IL TROLLEY di Silvia De Felice

IL TROLLEY

di Silvia De Felice

tratto dalla raccolta Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

Ed. Rapsodia

 

Francesca quel giorno proprio non riusciva a trattenersi dal sorridere, eppure era consapevole che sarebbe stata una serata lunga e faticosa. Tutto intorno a lei esultava: il mestolo sporco di sugo, la presina macchiata appoggiata sul lavandino, la scopa nell’angolo della cucina. Mentre spadellava guardava le zucchine, anche quelle sembravano ballare insieme ad aglio, olio e peperoncino. Era sicura che non sarebbe stato facile, che i toni si sarebbero alzati, e che forse qualche piatto sarebbe volato durante la cena con Antonio, ma non era preoccupata più di tanto, Francesca si sentiva forte e felice.

Era ormai tutto pronto, aveva preparato i piatti preferiti di suo marito, che sarebbe ritornato a breve dal lavoro, affamato come sempre ma totalmente all’oscuro di ciò che lo attendeva. La casa era in ordine, il frigo pieno, le lenzuola del letto matrimoniale fresche di bucato, fiori freschi nel vaso in corridoio; Francesca si guardava intorno soddisfatta. “Ho fatto proprio un bel lavoro” disse tra sé e sé, mentre il suo trolley da viaggio, nascosto dietro la porta, le faceva l’occhiolino. Oggi sembrava che tutti gli oggetti facessero comunella intorno a lei.

Il tintinnio delle chiavi alla porta la fece sobbalzare. Antonio era rientrato, iniziavano le danze.

“Mmmmm, che buon profumo” esordì suo marito, “una bella cena è proprio quello che mi ci voleva dopo una giornata di merda”. Dopo aver lanciato il soprabito sul divano, si diresse in bagno.

“Ciao” rispose Francesca mentre lui già non la sentiva più, “tra dieci minuti la cena è in tavola” aggiunse mentre scrosciava l’acqua della doccia.

“Devo decidermi a guardarmi intorno, l’aria dello studio è diventata davvero irrespirabile”. Queste furono le prime parole che le rivolse suo marito dopo essersi seduto e aver iniziato a mangiare. Parlava e neanche la guardava, Francesca sembrava invisibile per lui. “D’altronde sono ancora giovane, ho un curriculum di tutto rispetto e le riaperture dopo l’estate mi favoriranno” continuò lui.

“Sono contenta che la cena ti sia piaciuta, anche perché questa era l’ultima che ti preparo. Ho deciso di andarmene, ma ti ho lasciato il frigo pieno e la casa pulita” disse Francesca con tranquillità.

“Pensa che oggi quella stronza di Roberta ha avuto da ridire sul progetto che ho presentato in riunione, proprio lei che di fondamenta e pilastri non capisce un cazzo!”

Antonio non l’aveva ascoltata, anzi non l’aveva proprio sentita.

“Ho anche messo dei piatti pronti nel surgelatore e pulito tutta la casa, così avrai qualche giorno di autonomia finché non troverai una persona che possa aiutarti con le pulizie e i pasti” continuò lei, poi si alzò per cambiare i piatti.

“Quella crede che possedere qualche quota in più della società le dia il diritto di spadroneggiare con chi si sobbarca della maggior parte del lavoro. Se ne accorgerà, la deficiente, quando me ne andrò”.

“Non mi hai sentita neanche questa volta?” si azzardò a chiedere lei.

“Sono mesi che lavoro come un pazzo per rispettare i termini e le scadenze concordate con i clienti, per evitare allo studio di dover pagare delle penali, per far fare bella figura a quel manico di scopa travestito da donna in carriera! E lei che fa? Cerca la magagna per screditarmi davanti agli altri e risultare la più competente. Sai cosa penso, Francesca?”

Lei non rispose, ma lui continuò lo stesso.

“Penso proprio che quella volta che mi si buttò addosso, anziché fare la parte del marito fedele, me la dovevo scopare! Ecco che penso!”

“Sì, hai ragione” disse Francesca, e aggiunse: “Così avremmo deciso prima e con più facilità di non portare avanti questo nostro pseudomatrimonio”.

Chissà se ora l’aveva sentita.

“Lo capisco che potrò sembrarti brutale, cara, ma forse se non l’avessi rifiutata mi sarei evitato di ritrovarmi i bastoni tra le ruote per tutti questi mesi”.

Francesca si alzò di nuovo, tolse piatti e posate e li sostituì con quelli per il dolce; aveva preparato anche il dessert: un’ultima cena perfetta. Davanti ad un tripudio di pasta sfoglia, crema pasticcera e fragole, Antonio sembrò riscuotersi dal suo monologo.

“Scusami, tesoro, stasera ho parlato solo io, com’è andata la tua giornata?”

“Molto bene, direi, anche se un po’ faticosa”.

“Immagino: spesa, cucina e gli altri tuoi numerosi impegni domestici ti avranno stancata. Non avrai avuto neanche il tempo per scambiare due chiacchiere con quella pettegola del banco al mercato”.

Le fece un sorriso benevolo, accarezzandole la mano in modo comprensivo, e concluse dicendo: “Povero, il mio tesoro”.

“No, Antonio, niente di tutto questo” disse Francesca, facendo un bel respiro e pensando a chi e cosa l’attendeva. Finalmente suo marito la guardò e, soprattutto, sembrava che ora la stesse ascoltando, quindi senza aspettare oltre proseguì, guardandolo negli occhi: “Mi sono un po’ stancata, è vero, ma sono contenta perché ho lasciato tutto in ordine, i tuoi vestiti sono lavati e stirati e il frigo è pieno di cose da mangiare, crude e cotte, così per i primi giorni in cui sarai solo non avrai problemi”.

“Da solo io? E perché? Vai da tua madre? Sta male?” le chiese.

“No, sta bene per fortuna, e finalmente starò bene anche io, dopo tanto tempo”.

Lui ora la guardava senza parlare, incerto se finire il dolce o iniziare a preoccuparsi.

“Qualche mese fa, proprio al banco della verdura al mercato, ho conosciuto una persona, per caso. La settimana dopo l’ho incontrata di nuovo mentre curiosavo tra i libri usati: ci siamo scambiate qualche parola sui romanzi letti e poi, davanti ad un caffè, abbiamo scoperto di avere molte cose in comune”.

Sentendo queste parole, Antonio poggiò la forchetta sul piatto e strinse il tovagliolo. Francesca continuò: “Mi dispiace, Antonio, me ne vado”. Non aggiunse altro, per qualche istante aspettò che il marito le dicesse qualcosa, si arrabbiasse, sbattesse i pugni sul tavolo o magari si mettesse a piangere, ma niente di tutto questo successe. Antonio era ammutolito, si sentiva solo il suo respiro, leggermente affannato. Francesca allora si alzò da tavola e si mise a sistemare, pulì la cucina, riempì e attaccò la lavastoviglie, tolse e ripiegò la tovaglia. Suo marito era rimasto immobile sulla sedia, ora un po’ ingobbito. Decise di evitare di guardarlo, non voleva farsi prendere dalla compassione. Andò in camera, prese il trolley che l’aspettava dietro la porta e si guardò intorno un’ultima volta. Infine Francesca appoggiò il suo mazzo di chiavi sul tavolo, uscì e chiuse la porta.

Lui si alzò e lanciò furioso le chiavi, che finirono sulla portafinestra rompendone il vetro.  Antonio uscì sul balcone urlando: “Francesca! Dove pensi di andare?”

Si affacciò per vedere se riusciva a richiamarla, ma anche per capire chi fosse quella maledetta persona che si stava portando via la sua vita. Francesca però non aveva sentito il suo richiamo. Antonio fece appena in tempo a vedere che saliva decisa in una macchina scura; il lampione bordo strada fece brillare i gioielli sul polso e sulle dita di una mano femminile che gettava una sigaretta dal finestrino del guidatore. Sul sedile posteriore spiccava, insolente, la macchia fucsia del trolley di sua moglie. Lo stava facendo davvero, se ne stava andando.

 

 

foto Pizabay voltamax/97 images

 

 

 




LE TRACCE SUL VETRO di Cristina Cortelletti

Le tracce sul vetro

di Cristina Cortelletti

tratto da Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Non è mai piovuto così tanto a settembre, pensò Vincent fissando, dalla finestra della cucina, la fermata dell’autobus sul lato opposto della strada. Tutti i giorni, da sempre, alle 19:00 passava l’ultima corsa. “Accidenti, proprio oggi!” esclamò. La pioggia peggiorava il suo già altalenante umore, non doveva perdere di vista l’obiettivo, stavolta ce l’avrebbe fatta e Martin non sarebbe arrivato in tempo. Il sottofondo musicale trasmesso dalla emittente radiofonica, sulla quale si era sintonizzato dallamattina, gli teneva compagnia mentre osservava l’umida foschia pomeridiana che offuscava il paesaggio e intensificava il dolore alla sua stramaledetta gamba. Sobbalzò quando suonarono alla porta. Deve essere Jennifer con la terapia, pensò. Diede un’occhiata all’orologio: le 18:25. Era ancora presto per le medicine. Non andò ad aprire, tutto sarebbe andato secondo i piani. La sua attenzione fu richiamata dal ticchettio della pioggia che, frustando i vetri da ore, lo stava irritando.

Non si sorprese quando, appoggiando il dito sulla superficie del vetro, iniziò a seguire le tracce irregolari delle gocce che scendevano, una cosa che faceva quando era piccolo e gli sembrava di essere un esploratore a caccia di un codice cifrato. Con il dito tracciava linee virtuali che univano gocce, rivoli e chiazze, fino al palesarsi di una visione che siglava con l’iniziale del suo nome.

Ritornò improvvisamente in sé al rumore sordo dei colpi alla porta, in simultanea con la voce che gridava: “Martin! Martin! Apri la porta!”

“Andate via, andate via!” urlò. “Oggi no… voglio stare solo!” disse Vincent.
Il chiarore che entrava dalla finestra illuminava fiocamente il termosifone sulla parete di fronte. Vincent guardò distrattamente i calzettoni stesi lì sopra ad asciugare, gettati malamente, spaiati e stropicciati; non ricordava neanche di averceli messi, rispecchiavano perfettamente la sua vita disordinata e caotica.
Fremeva, ancora un po’ di pazienza e tutto sarebbe passato.

Per tutta la mattina Martin era stato alle prese con il televisore e poi con la sostituzione della lampadina del lume, poi con la preparazione del pranzo e infine con le scartoffie da riordinare. Martin era il suo punto di riferimento: negli ultimi tempi avevano condiviso ogni accadimento delle loro vite. Vincent, in poche parole, dipendeva da lui.

Condividevano da due anni quella che era stata la casa dei loro avi, una piccola dimora a mattoncini rossi con le finestre bianchesituata in una zona isolata nella periferia del paese, tipica della contea di West Midlands. “Rifugio e capanna, riferimento e radice”. Così diceva Martin, e in quanto tale andava difesa. Martin era conosciuto da tutti nel quartiere, lo chiamavano “l’insegnante degli ultimi”, ovverogli abitanti del quartiere più isolato e meno abitato di Rednal.

Vincent era arrivato all’improvviso, disperato e vulnerabile, e Martin dal principio aveva cercato di gestire le sue manie e gli sbalzi di umore con i farmaci. Ma nessuna terapia era riuscita nell’arduo compito di sollevarlo dai momenti di follia. Decise così di vivere in simbiosi con lui, senza più separarsene. Vincent adorava quella casa e soprattutto Martin, ammirava la sua tenacia, la forza, l’ottimismo e la gioia con la quale affrontava la quotidianità. Soprattutto, adorava la sua disponibilità incondizionata e senza pretese per chiunque. Avrebbe voluto essere lui, Martin. Una volta lo era stato, in effetti: prima di diventare un povero storpio e scemo.

Nella testa i rumori si mescolavano, rimbombavano, si espandevano a comprimere il cervello, fino a che Vincent si augurava che esplodessero le membrane per farli uscire da ogni possibile orifizio.
Il rumore metallico della chiave nella toppa lo distolse dall’ansia che lo attanagliava. Nel voltarsi riconobbe il familiare riflesso che balenò sul vetro della finestra, sorrise. Mordendosi il labbro inferiore cercò un nascondiglio, proprio come quelli nei quali si rifugiano i bambini quando giocano o quando sono impauriti, o come quelli sempre più reconditi che, da tempo, anche le sue emozioni scovavano e ne facevano una tana.In quei nascondigli si abbandonava e aspettava che Martin lo trovasse e si prendesse cura di lui. Ma non oggi.

Improvvisamente la porta sbatté. “Maledizione, troppo presto” sussurrò. “Sei già tornato?” chiese Vincent. Ma non ebbe risposta. Erano le 18:35. Per andare verso l’ingresso dalla cucina bisognava attraversare un lungo e stretto corridoio semibuio. Non c’erano fonti di luce artificiale, e inoltre il corridoio era reso ancora più angusto da due grandi poster speculari appesi alle pareti. Le riempivano per tutta la loro lunghezza, interrotti solamente dalle due porte delle camere da letto, rivestite di carta da parati. Martin le teneva sempre chiuse per suscitare il forte impatto visivo creato dalle stampe in stile neoplastico. Le geometrie in bianco e nero riempivano il vano, infinite forme si susseguivano ad oltranza originandone altre man mano che lo si attraversava: pareva di essere in un caleidoscopio, all’interno del quale Vincent tentennò un attimo prima di avventurarsi. Nonostante condividesse questa stranezza di Martin, infatti, ogni volta che lo attraversava veniva sopraffatto dall’inquietudine. Un effetto allucinante, che lo destabilizzava e confondeva.Aveva smesso di porsi interrogativi sui gusti di Martin da quando si era convinto che, più che uno stile d’arredo, quei decori fossero una strategia a scopo terapeutico.

Devo evitare di fissare le pareti per non restare ipnotizzato, pensò, poi si concentrò sulla lampada di stoffa nera, unica fonte luminosa alla fine del lungo corridoio, e si incamminò. Lo strusciamento pesante e prolungato della ciabatta sul pavimento echeggiava in tutta la casa. Costretto alla lentezza dalla gamba offesa, imprecò. “Martin!” chiamò, e l’eco della sua voce risuonò. Continuò a camminare, ma il corridoio era più lungo del solito, le stampe nere prevalevano sulle bianche e si allargavano, si deformavano fino ad intrecciarsi sul soffitto, che ricadeva all’ingiù come fosse molle, formando lunghe stalattiti che lo lambivano ed erano pronte a trafiggerlo.

Il silenzio si era fatto fitto e un tremore dolente gli attraversò lo stomaco. “Martin… Martin!?”
Erano passati pochi ma interminabili minuti. Sentì una forte fitta alla gamba, che subito dopo cedette e lo fece cadere. Temendo di essere inghiottito dal famelico tunnel, chiuse gli occhi e, disorientato proseguì a carponi per pochi metri. Urtò qualcosa, spalancò gli occhi e la fioca luce della lampada gli rivelò la sagoma di un uomo a terra riverso e immobile, tutto sporco di una melma nera, in una posizione inverosimilmente innaturale.

“Martin… Martin” balbettò senza toccarlo. Non vedeva bene, maledizione, c’era pochissima luce. Poi sentì l’odore, rabbrividì e fu catapultato nel passato.Davanti agli occhi ricominciarono a scorrere i flash remoti, sempre gli stessi, ricordò Eva, bellissima, sorridente e felice, e anche quella condivisione dell’amaro delle sconfitte e della gioia nel raggiungere piccoli traguardi che li aveva uniti in una perfetta sintonia.

Rivide quando si trasferirono lì, a Rednal, in quella stessa casa in cui si trovava ora, la spensieratezza preziosa e impagabile di quel periodo che, lo avrebbe scoperto poco dopo, sarebbe stato l’inizio della fine. Le sorprese che la vita riserva sono sempre in agguato. Avrebbe appurato con rabbia che alcuni, purtroppo, non hanno accesso al lieto fine. Ricordò la cruenta esplosione in cui Eva perse la vita. In quella stessa occasione lui perse la ragione di vita. Il cielo divenne di un malinconico sapore cupo, e una profonda tristezza lo condusse in un viaggio psichedelico senza ritorno.

Il dolore lo attanagliava ogni volta che i ricordi riaffioravano. Se le ferite del corpo si erano cicatrizzate, a dominare la sua vita, pesanti come un fardello straziante, erano rimasti il buio, le paure e l’odore dei loro due corpi dilaniati.

Era una persona inutile. Sperava, Dio solo sa quanto, di svegliarsi un mattino di settembre con un cielo azzurro, completamente diverso e finalmente libero da se stesso.
Eccoci nuovamente, bella gente, il prossimo brano sarà… la voce dello speaker radiofonico lo riportò al presente. Spaventato e fragile, si asciugò le lacrime che gli appannavano la vista, strofinando l’avambraccio sul viso. Si fece coraggio, infilò un braccio sotto le spalle dell’uomo e, con una delicata manovra, lo rigirò per metterlo in posizione supina. Gli sollevò la testa, e in quel momento un brivido gelido gli bloccò il fiato: il fango chiazzava il volto dell’uomo e, sebbene i lineamenti non fossero bendefiniti, la fisionomia era famigliare. Si alzò e indietreggiando urtò la consolle, facendo così cadere a terra l’unica lampada, che rotolò e si fermò sulla gamba scomposta del corpo senza vita.Il buio improvviso lo immobilizzò, e le narici furono nuovamente sature di quell’odore. Cercò disperatamente l’interruttore tastando le pareti, senza trovarlo. “Aiuto! Aiuto!” provò a gridare, ma la voce spezzata non emise suoni. Il respiro si fece affannato, sentì i rivoli di sudore scendere lungo la schiena e iniziò a dondolarsi avanti e indietro, strofinando freneticamente le mani umidicce sulle cosce. Che diamine sta succedendo? Che ci fai qui? pensò senza capacitarsi di quello che stava succedendo.

Il buio spense anche l’ultimo barlume di ragione che gli era rimasta. Improvvisamente, eccola: la voce di Eva risuonò frastornante nella sua testa. Era diventato sempre più difficile scacciarla, e ogni volta gridava più forte, non riusciva più a sopportarla. Si strinse la testa fra le mani, chiuse gli occhi e si mise a battere forte il piede illeso a terra per sovrastare, con il rumore, quella voce che non perdonava la sua fragilità.

Quando aveva iniziato a sentirla, le parole erano state confortanti, lo aiutavano a sostenere il peso gravoso di essere sopravvissuto; non avrebbe mai voluto smettere di sentirle, ma il silenzio della solitudine lo aveva schiacciato, il delirio e il caos si erano impossessati di lui e le parole erano diventate di biasimo e offesa. In questa casa periferica, situata ai margini della vita, aveva riposto infine il suo dolore. Era un codardo, lo sapeva, e per questo si rifugiava in Martin.

Finalmente la voce fu smorzata dalla musica della radio. Vincent aprì gli occhi, si fece coraggio e guardò nuovamente l’uomo che, stranamente, ora pareva evanescente. Quando si accorse che era il ritratto del proprio corpo disarticolato, una lacrima gli scivolò sul ciondolo a forma di M che aveva al collo. Quella fu la conferma che era giunto il momento di sconfiggere i fantasmi della sua vita una volta per tutte.

Alternò lo sguardo tra la porta d’ingresso e il corridoio; avrebbe voluto oltrepassare quella porta aperta sul mondo tante e tante volte, ma era stato meno doloroso restare dentro, esule nel suo stesso rifugio. Non gli restava che ripercorrere per l’ultima volta il corridoio, che appariva ora più che mai soffocante e cieco. Il corridoio: l’inesorabile condotto che quotidianamente collegava il passato al presente.S’incamminò, sperando che stavolta le mille sfaccettature nere che lo riempivano si combinassero in modo ordinato nella sua mente di uomo alla deriva.

“Santo cielo, Martin, rispondi! Dove sei?” urlò Jennifer. Erano le 19:00 ed era in ritardo per la medicina. “Eccomi, arrivo. Non preoccuparti, sono qui” rispose. L’autobus era passato, si allontanò dalla finestra. L’acqua aveva lavato le tracce della sua vita confusa, Martin era tornato appena in tempo.

Con la mano cancellò dal vetro, forse per sempre, il riflesso di Vincent lo storpio.

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CHICCHI DI CAFFÈ di Meri Borriello

CHICCHI DI CAFFÈ

di Meri Borriello

tratto da Voci Nuove 6

ed. Rapsodia

a cura di Daniele Falcioni

 

Dalla sua finestra poteva vedere due alberelli. Non avevano nulla di speciale, ma erano speciali per lei. Erano anche un po’ miseri, a dire la verità, eppure lei li trovava belli, e li osservava sorridendo tutte le mattine mentre beveva il suo caffè. Ogni tanto li potavano, e questo un po’ la rattristava. Lei immaginava che le radici dei due alberelli fossero intrecciate. Le radici se ne fregavano di chi aveva tanta premura di separarli: aveva letto questa cosa delle radici intrecciate da qualche parte, e da allora l’immagine che quelle parole avevano evocato non l’aveva più abbandonata.

Beveva il suo caffè ogni mattina verso le otto, prima di andare al lavoro, e pensava al suo amico. Erano distanti: tentava di convincersi che lui avesse trovato un’entrata segreta, come quando giocavano a fare gli esploratori, che avesse trovato la porta d’accesso per un mondo pieno di gelato e caffè. Entrambi adoravano il caffè: toglieva quel brutto senso di nausea che saliva su, che invadeva le bocche dopo che l’infermiera aveva inserito l’ago nelle loro vene: piccoli sorsi di caffè freddo rinfrescavano le labbra mentre aspettavano pazientemente che quella tortura avesse fine. Si erano conosciuti così, in una stanzetta asettica, mentre li bucherellavano, ed erano diventati subito amici. Bevevano caffè e mangiavano gelato sciolto: erano le uniche cose che riuscivano a mandar giù in quei momenti. Non avevano la forza di parlare, cercavano di comunicare mentalmente da un lettino all’altro: ridipingevano le pareti di quelle grigie stanzette. Contemplavano la piantagione di caffè che dipingevano indossando cappelli di paglia: proteggevano i loro lunghi capelli, il volto rosso per il troppo sole, i piedi nudi e sporchi di terra.

Per arrivare a quella piantagione dovevano fare un lungo viaggio: erano pirati clandestini imbarcati su navi senza bandiera, sconfiggevano loschi figuri che tentavano di gettarli in mare, che impedivano loro di raggiungere la meta. Quando, invece, non riuscivano ad avere la meglio, nuotavano nelle profondità del mare alla ricerca di tesori nascosti nei fondali. Qualche tesoro li riportava a galla ed erano pronti a salire su un’altra nave, che li avrebbe condotti in una terra sconosciuta che li avrebbe accolti e gli avrebbe permesso di realizzare il loro sogno. Si raccontavano i frammenti di quei sogni qualche ora dopo che l’ago dal braccio era stato tolto ed erano liberi di tornare ad essere umani. A volte ci voleva più di qualche ora per tornare umani, ci volevano giorni interi per recuperare le forze, ma i sogni non si interrompevano mai. Frenavano l’invadenza delle gocce che lentamente penetravano nei loro corpi bevendo caffè per placare la nausea, immergendosi nei potenti chicchi.

Anche quella mattina, Marta sorseggiava caffè ed osservava i due alberelli. Aveva smesso di piovere da poco. D’un tratto chiuse gli occhi, si immerse nel silenzio e vide le radici intrecciate, sentì l’odore della terra mischiato all’aroma di caffè, e la sua mente prese a rincorrere i ricordi. Il suo amico le stringeva forte la mano, aveva il respiro affannato. Avevano corso quasi per tutto il pomeriggio in mezzo alla terra rossa dietro la casa di Maurizio. Andavano spesso a giocare lì la domenica pomeriggio. Non era stato costruito nulla su quel piccolo pezzo di terreno. Correvano avanti e indietro col sole di inizio autunno che li scaldava e creava, solo per loro, frammenti di luci che si incastravano tra le foglie. Registravano tutto con gli occhi mentre correvano, finiva tutto in uno scrigno segreto. Cantavano una canzone, quando si fermavano per riposarsi un pochino; la trovavano un po’ sciocca, ma in fondo credevano al primo verso quando lo intonavano: “Nella notte delle favole / esprimi un desiderio pure tu”.1
Avevano entrambi compiuto dieci anni, passavano tutto il tempo che potevano giocando, inventando storie: stavano bene insieme. Lui era un portento, lei lo guardava ammirata: sentiva le sue labbra aprirsi in un sorriso ogni volta che, osservandolo di nascosto, sapeva di averlo sorpreso a pensare a un nuovo progetto, a un nuovo sogno da realizzare. Sopportava tutto quello che lei non riusciva atollerare, aveva un senso innato dell’umorismo. E, se proprio non si riusciva a ridere in certi momenti, almeno si poteva tentare di sorridere.

Niente sentimentalismi con Maurizio. “La notte è giovane e la vita breve” diceva sempre quando cercavano di farlo andare a dormire distogliendolo dai suoi giochi. E lo sapevano tutti e due quanto fosse vero, ma lui forse lo sapeva di più.
Il sole li stava salutando: dovevano rientrare. Il programma della serata era guardare un film dell’orrore. Lui voleva assolutamente vedere un film con un pagliaccio che dicevano essere spaventoso. Ne parlavano da qualche settimana. Entrarono in casa e se ne fregarono di darsi una pulita, piaceva a entrambi sentire la terra ancora addosso, sui jeans, sulle scarpe. Accendendo la luce, lui le disse: “Dai, lavati almeno le mani e prepara il popcorn”.
“Okay” rispose lei, e continuò: “C’è anche il gelato, lo facciamo sciogliere e ci mettiamo il popcorn dentro?”
Lui non rispose, stava armeggiando con il televisore e il lettore dvd; lei si fermò a guardare l’ingrandimento di una foto appesa al muro: era stata scattata a carnevale l’anno prima. Lui era vestito e truccato come Brandon Lee nel film Il Corvo.

“Sei proprio bello in questa foto” disse mentre andava in bagno. Lui, alzando un po’ la voce per farsi sentire, rispose: “Guarda che io sono sempre bello”. Lei rise mentre si insaponava le mani. Quando rientrò nel salone, dopo aver messo in una padella l’olio e i chicchi di mais, lo trovò intento a leggere degli appunti su un quadernino. Gli si avvicinò e chiese: “Che combini?”

“Contabilizzo i miei guadagni” rispose lui, e lei rise di nuovo perché sapeva del suo piccolo commercio di giocattoli. Ne aveva tanti e non sapeva che farci, così aveva pensato di venderli, improvvisando un mercatino delle pulci sul vialetto di casa.

“Dovresti darti da fare anche tu. So che non hai giocattoli da vendere, ma potresti provare a piazzare quella roba da femmina che sta ammucchiata nella tua camera. Di questo passo, chissà quando potremo dare vita al nostro progetto” disse lui, la testa china su una calcolatrice. “Allora, lo guardiamo questo film?” chiese poi, chiudendo il quadernino. Lei si era risentita un pochino. Esclamò: “Aspettiamo almeno che siano pronti i popcorn!”

Mentre lui borbottava, Marta tornò in cucina per vedere se avessero cominciato a scoppiettare. Stavano scoppiettando. Finì di prepararli, prese anche il gelato e lo mise in due bicchieri, poi portò tutto nel salone.
Maurizio si era sistemato sul divano e aveva poggiato sulle gambe una copertina di lana a quadretti. Guardò Marta e le disse: “Non te la devi prendere se ho sempre fretta”.

Lei gli sorrise, appoggiò tutto su un vecchio tavolino che stava accanto al divano. Si sedette tirando un pochino la coperta per coprirsi le gambe. “Non me la prendo, tranquillo. Non fare il tirchio e dammi un altro po’ di coperta” disse. Dopo essersi sistemata meglio, riprese: “Stavo pensando di fare un salto al mercatino delle pulci vicino casa uno di questi giorni, per vedere di piazzare, come dici tu, le miecianfrusaglie”. Lui annuì, poi fecero silenzio e si concentrarono sul film. Fotogramma dopo fotogramma il film scorreva via. Non avevano paura, non avevano nemmeno voglia di giocare a far finta di aver paura. Peccato non ci fossero altri bambini, pensò lei stiracchiandosi: lo spasso più grande sarebbe stato vederli terrorizzati. Lui, quasi leggendola nel pensiero, spense il televisore e disse: “Mi sto annoiando. Prepariamo del caffè, poi ti insegno a giocare a dama. Mia madre ha comprato una nuova miscela, devi assaggiarla. Forse dovremmo fare un’indagine di mercato per capire cosa manca, quale potrebbe essere l’ingrediente che possa rendere speciale il nostro caffè. Voglio creare una miscela tutta nostra, non so, mi piacerebbe qualcosa che avesse anche un gusto alla vaniglia, oppurealla liquirizia”.

Lei lo ascoltava mentre prendeva la scacchiera che era sotto il mobiletto della tv, poi, rimuginando su quello che aveva detto a proposito di creare una miscela originale, andò in cucina e mise su il caffè. Lui stava finendo di sistemare le pedine sulla scacchiera. Aveva provato a insegnarle a giocare qualche anno prima, quando entrambi, nello stesso periodo, avevano avuto la varicella. Ma forse a causa della febbre, del prurito costante e del talco mentolato sparso dappertutto, lei non era riuscita a concentrarsi, e quindi non aveva imparato quel gioco.

“Te la ricordi la regola numero uno?” le chiese serio Maurizio quando lei fece ritorno dalla cucina. Marta lo guardò confusa, lui continuò: “Non si soffia”. Pazientemente le rispiegò le regole del gioco e lei stavolta sembrò capire. Cominciarono una partita. A un certo punto, lui disse: “Hanno visto di nuovo una macchia. Stavolta è vicina all’intestino. Che dici, dovrei preoccuparmi?”

Lei rimase immobile con la pedina tra le mani, non aveva idea di dove piazzarla. Sapeva cosa significava quella macchia, sapeva anche che non avrebbe potuto raccontargli balle. Così disse l’unica cosa che non potesse tradirla: “Direi di aspettare prima di fasciarci la testa”. Provando a sorridere, continuò: “Anche se ci donassero le fasciature e i turbanti”.

Marta non riusciva a concentrarsi. Disse: “Vado a vedere se è pronto il caffè. Tra un po’ i miei vengono a prendermi. Beviamoci il caffè in santa pace, concentriamoci sul sapore, sull’aroma, altrimenti non riusciremo mai a realizzare il nostro sogno”. Andò in cucina e, come un automa, versò il caffè e lo zuccherò, poi tornò nel salone e passò la tazzina a Maurizio.

Chiusero gli occhi.
I genitori di Marta arrivarono puntuali e la loro serata si concluse. Lei si rigirò tutta la notte nel letto, non riuscì a chiudere occhio: pensava ai loro progetti, al latte freddo che macchiava il loro caffè e i loro sogni.

Passò un po’ di tempo prima che si rivedessero: lui aveva avuto da fare, lo immaginava con i suoi genitori andare da un ospedale all’altro in cerca di nuove risposte. Lei, tra la scuola e tutto il resto, non aveva avuto molto tempo, ma pensava sempre a lui, sperava che si fossero sbagliati, che sarebbe saltato fuori un modo per risolvere il problema, come era già accaduto altre volte. Aveva cercato di non pensare al peggio concentrandosi sul loro progetto: non solo aveva comprato tutte le miscele di caffè che aveva trovato al supermercato, ma prendeva continuamente appunti sul sapore, il colore e la tostatura di ogni miscela che assaggiava.

Arrivò il 15 novembre. I genitori di Maurizio avevano organizzato una festa per il suo compleanno: palloncini colorati, decorazioni per i suoi undici anni, ogni tipo di dolcetto.

Maurizio aveva versato in certe caraffe colorate il caffè, in alcune aveva aggiunto un po’ di gelato alla vaniglia, in altre galleggiavano pezzetti di liquirizia. Pochi giorni prima erano arrivati anche i risultati delle analisi: quella macchia non si poteva far sparire in alcun modo. Tutti lo sapevano, ma lui voleva festeggiare lo stesso, e Marta era d’accordo con lui.

Arrivò il momento di tagliare la torta. Lui si fece scattare una foto col suo cappellino da baseball degli Yankees, le dita in segno di vittoria. Spense le candeline con un sorriso che illuminò tutta la stanza. Il suo papà, la sua mamma, le sue sorelline erano accanto a lui. La sua mamma sembrava aver disegnata sul viso un’eterna preghiera mentre lo guardava, mentre lo stringeva con dolcezza per la foto con la torta. Le sue sorelline si tenevano per mano, aspettavano il loro turno per la foto. Quando anche gli ultimi invitati se ne stavano andando, lo salutò anche Marta e la sua famiglia.

La festa era finita.

Puntuale arrivò maggio con i suoi raggi delicati e i boccioli di rosa. Prima di andare a trovare Maurizio un pomeriggio, Marta e la sua mamma si erano fermate a prendere del gelato. Sulla copertina del quadernino che aveva nella borsa, lei aveva disegnato due chicchi di caffè. Il quadernino conteneva le annotazioni degli ultimi mesi, tutte le osservazioni, i commenti sulle miscele che aveva assaggiato e mescolato. C’era anche una colonnina con il riepilogo dei guadagni ottenuti vendendo le sue cianfrusaglie.

Quando entrarono in casa, lei si sentì mancare vedendo Maurizio sul divano. Si aggrappò al braccio di sua madre, ma lui le sorrise. Si sedette sul divano accanto a lui mentre aspettavano insieme che il gelato si ammorbidisse un po’. Prese un pezzetto della sua coperta, lui sorridendo le disse: “Mi sento molto meglio oggi”. Lei annuì fissando il pavimento, si fece coraggio e mormorò: “Ho portato il mio quadernino: rimarrai stupito nel vedere il lavoro che ho fatto in questi mesi”. Maurizio si girò verso il muro dall’altra parte della stanza e disse: “Magari me lo fai vedere più tardi, okay?”

Lei annuì, ma lui non poté vederla.
Stettero un po’ in silenzio. Lei girava il cucchiaino nel bicchiere pieno di gelato, poi, con voce stanca, Maurizio le domandò: “Ti va un caffè?”
“Sai che non so dire di no al caffè. Vado a prepararlo”.
Lui la fermò con un cenno e le disse: “Lascia, lo prepara mamma. Resta qui con me”. Poi, accarezzando distrattamente un lembo della coperta, le chiese: “Non ti sembra che alcune persone siano ridicole?”

“Io sono ridicola e la cosa mi piace molto!”
Lui la guardò in modo strano e lei capì che non avrebbe potuto usare alcun trucco: doveva fare silenzio. Stavano giocherellando con i loro cucchiaini quando la mamma di Maurizio portò il caffè. Aspettarono un pochino, poi chiusero gli occhi e strinsero le loro tazzine.

Lentamente, scegliendo parole conservate chissà dove, lui le disse quasi in un sussurro: “Prometti che non permetterai a nessuno di dire che siamo dei mostri”. Stringendo di più la tazzina, riprese: “Tutte le porcherie che ci hanno fatto prendere e tutto quello che ci hanno fatto non ci ha reso mostruosi. Siamo come due chicchi di caffè. Probabilmente io rimarrò un chicco verde, mai pronto per la tostatura, oppure sono stato tostato troppo, non lo so. Non siamo mostri. Siamo solo due chicchi di caffè usciti fuori da una piantagione strana”. La guardò mentre lei continuava a stringere la sua tazzina, poi riprese: “Promettimi che non coprirai le tue cicatrici. Ci sono anche io tra quelle linee. Fammi questo regalo: coltiva la nostra piantagione tra quelle linee, inventa nuove storie che si intreccino con la mia. Non dimenticare quello che abbiamo sognato insieme, non dimenticare i nostri viaggi, le nostre avventure”.

Lei voleva piangere, ma sapeva che lui l’avrebbe detestata se lo avesse fatto. Deglutì e disse: “Lo farò. Te lo prometto”. Posò la tazzina sul tavolino e gli sussurrò: “Ti voglio bene”.
“Non sei male per essere una femmina” disse lui, e le strinse forte la mano.

 

1 Libera citazione da La notte delle favole, canzone di Tania Tedesco (Festival di Sanremo 1988).

 




ADAGIO di Silvia De Felice

Adagio

di Silvia De Felice

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

Rapsodia Edizioni

 

Catastrofe può essere un virus, un terremoto, una guerra, ma può essere anche un amore finito male, un sogno infranto, una malattia o la morte; la catastrofe, qualunque ne sia la natura, cambia la nostra vita e la stravolge per sempre.

 

Mentre l’Adagio suonato dalla London Philarmonic Orchestra riempiva morbido la stanza illuminata dal sole, Elizabeth posò la tazza di tè sul tavolino, appena in tempo perché non cadesse. Da diverse settimane, ormai, le mani le tremavano tanto da non riuscire quasi a controllarsi, fece piano, non voleva turbare i sonni tranquilli di Mila. La gatta le riscaldava le gambe e l’anima, mentre lei osservava per l’ennesima volta quei campi verdi e sconfinati, quei cespugli di rododendro dove da bambina tante e tante volte si era nascosta con Arthur e John. Era abituata a stare da sola; in un’epoca in cui le massime aspirazioni di una donna erano il matrimonio, una famiglia numerosa e un marito, lei al contrario gestiva la sua vita senza dipendere da nessuno. Era sempre stata di corporatura robusta, ma era ben proporzionata, e aveva un viso molto femminile, incorniciato da folti capelli color del rame. La debolezza che provava ormai da tempo le aveva tolto quel sorriso con cui ammaliava le persone. La malattia negli ultimi mesi la stava logorando e presto, anche solo per nutrirsi, avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di qualcuno, e questo lei non lo avrebbe mai accettato né permesso.

“Cara, vecchia amica mia” disse, rivolgendosi alla gatta, “quando ero giovane pensavo che avrei girato il mondo, e invece sono rimasta qui. Credevo nel grande amore, e quando arrivò Marc ero sicura che fosse lui, quel grande amore. Erano svanite tutte le mie manie di indipendenza, pensavo solo a lui, vivevo nell’attesa del suo ritorno, pendevo dalle sue labbra. Stenti a crederlo, vero? Eppure è così: ero capace di costruire una staccionata, dipingere la facciata di casa, smuovere pietre enormi per creare aiuole di fiori. Invece con lui perdevo le forze, ero una stupida donnetta innamorata. Sapessi, cara la mia gattona, sapessi di cosa la tua padrona è stata capace, tanto tempo fa…”

Finita la musica, Elizabeth era rimasta sulla sua vecchia bergère ormai logora ad aspettare il tramonto del sole, dopo di che si era sforzata di preparare la cena. Ormai non aveva più fame, mangiava per abitudine e per dare, con i pasti, un ritmo alle sue lunghe giornate. Quando iniziarono a cantare i grilli, fece il giro della casa per controllare che porte e finestre fossero chiuse, spense le luci e salì in camera da letto, confidando in un sonno senza incubi. La sua era, purtroppo, una speranza vana. Da parecchio un unico incubo disturbava il suo riposo notturno. La scena era sempre la stessa: si trovava al buio, sulle scale che portavano giù in cantina, lei scendeva, gradino dopo gradino, e tremava sempre di più, il flebile rumore che le pareva di sentire aumentava fino a diventare un rantolo. Quando poi arrivava in fondo, e faceva per aprire la porta e accendere la luce, qualcosa o qualcuno le si avventava addosso e all’improvviso si svegliava, madida di sudore.

La mattina dopo, Elizabeth venne svegliata dalla gatta che voleva uscire, quasi non riusciva a ricordare cosa avesse fatto la sera precedente, cosa avesse mangiato per cena e a che ora si fosse messa a letto. Sorrise laconicamente al pensiero che anche la sua memoria, sinora fin troppo pronta, stesse perdendo colpi. Con grande sforzo si mise seduta sulla sponda del letto, fece tre grossi respiri e si alzò in piedi. Il risveglio era il momento peggiore della giornata, il suo corpo provato si rifiutava di obbedirle e i dolori erano tanti. Con il passare dei minuti i suoi muscoli si scaldavano e le fitte causate dai movimenti divenivano più sopportabili. Scese la scala che portava al pianterreno tenendosi aggrappata al corrimano, alla fine del quale era appoggiato il bastone che le permetteva di camminare.

Elizabeth entrò in cucina e aprì la portafinestra che dava sul giardino per far uscire Mila, la temperatura era gradevole e decise di servire la colazione in veranda. Una colazione speciale! Mise a scaldare l’acqua per il caffè e lentamente preparò la tavola: apparecchiò con la tovaglia bianca e le tazze in porcellana che le aveva lasciato sua madre, poi tirò fuori dal forno un dolce preparato con fatica il giorno prima e prese dal cassetto della madia le posate in peltro. Fiori non servivano: i cespugli di rose del suo giardino erano stracolmi di boccioli, avrebbero fatto da contorno anche senza reciderli, il loro profumo arrivava fino alla veranda. A breve sarebbero arrivati Arthur e John, ma lei aveva bisogno di riprendere fiato: quelle piccole attività le avevano tolto le forze. Quei due uomini per lei erano più che fratelli, eguali nell’affetto che le dimostravano sempre, ma così diversi nel corpo e nello spirito. Arthur era mingherlino, aveva lo sguardo curioso e la mente sempre alla ricerca del perché della vita. John, un omone dai pochi capelli, aveva un sorriso tenero e lo spirito di chi sa che la vita non finisce con la morte.

Elizabeth si appoggiò dolorante sul dondolo lasciandosi andare ai ricordi. In pochi attimi ritornò a quando era poco più di una bambina, l’estate alle porte e le scuole appena finite. Stacey’s Lane era una stretta strada privata che portava alla grande casa dove viveva con sua madre; Arthur e John abitavano a poche centinaia di metri. La  mattina, appena si svegliava aveva un unico pensiero:  vestirsi, mangiare un paio di biscotti e uscire a giocare con i suoi compagni di avventure. S’incontravano quasi tutti i giorni, a volte portavano qualche panino e rimanevano fuori fino al tramonto, con buona pace delle loro mamme, che avevano smesso da tempo di sfinirsi per chiamarli, tranquille che, al più tardi per cena, li avrebbero rivisti.

Il rumore di una macchina la svegliò da quel leggero dormiveglia a cui si era abbandonata. I suoi uomini erano arrivati, non voleva farsi trovare semisdraiata sul dondolo. Si sbrigò ad alzarsi non facendo troppo caso alle fitte che avvertiva, si sistemò i capelli d’argento e andò loro incontro sorridendo.

“Che belli che siete!” disse felice mentre li abbracciava.

“Elizabeth, mia cara, come stai?” le chiese John.

“Bella sei tu, come sempre!” fece Arthur, tendendendole la mano.

Entrarono e si diressero sulla veranda che dava sul giardino dietro casa. I due uomini avevano la sua stessa età, ma sembravano più giovani, il fardello che portavano nel cuore era meno pesante di quello di Elizabeth, e non aveva tra l’altro minato il loro fisico. Si sedettero intorno al tavolo apparecchiato ed Elizabeth servì loro il caffè.

“Devo ammettere che mentre vi aspettavo mi sono quasi appisolata sul dondolo” disse loro, ridendo, e aggiunse: “Ho sognato quando ci siamo ritrovati qui il giorno in cui siete ritornati a Wanborough, e tutti i segreti che mi avete rivelato”.

“Mi sembra ieri che la mattina appena alzati ce ne scappavamo a gambe levate da casa per avventurarci nei campi” proseguì John, mentre sbocconcellava il dolce. E aggiunse: “A te proprio non piacevano le bambole, preferivi le avventure e inventavi sempre viaggi fantastici!”

“Vero” si intromise Arthur, “partivamo con gli zainetti pieni di cibo, e le nostre mamme neanche si preoccupavano: sapevano che saremmo ritornati prima di buio. Sono stati anni bellissimi, peccato essere diventati grandi”.

“John, ricordi quanto rimasi stupita quando a Oxford decidesti di dedicare la tua vita a Dio e poi tornare proprio qui, a Wanborough, per essere la nostra guida spirituale?” domandò Elizabeth, e aggiunse: “Quando vidi che portavi quella catena con il crocefisso, rimasi senza parole. Proprio non me lo aspettavo”.

“Già” ammise l’amico sorridendo, “avevi una faccia!”

“E quando vi raccontai che avevo una storia d’amore con un uomo?” proseguì Arthur, “Ve lo ricordate? Calò un silenzio di tomba, ebbi paura che non mi avreste più voluto bene, e invece siete stati splendidi, volevate addirittura conoscerlo, che lo portassi qui a Wanborough. Figuriamoci! Ci avrebbero banditi tutti quanti, se non addirittura lapidati”.

I tre si guardarono sorridendo. La primavera inoltrata, il verde dei campi seminati, i fiori e il canto degli uccelli fecero da sottofondo per qualche minuto alla colazione e ai loro pensieri.

I due uomini aspettavano pazienti, la loro amica aveva qualcosa da dire, ma non volevano forzarla. Sapevano che era qualcosa di importante.

“Che ne dite se facciamo una passeggiata?” propose Elizabeth.

“Te la senti?” le chiese John.

“Sì” rispose la donna, e aggiunse: “Con voi al mio fianco, posso affrontare tutto”.

Arthur le prese uno scialle e s’incamminarono lenti verso i campi dove erano stati centinaia di volte da bambini. Lui aveva scoperto lì la sua passione per la medicina. Osservava curioso tutti gli insetti e i piccoli animali, se ne trovava di morti li apriva con il suo coltellino e cercava di scoprire il segreto della vita.

I tre camminavano piano, lei faceva un po’ fatica, le fitte le toglievano il fiato. Ma sopportava in silenzio, voleva godersi quei momenti. I suoi due cavalieri chiacchieravano, erano molto conosciuti e stimati nel villaggio; un medico e un sacerdote, in tanti si rivolgevano a loro per curare malattie del corpo e dello spirito. Anche Elizabeth non era da meno: negli anni di prosperità che erano seguiti al secondo dopoguerra, lei era stata una delle prime insegnanti di quel piccolo borgo, che pian piano era diventato un paese; quanti ne aveva cresciuti di bambini! Molti, poi, se ne erano andati, ma tanti erano rimasti, e quando la incontravano non scordavano mai di ringraziarla per la pazienza con cui si era dedicata a loro.

Dopo un po’ di cammino arrivarono al grande albero che si trovava quasi alla fine della proprietà. Era incredibile come ancora fosse perfettamente visibile l’incisione a forma di cuore con all’interno due lettere: una E e una M.

Nonostante nessuno di loro avesse fatto il minimo accenno a quel cuore, Elizabeth ebbe un sussulto, John la strinse e Arthur la guardò con tenerezza. La donna sfiorò quelle lettere e i ricordi riaffiorarono.

“Il giorno che ho conosciuto Marc ho subito pensato che fosse l’uomo della mia vita, quando poi l’ho rivisto la seconda volta ne ero già perdutamente innamorata. Come ho potuto essere così cieca e sorda da non capire che mostro fosse? Qualunque storia mi propinava io gli credevo, e perdonavo, aspettavo, speravo” iniziò a ricordare la donna. “Mi ripeteva in continuazione che era il lavoro a tenerlo lontano da me, che presto avrebbe sistemato tutto e sarebbe rimasto. Ogni volta che ripartiva mi diceva che sarebbe stata l’ultima, dovevo solo avere pazienza, avremo presto costruito la nostra famiglia. Gli ho sempre creduto, fino a quel maledettissimo giorno in cui si rivelò per quello che effettivamente era: un maledetto bugiardo”.

Elizabeth con un filo di voce ricordò ai suoi amici della mattina in cui lei gli aveva aperto la porta di casa. Era felice, fremeva nel dirgli della bella novità: dopo diverse settimane di ritardo del ciclo, aveva scoperto di essere incinta. Era sicura che questo suo regalo avrebbe finalmente convinto Marc a fermarsi a Wanborough, lui l’amava e un figlio sarebbe stato il coronamento della loro storia d’amore.

“Credetemi, quando gli  comunicai la notizia, si trasformò: gli tremavano le mani, lo sguardo era diventato cupo e la voce roca. Un gelo mi avvolse all’improvviso, ebbi un capogiro mentre lui sbraitava, e persi i sensi”. Raccontava quei fatti come se i suoi due compagni di vita non sapessero già, come se non fossero a conoscenza della catastrofe che di colpo si era abbattuta su di lei. Mentre parlava, John le passava delicatamente le dita tra i capelli d’argento, e Arthur le teneva stretta la mano. Era una donna forte, lo era sempre stata, tranne quel giorno in cui le terribili parole pronunciate da quello che pensava essere l’amore della sua vita l’avevano abbattuta. Elizabeth aveva telefonato ai suoi due amici, che erano subito accorsi e l’avevano trovata seduta a terra, gli occhi pieni di lacrime, tra le gambe una pozza di sangue. Arthur l’aveva visitata e il responso l’aveva quasi annientata: non solo era stata abbandonata dall’ uomo che amava, ma aveva anche perso suo figlio. Elizabeth non voleva più vivere. I giorni successivi erano stati molto difficili, lei si rifiutava di mangiare e bere, voleva solo dormire. I due amici avevano cercato in tutti i modi di consolarla, le parlavano di come avrebbe trovato un altro uomo, migliore, che l’avrebbe amata veramente. Lei non li ascoltava, aveva lo sguardo perso nel vuoto e a volte nel sonno, sentivano che si disperava, mormorava scuse incomprensibili. Dopo giorni di digiuno, accudita da Arthur e John, Elizabeth aveva ripreso a nutrirsi e in poche settimane si era ristabilita. All’inizio dell’anno scolastico, Elizabeth era stata pronta a riprendere il lavoro. Dentro di lei, però, era rimasto qualcosa che l’avrebbe corrosa per sempre, un segreto che non aveva potuto rivelare a chi le aveva sempre voluto bene. L’insegnamento e le gratificazioni dei suoi studenti l’avevano aiutata a vivere, ma un male si era insinuato dentro di lei, subdolo, lento, inesorabile.

Gli anni a venire erano in qualche modo trascorsi: John spesso andava a Londra per incontrare i suoi superiori, voleva rinnovare la canonica e aveva bisogno di fondi. Arthur, invece, a Londra non era più tornato; soltanto in quella città avrebbe potuto continuare la sua storia d’amore, ma ciò lo avrebbe obbligato a lasciare Wanborough e anche Elizabeth. Non ne avrebbe mai avuto il coraggio, aveva quindi soffocato i suoi desideri fino, in parte, a dimenticare.

“Cosa avrei mai fatto senza di voi? Mi avete aiutata senza battere ciglio, mi avete protetto e dato da mangiare affinché non mi lasciassi morire, mi avete consentito di continuare a vivere”.

“Era il minimo che potessimo fare per te” disse John, e proseguì: “Se solo avessimo avuto il coraggio di dirti cosa sospettavamo di lui quando ce lo facesti conoscere, forse…”

“Dai, sediamoci un po’, sei stanca, riprendi fiato” disse Arthur, e l’aiutò a sedersi sul prato, poi ad appoggiarsi con la testa sulle sue gambe. La giornata era splendida, Elizabeth aveva bisogno di parlare, di liberarsi, e i suoi due amici erano gli unici che potevano capirla e rasserenarla.

I tre erano seduti sul prato sotto il grande albero quando iniziò a cadere una fine pioggerella primaverile.

“Andiamo a casa prima che diluvi” disse John.

“Sì, va bene” rispose Arthur. Si rivolse a Elizabeth dicendo: “Mia cara, su, alzati”.

La donna obbedì, ma quando era quasi in piedi una fitta lancinante la fece piegare in due; la prontezza dell’amico impedì che cadesse. Arthur guardò John, erano impalliditi entrambi. Sapevano molto bene della malattia, sapevano che le condizione di Elizabeth si sarebbero aggravate molto quasi all’improvviso, senza alcun preavviso; sapevano che da un momento all’altro la loro amica avrebbe perso forze e conoscenza, ma non erano ancora pronti a lasciarla andare. Il medico aveva interpellato decine di specialisti, scritto lettere, consultato testi di medicina sperimentale; le risposte avute non avevano lasciato spazio alla speranza. C’era, inoltre, un fatto molto importante che incideva sull’evolversi implacabile della malattia, era un fatto che loro non riuscivano in pieno a comprendere: Elizabeth era stanca di vivere e non lottava.

Dopo qualche minuto lei sembrò essersi ripresa, e con un sorriso disse: “Ragazzi, torniamo in veranda, altrimenti ci bagneremo. Io ora sto bene, datemi le vostre braccia per camminare meglio”.

Si diressero verso casa. Fecero appena in tempo ad arrivare che venne giù un forte sgrullone. Il temporale durò poco, e le gocce d’acqua sospese nell’aria, aiutate dai raggi del sole crearono uno splendido arcobaleno. Elizabeth si era accomodata sul dondolo, la gatta sonnecchiava e lei ammirava quei sette colori nel cielo. Arthur e John le sedevano vicino su due poltroncine in vimini un po’ consunte; aspettavano che lei parlasse. In cielo ora splendeva un bel sole, le rose profumavano e le foglie dei cespugli splendevano bagnate. A chi avesse osservato da fuori, quella scena sarebbe parsa quasi un quadro di Monet.

Dopo un po’ Elizabeth guardò amorevolmente i suoi due uomini e disse: “Lo so che non volete, lo so che non siete pronti, ma io lo voglio. Io sono pronta. Ho resistito e lo sapete, l’ho fatto per voi, perché mi volete tanto bene e non volevo farvi soffrire. Ma ora basta, sono stanca, sono ancora lucida, ma non so fino a quando potrò esserlo. Sono stata un peso per voi per gran parte della nostra vita, non voglio esserlo più. Prima, al grande albero, ho creduto fosse arrivato il momento, non riuscivo a respirare, la vista mi si era annebbiata e le gambe non reggevano più. Io, Elizabeth, la vostra Elizabeth, non diventerò un vegetale che anela un soffio di vita sulle vostre spalle. No, non lo diventerò!”

Arthur e John non riuscivono a proferire parola, la guardavano con gli occhi gonfi, deglutivano per non far uscire le lacrime. Elizabeth prese Mila sulle sue ginocchia. Accarezzandola maternamente, continuò: “Arthur, caro amico mio, hai portato quello che ti avevo chiesto?”

John ebbe un brivido, appoggiò con forza entrambe le mani sulle ginocchia per fermare il tremolio delle sue gambe. Il medico mormorò un sì debolissimo. Qualche settimana prima, quando ancora riusciva a camminare più a lungo, Elizabeth era andata allo studio di Arthur, aveva aspettato che i suoi pazienti fossero andati tutti via, ed era entrata. Cercando di apparire serena e ferma più che poteva, aveva chiesto al suo amico medico di aiutarla a morire. Lui aveva fatto finta di non capire, poi si era opposto, l’aveva implorata e supplicata, ma lei era stata irremovibile. Gli aveva chiesto qualcosa che potesse farla andare in un sonno profondo dal quale non si sarebbe più svegliata. Nel momento in cui gli aveva detto che si sarebbe rivolta a sconosciuti se lui non l’avesse aiutata, Arthur aveva ceduto. L’aveva riportata a casa ed era corso in canonica: non poteva portare quel peso da solo. Lui e John avevano fatto insieme tutte le ricerche per riuscire ad avere quanto richiesto dalla loro amica, e avevano trovato qualcosa che l’avrebbe addormentata tranquillamente come avrebbe fatto un qualsiasi normalissimo sedativo, ma lei non si sarebbe più svegliata.

Nelle settimane successive, Elizabeth sembrava quasi migliorata; andavano spesso a Stacey’s Lane e la trovavano sempre fuori in giardino: una volta che tagliava le rose appassite dai cespugli, un’altra che leggeva un libro sul dondolo con Mozart, Bach o Chopin in sottofondo, un’altra ancora che si azzardava a passeggiare quasi fino al grande albero. Lei li accoglieva sorridente, sembrava felice; Arthur e John non potevano sapere che le fitte erano sempre più frequenti, che le gambe di Elizabeth cedevano e le mancava il respiro. In loro presenza, Elizabeth era stata bravissima a fingere. Arthur e John non sapevano che nel suo passato era successo qualcosa che lei non aveva mai confidato a loro due. Un pomeriggio, però, li aveva chiamati al telefono e li aveva invitati a colazione per il giorno successivo. Alla fine della chiamata, aveva detto ad Arthur: “Porta con te ciò che ti ho chiesto”. Lui aveva tremato e capito. La mattina, quando era passato alla canonica per prendere John, non aveva avuto neanche la forza di salutarlo, lo aveva guardato sofferente e non c’era stato bisogno di parole.

“Elizabeth, cara, vuoi salire in camera da letto? Ti aiutiamo noi” disse John ad un certo punto, con un filo di voce.

“No, voglio rimanere qui in veranda, sul mio dondolo. Desidero che il mio ultimo sguardo prenda tutto insieme, una fotografia di ciò che più ho amato nella mia vita: voi due, i cespugli di rose e anche quelli in fondo di rododendro, Mila, i prati dove siamo stati tanto felici”. Poi proseguì: “Nel cassetto della scrivania troverete una lettera: ho lasciato a voi questa casa e la proprietà, vorrei che ne creaste un rifugio per giovani donne sole con un bambino da crescere, donne che come me si sono illuse o sono state ingannate dall’amore, ma al contrario di me hanno potuto far nascere la creatura che avevano in grembo”.

Fece poi un gran respiro e aggiunse: “Quando non ci sarò più, dovrete scendere in cantina, spostare quel vecchio divano marrone che era di mia madre e sollevare le assi del pavimento. Troverete un tappeto, arrotolato, ve ne dovrete liberare subito. Avvolti in quel tappeto ci sono i resti di colui che mi ha rovinato la vita”.

I due uomini balzarono in piedi. Erano senza parole. Gli occhi spalancati, non riuscivano a credere alle loro orecchie.

“Ma che dici, Elizabeth!” urlò Arthur. La gatta corse via, impaurita.

“Che tappeto? Di quali resti parli? Che cosa stai dicendo?” chiese John mentre stringeva in maniera convulsa il crocefisso che portava al collo.

“Sedetevi” disse lei, “vi porto un po’ d’acqua e vi racconto”.

I due uomini si guardarono, erano smarriti, poi la seguirono con lo sguardo e aspettarono che tornasse in veranda con dei bicchieri e una caraffa. Continuarono a fissarla, sbigottiti, senza proferire parola e portandosi l’acqua alla bocca in modo meccanico. Ad entrambi tremavano le mani. Elizabeth si sistemò sulla poltrona e iniziò a rivelare quanto aveva taciuto per anni e anni.

“Il giorno maledetto in cui rivelai a Marc di essere incinta, dopo aver ascoltato le sue accuse e sopportato tutta la sua ira, l’ho aggredito quando si era ormai girato per uscire per sempre da casa mia. Non mi ero neanche resa conto di aver preso in mano l’attizzatoio che era appoggiato al camino. Mentre era di spalle, l’ho colpito con tutta la forza che potevo. Non lo uccise il colpo in sé, ma il fatto che Marc, cadendo, aveva sbattuto la testa sul gradino. Passato un primo momento di disperazione, non so in che modo trovai la forza per avvolgerlo nel tappeto dell’ingresso e trascinarlo per le scale fino alla cantina. Qui c’erano delle assi del pavimento che avrei dovuto sistemare da anni, ma non lo avevo mai fatto. Questo mi tornò utile: le spostai, sotto c’era spazio a sufficienza per nascondere un cadavere. E così feci. Mi ricordai che avevo conservato dei sacchetti di calce avanzata da alcuni lavoretti svolti in precedenza. Misi un po’ di quella calce intorno, sopra e sotto al tappeto che avvolgeva il corpo. Lo sforzo era stato tale che, una volta tornata di sopra, ebbi delle fortissime fitte al ventre. Dopo pochi istanti sentii del liquido colarmi tra le gambe. Riuscii a telefonarvi prima di accasciarmi sul pavimento, proprio dove poi mi avete trovata”.

Arthur e John erano ancora senza fiato, si guardarono smarriti per qualche istante, poi le si avvicinarono e l’abbracciarono forte. Elizabeth si lasciò stringere per qualche istante, poi si sciolse dal loro abbraccio, li guardò con affetto e disse: “Ora è giunto il momento. Aiutatemi ad andarmene”.

 

foto da Comfreak by Pizabay

 




“Aspetto Godot, papà” di Meri Borriello

Aspetto Godot, papà

di Meri Borriello

a cura di Daniele Falcioni

tratto da antologia Voci Nuove

ed. Rapsodia

Marlene spingeva la carrozzina di suo padre faticosamente sotto il sole rovente di luglio. Non aveva mai odiato tanto l’estate come quell’anno. Si stavano allontanando velocemente dall’ospedale.
“Qui è pieno di gente che gioca a fare dio, non li sopporto, spingi più in fretta questo affare. Andiamo via da questo inferno” disse stancamente lui.

“Certo, papà” rispose lei in tono obbediente; poi, per alleggerire la tensione, continuò: “Almeno non hai dovuto far fuori noi della famiglia per averne una; te lo ricordi quel film… come si chiamava? El cochecito, mi sembra. Te ne regalo una motorizzata, promesso, papà”.
“Bel film. Ma non ho voglia di scherzare adesso. Portami via da qui, torniamo a casa, ci vediamo un altro film. Sei mesi? Vorrei sapere dove hanno letto la mia data di scadenza. Resisto solo per contraddirli, questi quattro sapientoni imbalsamati”.

Marlene rimase in silenzio per qualche istante, poi dolcemente disse: “Papà, pensa a quelle medicine che ti hanno proposto di prendere”. Sperava che il padre acconsentisse a provare le cure sperimentali.
“Non ho voglia di parlarne. Quella roba ti toglie la dignità. Non ho nessuna intenzione di prenderla”.

Il padre aveva alzato la voce e cominciato a gesticolare nervosamente; alcuni passanti incuriositi li guardavano. Lei sperò che quello sfogo avesse fine presto. Il suo desiderio fu esaudito: suo padre si interruppe.
A un tratto, però, disse: “Ho la bocca che va a fuoco, prendiamo un gelato al limone. Però facciamo in fretta, voglio tornare da tua madre, portiamo del gelato anche a lei. E una rosa. Ecco, là, guarda quella, è perfetta; fammi il favore: arrampicati e prendila”.

Suo padre sorrideva contento. Lei provò a dissuaderlo: “Papà, è un giardino privato. Non si potrebbe…”
Lui la interruppe stizzito: “Fai come ti ho detto, i fiori sono di tutti! Che diamine, quasi non sembri mia figlia! Tutto questo perbenismo chi te l’ha insegnato? Prendi la rosa e andiamocene. Al diavolo anche il gelato”. Sbuffò alzando gli occhi al cielo.

Lei si sentì mortificata, ma cercò di non darglielo a vedere. Si fermò e scavalcò il muretto; sperò che nessuno la vedesse, non avrebbe avuto la pazienza per giustificarsi. Staccò la rosa gialla che le aveva indicato il padre, poi tornò da lui più velocemente che poteva.
“Ce l’hai fatta, brava”. Lei gli baciò la guancia ruvida, poi poggiò la rosa sulle sue ginocchia. La misero in una bottiglietta con un po’ d’acqua, poi lei lo aiutò a salire in macchina e partirono per far ritorno a casa.

Fecero il viaggio di ritorno in silenzio. Quando suo padre chiuse gli occhi per riposare un po’, lei cercò di perdersi nel suo mondo, tentava di aggrapparsi alle sue fantasie, ma questa volta proprio non ci riusciva. Provò a sentire un po’ di musica, ma tutto le dava la nausea: la voce del dj, i brani tutti identici che passavano senza sosta su ogni stazione, tutte quelle stupide pubblicità. Le dava fastidio persino intravedere le famiglie nelle altre auto. Molti tornavano dal mare: abbronzati, affamati. Li immaginava con i capelli ancora umidi, il sale addosso, felici per la bella mattinata trascorsa. Com’era accaduto del resto anche a lei tante volte. Le sembrava una vita fa. Non era mica colpa loro se lei ora stava di merda!

Suo padre si risvegliò quando spense il motore. Erano a casa. Sua madre li aspettava. Non appena lo vide, stanco ma sorridente mentre le porgeva la rosa, lo abbracciò.

Suo padre fece un cenno a Marlene, che si avvicinò: “Lasciaci un po’ soli. Ti aspetto nel mio studio tra un paio d’ore. Devo farti vedere una cosa”.
“D’accordo papà, io vado a riposare un po’. Ci vediamo più tardi”.
Era stanca, non vedeva l’ora di buttarsi sul letto.

Tornò da suo padre che era pomeriggio inoltrato, la canicola era scemata e lei riusciva a respirare e a pensare più lucidamente. Lo trovò nel suo studio, con una scatola tra le mani.
“Ce ne hai messo di tempo! Bene, ora sei qui, veniamo al punto” disse, e le tese la scatola di legno. Marlene la prese: era liscia, di un marrone chiaro, la avvicinò al suo viso. “Ha un buon odore, papà. Dove devo metterla?”

“Da nessuna parte. Devi intagliarla”.
Lei lo guardò perplessa, lui continuò: “Lo so che non sei brava in queste cose, però bisogna che tu lo faccia per me. Voglio lasciarla a te e alle tue sorelle, e voglio che la intagli esattamente come dico io. Ci sono degli scalpelli e un coltellino nella mia cassetta degli attrezzi, prendili e comincia a lavorare”.
Marlene provò a replicare, ma poi le parole le morirono in gola e fece come le aveva chiesto il padre.
“Che cosa devo incidere, papà?”
“Tanto per cominciare, il simbolo dell’infinito. Non è difficile. E poi le nostre iniziali”.
Marlene disegnò numerose volte la base per poter iniziare ad intagliare. Alla fine fu soddisfatta, prese il coltellino e cominciò ad affondarlo nel legno.
Passò almeno un’oretta, stava sudando. Si fermò un attimo. Le facevano male le mani, i pezzetti di legno erano sparsi dappertutto. Non aveva voglia di continuare ad intagliare un bel niente, voleva solo rimanere in silenzio e godersi suo padre. Non si accorse di fissarlo fino a quando lui non le disse: “Non guardarmi, continua ad intagliare, devi imparare a distaccarti da tutto. Continua ad intagliare con pazienza e decisione. Non sei mai stata paziente, ma devi imparare ad esserlo”. “Non voglio imparare, papà” rispose lei con la voce che le tremava.
“Devi. Verrà fuori un lavoro bellissimo, ne sono sicuro”. Poi, sorridendo riprese: “Socchiudo un po’ gli occhi. Mentre intagli, ripetimi quel monologo che devi portare a teatro. Non me ne sono dimenticato”.
Lei sorrise e disse: “Ho un pezzo comico fortissimo, papà”, ma il padre la interruppe bruscamente: “Voglio che mi reciti l’altro monologo. Smettila di fare il pagliaccio”.
Marlene prese fiato, poi lentamente cominciò a snocciolare le parole del monologo: “Nascere fu la sua morte. Le parole sono poche, morenti per di più. Pronto per il coperchio avvenire. Dalla culla al lettino in poi. Per tutto il tempo. Rimbalzato andata e ritorno…”(2)
Suo padre la interruppe: “Va bene, va bene. Però lo carichi troppo, lascia andare le parole, hanno già il loro peso, non serve che le carichi. Altrimenti diventi patetica. Beckett è assenza, non piagnisteo. Continua”.
Marlene, stringendo con forza il coltellino tra le mani sudate, continuò: “Di funerale in funerale. Tremila notti. Nato di notte. Stanza sempre più buia. Anni di notte. Niente che si muova da nessuna parte. Solo e andato”.
Il padre la interruppe di nuovo: “Molto meglio di prima, la voce però deve essere piena, non di testa, non sei un’isterica, mantieni la voce bassa”.
Marlene riprese cercando di modulare la voce meglio che poteva: “Solo e andato. Mi dico che la terra si è spenta, benché io non l’abbia mai vista accesa. È facile andare. Quando cadrò, piangerò di gioia”.

(2) Qui, come in seguito, si tratta ovviamente di Samuel Beckett, Un pezzo di monologo (n.d.c.).

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Guardò suo padre, che aveva chiuso di nuovo gli occhi, lo chiamò in sussurro: “Papà?”
Lui socchiuse gli occhi, poi le disse: “Ora è quasi perfetto. Ricorda di tenere sotto controllo la voce. Ripetimelo ancora”.
Marlene intagliava e recitava. Si costrinse a continuare ancora e ancora, anche se le veniva da vomitare.
Finì di incidere la scatola che era quasi l’una di notte; suo padre era andato a dormire, ma lei aveva continuato il suo lavoro imprecando e a tratti calmandosi, ma era riuscita a portare a termine quello che il padre le aveva chiesto; questo solo contava.
La scatola rimase nello studio per mesi, poi una mattina di marzo il padre le chiese di prenderla. Marlene entrò nella camera dei suoi genitori, c’erano anche le sorelle; sentiva un vuoto terribile, tremava mentre passava la scatola alle sorelle. Non riusciva a cogliere nessuna parola, le sembrava di essere immersa in un mondo irreale. Guardava fuori dalla finestra, il suo sguardo si perdeva oltre i grigi palazzi, oltre quel cielo così azzurro.
“Che fai? Perché fissi il vuoto?” le chiese il padre. Lei continuò a guardare oltre la finestra, poi dopo un po’ rispose: “Aspetto Godot, papà”.
“Tanto lo sai già che non arriverà” le disse il padre in un soffio di voce. Lei si avvicinò al letto, gli strinse la mano e gli accarezzò la fronte sudata. Anche la madre e le sorelle si erano avvicinate. Seguirono tutte e quattro in silenzio i suoi ultimi respiri. Poi ci furono solo ore concitate. Ricordando gli avvenimenti di quegli ultimi lunghi giorni, Marlene, come se fosse un oggetto magico con chissà quale potere, continuava a rigirare tra le mani il suo portachiavi. Era una piccola clessidra. La sabbia scivolava da una parte all’altra, e lei pensava a quanto fosse veloce il tempo, e a quanto potesse dilatarsi senza senso proprio come in quel momento. Guardò le persone riunite intorno a quel loculo. Vide il volto provato di sua madre, le sue sorelle in un angolo, gli occhi rossi e persi nel vuoto, e una serie di personaggi, le mani giunte, le braccia conserte, che in quel momento avevano per lei volti anonimi.
Era una bellissima giornata, il sole primaverile batteva sul suo viso, sentiva il vento leggero che entrava nella sua camicetta e le accarezzava le braccia. Si sentiva in colpa nel provare piacere per quei raggi solari e quel vento, che sembrava volessero farsi spazio nel suo vuoto.
C’era un odore insopportabile di fiori; si voltò e li vide in un angolo ammucchiati, c’erano delle fasce con incisi sopra dei nomi che non riconosceva. Con amore, con affetto, con stima. Robaccia che si stava già decomponendo, come tutti loro, del resto. Perché bisognava coprire l’odore della morte? Erano più disgustose tutte quelle rose, gerbere, lilium, orchidee recise e profumate fino alla nausea che l’odore della morte!
La voce del prete che cominciava a sciorinare le sue litanie richiamò la sua attenzione. A suo padre probabilmente quella nenia senza senso non sarebbe nemmeno piaciuta. Ebbe l’impulso di girarsi per dirglielo, ma lui non c’era. Non ci sarebbe stato mai più. Si fece forza pensando alla legge di Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Che cazzata. Lei voleva la forma esatta, precisa di suo padre. Non voleva una sua trasformazione. Voleva rivedere lo stesso viso, sentire le stesse identiche inflessioni della sua voce, non voleva qualcosa che lo ricordasse anche solo vagamente. Lei stessa era una trasformazione di suo padre, pensò guardando le sue mani, ma questo non le bastava in quel momento.
Guardò il prete nel suo abito talare, lui era eternamente in lutto, aveva rinunciato ad ogni forma di vita. Beato lui, pensò guardando il crocifisso di legno, la piccola Bibbia che teneva tra le mani e la stola viola che ricadeva su quell’abito nero.
Non riusciva a respirare, detestava quei fiori, e tutta quella gente non le permetteva di rinchiudersi nel suo angolo segreto. C’era sempre qualcuno che arrivava a stringerle la mano, a dirle:

“Condoglianze. È la vita”. Fanculo. Al prossimo individuo che avesse pronunciato quelle parole probabilmente avrebbe dato una testata.
Decise di allontanarsi per non creare imbarazzo e dolore alla madre e alle sorelle, già provate da tutto il resto. Sapeva che anche loro non sopportavano tutte quelle persone. Avrebbe voluto cacciare tutti via, e rimanere solo loro quattro chiuse a schermarsi a vicenda in quel dolore.

Vide una coppia di amici di famiglia, potevano avere al massimo una sessantina d’anni, si tenevano per mano. Sperò che sua madre non li vedesse: lei aveva appena perso il compagno della sua vita, non avrebbe più potuto prendergli la mano. Le aveva stretto le mani per l’ultima volta solo poche ore prima, ma erano ormai fredde, non era la stessa cosa.

Allontanandosi notò una panchina di marmo bianca, si sedette per calmarsi. Era lucida, con delle piccole venature nere, stava sotto un albero che non capiva di che specie fosse. Ma chi se ne frega, pensò, erano tre giorni che non dormiva, non aveva poi molta importanza riconoscere la sua specie. Era un bell’albero, con i rami carichi che quasi scendevano a posarsi sulla fredda panchina e le restituivano un po’ di colore in mezzo a quelle tristi lapidi con le foto di volti dalle storie sconosciute. Accarezzò la corteccia, voleva sentire qualcosa di ruvido sotto le sue mani, poi si sedette e accese una sigaretta.

Le venne da ridere. In quella circostanza nessuno le avrebbe detto che non doveva fumare. Era uno di quei momenti in cui chi sta provando dolore è autorizzato dagli altri a fare qualsiasi cosa. Cercò di non ridere, ma non ci riusciva, pensava che anche suo padre avrebbe trovato divertente questa cosa. Si coprì il viso con i capelli: se qualcuno l’avesse guardata in quel momento, avrebbe sempre potuto simulare un finto pianto. Proprio non ci riusciva a piangere. Era come se dentro non avesse più niente che potesse far uscire le lacrime. Si sentiva in colpa anche per questo. Guardò la sigaretta, magari se l’avesse spenta sulla sua pelle le lacrime sarebbero uscite. Aspirò di nuovo, poi la gettò e la vide rotolare sulla terra rossa oltre le sue scarpe nere.

Di nuovo il vento venne ad accarezzarla, e portò con sé anche il profumo e il polline dei fiori di campo. Seguì il percorso delle particelle di polline che volavano lontano, quasi a voler raggiungere le bianche nuvole. Sentiva una strana dolcezza dentro in quel preciso momento; non si sentiva quasi più in colpa provando piacere per la vita che le scorreva dentro, anche se il suo stomaco si stringeva in una morsa glaciale se solo ripensava all’immagine di suo padre. Le sembrava che lui fosse seduto accanto a lei. Chiuse gli occhi. Sentiva il sole che voleva poggiarsi sulla sua mano, la allungò tentando di prendere un raggio.

Riaprì gli occhi e vide sua madre in mezzo a quegli sconosciuti. Si era voltata e la guardava, sorridendo appena un po’. Le sorrise anche lei. Non l’aveva mai amata tanto come in quel momento. Poi vide un suo amico che tirava fuori da una custodia logora una tromba. Il sole si appoggiava sul suo ottone lucido e sembrava che la chiamasse. Lentamente si alzò. E andò avanti.

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LA MORTE DELLA LUNA di Silvia Zaccari

La morte della luna

di Silvia Zaccari

tratto dall’antologia Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

edito da Rapsodia edizioni

 

“Deve essere più spaventosa. Cerca di inarcarle di più la bocca, come se stesse facendo un ghigno. Guarda. Con lo scalpello segna le rughe sulle guance e sotto gli occhi, così”.

Il padre di Carla diede un colpo sul pezzo di legno levigato, poi un altro e un altro ancora. Così facendo, scolpì su quel volto rigido un’espressione terrificante.

 

Erano le otto di sera quando Carla prese il bus. Di solito usciva prima dal magazzino dove lavorava con il padre. Facevano maschere di legno per spettacoli teatrali.

Carla salì sul bus con un’insolita ansia, ma non le diede peso, o meglio, pensò che fosse a causa della consegna che avevano l’indomani: una compagnia teatrale molto famosa sarebbe andata da loro a provare le maschere per la messa in scena de La morte della luna.

A testa bassa fece cadere gli spicci nel bussolotto, strappò il biglietto e andò verso il retro del bus a sedersi vicino a un signore. L’uomo, sulla sessantina, corpulento, indossava un cappello nero molto ingombrante e una giacca color prugna di velluto. Era freddo, quella sera, ma non così tanto, pensò Carla. Mise le mani nella borsa per prendere il libro che stava cercando di finire da tempo. Fu subito interrotta: “Signora, lo sa che questo autobus non si fermerà?” disse l’uomo con il cappello nero.

“Perché?” rispose lei.

“Perché non c’è nessuno che lo guida e nessuno che può fermarlo”.

Il tizio non si voltò a guardarla e fece una risatina compiaciuta, quasi maligna. Carla si sporse per osservare il posto di guida, ma non riuscì a vedere nulla. Sembrava però che nessuno stesse guidando il bus. Impallidì e si alzò di scatto.

“Non può fare niente, signora. È così ogni volta”.

“Ogni volta?”

“Certo. Ogni volta che lui decide di entrare”.

“Lui chi?”

“Beh, lui…” disse l’uomo, e diresse lo sguardo verso il posto di guida.

Carla si guardò intorno.

“Lei ha deciso di salire, nessun altro lo ha fatto. Siamo soli. Avrebbe dovuto essere più accorta. Ormai è tardi”.

Carla strinse le mani attorno alla tracolla della borsa.

“Senta, lei sta solo cercando di spaventarmi. Non so perché, ma è proprio quello che sta facendo. E poi non credo a quello che dice”.

“E allora perché si è subito sporta per controllare che ci fosse davvero qualcuno alla guida?” disse l’uomo con il cappello nero.

Carla si era innervosita. Decise di scendere. Si mosse verso la parte anteriore del bus, dove le luci erano spente e si riflettevano i fanali delle auto che correvano in strada. Passo dopo passo, iniziò a mettere a fuoco la cabina, il volante, parte del sedile, ma non riusciva ancora a vedere l’autista.

“Signora, torni a sedersi. Non può scendere, non può uscire ormai. Lei ha deciso di salire, e lui prima di lei”.

Carla fece finta di non averlo sentito. Arrivata accanto alla cabina di guida, vide una specie di massa scura fluttuante sopra il sedile. Si mise la mano sulla bocca e fece un passo indietro. La mano si spostò velocemente dalla bocca alla tasca della borsa, in cerca del cellulare. Qualche secondo e Carla aveva già digitato il numero del padre.

“Pronto?”

“Papà, non c’è nessuno, non posso scendere! C’è solo un uomo, ma dice che non si fermerà!”

“Che stai dicendo, Carla? Calmati!”

“Sono sul bus per tornare a casa, ma quell’uomo dice che non si fermerà!”

“Ma che vuol dire? Quale uomo? E perché mai il bus non dovrebbe fermarsi?”

“Papà, non c’è nessuno alla guida del bus!”

Carla sentì una presenza alle sue spalle, poi vide una grande ombra sul vetro. Dietro di lei, l’uomo con il cappello nero era fermo e guardava fuori, come se avesse intenzione di scendere.

“Mi scusi se l’ho messa in allarme, ma lei non uscirà di qui” disse l’uomo, e fece di nuovo quella risatina maligna, che gli segnò le guance. Rivolse lo sguardo verso il retro del bus e suonò il campanello per prenotare la fermata.

“Ha detto che non si sarebbe fermato, mi ha presa in giro!” disse Carla.

“Affatto. Io scenderò comunque” disse l’uomo, e cercò di farsi spazio fra lei e la cabina. Il bus non rallentò.

“Carla, ci sei? Carla?” diceva intanto il padre al cellulare.

Improvvisamente la porta anteriore si aprì con un tonfo, mentre il bus viaggiava veloce. Un forte vento sbatté Carla contro la cabina. Il cellulare cadde sul marciapiede.

L’uomo con il cappello nero saltò giù e sparì nel buio.

 

Carla cercò di rialzarsi. Aveva sbattuto la testa e teneva gli occhi chiusi per il dolore.

“Signora, tutto bene?”

La donna si aggrappò al corrimano e si tirò su.

“Signora, tutto bene? Ha bisogno d’aiuto?”

Carla si voltò verso quella voce e vide un uomo seduto al posto di guida, con una bella giacca azzurra e la camicia color prugna.

“Ehm… no, la ringrazio. Sto bene…” rispose, e andò a sedersi al primo posto libero.

Il bus era abbastanza affollato e tutti la guardavano.

“Mi scusi, signora, a quale fermata deve scendere?” le chiese subito il ragazzino che le sedeva accanto.

Carla rimase in silenzio. “Io dovrei scendere alla prossima” disse il ragazzino.

Carla fece un cenno con la testa, come per dire che aveva capito, ma non fiatò. Passò qualche minuto e il bus iniziò a rallentare. Carla non si mosse.

“Signora, scende anche lei?” le chiese il ragazzino. Carla non aprì bocca, lo guardò e si voltò di nuovo davanti a sé.

Il bus era quasi fermo e il ragazzino si alzò in piedi.

“Signora, dovrebbe alzarsi. Io devo scendere!”

Carla finalmente si alzò, ancora frastornata. Il ragazzino le passò davanti, corse verso la porta centrale e scese. Carla si rimise a sedere e lo seguì con lo sguardo. Non riusciva a capire cosa stava succedendo e, per di più, non ricordava dove era diretta.

Si mise a guardare fuori dal finestrino. Le luci dei lampioni e delle auto correvano veloci. All’interno del bus le voci della gente si mischiavano al rumore del motore. Qualcuno aveva aperto una busta di patatine dietro di lei. Una risata accanto, poi uno starnuto.

Pian piano le voci iniziarono a spegnersi. I rumori stavano cambiando in un modo strano, quasi inquietante. All’improvviso ci fu silenzio. Carla stava ancora osservando fuori. Tutto sembrava normale. I suoi occhi, però, misero lentamente a fuoco il riflesso sul vetro dei passeggeri seduti sul bus: i loro corpi erano svaniti e decine di volti galleggiavano sopra i sedili, avvolti da una strana nebbia. Carla prese coraggio e guardò alle sue spalle. “Non è possibile, sto impazzendo” disse a bassa voce.

Si rese subito conto che conosceva bene quei volti: erano tutte le maschere che fino a quel giorno aveva realizzato con suo padre. Premette il pulsante per prenotare la fermata e si alzò. Il bus continuava la sua corsa, senza rallentare.

“Mi scusi, dovrei scendere!” disse.

L’autista sembrava non sentire. Carla raggiunse la cabina per bussargli al vetro. Alzò la mano, ma la ritrasse subito. La massa nera fluttuante era di nuovo al posto di guida. Come prima, Carla mise la mano nella borsa per prendere il cellulare. Frugò per qualche secondo, ma niente. Guardò all’interno. Rovistò ancora. Niente. Prese la borsa e la capovolse. Cadde di tutto, ma del cellulare nessuna traccia.

“Mi faccia scendere, la prego!” urlò, ma non ebbe alcuna risposta.

Si rese conto che un rumore ovattato le stava facendo vibrare le orecchie: erano le maschere che si erano messe a pulsare ininterrottamente. Sembravano dei grandi cuori di legno. Carla indietreggiò impaurita. Si mise in ginocchio e si coprì la testa con le braccia, come per proteggersi.

 

“Avanti, Gabriele, muoviti!”

“Mamma, non riesco a passare!”

“Non farmi arrabbiare, Gabriele, non c’è nessuno davanti a te!”

“C’è una signora”.

Il bambino si spostò, guardando la madre.

“Accidenti, signora, ha bisogno d’aiuto?”

Carla era ancora in ginocchio. Non riusciva a muoversi. Non voleva alzare la testa e aprire gli occhi.

L’autista, allora, uscì dalla cabina e provò a tirarla su per un braccio.

“Avanti, si tiri su. Ha battuto la testa?”

Carla non rispose.

“Signora, vuole che chiami un’ambulanza?” disse l’autista.

Carla lo guardò senza dire una parola.

“Se vuole possiamo chiamare un familiare. Se mi dà il numero, posso chiamarlo con il cellulare della ditta”.

Carla fece cenno di no con la testa. L’autista tornò a sedersi. Le passarono accanto per scendere la mamma e il bambino, che la fissava incuriosito.

“Come ti chiami?” le chiese il bambino.

Carla sgranò gli occhi.

“Signora, come ti chiami?” continuò lui. Carla non seppe rispondere: non ricordava il suo nome.

La mamma e il bambino scesero. Il bus ripartì e Carla si mise a sedere.

Il quadrante di un orologio da polso attirò la sua attenzione: le otto e quattordici. Era trascorso così poco tempo da quando aveva lasciato il magazzino?

Fuori era buio. Tutti i negozianti, ormai, avevano abbassato le serrande, e la città si preparava ad addormentarsi.

Una fermata, poi la seconda, la terza e così via. Carla rimase sul bus fino al capolinea.

“Signora, questa è l’ultima fermata. Le conviene scendere, perché poi vado a parcheggiare il bus alla rimessa” le disse l’autista.

Carla fece di no con la testa.

“Come vuole. Io però poi non posso accompagnarla da nessuna parte, sono le regole. Ok?”

Carla lo guardò per un attimo e poi si voltò di nuovo verso il finestrino.

 

La rimessa, una struttura simile a un grande chalet di legno, si trovava alle pendici di una montagna scura. Nessun caseggiato nelle vicinanze, solo qualche lampione ad illuminare il piazzale. Il bus si avviò verso il parcheggio numero 14, rallentò e si fermò.

“Signora, siamo arrivati. Ora spengo il motore e le luci, altrimenti non posso andarmene a casa, e gli addetti non possono pulire” disse l’autista.

All’esterno non c’era alcun segno di movimento.

“Dovrebbe scendere, signora”.

L’autista, rassegnato, alzò gli occhi al cielo e girò la chiave nella toppa. Le luci divennero piccoli cerchi neri una dopo l’altra, poi si spense il motore.

“Signora, se non scende adesso rimarrà qui dentro al buio, almeno finché non arrivano quelli delle pulizie. Io me ne vado a casa”.

L’autista prese le sue cose, mise il lucchetto alla cabina di guida e scese, lasciando aperta la porta anteriore. Carla non si mosse. Aveva lo sguardo rivolto alla montagna scura.

 

Non si ricordava da quanto tempo stava camminando, ma Carla non riusciva più a sentire le dita delle mani e dei piedi. La sua borsa era rimasta sul bus. I rami degli alberi, sempre più fitti e scuri, le avevano graffiato il cappotto all’altezza delle spalle e dei fianchi. Era stanca, ma continuava a salire. Non vedeva niente davanti a lei. Ogni tanto, però, riusciva a scorgere la luna fra i rami.

“Dove sei?” disse Carla sottovoce. Strizzò forte gli occhi per mettere a fuoco qualcosa. “Dove sei?” ripeté. Il silenzio e l’oscurità la avvolgevano passo dopo passo.

Un fruscio. Guardò di lato, poi in alto. Un barbagianni lasciava la montagna, diretto a valle.

“Dove sei?” continuava ogni tanto a ripetere mentre camminava.

All’improvviso inciampò in qualcosa di grande e cadde a terra, battendo la testa.

Riaprì gli occhi poco dopo, o così le parve.

“Sei tu?” disse.

Strusciò le mani sulla terra, in cerca di qualcosa. Si spostò carponi verso il punto in cui era inciampata. Le mani tastavano il terreno: piccoli sassi, aghi di larice, pigne, un insetto, ancora sassi e terra. Aghi. Le mani si fermarono su qualcosa di grande, simile a un tronco. Carla mise entrambe le mani su quella cosa e continuò a tastarla. Niente corteccia. Avvicinò il viso. Niente odore di resina, piuttosto un odore acido, quasi di marcio. Si allontanò, ma non staccò le mani.

Quella cosa si mosse appena, lentamente, su e giù, come un polmone stanco. Carla rimase immobile. L’odore si fece molto più intenso. Lei non si mosse, ma la cosa sì, e stavolta le sembrò di avvertire anche una specie di mugolio. Le tremavano le mani per la paura e qualcosa le stava bagnando sempre di più: era qualcosa di viscido. Scivolò e cadde su quella strana creatura, che si divincolò e sparì un attimo dopo, come risucchiata dal terreno.

Carla cercò di pulirsi le mani e il viso, ma quell’odore nauseante era ormai ovunque. Si alzò e riprese a salire.

 

Forse erano passate un paio d’ore da quando Carla aveva ripreso il cammino.

Si voltò a destra, verso la cima della montagna: una piccola luce fiammeggiava più in alto. Carla poggiò le mani sulla roccia che la separava da quella fiammella e si diede una spinta puntando i piedi. Iniziò ad arrampicarsi sulla roccia.

“Finalmente!” disse una voce baritonale.

Carla alzò la testa e vide una sagoma scura e imponente sopra di lei.

“Ti stanno aspettando tutti. Credevano che non saresti più venuta” disse la sagoma scura.

“Tutti?” disse Carla.

“Proprio strana sei. Avrebbero dovuto scegliere un’altra”.

“Scegliere? Chi? Per cosa?”

La sagoma scura si avvicinò alla fiammella. Un grande cappello nero sovrastava il suo ghigno, che Carla era sicura di avere già visto.

“Proprio non ricordi? Sono venuti per te, su questa montagna. E lui è venuto a prenderti proprio questa notte”.

L’uomo con il cappello nero si volse a guardare alle proprie spalle, ma Carla non riuscì a vedere nulla. Un senso di nausea le bloccò la gola: quell’odore pungente era di nuovo vicino. La fiammella si fece più grande, e una grossa risata la mosse da un lato e dall’altro.

“Allunga la mano verso la fiamma” disse a Carla l’uomo con il cappello.

Carla si sporse in avanti e fece come le aveva detto. La luce si spense. Al suo posto comparve una sassifraga bianca e brillante, come di quarzo.

“Raccogli un fiore e annusalo” le disse l’uomo, indicando la sassifraga.

Carla si abbassò, fino a raggiungere uno dei fiori. Lo prese e lo portò al naso. Chiuse gli occhi e respirò a fondo. Un turbine d’aria si sollevò da terra, poco distante da loro, e una risata grassa e cavernosa le fece subito riaprire gli occhi.

“Stanno arrivando!” disse l’uomo con il cappello nero. Il suo ghigno si fece più pronunciato.

“Cos’è quel vortice denso che viene verso di noi?” chiese Carla.

“Vedrai! Lo vedrai molto presto! Ah ah ah” fece l’uomo.

Il vortice si avvicinava. Carla, sempre più impaurita, strinse il fiore che aveva fra le dita. Lo stelo si spezzò e il fiore cadde sulla roccia.

“Venite, fratelli! Venite!” urlò l’uomo con il cappello nero.

Una luna sempre più grande sbiancava adesso il cielo sopra di loro. Carla alzò gli occhi, come in cerca di aiuto. La nube era ormai dietro le spalle dell’uomo con il cappello nero. Carla iniziò a tremare. Chiuse gli occhi per un istante. Quando li riaprì vide decine di maschere che le volteggiavano intorno, mentre la nube iniziava ad offuscare la luna.

“Prendetela, fratelli! Vostra madre è qui. Adesso è vostra!” disse a gran voce l’uomo con il cappello nero.

Le maschere divennero color carbone, quasi invisibili nel buio della notte, schiarite appena dalla nube che le circondava. Si avvicinavano lentamente a Carla, costringendola ad arretrare: la stavano schiacciando contro la roccia. Carla fece un passo indietro, poi un altro. Era in trappola.

Una coltre di maschere di legno scuro si chiuse sopra di lei. La nube scomparve lentamente. La luna prese il colore della notte e fu buio per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 




UNA FORTUITA SERIE DI CIRCOSTANZE di Valentina Pucillo

Una fortuita serie di circostanze

di Valentina Pucillo

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Il garrito dei gabbiani che sorvolavano il porto non accennava a diminuire di intensità, nonostante fosse ormai tarda notte. Dall’angolo in fondo alla biglietteria dove si trovava, schiacciato tra la macchinetta automatica per le foto e il muro da cui si apriva la grande vetrata che affacciava sul porto, Karl sentiva fin troppo bene gli urli acuti dei maledetti uccelli. E li vedeva fin troppo bene, anche. Uno di quelli, enorme, era sceso in picchiata a tutta velocità verso di lui, tanto che Karl aveva temuto che si spiaccicasse contro la finestra e che il vetro andasse in frantumi cadendogli addosso; poi, invece, il gabbiano aveva elegantemente virato verso destra ed era volato via.

Karl aveva il sedere freddo e indolenzito per le ore trascorse rannicchiato sul marmo; la gazzarra orchestrata dagli uccelli rappresentava un ulteriore impedimento a un qualsiasi tentativo di dormire.
“Ci mancavano solo questi uccellacci del malaugurio, per la miseria!” imprecò insofferente Karl: tuttavia, non poteva nascondere a se stesso una certa invidia per la libertà di quelle creature. Comunque, se voleva almeno tentare di riposare qualche istante, doveva trovare una diversa sistemazione.

Decise di alzarsi dall’angolo in cui stava accovacciato, visto che era rimasto completamente solo nella sala spoglia. Sentì con un certo sollievo le ossa indolenzite della schiena e delle anche scricchiolare. Pensò che avrebbe potuto sdraiarsi su una delle panche posizionate lungo il muro dalla parte opposta della stanza; il legno rivestito di stoffa sudicia era probabilmente più comodo della pietra. Sicuramente più caldo. Vagamente inquieto, camminò verso il centro della sala per sgranchirsi le gambe, illuminato dai neon accecanti come un primo tenore sul palco dell’opera. Si chiese perché diavolo non avevano spento le luci, una volta chiusa la biglietteria; la visibilità era comunque assicurata grazie alla forte luce dei fari sulle banchine, e lui si sarebbe sentito più protetto. Tuttavia, si rendeva conto che il suo timore era piuttosto infondato. La sala era vuota, e lo sarebbe stata ancora per svariate ore. Su un cartello c’era scritto che la biglietteria apriva alle sette, e Karl non si aspettava che gli impiegati svogliati arrivassero con eccessivo anticipo. Aveva tutto il tempo per riposare, almeno per qualche ora. Era stanco. Era tanto stanco e aveva bisogno di assopirsi e di non pensare.

Quel pomeriggio, mentre camminava su e giù per il porto tirando calci ai mucchi di corde ammonticchiate agli angoli, Karl si era quasi rassegnato all’idea di dover passare la notte fuori sulla banchina. Non sapeva quanto gli rimaneva in tasca, non aveva neanche voglia di controllare, ma di certo non poteva permettersi di sprecare neanche un centesimo per pagarsi una stanza. Aveva intravisto, sul molo più lontano dal cancello di ingresso, quello che da lontano sembrava una specie di cimitero di container scrostati e abbandonati. Ce n’erano alcuni belli grossi, avrebbe potuto rannicchiarsi in uno di quelli, e magari chiuderlo per ripararsi dalle raffiche di vento marino che, sicuramente, durante la notte era ancora più umido e gelido. Ma aveva cambiato idea quando, all’imbrunire, quello che per tutto il giorno gli era sembrato un posto energico e fremente di attività, aveva assunto una connotazione ambigua. Gli pareva di aver iniziato a notare strani movimenti; personaggi poco rassicuranti dalle facce torve gli lanciavano occhiate malevole.

Alcuni, sembravano clochard che probabilmente stazionavano lì ogni notte; molti, troppi, gli sembravano malviventi che aspettavano il buio per occuparsi dei loro traffici. I grandi porti, di notte, sono luoghi ideali per incontri loschi e scambi illegali, lo sanno tutti. E lui non era certamente un uomo della strada, e sapeva benissimo di non essere neanche così scaltro da potersi trarre d’impaccio in caso di guai. Oltre alla tensione per la situazione, che ancora doveva capire come gestire, aveva iniziato a sentire anche qualcosa di molto simile alla paura. Era perciò tornato a passo svelto alla biglietteria poco prima dell’orario di chiusura e si era nascosto dietro uno di quei cubicoli che scattano fotografie istantanee, che quasi nessuno usa mai perché le foto vengono sempre orribili.

Si sdraiò sulla panca su un fianco, adagiando la schiena dolente lungo lo schienale, e chiuse gli occhi, coprendoli con il berretto. Si assopì, ma non riusciva ad addormentarsi del tutto, infastidito dal rimestio agitato che gli rivoltava lo stomaco. Capì di avere fame. L’ultimo pasto decente che aveva fatto era stato parecchie ore prima, in quella trattoria sulla statale insieme a Ioan, il camionista che lo aveva raccattato lungo la strada, con il quale aveva condiviso un piatto di merluzzo fritto unto e un quarto di vino.

Quel giorno si era messo in cammino, con un pesante zaino sulle spalle, già da prima dell’alba; non sapeva neanche che ora fosse quando, dopo quelle che sembravano ore interminabili, si era fermato in una piazzola dove aveva visto un bagno chimico. Lo aveva trovato chiuso a chiave e aveva imprecato ad alta voce. Il camion si era accostato e l’autista era sceso proprio mentre Karl tirava un calcio alla parete di plastica.

L’uomo che gli stava davanti era tozzo e grosso, con gli angoli della bocca rivolti verso il basso. Gli si era avvicinato con un’andatura strascicata, guardandolo fisso da sotto le sopracciglia folte e gli aveva chiesto, con un marcato accento moldavo: “Tu problema?” “Bagno. Fame” aveva risposto Karl, adeguandosi stupidamente al parlare sgrammaticato del suo interlocutore.

L’uomo aveva indicato il camion. “Sali. C’è bagno e cibo più avanti”.
Una volta saliti sul camion, l’uomo gli aveva detto di chiamarsi Ioan e di essere diretto al porto per la consegna del carico. Poi, per tutto il tempo che avevano trascorso insieme, Ioan era rimasto in un silenzio accigliato. Sempre senza dire una parola, gli aveva fatto cenno di scendere quando erano arrivati davanti al grande cancello di ferro che si apriva sulle banchine, ed era ripartito lasciandolo lì.

Karl si riscosse. Con lo stomaco che reclamava si alzò, sacrificò qualche spicciolo per acquistare un paio di tramezzini al distributore automatico e li inghiottì con foga. Poi si sdraiò di nuovo sulla panca e, rigirandosi continuamente sul legno duro, cadde in un sonno agitato e popolato da sogni inquieti che avevano tutti per oggetto la perdita del suo passaporto. Sognò che un branco di cani rabbiosi lo riduceva a brandelli; sognò che uno sbirro, con un sorriso ambiguo, glielo sequestrava sostenendo che fosse falso; sognò di salire finalmente sulla nave ma, tirando fuori il passaporto per mostrarlo al controllo all’ingresso, questo gli veniva strappato via da una raffica di vento e veniva scaraventato tra le acque luride del porto. Spalancò gli occhi e con il batticuore si tastò la tasca posteriore dei pantaloni, tranquillizzandosi quando sentì lo spessore rigido del prezioso documento.
Rabbrividì per una folata gelida che si era insinuata nella stanza. Saltò in piedi, stropicciandosi gli occhi abbagliati dal neon.

Entrambe le pesanti porte a vetri, sia quella sul lato della strada sia l’altra che affacciava direttamente sul porto, erano state chiuse ermeticamente; fino a qualche istante prima non era entrato all’interno neanche uno sbuffo d’aria, eppure aveva sentito più volte il vento ululare intorno alla stanza. Si guardò intorno, vigile e in tensione, non riuscendo a capire da dove provenisse l’aria. Poi ebbe un tuffo al cuore: la piccola finestra che si trovava dietro alle postazioni degli impiegati era socchiusa. Con immenso sgomento si accorse che c’era una figura nera dietro i vetri. Le dita della figura spuntavano nella fessura tra le due ante. Cazzo, era una guardia? Lo aveva visto? Afferrò convulsamente lo zaino dalla panca e si girò per lanciarsi dietro alla macchinetta delle foto, sperando di riuscire a nascondersi, ma una voce lo bloccò.

“Ehi… ehi tu! Ti ho visto, sai? Sono dieci minuti che ti osservo”.
La voce non era imperiosa né sferzante, come sarebbe invece stata se fosse appartenuta a una guardia della vigilanza privata o, peggio, a un poliziotto; era, piuttosto, un sussurro incalzante. Lentamente Karl si voltò. Rimase quasi a bocca aperta nel trovarsi davanti un ragazzino seduto sulla soglia, con le gambe penzoloni verso l’interno della stanza. Il ragazzino era intabarrato in un vecchio cappotto militare di almeno due taglie più grandi, e sulla sua testa spiccava un cespuglio di capelli arruffati. Non poteva avere più di quindici o sedici anni, e lo osservava con un’espressione guardinga ma non spaventata.

“Chi sei? Lo sai che è vietato stare in questo posto?” chiese Karl, cercando di nascondere la propria agitazione e di apparire più duro di quanto non si sentisse.

“Posso chiedere a te la stessa cosa” replicò il ragazzo con un sorrisetto, per nulla intimorito. “Io sto fuori, sei tu quello dentro a una sala chiusa. E poi io qua ci sto sempre. Non ti ho mai visto. Sei un ladro?” chiese, quasi speranzoso.
“Ma che dici, ragazzino!” rispose Karl allarmato, temendo scioccamente che ci fosse la vigilanza nelle vicinanze. “Cercavo solo un posto dove passare la notte. Prendo la nave domani mattina”.

“Beh, ma da qua partono solo le navi con dentro i container, non quelle con le persone! Hai sbagliato, devi andare dall’altra parte del porto. Là c’è pure una sala d’attesa dove puoi entrare mostrando il biglietto! Vieni, ti ci accompagno…”
“Ragazzino, sto bene qui” rispose Karl freddamente.

“No, no. Non puoi restare qui, ti troveranno!”
Il ragazzino si guardò attorno e iniziò a parlare a raffica: “Una volta c’era un senzatetto che si era addormentato lì per terra, e la mattina dopo, quando sono entrati e lo hanno trovato sdraiato, prima hanno pensato che fosse morto e hanno iniziato a gridare, poi quello si è svegliato e allora si sono messi ancora più paura e hanno chiamato i poliziotti che erano qui fuori, dicendo che c’era un ladro, e allora due poliziotti sono entrati e lo hanno preso ognuno per un braccio e lo hanno portato via trascinandolo e…”
“Smettila di gridare, ragazzino! Se continui a strillare così, certo che mi troveranno! E comunque, credi che non ci abbia già pensato? Vedi quell’angolo laggiù in fondo alla sala, dietro alla macchinetta delle foto? Tra poco mi nasconderò lì, dove sicuramente gli impiegati della biglietteria non andranno mai a guardare, e quando inizierà il viavai di gente sguscerò rapido verso la porta. Non se ne accorgerà nessuno” rispose Karl, con una certa aria di superiorità mista ad orgoglio per la sua trovata.
“Ma no! Non gli impiegati! Quelli non si accorgono mai di niente. Gli impiegati no, ma loro ti vedranno sicuramente” disse il ragazzino con la voce ridotta a un sussurro, fissando Karl dritto negli occhi.
Karl iniziò a sentirsi nervoso. Si guardò intorno di sottecchi, come a cercare qualcuno o qualcosa nella sala. Ma non vide nessuno oltre al ragazzino e al riflesso di se stesso nella vetrata.
Poi si riscosse. Come diavolo pensava di poter affrontare il viaggio che aveva in mente se si lasciava suggestionare dalle sciocchezze di un ragazzino?

“Ehi tu” lo apostrofò seccamente, “adesso mi hai scocciato. Chi è che dovrebbe trovarmi, eh? Ti diverti a prendermi in giro?”
Il ragazzino alzò gli occhi al cielo, come se avesse appena ascoltato la più stupida delle domande. Poi rispose con tono arzillo: “Gli addetti delle pulizie ti vedranno. Chi sennò? Arriveranno tra…” si sporse in avanti per guardare l’orologio al centro della sala, che segnava le quattro meno dieci: “Tra poco più di un’ora. E loro ci guardano, dietro alla macchinetta delle foto”.
Karl rimase impietrito. Come aveva fatto a non pensarci? Era stato davvero un idiota. Certo, aveva con sé i documenti, non era ricercato, sicuramente non ci sarebbero stati problemi a chiarire l’equivoco. Tuttavia sarebbe stato, nella migliore delle ipotesi, estremamente imbarazzante. Nella peggiore… non voleva pensarci, ma potevano essere grosse rogne se ci si metteva di mezzo la polizia. Rifletté brevemente massaggiandosi le tempie. Sì, senza dubbio doveva andare via da lì, e anche alla svelta.
Una ventata di aria gelida fece tremolare la grande vetrata accanto alla porta, e subito dopo grosse gocce di pioggia iniziarono a cadere.

“Ci mancava anche il temporale, dannazione!” imprecò Karl a bassa voce. Si voltò verso la biglietteria. Il ragazzino era ancora lì e lo osservava con curiosità. Era sceso all’interno della stanza e aveva poggiato la schiena alla finestra per tenerla chiusa.
“Senti…” gli disse Karl, titubante, “hai ragione, non posso stare qui. Devi farmi uscire, devo trovare un altro posto dove ripararmi”.
Al ragazzino si illuminarono gli occhi. Gli fece velocemente cenno di avvicinarsi. “Vieni di qua! Dobbiamo per forza uscire dalla finestra. Poi, se siamo fortunati e troviamo aperto il cancello del cantiere navale, tagliamo di là e arriveremo in due minuti dove stanno le navi per le persone, e lì puoi stare nella sala, come ti dicevo!” spiegò il ragazzo, compiaciuto che alla fine la sua idea fosse stata apprezzata.
“Ancora! Ragazzino, diamine, non possiamo andare lì. Non capisci? Non ce l’ho questo fottuto biglietto” ringhiò Karl. Poi aggiunse, più dolcemente: “Puoi aiutarmi a trovare un altro posto?”
Il ragazzo si bloccò e lo guardò a bocca aperta, vagamente inquieto. Sul suo viso confuso si leggeva chiaramente la domanda inespressa: come si può pensare di prendere la nave senza biglietto? Poi si riscosse. Quell’uomo non gli metteva paura come altri uomini che aveva intravisto a volte intorno ai container abbandonati. Fece cenno a Karl di scavalcare la finestra e uscì dopo di lui, facendo attenzione a richiudere le vecchie ante di legno che si incastravano sempre strusciando sul davanzale.

“Vieni con me” disse a Karl, incamminandosi svelto.
Karl lo seguì e gli chiese, stupito, come facesse a conoscere così bene il porto. Quel ragazzino non gli sembrava un delinquentello, ma d’altra parte i porti non sono proprio posti tranquilli e sicuri, soprattutto di notte. Il ragazzino, senza voltarsi, indicò il grosso faro che svettava davanti a loro in lontananza. “Io sto sempre con mio padre. Lui lavora lì”.
Il figlio del guardiano del faro! E chi ci avrebbe mai pensato!? Certo, magari era solo una balla, inventata da quel ragazzino dallo sguardo sagace per fregarlo: il ragazzino era di sicuro più furbo di lui, e troppo a suo agio in un postaccio come quello, di notte per giunta. Poteva tuttavia essere davvero il figlio del guardiano; quella strana situazione avrebbe acquisito senso. Effettivamente, era al faro che si stavano dirigendo. E se il faro fosse stato un covo di farabutti che non aspettavano altro che un pollo da spennare? Karl ghignò desolato tra sé e sé. Bel pollo secco che avrebbero trovato!

Pioveva sempre più forte, e la pioggia si riversava nell’acqua salmastra ruscellando sui ponti delle navi. Karl era zuppo, intriso d’acqua come una spugna; seguiva il passo veloce del ragazzino attraverso le strade che collegavano tra loro i vari magazzini del porto. Gli sembrava di essere in un labirinto, e il fragore del muro di pioggia rendeva scarsissima la visibilità, contribuendo a fargli perdere l’orientamento; non aveva idea di dove fossero e in mezzo a quelle strutture non vedeva più neanche il faro.
D’un tratto, i due sbucarono sulla banchina; Karl fu schiaffeggiato da una raffica di vento bagnato e gelido e si bloccò, imbambolato alla vista delle navi portacontainer scure ed enormi.
“Ehi, muoviti! Fa freddo, sono fradicio, andiamo!” gli gridò il ragazzino, e cominciò a correre in direzione del molo al termine del quale si ergeva il faro. Karl si riscosse e si precipitò dietro al ragazzo, arrancando lungo il molo scivoloso. Cercava di non guardare la massa di acqua nera che incombeva su di lui sia a destra che a sinistra, e di non pensare a cosa sarebbe potuto succedere se fosse caduto sugli scogli ricoperti di alghe viscide che costeggiavano il molo.
Quasi senza che Karl se ne rendesse conto, arrivarono finalmente davanti al faro. Karl, ansimando, poggiò la schiena alla porta di ferro e restò così, immobile, a riprendere fiato; poi guardò interrogativo il ragazzo, in piedi accanto a lui, per nulla provato da quella impetuosa corsa notturna. Cosa sarebbe successo, ora?
“Di’ un po’, ragazzino, e adesso? Non mi farai passare mica tutta la notte qui al gelo?” lo apostrofò Karl piuttosto seccamente.

“Mi chiamo Josef. Puoi chiamarmi con il mio nome, siamo quasi amici, adesso” rispose lui e, presa una vecchia chiave da sotto un masso, aprì la porta e sgattaiolò dentro, lasciando che il battente si chiudesse rumorosamente alle sue spalle.
Karl restò impietrito per qualche istante. Poi, furioso, cominciò a gridare.

“Ragazzino… Josef! Apri la porta! Dove diavolo sei andato?”
La pioggia continuava a infradiciarlo; prese a battere sulla porta e a strepitare improperi, tossendo e starnutendo. Finalmente, la porta si aprì.
“Ragazzino sciagurato! Mi prendi per il culo? Stai cercando di fregarmi? Adesso ti faccio vedere io!” ringhiò Karl alla figura all’entrata. Ma, a guardare bene, Josef non era solo. Accanto a lui c’era un uomo alto e massiccio, con barba folta e rossiccia come la criniera che aveva in testa. L’uomo gli parlò con una voce profonda e autoritaria, ma non minacciosa. “Modera i termini, amico. Questa tua aggressività non ci è gradita. Comunque, a mio figlio hai fatto simpatia. Mi ha detto che avevi bisogno di aiuto e non aveva tutti i torti, sembri piuttosto provato. Sali”. Senza dire altro, l’uomo si voltò e iniziò a salire la ripida scala di ferro. Karl sgusciò dentro mentre Josef gli teneva la porta aperta. Continuando a starnutire, si avviò per le scale stringendosi al petto lo zaino bagnato che conteneva i suoi pochi averi.

La scala portava ad un’unica stanza circolare, arredata con un divano di cuoio e due grosse poltrone; in fondo, c’erano un cucinino con un tavolo, e un bagno. La stanza era illuminata da una luce fioca ed era asciutta e priva di spifferi.
L’uomo accese il bollitore. Riempì tre tazze quando l’acqua fu calda e vi sciolse del caffè solubile. Aggiunse un cucchiaino di miele e un po’ di latte nella tazza che diede a Josef, e nelle altre due versò una generosa dose di brandy, tenendone una per sé e poggiando l’altra sul tavolo, davanti a Karl.
“Togliti quei vestiti zuppi e poi bevi qualcosa di caldo, ne hai bisogno. Lì c’è una tuta, è vecchia ma pulita. Puoi metterti quella” disse, indicando con il mento la porta scrostata del piccolo bagno.
Come un automa, Karl appoggiò lo zaino sulla poltrona e andò in bagno, dove iniziò a cambiarsi lasciando la porta socchiusa. Mentre si infilava i pantaloni di flanella (enormi, ci stava dentro due volte) vide con la coda dell’occhio l’uomo versare nella sua tazza quella che sembrava una polverina bianca, e mescolare. Si precipitò fuori gridando febbrilmente: “Che cavolo stai facendo? Vuoi avvelenarmi?”
Poi abbassò lo sguardo e vide una bustina aperta poggiata sul tavolo.
“È paracetamolo. Ti aiuterà” gli rispose l’uomo senza scomporsi.
Karl prese il bicchiere con mano tremante e si accasciò su una delle poltrone. Dalle finestrelle senza tende lungo tutta la parete vedeva il fascio di luce del faro che appariva e scompariva ipnoticamente.

“Dunque… sei davvero il guardiano del faro, e Josef è tuo figlio. Vivete qui?” chiese a un tratto Karl, nonostante l’imbarazzo e l’ambiguità della situazione.

L’uomo si lasciò andare ad una risata grave, poi disse: “Credo proprio che non si possa dubitare sul fatto che Josef sia mio figlio. Sull’essere guardiano del faro, invece… ormai sono anni che questo mestiere non esiste più. Sembra una definizione da figura mitologica. Adesso per la legge noi siamo operatori nautici”.

Poiché Karl lo guardava interrogativo, l’uomo continuò: “Anni fa il termine guardiano del faro aveva una sua ragion d’essere. Vivevamo nel faro, in simbiosi con il faro. La manutenzione era giornaliera e costante. Oggi con la tecnologia è cambiato tutto. Io e Josef abitiamo in città; veniamo qui un paio di giorni ogni settimana per la pulizia e i controlli ordinari. E da quando il carico di lavoro è diminuito, mi occupo di altri piccoli… affari, ecco, affari di vario genere giù al porto. Oggi, comunque, non avremmo dovuto essere qui. Sei stato fortunato”.

“Fortunato un corno. Sono quasi le cinque del mattino e non so ancora cosa diavolo fare” pensò Karl tra sé e sé. Fissò torvo un punto indistinto nell’oscurità oltre la finestra, ascoltando il borbottio del mare e il respiro pesante di Josef, che si era addormentato sulla poltrona accanto alla sua.

“Ti conviene dormire un po’ prima che faccia giorno” gli disse l’uomo.
Karl era nervoso e, allo stesso tempo, intontito dal miscuglio di liquidi e medicinali che aveva ingurgitato; inoltre, si stava così bene su quella comoda poltrona che la stanchezza prese il sopravvento e gli fece chiudere gli occhi.

Non aveva idea di quanto avesse dormito; dalla finestra vedeva che il cielo, in precedenza nero e senza stelle, si era leggermente schiarito all’orizzonte. Istintivamente allungò una mano verso lo zaino e lo strinse a sé. Subito fu agitato da qualcosa che all’inizio non comprese. Poi capì: lo zaino era aperto, leggero, e aveva una consistenza molle. Era pieno di fogli di giornale appallottolati. Karl si guardò intorno: nella stanza non c’erano più né i suoi vestiti né Josef e suo padre. Era solo e non aveva più la sua roba.

Si era fatto fregare! Povero illuso idiota che non era altro! Ma perché quei due truffatori avevano voluto approfittare proprio di un poveraccio come lui? Maledisse tutto, e si prese la testa tra le mani.
All’improvviso sentì dei rumori provenienti da sopra la sua testa. Scattò in piedi e percorse affannosamente le scale. Nella grande stanza a vetrate al piano superiore c’era la lampada del faro. Josef e suo padre erano lì e trafficavano vicino alle lenti. I suoi vestiti, il portafoglio, il passaporto e gli altri effetti personali erano allineati in bella mostra su un tavolino.

“Cosa…” sbottò Karl.

“Guarda, Karl! Si sta asciugando tutto per bene! Sono riuscito a stendere tutte le banconote e a non far gonfiare di umidità i fogli del passaporto!” esclamò Josef compiaciuto. “Dovrebbe essersi quasi asciugato anche lo zaino: i fogli di giornale assorbiranno tutta l’umidità!” Ancora una volta, Karl chinò il capo, affranto.

“Perdonatemi… io, ecco, credevo che volevate fregarmi. Non sono mai stato molto fortunato nella mia vita. E devo prendere quella nave per l’Australia, la devo proprio prendere a tutti i costi, capite? Ma non so come fare, maledizione!”
Josef guardò suo padre, che a sua volta fissò a lungo Karl con uno sguardo indecifrabile.

“Io non so chi tu sia, Karl, e non so da cosa fuggi e cosa devi andare a fare a tutti i costi in Australia. Ma non mi sembri un disgraziato”.
Karl alzò lo sguardo, speranzoso.
“Facendo i miei… affari giù al porto ho conosciuto molte persone interessanti” disse l’uomo calcando le parole affari e interessanti. “Spesso ci si scambiano favori. Ho tirato fuori dai guai e da situazioni ambigue parecchi operatori portuali. Di recente ho risolto una questione per Abel, un tale che si occupa dei servizi tecnici di bordo e del carico e scarico merci sulle portacontainer. E il caso vuole che questo tizio si imbarcherà come responsabile merci sul mercantile che parte stasera per Brisbane. Non credo avrebbe problemi a farti salire sulla nave come aiutante e a procurarti un visto, purché tu abbia un passaporto in regola e sia incensurato”.

Il corpo di Karl, infilato in quella tuta troppo grande, ebbe un sussulto. Abbozzò un sorriso patetico, passandosi la mano tra i capelli scompigliati.
Intanto si era fatto giorno; il cielo era coperto da uno strato plumbeo e pesante di nuvole, il mare era gonfio e grigiastro; una sottile pioggerella ancora persisteva e dava tutta l’idea che sarebbe durata l’intero giorno.

Josef e suo padre accompagnarono Karl da Abel, un tizio magro e di poche parole che comprese al volo la situazione. Si accordarono velocemente: in cambio di un posto sulla nave, Abel chiese solo che Karl aiutasse nelle attività di carico merci; una volta in Australia, sarebbe sparito dalla sua vista e avrebbe badato da solo a se stesso. Era più di quello che Karl aveva sperato.

“La nave partirà stasera alle nove. La chiave del faro è sempre nello stesso posto; quando avrai finito, torna al faro a riprendere i tuoi vestiti e le tue cose, che per il momento ti conviene lasciare lì. Buona fortuna” disse il padre di Josef a Karl, facendo poi un cenno di saluto con il mento; il ragazzino gli strinse solennemente la mano. Karl li salutò con un sorriso imbarazzato senza trovare le parole adatte. Li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano. Quando furono spariti dalla sua vista, quasi dissolti nella pioggia, gli sembrò assurdo che quei due fossero veramente esistiti e che gli avessero persino servito su un piatto d’argento la soluzione al suo problema. “Eppure sono qui, e staserà partirò!” pensò Karl euforico, e restò stralunato a fissare la gigantesca nave davanti a lui.

Si riscosse sentendo Abel che lo chiamava seccamente e gli indicava una pila di casse, e iniziò a caricarle in un container seguendo le sue indicazioni. Era un lavoraccio faticoso e Karl fu presto stanco, ma allo stesso tempo animato da un miscuglio di eccitazione e gratitudine; pertanto continuò a lavorare come un mulo e senza una parola di lamento fino al pomeriggio inoltrato, quando Abel gli comunicò concisamente che il lavoro di carico era terminato. Gli diede un pass per salire sulla nave e si voltò per andarsene, ricordandogli a mezza bocca di presentarsi puntuale alle otto e mezza. Karl era sfranto, ma si sentiva leggero e vagamente ottimista per la prima volta da giorni: nonostante tutto, si rendeva conto che una fortuita e fortunata serie di eventi lo stava portando sempre più vicino alla sua meta.

Arrivò al faro che era quasi buio. Salì faticosamente la scala di ferro fino alla stanza rotonda. Controllò che nel suo zaino ci fosse tutto e, cercando di ignorare il dolore alle braccia, indossò i suoi vecchi vestiti. Poi si sedette sulla comoda poltrona, dando ai suoi muscoli e alla sua mente la possibilità di rilassarsi.

“Potrei riposare un po’” pensò Karl, “mancano circa due ore all’appuntamento. Potrei chiudere gli occhi… magari solo per qualche istante…” e si assopì, cullato dal mormorio delle onde e dalla pioggerellina che ancora batteva sui vetri.

Si svegliò di soprassalto, con la gola secca e il cuore a mille. Si rese conto che a farlo sobbalzare era stato il suono lungo e grave di una sirena. L’orologio appeso al muro segnava le 20:27. Sentì il sangue defluirgli nelle vene. L’appuntamento era alle 20:30; aveva soltanto tre minuti per raggiungere la banchina, ma quella mattina ce ne aveva messi venti!

Si riscosse, deciso a non perdersi d’animo: non poteva mandare tutto in malora proprio adesso, cazzo! La nave non sarebbe partita che alle 21:00, del resto. Col cuore in gola afferrò lo zaino e si precipitò giù per le scale senza neanche metterlo sulle spalle, poi si lanciò lungo il molo come un forsennato. Ce l’avrebbe fatta, certo che ce l’avrebbe fatta! Poteva già vedere il profilo dell’enorme nave, era lì ferma che lo aspettava. Ci avrebbe messo meno di dieci minuti, pensò continuando a correre come un pazzo.

Forse, nella foga, Karl non vide la corda spessa ammonticchiata su un lato del molo, o forse le sue scarpe usurate avevano la suola troppo liscia per supportare un’altra corsa folle sul suolo bagnato. Quello che è certo è che all’improvviso Karl perse l’equilibrio e rotolò rovinosamente su quegli scogli scivolosi a lato del molo, battendo forte la testa su uno spuntone. L’ultima cosa che i suoi occhi annebbiati videro, prima di perdere conoscenza, fu lo zaino che galleggiava nell’acqua grigia sotto di lui.

Passò del tempo, Karl non seppe stabilire in effetti quanto, prima di rinvenire. Era buio e lui era di nuovo fradicio. Nonostante l’oscurità, poteva intuire in lontananza il nero profilo familiare di una nave mercantile, ormai irraggiungibile all’orizzonte.

foto di Ylanite Koppens da Pixabay




QUI CON LORO STO BENE di Silvia De Felice

QUI CON LORO STO BENE

di Silvia De Felice

tratto dall’Antologia Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Quando spalancò il portone, Elena vide subito il telegramma che spuntava dalla sua cassetta delle lettere. Curiosa e un po’ spaventata, non aspettò di entrare in casa: lo aprì subito, barcamenandosi a stento tra le buste del supermercato.

“Anna ci ha lasciato. Funerali sabato ore 14. Vieni alla funzione? Mario”.

Le immagini di un’ epoca passata le balzarono agli occhi vivide come fossero di ieri.

Elena, Luisa, Annapaola e Francesca: “le inseparabili” le chiamavano al paese. Anna, la madre di Luisa, le viziava di dolcetti e coccole, indistintamente, come se fossero tutt‘e quattro figlie sue. Ora se ne era andata, uccisa forse da anni di sofferenza e tristezza.

Mentre tritava carote, cipolle, sedano e aglio per il soffritto, Elena non riuscì a far a meno di ripercorrere quella che era stata la sua ultima estate da bambina.

I suoi genitori la accompagnavano a Collalto dai nonni appena finiva la scuola, loro lavoravano e la potevano raggiungere solo la prima settimana di settembre. Elena era felice li, tra quelle dieci case, con Luisa, Annapaola e Francesca, che invece a Collalto vivevano tutto l’anno. Avevano 12 anni, nel paese ci si conosceva tutti e loro, nonostante la giovane età, godevano di quella libertà che in città non era neanche lontanamente pensabile.

Si vedevano tutti i giorni: in tarda mattinata dopo aver aiutato un po’ in casa, scendevano in piazza a chiacchierare fino al momento di andare a pranzo. Il pomeriggio facevano lunghe passeggiate fino al torrente dove si bagnavano e prendevano un po’ di sole insieme ad altri ragazzini e ragazzine dei paesi vicini. Spesso uscivano anche dopo cena, e quello era il loro momento preferito, il momento dell’avventura. Luisa prendeva di nascosto la grande torcia di Mario, suo padre e, facendosi coraggio vicendevolmente, si avviavano verso la parte più vecchia del paese, inventando storie di fantasmi e tesori nascosti. In quella zona numerose erano le abitazioni disabitate: dopo la guerra in molti si erano trasferiti in città più grandi, il paese si stava lentamente spopolando.

Le quattro ragazze erano attratte da quelle mura silenziose, le finestre buie i vicoli poco illuminati. Parlavano sottovoce quando si trovavano in quella parte di paese, come se non volessero disturbare spiriti e fantasmi dormienti. La casa che però le attraeva maggiormente era quella più rovinata, in fondo alla discesa che portava alla fine del paese. Le imposte di legno scrostate e cadenti, il giardino infestato da erbacce incolte, il cancello di ferro che cigolava appena lo si muoveva. E poi gli animali notturni sembravano darsi tutti ritrovo lì, gufi, civette, qualche topolino e, di tanto in tanto un’incursione della spinosa. Loro non l’avevano mai vista ma lei lasciava aculei striati in ricordo del suo passaggio. Luisa, Elena, Annapaola e Francesca, impaurite ed eccitate, era lì che si dirigevano quelle notti d’estate. Luisa, soprattutto, era come infervorata da quella specie di rudere. Era lei che improvvisamente sentiva un rumore diverso dal solito. Era lei che spesso notava un’ombra silenziosa che si aggirava furtiva tra quelle mura. Era lei che percepiva presenze….

Quell’estate però non fu come le altre: le quattro amiche non sapevano che quell’anno, la notte di Ferragosto avrebbe segnato la fine della loro fanciullezza e della loro spensieratezza.

I primi del mese, nel paese e in quelli vicini, avevano visto aggirarsi una persona che nessuno conosceva, si teneva lontana dal centro con quel suo carretto e tre cani spelacchiati al seguito. Sembrava un canaro, di quelli che vivono, mangiano e dormono con i cani; non infastidiva e non parlava con nessuno; entrava ogni tanto dal fornaio a chiedere un po’ di pane avanzato. I ragazzini più spavaldi lo avevano avvicinato e deriso, ma lui niente, non aveva reagito mai. Dopo un paio di settimane nessuno quasi sembrava farci più caso.

Arrivò Ferragosto, il caldo era opprimente tra quelle colline,  le quattro amiche avevano fatto incetta dei dolcetti dell’Anna e, dopo cena, si videro come sempre sotto casa di Luisa. Erano riuscite a strappare il consenso a rientrare più tardi, alla fine dello spettacolo di fuochi d’artificio che il parroco aveva organizzato in piazza a mezzanotte.

Per guadagnare tempo le ragazze si erano allontanate dal centro prima che finissero di sparare; c’era tanta gente tra paesani e turisti, nessuno se ne sarebbe accorto. Non erano mai state alla casa in un orario così tardo, Luisa era trepidante; le altre un po’ impaurite, la seguirono.

Arrivate lì in effetti sembrava tutto uguale alle altre volte. “A mezzanotte sapremo se gli spiriti della casa si manifesteranno a noi” disse Luisa e, aggiunse “Siamo fortunate stanotte non c’è luna, li vedremo meglio”. Elena, Annapaola e Francesca rabbrividirono ma non proferirono parola.  Entrarono nel giardino incolto e si avvicinarono l’una all’altra per passare all’interno della casa. Luisa voleva andare a vedere al piano di sopra, ma le altre no, erano troppo impaurite. “Siete delle fifone” disse, “io vado, sento che c’è qualcosa.” E salì. Per tranquillizzare le amiche rimaste giù, Luisa canticchiava in modo che la sentissero. “Dai, ora scendi, andiamo” disse dopo pochi, ma interminabili minuti Elena. “Non vogliamo più stare qui” aggiunse Annapaola.  Luisa però non cantava più. Le tre aspettarono qualche istante. “Luisa!!!” chiamò forte Francesca. Da sopra nessuna risposta. Elena si fece coraggio, salì e guardò nelle due piccole stanze: di Luisa neanche l’ombra. “E’ scomparsa!” urlò atterrita scendendo le scale di corsa. “Andiamo a cercare aiuto, correte!”

Mentre girava il sugo Elena rammentava ancora perfettamente la paura e l’angoscia che le attanagliava il petto in quei terribili momenti.

Ricordava le facce di stupore di Anna e Mario quando, tra le lacrime, gli raccontarono che Luisa era sparita. Tornarono insieme ad altri compaesani e cercarono, frugarono, chiamarono a gran voce per tutta la notte, ma nulla. Era quasi l’alba quando arrivarono le forze dell’ordine con i cani. Perlustrarono la zona per giorni e giorni. Nessuna traccia.  Luisa era scomparsa, come assorbita da quelle mura antiche. Il presunto colpevole di chissà quale efferato crimine fu subito individuato: nessuno aveva più visto il canaro da quella sera infausta. Sparito nel nulla anche lui. Così trascorsero giorni, settimane, nessuna notizia, nessun ritrovamento. A settembre Elena tornò in città con i suoi. Annapaola e Francesca rimasero tra quelle case impregnate di dolore. Ci furono anche diversi comunicati in tv, ma non furono d’aiuto.

Passarono i mesi e arrivò  di nuovo l’estate. Stavolta Elena non andò a Collalto furono i nonni che vennero a stare per qualche tempo in città con lei. Le portarono i saluti delle due amiche e anche di Anna e Mario che, prostrati dal dolore, arrancavano nella loro misera vita. Poi ci furono gli anni delle superiori, i contatti tra le ragazze si erano pian piano affievoliti fino a cessare del tutto. Elena seppe che le sue amiche d’infanzia erano andate in due note università in Inghilterra, forse erano volute fuggire da quei luoghi infausti. Gli anni erano passati, la tragedia sembrava dimenticata  fino all’arrivo di quel telegramma.

Il sabato mattina Elena lasciò la colazione pronta ai suoi e si mise in viaggio. Nelle tre ore che la separavano da Collalto avrebbe cercato di rilassarsi con della musica, era un po’ tesa anche se non ne sapeva il perché. Arrivò, scese dalla macchina e rimase stupita nel constatare come fosse rimasto tutto uguale a 15 anni prima. Solo gli alberi erano più grandi e testimoniavano il passare del tempo.

Poi i primi incontri mentre si avvicinava alla chiesa del paese. Qualche timido cenno di saluto: forse dopo tanti anni non la riconoscevano. Le due donne a destra del portone, però, lei le riconobbe subito: Annapaola e Francesca, erano tornate anche loro. Mentre si abbracciavano senza aver quasi proferito parola, arrivò il carro. Stentarono a riconoscere in quel vecchio, gobbo e rugoso, Mario il forte e ridanciano padre di Luisa. Lui le guardò e le lacrime gli solcarono il viso. Entrarono in chiesa. La cerimonia fu breve e silenziosa. Anna venne sepolta nel piccolo cimitero, vicino ad una lapide bianca dove, a fianco ad una foto, si leggeva chiaramente il nome ed era indicata solo la data di nascita. I genitori di Luisa, evidentemente, avevano voluto un posto dove poterla piangere e dove portare dei fiori.

Il sole stava tramontando quando, dopo un breve saluto a Mario, le tre amiche si ritrovarono da sole nella piccola piazza.

Per qualche minuto si raccontarono di loro, delle loro vite, ma dopo poco fu Elena che disse: “Io voglio tornare lì, ne ho bisogno”. Annapaola e Francesca si guardarono e con un fil di voce risposero: ”Sì, andiamo”.

S’incamminarono, ritrovarono facilmente la strada come fosse ieri, poi la videro: la casa, era ancora lì, in fondo alla via, sembrava che gli anni non avessero intaccato quelle già fragili mura. Il giardino sempre incolto, forse il cancello più arrugginito.

Stava facendo buio ma nessuna delle tre disse nulla. Nel passaggio dal giorno alla notte c’era quel momento di silenzio strano che precede l’inizio dei rumori notturni.

“Entriamo“ disse Elena accendendo la luce del cellulare, e poi: “Luisa sentiva le presenze perché ci credeva, se la pensiamo intensamente forse ci sentirà e riusciremo a capire”.

“Ma cosa vuoi capire? Luisa è stata rapita dal canaro, lo sanno tutti!” la interruppe Annapaola.

“Forse” si intromise Francesca, “ma la verità è che sembra svanita nel nulla. Anzi, sembra che sia scomparsa qui, in questa casa, a causa di questa casa”. Le altre la guardarono sbalordite. “Non vi ricordate più ? Eravamo tutte qui, lei canticchiava, c’era silenzio, se ci fosse stato qualcun’ altro ce ne saremmo accorte. Luisa non ha gridato, non ci sono stati rumori strani, niente e nessuno oltre noi, solo noi e le mura di questa casa maledetta”.

Nessuna ribattè, le luci dei loro telefoni creavano ombre sinistre, fuori gufi e civette intonavano i loro lugubri canti. Dopo qualche istante le tre donne decisero di salire al piano di sopra, proprio lì dove Luisa era scomparsa. Le persiane marcite erano aperte e la luna piena proiettava la sua tremula luce all’interno. Si guardarono intorno senza sapere cosa e dove cercare. Nessuna parlava, forse cercavano di sentire quelle presenze loro raccontate dall’amica. Passarono nella seconda camera, un po’ meno illuminata. Come entrarono però un forte tramestio le fece sobbalzare. Con il cuore in gola si accorsero che erano solo pipistrelli, disturbati dalla loro presenza erano fuggiti dalla finestra.

“Qui non c’è proprio niente” disse Elena, “andiamocene”.  Mentre si accingeva a scendere la scala, con il braccio sbatté sul corrimano e il cellulare cadde rotolando per qualche gradino. Elena imprecò e si inchinò per raccoglierlo. Il fascio di luce del dispositivo stava illuminando lungo il battiscopa quelli che a prima vista sembravano i segni del tempo. Lei però mise a fuoco e si accorse che erano lettere. “Guardate” disse alle amiche, “qui c’è una scritta”. Annapaola e Francesca si piegarono per vedere, illuminando con i loro telefoni.

A distanza regolare l’una dall’altra, scendendo giù, c’era una fila di diciassette lettere: quiconlorostobene. Inizialmente cercarono di decifrare quello che sembrava un unico lungo vocabolo; poi, all’improvviso, Francesca esclamò “Ma questa è una frase, dice: QUI CON LORO STO BENE”, e guardò le altre perplessa.

“Chi?” domandò Annapaola. La risposta era dentro di loro.

“E’ Luisa!” Esclamarono all’unisono. Le loro menti negavano quello che il cuore invece sapeva da tempo. Aspettavano da anni un segno e quel segno finalmente era arrivato. Incredule si abbracciarono.

“Cerchiamo ancora” disse Elena, “Troveremo qualcos’altro.”

Scesero al pian terreno, tre fasci di luce illuminarono, per vari minuti, pareti e sottoscala. Non trovarono nulla. Improvvisamente una civetta, con il suo verso, ruppe il silenzio della notte, come fosse un saluto. Le tre amiche decisero che era ora di andare e uscirono dal cancello volgendo un ultimo sguardo a quelle mura. Erano d’accordo: nessun altro avrebbe saputo; sarebbe stato inutile, non avrebbero capito.

La mattina seguente, dopo una silenziosa colazione all’unico bar del paese e un veloce abbraccio a Mario, si salutarono, senza promesse di un futuro incontro.

Arrivata all’incrocio con la statale, Elena rallentò e con la coda dell’occhio notò una figura in lontananza: un uomo con un carretto e tre cani stava entrando in paese.

DF

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IO NON SONO UN VULCANO

Laura Avati

Io non sono un vulcano

Caterina guardava dalla finestra il temporale che si era spostato in alto mare. I fulmini che cadevano nell’acqua creavano un gioco di ragnatele e luci che catalizzavano la sua attenzione: il fuoco in ogni sua forma l’affascinava. C’era stata anche una piccola scossa di terremoto, il che significava che la Montagna era in fermento e una colata di ricordi la travolsero. Pensò al suo paese, Nicolosi, nell’entroterra siciliano ai piedi dell’Etna. Sicuramente i paesani stavano ornando con candele gli altarini dedicati al vulcano, disseminati lungo le vie del paese in segno di devozione.

Abitava in una piccola palazzina di vecchia costruzione al porto di Giarre, in una zona un po’ squallida. Quella stamberga aveva un piccolo balconcino dal quale si vedeva il mare, e questo le era bastato per farla innamorare di quel tugurio. Con il tempo lo aveva sistemato e abbellito un po’: aveva pitturato le persiane e la ringhiera del balcone di azzurro, come quelle delle case di un paese della Grecia che aveva visto su una rivista e dove sognava prima o poi di andare in vacanza; aveva anche restaurato una vecchia credenza, che le ricordava quella della sua adorata nonna, ma non era mai riuscita a liberarsi dell’umidità e degli spifferi che rendevano la casa fredda.

Caterina aveva bisogno di respirare, le accadeva spesso in quel periodo. Decise di uscire. Scesa in strada, si girò per guardarlo: quella notte l’Etna stava dando spettacolo, e il suo pennacchio rosso fuoco si riusciva a vedere bene anche da Giarre. Sorrise. Aveva smesso di piovere da poco e una nebbia gelida saliva dal mare stranamente calmo, invadeva i vicoli deserti rendendo quasi impossibile orientarsi. In lontananza, una vecchia campana suonò ventuno rintocchi, rimbombarono per le strade fino a dileguarsi nel silenzio irreale di quella notte. Le botteghe a quell’ora erano tutte chiuse e l’unica insegna accesa era quella di un caffè i cui neon erano per metà rotti. Il solo punto di riferimento erano i lampioni dell’illuminazione pubblica, che tra la nebbia apparivano e sparivano come miraggi.

Una musica travolse improvvisamente Caterina. La sentiva venire da lontano e le sembrò di riconoscere la ninna nanna che sua nonna le cantava la sera quando era piccola, seduta sulla sua sedia a dondolo proteggendola in un abbraccio per farla addormentare. Il freddo le penetrò le ossa. Strinse un po’ la cinta del cappotto e sprofondò con il naso nella sciarpa di lana che le aveva regalato sua mamma per Natale: l’aveva fatta lei ai ferri, la sera davanti al camino, e aveva infatti un odore un po’ aspro di lana e fumo, ma le dava calore e conforto. Seguendo la

musica e cercando di capire da dove arrivasse, Caterina si era allontanata molto da casa, arrivando così fino al centro della città, dove durante il giorno regnava la confusione, mentre in quel momento era tutto deserto. Si trovava in un posto di cui aveva sempre sentito parlare e sparlare, ma che non aveva mai avuto modo di visitare: il Parco Archeologico dell’Incompiuto. Era una delle tante opere pubbliche iniziate e mai finite della Sicilia; anzi, era stata definita “la capitale delle opere pubbliche abortite”, strutture iniziate a costruire nei primi anni ’80, poi abbandonate e ormai da buttare giù. Il cemento si sgretolava sotto le dita e la vegetazione si impossessava degli spazi abbandonati. I suoi studenti le avevano detto che molti adolescenti andavano in quel posto a fumare di nascosto o a fare l’amore.

Caterina si trovò davanti a quelle strutture fatiscenti, imperfette, enormemente grigie e tristi. In parte le sembrarono un paesaggio surreale e fantastico. S’inoltrò in quella giungla di cemento, come rapita da quei mostri che, a ben guardarli, non erano poi così ostili come a prima vista sembravano. Una bellissima bouganville dai fiori arancioni si arrampicava e addolciva le travi di quelle che avrebbero dovuto essere le tribune del campo di polo. Un grande cactus si era riappropriato del suo territorio, segno che la natura si stava riprendendo ciò che era suo, pensò Caterina. Tali e tante erano le forme e le ombre che si creavano che a Caterina sembrava di guardare attraverso un caleidoscopio.

“Professoressa Amabile, cosa ci fa lei qui a quest’ora?” fece a un tratto un suo ex alunno, appoggiato ad una trave.
“Rocco!” esclamò. “Mi hai fatto spaventare” disse portandosi la mano al petto, come se con quel gesto volesse normalizzare i battiti cardiaci. “Che ci fai qui a quest’ora?”

“Vengo spesso qui” rispose Rocco con voce calma e abbassando lo sguardo, quasi vergognandosi.
“Tutto bene, Rocco?”
“Sono tornato da poco a Giarre” rispose lui, aggrottando le sopracciglia. “Dopo la laurea, sono stato un po’ dai miei cugini al nord, ma non ce l’ho fatta ad ambientarmi”.

“Se ti può consolare, neanche io mi sono mai ambientata qui” rispose Caterina sedendosi accanto a lui.
“E poi, se è vero ca u munnu gira, ri cà avi a passari” fece Rocco sorridendo. Tirò dal mozzicone di sigaretta e buttò fuori il fumo dalle narici.

“Certo, ma non credo proprio che la fortuna si farà vedere in questo posto” rispose sarcasticamente Caterina.
“Lei, professoressa, non è cambiata per niente. Anche il taglio dei capelli è ancora lo stesso”. “Sono cambiata, invece, sicuramente sono invecchiata”.

Restarono in silenzio per un po’. Caterina ricordava che Rocco era sempre stato diverso dai suoi compagni, schivo e silenzioso, chiuso nel suo mondo accessibile solo a pochi amici e a pochissime amiche. Aveva provato più volte a coinvolgerlo in attività extrascolastiche, ma lui non aveva mai partecipato. I suoi testi erano davvero un piacere da leggere, sempre profondi ed emozionanti. Una volta aveva scritto sul tema dell’omofobia, e aveva raccontato di due ragazzi gay di Giarre soprannominati gli “Ziti”, trovati morti mano nella mano a causa di un colpo di pistola alla testa. Aveva parlato con sensibilità e delicatezza di quei dei ragazzi, che probabilmente venivano a nascondersi proprio qui, al Parco dell’Incompiuto, pensò Caterina. “Le faccio fare un giro, professoressa?”

“Sì, grazie” rispose Caterina. Si alzò, spolverandosi il cappotto. Notò una corda vicino a Rocco, poi salirono su delle gradinate da dove riuscivano a vedere tutte le opere. Una civetta cantava e a Caterina vennero in mente gli anatemi che sua nonna lanciava contro quel povero uccello ogni volta che lo sentiva cantare. “Porta scutra” diceva.

“Questa è la pista di atletica, e quello sotto i cassonetti dell’immondizia è il campo da polo” disse Rocco indicando una discarica a cielo aperto. “E quella laggiù è la piscina olimpionica, e ci sono anche una ludoteca, un teatro, una casa per anziani, un mercato per i fiori e una pista per le macchinine: come vede, professoressa, non manca niente”.

Caterina era allibita e senza parole: sarebbe stata davvero una bella realtà per grandi e piccoli se quel progetto fosse stato concluso.
Caterina sospirò, poi disse: “Ma che ci vieni a fare, tu, in questo posto?”
“Sto bene qui, nessuno mi viene a rompere le scatole” rispose Rocco.

“Hai un lavoro?”
“No, qui non c’è un cazzo da fare. O vai a lavorare la terra o fai il pescatore, oppure diventi un criminale” rispose, e aggiunse: “Siccome d’inverno in campagna non c’è molto da fare, sto a casa”.
Caterina notò che Rocco si era rabbuiato. All’improvviso, però, disse: “Si ricorda di Mimmo?” “Sì! Come sta?”
“Si è suicidato: non voleva diventare come il padre, don Ciro. Lei sa chi è. E Carmela… se la ricorda?”
“Carmela era quella ragazzetta tutta pepe, anche un po’ strafottente, biondina. Voleva girare il mondo…”
“Sì, proprio lei. Sa… si è dovuta sposare un latitante, adesso ha tre figli e fa la vita di una carcerata”.
Caterina deglutì a fatica.

“Posso continuare, se vuole. Ne ho da raccontare!”
Caterina fu distratta di nuovo da quella canzone. Chiese a Rocco: “La senti anche tu questa musica?”
“Quale musica? Io non sento niente”.
“Mi sembra che provenga da quella parte” disse Caterina, indicando la piscina olimpionica. “Ok, allora andiamo a vedere se c’è una festa da quelle parti, magari ci offrono da bere” rispose in modo beffardo Rocco, accendendosi un’altra sigaretta.
Scesero la scalinata e si avviarono: “Stia attenta a dove mette i piedi, il pavimento non è ancora finito” disse Rocco con tono scherzoso.
Arrivarono ad una grande buca, immensa, sul cui fondo erano spuntate piante di ogni genere, che evidentemente avevano avuto la meglio sul cemento ormai tutto crepato: “Qui non c’è nessuna festa. Sente ancora la musica, professoressa?” chiese Rocco sorridendo.
“Sì” rispose lei, un po’ infastidita dal tono canzonatorio di Rocco.
Caterina cominciò a camminare intorno a quella pseudo-piscina. C’era qualcosa di mistico in quel posto che l’attraeva, e che faceva di quell’ammasso di cemento un posto sorprendente: forse era questo che si intendeva con la teoria dei non-luoghi, e forse per questo Rocco andava a rifugiarsi lì. Caterina lo guardò: ormai era un uomo, non era più il ragazzo che lei ricordava. Si strinse la cinta del cappotto e si sedette sul bordo della piscina lasciando dondolare le gambe nel vuoto, come faceva da bambina quando il nonno la faceva sedere sul vascone usato dalle donne del suo paese per lavare i panni.
“Lì fuori non c’è posto per me, professoressa. Mi sento incompiuto, come questo posto” confessò Rocco, che si era seduto nel frattempo accanto a lei.
“Non stai bene neanche qui?” chiese Caterina.
“Non riconosco più questo paese come il mio paese” disse Rocco, che fissava il fondo della piscina.
Caterina ricordò con nostalgia quando lei da ragazza trascorreva ore e ore seduta sul muretto della fontana nella piazza di Nicolosi a chiacchierare spensieratamente con i suoi amici, guardandosi in faccia e ascoltandosi davvero.
“Rocco, c’è ancora tanto da scoprire, perfino in questa nostra piccola realtà”.
“Ma si rende conto di che mondo c’è lì fuori?”
Caterina non seppe come replicare, in effetti Rocco non aveva tutti i torti. Viveva in un mondo molto diverso da quello in cui lei era vissuta quando era più giovane, con altri problemi e diverse dinamiche sociali.
La civetta continuava il suo canto e le piante si piegavano al vento, che si era improvvisamente

alzato e sibilava tra le fessure dei muri crepati.
“Cosa vorresti fare? Nasconderti tra queste miserie per tutta la vita?”
“Questa non è vita, professoressa” rispose glaciale il ragazzo.
“Rocco, io e te ci somigliamo in tante cose, capisco il tuo malessere, ma devi reagire: non risolverai alcun problema nascondendoti. Come si dice… Cu ’un fa nenti ’un sbaglia” disse Caterina, poggiando affettuosamente la mano sulla spalla di Rocco che, a testa bassa, si guardava le mani rovinate dal lavoro nei campi.
“Volevo fare l’architetto, sposarmi e avere dei figli. E invece…”
“Invece cosa, Rocco? Sei giovane e hai tutte le capacità per fare quello che senti di voler fare” incalzò Caterina, ma Rocco scuoteva la testa. Lei pensò alla corda che aveva visto prima e un brivido la raggelò. Ebbe la sensazione che quella sera con Rocco avesse fallito, che non fosse riuscita ad aiutarlo, come invece avrebbe voluto.
Caterina gli prese una mano e gli chiese: “Me la offri una sigaretta?”
“E da quando fuma, professoressa?” fece Rocco, evidentemente sorpreso da quella richiesta. Le porse la sigaretta e se ne accese una anche lui.
“Perché quella corda?” chiese improvvisamente Caterina, terrorizzata dalla possibile risposta. “È da un po’ che sta lì, mi fa compagnia…”
Caterina era adesso ancora più spaventata, sentiva che doveva fare qualcosa. Un colpo di tosse a causa del fumo la fece quasi strozzare.
“Tutto bene, professoressa?”
“Sì sì, tranquillo. È che non so fumare” rispose lei con un filo di voce.
Una scossa di terremoto fece tremare tutto, ma Rocco e Caterina rimasero tranquilli, abituati com’erano alle scosse della Montagna.
“Vieni con me” disse lei, alzandosi subito dopo e spegnendo con la scarpa la sigaretta.
“Mi porta a qualche altra festa?” chiese Rocco con tono beffardo.
Caterina non si curò di quelle parole e cercò un punto da dove l’Etna si vedeva bene. Lo raggiunsero senza dire nulla.
“Tu sei come lui, Rocco, una montagna piena” disse guardando estasiata le fiamme sul vulcano. “Devi buttare fuori tutto quello che hai dentro. Prendi il bello da ogni cosa e vivi per quello” disse, con gli occhi puntati sul vulcano e appena velati di lacrime. Con un nodo in gola, Caterina confidò a Rocco: “Sai, l’unica cosa a cui pensano i miei amici e i miei parenti è che sono una donna a metà, visto che non mi sono creata una famiglia. Ma non si sono mai chiesti il perché, probabilmente”. Poi aggiunse, guardando il vulcano: “Non lo trovi affascinante? Ogni tanto si ribella, vomita e distrugge quello che incontra sulla sua strada, senza curarsi di niente e

nessuno. Eppure, lungo le sue pendici spuntano ogni anno meravigliosi cespugli di ginestre. Perché non inizi a scrivere? Eri così bravo…”
“E poi lei mi metterà il voto e correggerà gli errori con la penna rossa?” chiese Rocco. Caterina non capì se fosse l’ennesima battuta sarcastica o una richiesta di aiuto.

“Mi farà piacere leggere quello che scriverai” rispose dolcemente Caterina. “Grazie” si limitò a dire a Rocco.
“Toglimi una curiosità, Rocco: quale era il mio soprannome al liceo?”
“A babba schietta”.

“Ah! Pensavo peggio. Avete avuto sempre poca fantasia” fece lei, sorridendo. Poi aggiunse: “Si è fatto tardi. Sarà meglio avviarmi verso casa, anche perché è una bella passeggiata da qui fino al porto”. Caterina guardò Rocco e disse: “Posso andare via tranquilla?”
“Certo, professoressa. Farò il bravo”.

Lui la salutò stringendole forte la mano. Caterina strinse la cinta del cappotto e si avviò. “Professoressa” urlò Rocco dopo un po’, quando lei già era lontana, “la sente ancora la musica?”
Caterina fece un gesto con un braccio per dire di no, non sentiva più la musica.

Rocco fumò l’ultima sigaretta e accartocciò il pacchetto, rimasto vuoto.
Il suolo tremò di nuovo e lui perse l’equilibrio. Si appoggiò ad un muretto per non cadere. Cercò di tenere dritta almeno la testa per non vomitarsi addosso. Adesso avrebbe voluto un’altra sigaretta per togliere l’amaro dalla bocca. Raccolse il mozzicone che aveva appena spento. Era una notte di luna nuova e sapeva che avrebbe aspettato l’alba fra quei ruderi, come tante altre volte aveva fatto.
“Io non sono un vulcano” disse, guardando la corda.
La civetta di prima cantò.

 

Laura Avati, Io non sono un vulcano, in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2020, pp. 49-56.




IL CONO D’OMBRA di Ninni Caraglia

Racconto tratto dalla raccolta Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

 

Un gabbiano non vola mai per caso sopra le nostre teste. Vola per vedere se proteggiamo la nostra vita. Invidiamo la libertà di volo dei gabbiani mentre ci seguono a distanza, pronti a raccogliere le nostre zavorre di dolori e delusioni. Volano per noi, che fatichiamo a capire cosa o chi ci stanno indicando di seguire. Un gabbiano è fedele allo scopo del suo volo, si fida del cielo e del mare, ma anche dell’uomo che sugli scogli sa restare in silenzio ad ascoltare i gabbiani.

 

L’uomo le fece cenno di tacere. Lei non si mosse ma si aggrappò saldamente alle maniglie sui bordi del canotto, pronta a muoversi. Smise di pagaiare. Il rumore delle onde mosse dal canotto diveniva sempre più lento. Rimasti in silenzio aspettavano di sentire di nuovo quel rumore, o meglio lui aspettava di sentire di nuovo quel rumore, quella voce bassa, quel lamento, quello stridio, quel fruscìo, quella sensazione di rumore animato in quel mare o in quell’isola deserta. Non più deserta, anzi, visto che adesso c’erano loro che ci giravano intorno. I gabbiani volavano sopra il loro canotto alternandosi in una staffetta silenziosa, quasi pronti a dare un grido di allarme se qualcosa fosse venuto fuori. Qualcosa, qualcuno. L’uomo non aveva ancora capito cosa aveva sentito – ma lo aveva davvero sentito? – non poteva dire se quel rumore fosse di umano o di animale o di vegetazione.

Continuarono ad aspettare in silenzio, lui voltandosi spesso per vedere se dalla vicina costa della terraferma ci fosse qualcuno, lei guardando interrogativamente lui e i gabbiani che volavano sopra la sua testa finché, stanca di mantenere la posizione sdraiata, si mosse per mettersi seduta. Proprio nel momento in cui lei si mosse, entrambi udirono un rumore come di mobili spostati, tipo spostare un pesante divano, così come lo sentiresti fatto dagli inquilini del piano di sopra. Anche il canotto si spostò bruscamente in diagonale, non era il solito dondolio dovuto ai movimenti di lei.

“Andiamo via!” urlò lei. Ma intorno tutto era già ritornato calmo e silenzioso. Facendosi cenno con gli occhi, istintivamente guardarono il fondale cercando un animale degli abissi oppure bolle d’aria per una inattesa attività termale o vulcanica del fondo marino. Lui a gesti indicò ancora di fare silenzio. Tutto sembrava al suo posto, come se nulla fosse accaduto. Lei, impaurita, lo convinse a muoversi, pagaiando molto lentamente per rifare il giro dell’isola ma spostandosi un pochino più al largo. Un lento navigare che li stava riportando a quella piacevolezza che il sordo rumore aveva interrotto. Fecero ancora un altro giro, ma muovendosi a zig-zag per capire se quel rumore si sentisse solo sotto costa. Nulla. Acque cristalline, guizzi di pesci argento e blu, e gabbiani felici. Il sole li guardava muto ma compiacente: una natura perfetta e circoscritta insieme a loro due, piccoli e silenti spettatori. Non sempre è così. Tutta quella bellezza non poteva andare sprecata, i due decisero di avvicinarsi di nuovo all’isola fermandosi però nella parte opposta, dove un punto della parete rocciosa presentava uno sbalzo che faceva ombra. Si fermarono lì perché quel cono d’ombra aveva colpito la loro attenzione sin dal primo giro dell’isola. In quel punto si sentirono al riparo e finalmente tornarono a parlare di quanto avvenuto.

“Sarà stata una leggera scossa di terremoto, ho letto che può essere preceduta da un boato o un sordo lamento” disse lei.

“Però non c’è stato un grosso movimento del mare, il vento non è diminuito o aumentato, e non sono neanche caduti piccoli sassi dalla roccia più alta, che sembra di gesso fragile” disse lui.

Stefano e Lucia avevano scelto quella meta per la scarsa presenza di attività umana e staccarsi così dalle ultime difficili vicende vissute in città. Lui, del segno dei pesci, era in sintonia con l’acqua: non era un vero e proprio richiamo, si trattava piuttosto di piacere e rispetto reciproco. Lei, ariete, aveva paura delle profondità e preferiva tenere i piedi in terra, ma adorava i profumi salati dell’isola, e ogni volta i suoi muscoli, con sempre nuova meraviglia, si arrendevano al dolce massaggio dell’acqua.

Si addormentarono all’ombra di quel picco di roccia che li sovrastava dall’alto. Così in alto che dal canotto non riuscivano a dare un numero a quell’altezza.

Stefano si tuffò in acqua e svegliò Lucia, che però non lo seguì.

Avevano immaginato quel tempo da tanto: niente orari, niente convenzioni, niente riti; non una vita da zingari ma neanche da naufraghi. Una vita per loro stessi.

La lunga giornata e le emozioni richiedevano una sosta, anche se ai due dispiaceva lasciare l’isola dopo quell’evento strano, quindi fecero ancora un giro guardando bene le rocce della riva, cercandone punti particolari o con segni di vegetazione, e riflettendo. Più che riflettere, capire come arrivare in cima alla piccola isola. Un posto così particolare doveva avere senz’altro un panorama altrettanto particolare visto dalla sua sommità. Forse dall’alto avrebbero potuto vedere meglio i fondali e capire se parte della roccia connettesse l’isola alla costa grande. Forse avrebbero visto relitti, rocce scavate con dentro murene enormi… forse.

 

La grande stanza di legno, l’insalata di pomodori, il pane e l’acqua con lo sciroppo di mandorle erano dolci come il sonno che era venuto loro incontro. Enzo arrivò alle sette del mattino, la grande stanza di legno dal basso soffitto l’aveva costruita lui. Un riparo con due finestre dove rimaneva quando aveva voglia di dormire con il mare. Un letto, un tavolino con due sedie, alcune mensole, senza servizi igienici: poteva approfittare della macchia di ginestre proprio sotto la radura di roccia dove aveva costruito. Non pensava che Stefano e Lucia gli avrebbero chiesto di restare a dormire lì: sarebbe resistita veramente, gente di città, a dormire accampata così?

Sorpreso ma anche contento, Enzo aveva dato loro la chiave del capanno ad una condizione: li avrebbe svegliati alle sette del mattino dopo con un thermos di caffè e pane con miele. Voleva essere sicuro che nulla gli fosse accaduto durante la notte e, dopo aver bussato più volte, capì che il sonno era stato tranquillo. Fecero colazione insieme seduti sulla roccia, guardando il mare e l’isola, che dalla riva sembrava più lontana e più grande.

La foschia mattutina rendeva l’isola silenziosa e triste, anche i tre spettatori lo erano. Enzo, togliendosi le briciole di pane dalla barba bianca, disse ai suoi due ospiti che spesso in quella stagione l’isola aveva quell’aspetto, mattino e sera le maree la facevano sembrare più bassa o più alta, per lui nulla di cui stupirsi. La coppia allora si fece un cenno e Stefano disse ad Enzo che aveva bisogno di parlargli. Enzo annuì, raccolsero tutte le cose e chiusero il capanno per tornare sulla terraferma, dove c’era l’appartamento che Enzo aveva affittato loro per il mese di giugno. Camminarono per circa un’ora tra saliscendi intermittenti di roccia e piccoli fiori di cappero, lungo la costa di ciottoli con poca sabbia granulare sepolta dalle alghe, ormai secche, portate dalla marea. Percorsero poi una salita di sterrato che, con pendenza dolce, portava in cima al paese. Un piccolo paese dove c’era tutto e niente, dipende dai punti di vista. Stefano disse ad Enzo che dopo la doccia si sarebbero visti per parlare di una cosa successagli in mare il giorno precedente.

Mentre si rivestivano, Stefano e Lucia si interrogavano sull’opportunità di dire subito ad Enzo quanto accadutogli, non avendo ulteriori prove da aggiungere alle loro sensazioni e ai loro imprecisi ricordi.

La casa di Enzo aveva, come molte altre in quel posto, un solo piano ed una piccola terrazza dalla quale si poteva vedere l’isola. Era come se la costa marina, seppur spezzettata, disegnasse una grossa lettera “C” grazie al punto più alto dell’isola di fronte a loro. Per Stefano e Lucia era ormai familiare, anche se non ne conoscevano il nome, qualora lo avesse.

“Se anche vedessi solo il mare, il suo vento ti porterebbe comunque tutti i profumi del mondo” disse Enzo mettendo sul tavolo un vassoio con pane, alici salate e vino bianco. Aggiunse anche un piatto con piccoli cetrioli rotondi e poi, sedendosi, disse: “Ditemi tutto”. Seguì un lungo silenzio, Enzo capì che senza un bicchiere di vino quel ghiaccio non si sarebbe sciolto. Lucia prese un pezzo di cetriolo e, senza guardare Enzo, disse: “Ieri abbiamo sentito uno strano rumore mentre eravamo sul canotto vicino all’isola”.

Tutti e tre si servirono di pane e alici, preparandosi così chi a parlare e chi ad ascoltare.

Stefano esordì dicendo: “Confesso che sono ancora confuso e non molto sicuro di quanto sto per dirti, ma ho avuto la sensazione di sentire un rumore sordo seguito da un movimento strano, perché il canotto si è spostato mentre io non stavo pagaiando”.

Enzo non fece commenti, Stefano allora continuò: “Sembrava il rumore di un divano spostato, è durato pochissimo. Il canotto si è spostato come se qualcuno da sotto lo spingesse… ma non c’era nessuno! Non c’era vento, non c’erano onde strane, nulla! Siamo stati in silenzio per un po’, ma non abbiamo notato nulla che potesse essere collegato a quello strano rumore. Alla fine ci siamo spostati al largo e abbiamo rifatto lentamente il giro dell’isola, senza trovare nessun sospetto; abbiamo ripetuto il giro per tre volte e all’ultimo ci siamo fermati nel cono d’ombra di quella parte di roccia che sbalza dal corpo dell’isola. Abbiamo dormito un po’ ma, ripeto, nulla ci ha fatto più insospettire. Il resto della serata e della nottata l’abbiamo passato al tuo capanno. Enzo, tu sai se ci sono stati episodi simili?”

“Assolutamente no!” rispose Enzo continuando a mangiare.

“Prima di cena prendiamo una birra insieme al bar del paese e parliamo con qualche paesano, magari viene fuori qualcosa, che ne dite?” rilanciò Lucia.

“Andate pure e io vi raggiungerò più tardi, aspetto il rientro di Giovanni al capanno per le reti” disse Enzo.

“Va bene, oggi pomeriggio alle 6 ci troverai al bar” concluse Stefano.

Il paesaggio era mozzafiato e nulla poteva fare più piacere a tutti se non smettere di parlare e perdersi nel guardare l’orizzonte. Stefano e Lucia erano rimasti un po’ perplessi dalla scarsa partecipazione di Enzo, pensarono di essere stati giudicati sciocchi cittadini ignari dei misteri della natura marina. In parte era vero. Si gustarono l’ultimo bicchiere di vino insieme a Enzo che, poggiatosi alla balaustra del terrazzo, aveva lo sguardo fisso e perso verso un punto dell’isola.

“Cosa stai guardando così assorto?” chiese Stefano.

Enzo si scosse e prontamente invitò Lucia a farsi avanti, continuando ad indicare con il dito l’isola.

“Mi incanto sempre a guardare quel pino laggiù, lo vedete? Guardate esattamente al centro dell’isola, da qui sembra un ciuffo ribelle di capelli, è più alto di tutta la vegetazione” rispose Enzo, tornando a un breve ma forzato sorriso.

Stefano e Lucia cercavano con lo sguardo quel pino, che non trovarono subito. Qualche attimo dopo, anche loro ormai avevano uno sguardo fisso e muto sulla chioma verde scuro dell’isola.

“Prendo il binocolo” disse Enzo.

Ritornò subito e, mentre metteva a fuoco la visione, disse: “Io ormai lo conosco bene, quel pino so come è fatto: parte del tronco, dei  rami e della  chioma è piegata verso di noi. È stato il vento, e il ricordo di chi non c’è più pesa sui rami di quel pino, così dicono”.

Enzo invitò Lucia a guardare per prima. Stefano e Lucia erano tanto  meravigliati e incuriositi da esprimere a Enzo il loro desiderio di salire sull’isola per guardare la vegetazione da vicino.

“Tu sei mai salito sull’isola? C’è un punto ancora più alto del paese per vederla meglio?” incalzò Stefano rivolgendosi a Enzo.

“Magari con l’elicottero!” disse fiduciosa Lucia.

“Sai se hanno provato a salirci facendo arrampicate?” chiese ancora Stefano.

Enzo li ascoltava in silenzio mentre sparecchiava, i suoi ospiti percepirono disinteresse e ne furono molto sorpresi.

Si salutarono senza troppo entusiasmo, dandosi appuntamento per il giorno dopo al bar.

Quando furono fuori dalla casa di Enzo, Stefano e Lucia decisero di camminare fino alla punta della scogliera grande. Non era molta strada ed era quasi in piano, c’erano erbacce miste tra i ciottoli e piccoli arbusti nani di mirto, che il vento non faceva crescere. Arrivati alla fine del sentiero, la scogliera si allargava generosamente in uno spiazzo tondeggiante dove furono felici di fermarsi. A quell’altitudine il brivido ti divide a metà tra paura e pura felicità: sopra tutto e tutti, ti fa sentire impotente e isolato dal mondo, ma al tempo stesso al centro della vitalità del mondo stesso. La coppia si abbracciò e, dopo aver fatto alcune fotografie, si diresse verso il bar del paese.

Salutarono il gestore e i presenti, e sedettero all’aperto in attesa della birra che avevano ordinato. Sentivano su di loro gli sguardi dei tre anziani seduti un po’ più indietro; loro erano i turisti di Enzo, come aveva detto quello con il cappello in testa, pensando di non essere sentito.

Stefano e Lucia fecero un brindisi con la birra augurando ad alta voce “Salute!” per coinvolgere gli anziani presenti, che prontamente alzarono i loro bicchieri.

Finirono velocemente la loro birra e ne ordinarono un’altra. Quando ebbe il secondo bicchiere in mano, Stefano colse l’occasione per dire: “Dopo l’avventura di oggi ci vuole proprio una bella bevuta! Abbiamo sentito un rumore strano giù all’isola, che ha fatto sobbalzare il nostro canotto. Lo avete sentito anche voi, per caso?”.

I tre anziani si guardarono e poi quello con il cappello rispose velocemente di no. Lucia continuò chiedendo se mai questo fenomeno si fosse ripetuto altre volte, chiese anche se c’era un modo per provare a salire sull’isola. Giustificò questa richiesta dicendo che era appassionata di fotografie del mondo vegetale; da ogni viaggio ritornavano sempre con le foto dei monumenti, dei fiori e delle piante più interessanti che avevano visto. I tre anziani paesani ascoltarono con interesse le parole di Lucia, ma aggiunsero solo qualche smorfia di dubbio come commento. Quello che sembrava il più anziano, dietro un paio di occhiali con spesse lenti scure, disse che ricordava di alcuni che avevano provato a scalare la roccia ripida dell’isola, ma il bastone del suo amico con il cappello schioccò vicino al suo piede e lo interruppe. Stefano e Lucia non ebbero risposte ai loro quesiti, pur pensando che qualche segreto sotto sotto c’era. Salutarono cordialmente la compagnia e si avviarono alla loro casetta.

 

Trascorsero giorni di azzurro e dolce vento, i gabbiani incrociavano traiettorie di volo che erano piacevoli viaggi per i pensieri di Stefano e Lucia, finché un pomeriggio, ritornando indietro con il loro canotto, videro tanti gabbiani alzarsi, posarsi e volare intorno a una piccola boa galleggiante bianca e arancione.

La mattina seguente fecero lo stesso tragitto ma la boa non c’era. E non c’erano neanche tutti quei gabbiani. Rimasero per un po’ distanti a guardare, poi Stefano si tuffò cercando di rimanere sott’acqua per vedere se qualcosa era collegato a quella boa. Risalì per riprendere fiato e nuotare un po’ per avvicinarsi, ingoiando aria e le grida dei gabbiani. La seconda breve immersione rivelò la presenza di una scatola di ferro scura, mal posta tra aguzze rocce di scoglio e tentacoli di poseidonia che quasi la ricoprivano. Stefano risalì sul gommone per riprendere fiato, con l’idea di raccontare tutto a Lucia e poi a Enzo. Lucia propose invece di parlarne prima al bar. Così decisero di fare. Nessuna risposta particolarmente utile arrivò dagli anziani; uno disse che forse qualcuno stava facendo esperimenti, oppure era Enzo che con Giovanni usciva in mare e lasciava attrezzi in quella scatola. La coppia lasciò il bar per una cena veloce: avevano deciso di andare da Enzo l’indomani mattina molto presto per parlargli della scatola scura.

Enzo non era in casa e fu introvabile per alcuni giorni. Al bar dissero che era partito all’improvviso senza dare spiegazioni, nulla si sapeva sul suo rientro. Al terzo giorno dalla partenza di Enzo, Lucia e Stefano cominciarono a preoccuparsi. Anche i soliti frequentatori del bar si facevano delle domande, Stefano e Lucia ormai si univano a loro tutti i pomeriggi e tutti insieme si interrogavano sulla partenza improvvisa di Enzo. Solo Lucia azzardò a chiedere se Enzo fosse partito per gravi motivi familiari. “Ma Enzo ha figli?” chiese in ultimo Lucia.

Il chiacchiericcio si fermò di colpo: la parola “figli” arrivò come un secchio di acqua ghiacciata sulla testa dei frequentatori del bar. Stefano e Lucia si guardavano e guardavano i presenti in cerca di spiegazioni; qualcuno si alzò come per andarsene, altri guardavano altrove o guardavano nervosamente i loro telefoni cellulari. Stefano si alzò bruscamente e disse ad alta voce: “Fermi tutti! Ora basta con i silenzi e le bugie!”

Anche Lucia si alzò e prontamente si mise oltre gli ultimi tavolini per bloccare l’uscita. Mario, il gestore del bar, e Paolo, l’uomo con il cappello sempre in testa, fecero un cenno agli altri e tutti ubbidirono.

Mario ritornò poco dopo con bicchieri di birra per tutti e Paolo rimase in piedi come per prendere la parola.

“Enzo è partito ma non ha lasciato detto nulla a nessuno di noi. È la verità. Il figlio di Enzo si chiamava Pino”. Detto questo, Paolo si sedette e tutti rimasero in silenzio. Stefano e Lucia erano attoniti. Tante domande si affacciavano alla mente della giovane coppia, ma i volti tristi degli anziani presenti imponevano ancora silenzio e rispetto.

Dopo qualche secondo, Stefano chiese a Paolo se il loro comportamento potesse in qualche modo aver influito sulla partenza improvvisa di Enzo. Paolo, ormai più tranquillo, rivelò: “Pino si era messo in testa di scalare l’isola per andare a vedere come era fatta. Per questo si esercitava con corde e ganci. Né il padre né il crepacuore di sua madre riuscirono a fargli cambiare idea. Un’estate, dopo la morte di sua madre, si trasferì a nord, in montagna, per fare pratica con un vero istruttore”.

Le cicale avevano smesso di frinire, sul volto di Paolo apparve un’espressione veramente triste, di quel dolore che ti porta via lo sguardo e il pensiero. Stefano e Lucia gli si avvicinarono. Lucia avrebbe voluto prendergli la mano, ma Paolo tirò un lungo sospiro e continuò: “Era arrivato fin sotto alla roccia che sbalza dalla parete dell’isola, era salito in fretta e senza fatica. Tutti lo seguivamo con il binocolo. Enzo era lì sotto, sul gommone. Poi ci fu il rumore delle corde e dei ganci che sbattevano sulla roccia e la stavano sbriciolando. Tutto venne giù quando un chiodo spaccò il bordo della roccia a sbalzo. Anche Pino, poco distante da Enzo. Nessun rumore di uomo in mare. Pino rimase incastrato tra gli scogli appuntiti e fitti nella parte più alta dell’ultimo scoglio, quello sotto la roccia a sbalzo: lo scoglio dello squalo. È proprio il suo nome: sembra una grande bocca aperta di squalo con mille denti aguzzi. Lo scoglio aveva trattenuto Pino come lo squalo tiene la sua preda tra i denti. Neanche i gabbiani si avvicinarono al corpo straziato e pieno di sangue, i suoi occhi furono risparmiati da quei duri becchi gialli”. Paolo aveva parlato tranquillamente, anche se le lacrime gli scendevano ancora sul volto. Si coprì la fronte con la mano sinistra e con la destra riprese in mano il bicchiere di birra, dicendo: “Ora sapete. Ma non parlatene con lui, è difficile seppellire un figlio. È difficile seppellire l’unico figlio.” Bevve tutto d’un fiato per ingoiare anche i singhiozzi. Tutti si alzarono in silenzio e in silenzio riportarono i bicchieri vuoti e i posacenere a Mario, in silenzio ognuno se ne ritornò a casa. Stefano e Lucia si addormentarono abbracciati, la sveglia era impostata alle sei del mattino. Per fare cosa? Ormai sembrava una vacanza alla sua fine, senza quell’entusiasmo che rimane invece per sempre depositato nei ricordi e nelle fotografie. Sicuramente avrebbero passato la mattinata seguente in mare, sotto quella roccia a sbalzo dove giorni prima si erano addormentati approfittando dell’ombra che proiettava sul loro gommone.

Il giorno dopo l’ombra sembrava diversa, si mantenevano distanti al largo e il sole dopotutto non bruciava sulle spalle. Pensavano alla morte del figlio di Enzo, ancora non rientrato in paese. Il pomeriggio era ormai tappa obbligata al bar, dove finalmente conobbero Giovanni, compagno di pesca di Enzo. Non ci fu bisogno di spiegazioni, i ragazzi chiesero a Giovanni di andare alla boa l’indomani mattina presto approfittando della bassa marea. Così fecero. Giovanni rimaneva in silenzio e badava al gommone senza lasciar fare nulla ai ragazzi. Solo quando il gommone si avvicinò pericolosamente agli scogli, i due gabbiani volarono via. Assurdo pensare che fossero lì ad aspettarlo e dargli il cambio. Cambio per cosa?

Giovanni fermò il gommone lanciando una cima allo scoglio più vicino. Stefano e Lucia, invece, continuavano a guardare i gabbiani che volavano in cerchio sopra la boa. “Se le ascolti, tra un andare e un tornare, le onde parlano” disse a bassa voce Giovanni inserendosi, inconsapevolmente, in quel ritmo lento ma amaro. Nel dondolio di poche onde, Giovanni aveva già detto il resto della brutta storia del figlio di Enzo. Il corpo di Pino si era schiantato nel punto più impervio dello scoglio dello squalo. Era caduto di fianco: il braccio sinistro incastrato nelle fauci aguzze dello scoglio e, coperta di sangue, la parte destra del volto. Piccoli brandelli di carne delle cosce disgiunte galleggiavano sull’acqua. Giovanni ed Enzo erano accorsi subito per riprendere il corpo di Pino, ma le onde generate dalla velocità del gommone erano diventate pericolose come pinne di squali affamati che schiaffeggiano con la loro potenza i marinai. L’alta marea rischiava di sollevare e far andare alla deriva il povero corpo spingendolo dentro la bocca dello scoglio. Enzo non avrebbe più riavuto indietro suo figlio, sarebbe rimasto al mare, ai pesci e ai gabbiani. Giovanni si ricordava ancora le urla disperate di Enzo nel vedere il corpo dondolato dolcemente dalle onde di quel giorno. Non poteva prenderlo, non poteva accarezzare suo figlio morto, non poteva vederlo straziato così. Giovanni raccontò ancora che urlò forte anche lui quando vide i gabbiani arrivare uno dopo l’altro sulle punte degli scogli vicini. “Anche se in natura nulla si crea e nulla si distrugge ma si trasforma, Pino non si trasformerà in carne per i gabbiani” disse tra le lacrime. Solo le urla di entrambi fermarono la legge della natura. I gabbiani restarono per un po’ immobili a guardarli. Divennero come muti e forti soldati della regina, uno scudo di pietà per il corpo del povero Pino. Enzo, vinto dal dolore, scivolò all’interno del gommone, sembrava dormisse per quanto era stordito. Da terra ancora non arrivava nessuno, così Giovanni agì velocemente. Ogni tanto quando andava a pesca, ma nessuno doveva saperlo, usava dell’esplosivo per spaventare i pesci, farli salire a galla e prenderli più facilmente nella rete, grazie anche al moto ondoso causato dal boato. Pensò che lo stesso poteva essere fatto per sollevare e recuperare il corpo di Pino, approfittando della marea e delle onde aumentate dall’esplosivo. Enzo sobbalzò all’esplosione, mantenne fermo il gommone mentre Giovanni si sporgeva per raccogliere il morto. Un’ultima onda per lavare il volto di Pino dal sangue: a volte nel mare c’è una pietà silenziosa che onora e rispetta i suoi morti. Succede quando le lacrime sono più salate del mare, così si sente spesso dire nei posti di mare.

Lucia non riuscì a trattenere le lacrime al racconto di Giovanni. Sganciarono il gommone dallo scoglio e si allontanarono da quella boa carica di ricordi. Giunti a riva, salutarono Giovanni e rimasero seduti sulla battigia a guardare il paesaggio. Fu così che decisero che sarebbero rimasti a dormire nel capanno, visto che avevano ancora le chiavi. Intanto, però, volevano ritornare a fare un giro dell’isola prima di avvisare Paolo più tardi, su al bar, che sarebbero ripartiti in anticipo.

Dopo la nottata al capanno, la mattina seguente il mare sembrava un lenzuolo di seta, onde piccole come delicate carezze. Stefano e Lucia lasciarono il gommone abbastanza lontano dallo scoglio dello squalo: si sarebbe visto facilmente da quel lato, e lasciarlo nella parte opposta non era fattibile. Poi se ne tornarono a nuoto al capanno tenendo le finestre di legno chiuse. Avevano il presentimento che Giovanni sarebbe tornato sul posto dove la boa segnalava la scatola di ferro. Accadde veramente così, Giovanni però era in compagnia di Enzo, che portava un cesto con dei fiori e del pane. Attraverso il binocolo si vedeva che Giovanni portava una cassetta di legno apparentemente pesante. Misero tutto sul loro gommone coprendo le cose con un telo: la vista del gommoncino di Stefano e Lucia li aveva stupiti e preoccupati.

Appena presero il largo, Stefano e Lucia lasciarono il capanno camminando dietro i cespugli di ginestre. Per fortuna l’ultima parte di costa aveva uno scalino naturale che consentiva una facile immersione in acqua; da lì poi si mossero lentamente a nuoto. Arrivarono velocemente al primo scoglio grande e aguzzo, lì nascosti potevano guardare cosa avrebbero fatto Enzo e Giovanni, e anche osservare il comportamento tutti quei gabbiani che attorniavano lo scoglio. Dai gesti e dai movimenti di Enzo pensarono che avesse gettato loro del pane, invece si trattava di fiori che lanciava sullo scoglio dello squalo rimanendo in piedi sul gommone. Lucia, preoccupata e agitata, urlò il nome di Enzo.

Tutti si mossero, anche i gabbiani, che ora urlavano volando verso Stefano e Lucia. Giovanni gridava: “Via! Andate via!”, ma ormai i ragazzi si stavano avvicinando a nuoto. Enzo alzò la mano in segno di resa e quando Stefano, affannato, gli chiese cosa stesse succedendo, Enzo aiutò sia Stefano che Lucia a salire a bordo. “Devo aiutare mio figlio. Devo aiutarlo a completare la sua salita” disse Enzo con un filo di voce mentre un silenzioso gabbiano si posava accanto a lui.

Giovanni provò a spiegare le parole di Enzo dicendo: “La scatola di ferro contiene le ceneri di Pino. Se togliamo la boa e mettiamo dell’esplosivo, faremo esplodere la scatola, così le ceneri si spargeranno in mare. Saranno poi le nuvole e la pioggia a portare Pino su quell’isola”.

Lucia abbracciò Enzo e si sedettero entrambi a poppa, mentre a prua Giovanni e Stefano procedevano secondo il piano concordato; poi inginocchiandosi nel gommone, si fecero il segno della croce prima di accendere l’esplosivo. Un sordo boato come un ultimo singhiozzo soffocato. Nuvole di gabbiani si alzarono in volo: aspettavano già la compagnia di Pino.

 

 

 

Ninni Caraglia, Il cono d’ombra, in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2020, pp. 123-135.