
“Non lamentarti” disse Tuco, “non è tardi”.

Pigiò il tasto del VHS sul telecomando e sullo schermo comparvero numerosi lepidotteri che volavano al rallentatore. Entrambi osservarono lo schermo, si scambiarono un’occhiata e annuirono.
“Ti aspetto di là” disse Marco aprendo la porticina.

Rientrò nel capannone, le sfumature incupite del tramonto avevano ceduto al buio; attese che gli occhi si abituassero e si diresse verso la pressa, dopo pochi passi si trovò nella stanza dei bottoni. L’odore di muffa si era intensificato negli ultimi giorni. Sulla parete comunicante con la portineria erano fissati degli argani a manovella, ai quali erano collegati dei cavi di acciaio che si allungavano verso il soffitto e si incanalavano nelle piccole carrucole ancorate alle travi. Ogni cavo scendeva parallelamente alla parete e si fermava ad una altezza diversa dagli altri. Alcuni terminavano con una lamina di acciaio, altri con una molla fissata ad un piccolo moschettone. Marco scrutò il marchingegno tenendo in mano la pulsantiera del comando a motore e corrugò la fronte, qualcosa non gli tornava. Per un attimo si scoraggiò. Lo scosse il pensiero di quanto avesse lavorato per trasformare il marchingegno degli ingranaggi da un progetto teorico in realtà tangibile.

Si focalizzò nuovamente sulla parete, ripassò mentalmente lo schema del circuito raccomandandosi ad ogni singola vite, alla quale aveva affidato una grande responsabilità: non allentarsi. Aveva scongiurato il rischio di mandare in frantumi l’ingranaggio, ma gli ospiti erano furtivi e si mostravano in giro raramente; mentre di notte erano alacri lavoratori, di giorno era difficile capire cosa facessero: un sabotaggio non era da escludere.

Quando Tuco aveva iniziato il lavoro di guardiano notturno, gli ospiti erano già lì, e in tre mesi era riuscito a studiarne le abitudini, condividendo con loro il cibo, la musica e le notti. Poi un giorno propose l’azzardato progetto a Marco, che accettò senza pensarci. Da quel giorno ci si erano dedicati, impegnando tutte le loro conoscenze per riuscire a realizzare un’opera di straordinaria architettura.

Marco strofinò le mani umidicce sul gilet, le tempie rigonfie scandivano i battiti.
“Ora ho capito” esclamò Marco ad alta voce, tenendo d’occhio la parete.
Lasciò la pulsantiera, prese quattro tavolette di legno e fissò su ognuna un rocchetto di plastica che avvolse con del filo di rame; prese due piccoli magneti, li forò e li mise all’interno di ogni rocchetto, poi fece passare trasversalmente nei fori un tondino di ferro, che collegò con il mastice alle manovelle di tutti gli argani. Si asciugò la fronte con il dorso della mano. “Giusto in tempo” disse con le labbra socchiuse, e inspirò soddisfatto.
“Tuco!” gridò Marco.
Tuco guardò l’orologio, selezionò sulla TV il fermo immagine con decine di falene immobili che riempirono lo schermo e mise il telecomando in tasca. Gettò nel secchio il barattolo vuoto dei fagioli, prese una tazza, la riempì di acqua e canfora, e la posizionò sul pavimento davanti alla fessura che stava sulla parete in fondo alla stanza. Si diresse verso la porticina, si voltò per accertarsi che tutto fosse a posto ed entrò nel capannone.

La lucetta calda della portineria che filtrava dalla fessura nel capannone si rifletteva sulla lamiera argentata della pressa, diffondendo un fioco bagliore nella stanza dei bottoni. In quel luogo tutto prendeva forma e vita. Le due pareti laterali erano tappezzate di disegni e bozzetti di miniature, oggetti che Marco aveva realizzato artigianalmente, pezzi unici nei quali aveva infuso la sua passione. Aveva sperimentato un’infinità di materiali per creare, e alcuni avevano dato risultati davvero magici. Tutt’intorno giravano ricordi. Ogni progetto generava in Marco un’energia incredibile che trasferiva negli oggetti costruiti, rendendoli testimoni di se stesso, in grado così di trasferire l’eredità della sua storia al futuro, certo che Sara avrebbe fatto tutto il possibile affinché ciò accadesse.

Tuco aveva già visto quei disegni, ma rimase ancora una volta affascinato. Ad un tratto sentirono i misteriosi rumori muoversi nella parete dove era stato costruito il marchingegno. Era arrivato il momento, Tuco si avvicinò e scrutò l’ingranaggio che risaltava sulla decadente parete scura. “Avevo utilizzato dei motorini elettrici” specificò Marco. “Che stupido… ora dovrebbe essere perfetto”.

“Sono delle piccole dinamo” osservò Tuco, facendo una smorfia di apprezzamento.
“Sì. Meno rumore faremo e più alte saranno la probabilità di successo” rispose Marco. Ripassò mentalmente tutte le funzioni, diede un’ultima lubrificata alle ruote delle carrucole e si accertò che i cavi fossero ben saldi.
Si posizionarono entrambi a circa due metri dalla parete. Un fremito scosse Marco, come se fosse parte del circuito.
“Vai, accendi”.
Tuco, impassibile, abbassò la levetta dell’interruttore e una cascata di luce proveniente da centinaia di micro lampadine alogene si diffuse sulla parete. Marco regolò l’intensità con il varialuce mentre Tuco, accanto alla pressa, si era preparato a girare due manovelle. Marco afferrò le altre due e iniziarono a girarle.

I cavi in tensione stridettero e, piano piano, si avvolsero alle bobine manovrate dagli argani; alcuni cavi tirarono su le lastre in acciaio fissate alle loro estremità, scoprendo così le numerosissime crepe sul muro. I cavi con i moschettoni sollevarono una specie di sipario in pvc trasparente che, una volta steso, rivestì l’intera parete come una pellicola di cellophane. L’idea della pellicola era venuta a Sara, che nella vita faceva la scenografa. L’utilizzo di questo materiale si era rivelato un ottimo compromesso. Il pvc stabilizzato, oltre ad essere malleabile e quindi facilmente arrotolabile, era molto resistente e, soprattutto, trasparente. Avevano creato un sistema per sovrapporre una finta parete sulla parete esistente.
Le travi del soffitto scricchiolarono, Marco e Tuco smisero di girare le manovelle e tutto il marchingegno si fermò. Restarono fissi a guardare in silenzio. Le crepe si intersecavano e formavano una fitta rete di gallerie comunicanti, un labirinto scavato nel muro; cunicoli contorti che sbucavano in altri cunicoli, una specie di sistema circolatorio interno alla parete.

“Eccole” sussurrò Tuco.
Finalmente le videro. Migliaia di falene brulicavano velocemente in ogni direzione, correvano nei caotici tragitti; attratte dalla luce alogena si mostravano a loro, contenute dalla pellicola che ne evitava la dispersione e le manteneva nelle loro caverne. Le falene entravano e uscivano, andavano e venivano, salivano e scendevano nel groviglio inestricabile multiviario.

“Guarda” disse Tuco, “sapevo che ne sarebbe valsa la pena”. E pensò che così doveva essere il giardino magico di Armida, ma senza piante: tanti involuti percorsi, per nascondersi e riprodursi. Nelle fenditure più in alto, sostavano immobili le mosche delle mansarde, forse migliaia, pronte a ibernarsi per tutto l’inverno. Erano vuote, invece, le crepe e le tane più in basso, quelle alla base della parete, comprese le due fessure comunicanti con la portineria.

Marco non era esperto di insetti, ma era impossibile distogliere lo sguardo dal lavoro di quei rispettabili ingegneri alati. Se potessero parlare, pensò, svelerebbero come possa esserci un’ordine in tanto caos. Avrebbe voluto che Sara fosse lì.
Decisero tacitamente di passare alla fase successiva, e spensero le lucette alogene. Attesero pochi secondi per abituarsi alla penombra della stanza dei bottoni, poi si concentrarono per intercettare qualsiasi movimento sulla parete, ancora rivestita con la pellicola trasparente. Marco distolse lo sguardo per arrotolarsi le maniche della maglietta; lo fece lentamente e senza fare rumore. Il sudore colava come se lo stessero strizzando. Si voltò a guardare Tuco, che era completamente preso dal tentativo di focalizzare gli insetti.

Perlustrarono la parete centimetro per centimetro, crepa per crepa, tutto il labirinto di gallerie ora pareva disabitato. Tutto sulla parete era immobile. Si avvicinarono ancora di più con movimenti sincroni, come se si fossero messi d’accordo.
“Gli insetti non possono essersi dissolti” disse Marco.

Dalle fessure in basso a terra filtrava la luce della portineria.
“Ecco, ora è perfetto” disse Tuco.
“Che succede?” chiese Marco.
Tuco si girò di scatto e si avviò a passo svelto verso la porticina, urtò la troncatrice e dalla tasca gli cadde il telecomando della TV. Improvvisamente la musica di Morricone si diffuse ovunque. Marco restò immobile a fissare la porticina.

“Tuco!” gridò, ma non ebbe risposta.
Bloccò i quattro cavi in prossimità delle manovelle, cercando nel buio un fermo appropriato per tenere ben saldo il telo che rivestiva l’intera parete.
“Accidenti, non vedo niente!” esclamò. “Ci si mette pure la musica…”

Nella confusione non riusciva a pensare. Si guardò intorno, afferrò un puntale e bloccò il tiro. S’incamminò verso la portineria, ormai conosceva a menadito ogni centimetro del capannone, e aprì la porticina.
“Shhh”sussurrò Tuco alzando le braccia sopra la testa, “vieni a vedere”.

Marco, piantato sulla soglia, sgranò gli occhi: tutta la stanza era piena zeppa di insetti, migliaia di falene volavano unite in un vortice. Una fioca luce intermittente tagliava il buio della stanza. Tanti lampi di luce biancastra venivano continuamente spezzati dagli insetti, che si inseguivano in un girotondo forsennato. Tuco aveva stampato sul viso un ghigno, pareva nutrirsi di soddisfazione da ogni poro.

“Diamine, che succede?” gridò Marco.
“Shhh” ripetè Tuco. “Tutto è come previsto” disse accennando appena il labiale.
“Dove ho sbagliato?” insistette Marco scuotendo la testa.
“È una straordinaria evasione di massa” gridò Tuco più forte della musica.
Le falene giravano sulle note in una veloce spirale, abbagliate dalla luce artificiale, insieme alle mosche e ai tafani che compivano numerose giravolte. Tutti gli insetti danzavano in una combinazione perfetta di acrobazie. Un innocuo battito d’ali aveva sortito l’effetto sperato da Tuco, che aveva scovato il tesoro sepolto nella parete e finalmente adesso era lui a muovere i fili. “Vedi? Con un semplice inganno di luce li ho dirottati” disse Tuco, compiaciuto.
La soddisfazione eccessiva per aver portato a termine il progetto si era trasformata nell’arrogante ingordigia di accaparrarsi il merito e il bizzarro bottino. Marco non era superstizioso, ma in quel momento gli balenò il pensiero che quelle creature potessero essere veramente portatrici di sventure. Lo fissava confuso.
“Sbrighiamoci, usciamo da qui” disse Marco ad alta voce.
“Ancora non hai capito!” gridò Tuco. “Non vuoi proprio vedere?”
“Non ora. Presto, usciamo” ribatté Marco.
“Troppo, troppo tempo…” disse Tuco. “Non va bene fare le cose per troppo tempo”.
Non dormiva da un pezzo, perché aveva l’idea che se avesse chiuso gli occhi si sarebbe perso nelle tenebre. Dal primo giorno che era stato assunto e per tutte le 733 notti che seguirono aveva ascoltato il brulicare degli insetti, ininterrottamente dal tramonto all’alba. Aveva studiato le loro abitudini e vulnerabilità; non avendo altro a cui valesse la pena dedicare del tempo, si era intestardito sull’idea di stanare quelle creature della notte che tanto gli somiglivano. Non ci volle molto a convincere Marco che, stuzzicato dalla strana e bizzarra idea, si era messo subito all’opera. Così ogni sera che Marco era rimasto al lavoro, Tuco aveva rubato con gli occhi le tecniche e i metodi che l’altro adottava per costruire oggetti. Aveva imparato ad usare tutti gli attrezzi e gli utensili da lavoro e aveva memorizzato i prontuari, la tenuta e la resistenza di infiniti materiali. Che Marco fosse un abile e intraprendente artigiano, era un fatto che volgeva a suo vantaggio, un colpo di fortuna. Lo avrebbe utilizzato per sfogliare la parete e portare alla luce gli insetti.

“Vecchio pazzo. Forza, facciamole uscire!” gridò Marco, dimenando le braccia nell’aria fitta di falene.

Tuco era al centro della stanza, i capelli arruffati gli spiovevano sulla fronte e la sua faccia aveva assunto un’aria sinistra. Teneva i denti serrati e non batteva ciglio. Lui non era l’uomo con la pistola carica, come il cattivo del film. Lui aveva scavato per tutta la sua insulsa e monotona vita, e lo aveva fatto sempre nello stesso identico modo, senza il coraggio di impugnarla e premere il grilletto. Finalmente poteva essere un bastardo, come suo padre e il padre di suo padre. Improvvisamente andò verso di lui e lo fissò, erano uno di fronte all’altro, e in quel lasso di tempo sospeso Marco vide riflessa negli occhi di Tuco un’invocazione di sfida. Non riusciva a spiegarsi cosa stesse succedendo né perché, ma sostenne comunque lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore. Avrebbe potuto raccogliere la sfida, com’era nella sua natura, si sarebbe messo in gioco e ne sarebbe uscito vittorioso, ma non lo fece. Afferrò Tuco per un braccio e tentò di trascinarlo verso la porticina, ma lui con uno strattone si liberò dalla presa e si diresse a passo deciso verso la televisione. Interruppe la musica.

Improvvisamente dal soffitto si sentì uno stridio ferroso che si mescolò al fervido battito d’ali delle falene. Il tetto della portineria si aprì e i raggi lunari si diffusero nella stanza. Gli stessi raggi che prima erano intermittenti, ora erano continui. Le falene, attratte in una vorticosa danza, intrecciavano giochi di luce. Era meraviglioso, eppure un brivido lo attraversò. Tuco pigio il tasto ‘on’ sul telecomando e sulla parete iniziò a sollevarsi un telo trasparente.

“Mio Dio, è identico all’altro!” esclamò Marco. “Sì”.
“Perché l’hai fatto?”
“Per me”.

“Non capisco” disse Marco.
“Vai di là e accendi le lucette” disse Tuco, agitando una mano nell’aria.
Marco obbedì e andò nel capannone.
Tuco pigiò un altro tasto e il soffitto si chiuse; fu subito buio. In pochi secondi gli insetti rientrarono nelle caverne della parete, attratti dalla luce proveniente dalla stanza dei bottoni. Poi azionò nuovamente il sipario, che scese e rivestì la parete impedendo agli insetti di uscire. Si lasciò cadere a terra, esausto.
Marco rientrò, accese la luce e restò a bocca aperta nel vedere tutto il lavoro che Tuco aveva fatto: un macchinoso congegno. Nella testa gli frullavano tante domande. Lo vide seduto a terra, con la sua giacca impolverata e la testa china sulle ginocchia. Non aprì bocca e restò ad osservare la stanza. Tutto era stato costruito in modo che si potesse celare nel buio dell’alto soffitto e mimetizzare con la parete: un sipario nel sipario. Si appoggiò allo stipite e la mente

ricreò i tre mesi di lavoro, le immagini scorrevano silenziose in un involontario susseguirsi di istantanee; si sentì rinfrancato e accennò una mezza domanda: “Allora è per questo che…”, si interruppe abbassando lo sguardo. Non ora, pensò, non è il momento. “S’è fatto tardi. Devo andare” disse Marco, dirigendosi subito dopo verso la porta.

Tuco alzò la testa e i loro sguardi si incrociarono. Marco sorrise, annuì e uscì. A Tuco piacque la considerazione silenziosa di Marco, che sarebbe andato a casa e avrebbe raccontato a Sara dello straordinario successo del loro lavoro. Le avrebbe parlato per un po’ di quel vecchio pazzo, se lei avesse voluto ascolarlo. Ci avrebbe almeno provato, ma forse Sara non gli avrebbe creduto.