MUFFIN ZUCCA E CANNELLA

“UN MESE, UN PIATTO, UNA STORIA…”

OTTOBRE

MUFFIN ZUCCA E CANNELLA

 

Ottobre si sa, è il mese della zucca un ortaggio molto versatile, economico e dal sapore leggermente dolciastro che delizia palati di adulti e piccini.

La maggior parte di noi utilizza la zucca per preparare risotti e vellutate, qualcuno prova zucca al forno o in sformato, altri azzardano golosi dolci.

Per questo mese vi propongo la realizzazione di facilissimi e ottimi muffin, da mangiare a colazione o con il the pomeridiano, ma anche appena stiepiditi perché il loro profumo li rende veramente irresistibili.

Zucca per me è anche sinonimo di viaggio e amicizia, questo perché proprio ad ottobre si festeggia il compleanno di Sette Zucche!

Se con questo ho stimolato un po’ la vostra curiosità, con un muffin tiepido in mano e una tazza di the nell’altra, andate a dare un’occhiata qui http://paroleinzucca.com

Qui vi troverete chi sono le meravigliose Sette zucche, perché si chiamano così e in che cosa consiste il loro viaggio.

 

 

INGREDIENTI per 12 muffin:

130 gr. di zucca già cotta e frullata

300 gr. di farina 00

200 gr. di zucchero di canna

2 uova

50 gr. di olio di semi

1 bustina di lievito

1 cucchiaio di cannella

 

per la decorazione:

granella di zucchero e cannella

 

 

PROCEDIMENTO:

In una ciotola mettete tutti gli ingredienti in polvere, in un’altra sbattete insieme la zucca con le uova e l’olio dopodichè aggiungeteli , mescolando bene, alle farine.

Riempite per ¾ dei pirottini inseriti nell’apposita teglia per muffin, cospargete con un pizzico di cannella e la granella di zucchero.

Infornate a 180° forno statico per circa 15-20 minuti.

 

Appena cotti cercate di pazientare finchè saranno tiepidi, sarà arduo!!!!

 

Tempi di conservazione: 2-3 gg in un contenitore con coperchio.

 




TORTELLINI di Valentina Pucillo

Tortellini

di Valentina Pucillo

tratto da Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

“Quest’anno quanti ne facciamo? L’anno scorso erano davvero pochi” disse Maura con un sorrisetto ingolosito sul viso.
“Io ne ho calcolati una cinquantina per persona: per un piatto abbondante ne servono circa trenta, e con cinquanta viene fuori anche il bis per tutti” rispose zia Claudia mentre spargeva la farina sulla spianatoia. “Anche perché, a parte questi in brodo, il lesso e le verdure, io e Antonia abbiamo deciso di non preparare altro. Ci sono anche tutti i dolci. Altrimenti poi finisce che mangiamo troppo come tutti gli anni” continuò, prendendo l’impasto della sfoglia e iniziando a stenderlo col mattarello.

“È sufficiente il ripieno? Mi sembra poco, considerando che domani ci saranno anche altri ospiti. Dovremmo farne almeno 700” disse preoccupata nonna Mimì, che temeva sempre che il cibo non fosse sufficiente.
Il grande tavolo del tinello era allestito per l’occasione. Una tovaglia incerata era stesa su tutta la superficie per evitare che il legno scuro si rovinasse. Sopra c’erano la spianatoia, il recipiente contenente il ripieno profumato di mortadella e noce moscata, e svariati vassoi coperti da strofinacci candidi, incastrati con i bordi l’uno sull’altro, pronti ad accogliere le file ordinate di tortellini che tutta la famiglia, come ogni anno nel pomeriggio della vigilia di Natale, stava preparando per il pranzo del giorno dopo.

“Sòrbole, Claudia, tirala più sottile quella sfoglia, eh! Mario, mescola mo’ quel ripieno che lo vedo un po’ grumoso”: come ogni anno, forte delle sue origini emiliane, zio Paolo dispensava consigli e perle di saggezza a destra e a manca con il suo marcato accento bolognese.
La ripartizione dei compiti era più o meno sempre la stessa. Zia Claudia, avendo acquisito dal marito quel tanto di bolognesità che bastava, preparava e stendeva la sfoglia quasi come una perfetta sfoglina e tagliava i quadrelli di pasta delle giuste dimensioni; “Piccolini! Il vero tortellino deve essere grande come una moneta da venti centesimi!” continuava a ripetere zio Paolo fino allo sfinimento; Antonia, la sorella, insieme ai figli Maura e Valentino, era addetta alla preparazione del ripieno, a porzionarne la giusta quantità nei quadrati di pasta e a chiudere questi ultimi su sé stessi per formare i triangoli; zio Paolo e il cognato Mario, i due ‘precisi’ della famiglia, avevano il compito di sigillare i triangoli bagnando leggermente i bordi e di dar loro la tipica forma del tortellino ripiegandoli attorno al dito. Il tutto era supervisionato da nonna Mimì che, forte dell’immunità ai rimproveri datale dai suoi ottant’anni, danzava da una postazione all’altra, metteva le mani ovunque e pasticciava senza che nessuno avesse il coraggio di dirle nulla.

La famiglia Brambilla era molto unita; tuttavia, per qualche scherzo del destino, ognuno dei componenti aveva scelto di stabilirsi in posti piuttosto lontani l’uno dall’altro. Non erano quindi molte le occasioni in cui la famiglia Brambilla riusciva a riunirsi. Per questo il Natale tutti insieme nella casa dei nonni, con annesso il rito di preparazione dei tortellini, era un appuntamento che nessuno aveva mai messo in discussione. Intorno a quel tavolo del tinello si creava sempre un’atmosfera armoniosa. Claudia, che con movimenti sicuri preparava la pasta da riempire, ciarlava allegramente con Antonia e Mimì di parenti, storie del paese e ricette. I bisticci tra Valentino e Maura sui reciproci stili di vita sembravano quasi addolcirsi grazie all’odore denso del brodo di cappone che, sobbollendo in cucina per ore, li accompagnava durante tutta la preparazione dei tortellini.

Anche i due cognati, che normalmente non facevano che stuzzicarsi, in quell’occasione sotterravano l’ascia di guerra, concentratissimi sulle operazioni di chiusura della pasta; uno sguardo attento avrebbe comunque percepito una sorta di sfida silenziosa su chi dei due riuscisse a formare il maggior numero di tortellini chiusi a regola d’arte. A rallegrare la laboriosa famiglia c’era la sempre presente televisione che strepitava a tutto volume, spesso sintonizzata da nonno Giulio su affascinanti programmi di interesse generale quali, ad esempio, documentari sugli gnu.

Quel pomeriggio nonno Giulio era di umore variabile. Dopo aver imposto a tutti una mezz’ora di televendite di utensili da cucina di discutibile utilità, aveva di botto abbassato il volume della televisione e si era accomodato intorno al tavolo con gli altri, osservando la scena con espressione arcigna. Sembrava interessato a studiare la preparazione della sua portata preferita del pranzo di Natale. Aveva scelto una sedia a capotavola in posizione strategica, proprio davanti ai vassoi che iniziavano a riempirsi di tortellini; non appena gli altri si distraevano, il buon vecchio Giulio ne rubava qualcuno con movimenti fulminei e lo ingoiava crudo con colpevole voluttà.

Tutti lavoravano in silenzio, concentrati, essendo generalmente difficile chiacchierare a causa del baccano della televisione.
“Ma che silenzio stasera! Perché non mettiamo un po’ di musica?” chiese Maura rendendosi conto che il rimbombo della televendita era cessato.

“Sì, dai, passami lo zaino, ho un cd di etno marocchina che mi ha regalato Karima” ribatté subito Valentino, sempre voglioso di condividere le sue passioni con chiunque gli capitasse sotto tiro.
“Veramente pensavo a qualcosa di allegro, magari canzoni che conosciamo tutti e che possiamo canticchiare insieme” replicò seccata Maura, fulminando il fratello con lo sguardo. “Allora dovremmo cantare Nilla Pizzi, se teniamo conto dell’età di qualcuno intorno a questo tavolo, oppure tormentoni estivi idioti, se teniamo invece conto della cultura musicale di qualcun altro sempre intorno a questo tavolo” rispose Valentino, sostenendo ironico lo sguardo della sorella.

La discussione venne subito zittita da zio Paolo che, con un veloce click, fece partire uno dei suoi pezzi preferiti di musica classica, un requiem di Mozart.
“Allegro si era detto, eh? Qua mi pare il festival delle melodie d’oltretomba” mugugnò Mario guardando il cognato di sottecchi.

“E piantala di essere sempre polemico, diamine!” ribatté Antonia dando una gomitata al marito, cercando di capire se la sua lamentela fosse stata sentita da Paolo e Claudia.
Nonno Giulio ascoltava impassibile ma divertito i vari battibecchi; sentendosi piuttosto invisibile afferrava, ormai spudoratamente, un tortellino dopo l’altro e se li infilava meccanicamente in bocca. I suoi movimenti, per quanto scaltri, vennero tuttavia intercettati dall’occhio di falco di Mimì.

“Giulio! Ma tu guarda che disgraziato, questi sono per domani! Quanti ne hai mangiati già?” inveì nonna Mimì contro il marito, mettendosi le mani tra i capelli con fare angosciato. “Non hai nemmeno preso la pasticca! Adesso basta, tornatene a guardare la televisione!”
Non gradendo che l’attenzione di tutti fosse ormai su di lui, e ritenendosi probabilmente soddisfatto della scorpacciata, nonno Giulio assunse un’espressione di infastidita dignità e si accinse ad alzarsi dalla sedia per tornare alla poltrona davanti alla televisione. Per aiutarsi appoggiò con una certa foga entrambe le mani sul bordo del tavolo, che coincideva con il bordo di uno dei vassoi ormai stracolmi di tortellini. Ci fu un effetto domino al contrario: volo di vassoi, pioggia di tortellini che rotolarono ovunque, sotto il tavolo, sul pavimento impolverato, sotto i mobili. Intorno alla tavolata, tutti ammutoliti. Nel caos generale restarono sul tavolo solo tre tortellini, nascosti sotto uno strofinaccio. Nonno Giulio, ormai in piedi, li intercettò prontamente e li mangiò prima di tornare alla sua poltrona.




ARRIVEDERCI E GRAZIE di Laura Avati

ARRIVEDERCI E GRAZIE

di Laura Avati

tratto dalla raccolta Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

Era una delle prime giornate calde dell’estate e nella cucina del ristorante si iniziava a sudare. Anche in sala faceva molto caldo, e infatti avevamo deciso di indossare le nuove divise estive.

A me andava decisamente stretta: il camice mi strizzava come una camicia di forza. Non mi sentivo a mio agio: mi specchiavo continuamente nel vetro del frigo dei gelati, cercando di capire come fare per non far notare i chili di troppo.

I clienti cominciavano ad arrivare:

“Buongiorno signor Marcello”.

“Buongiorno Laura, inizia a fare caldo” disse asciugandosi la fronte con il fazzoletto di stoffa.

“Eh sì, è arrivata l’estate e purtroppo non possiamo accendere l’aria condizionata”.

“Come mai?”

“Dobbiamo fare la sanificazione dei filtri. Il tecnico viene domani”.

“Ah va bene, per oggi sopportiamo il caldo”.

Il signor Marcello era uno dei nostri primi clienti e tutti i giorni, da trenta anni più o meno, veniva a mangiare da noi: ero molto affezionata a lui.

“Che belle le nuove divise!” disse il signor Marcello.

“Ha visto che bei colori?” risposi, senza alzare lo sguardo dalla calcolatrice e cercando di allentare un po’ il camice, tirandolo da una parte e dall’altra.

“Sì, sono molto belle e mettono tanta allegria”.

“Grazie, lei è sempre tanto gentile. Buon pranzo, signor Marcello, e a domani”.

“Grazie e buon lavoro a te”.

I clienti scorrevano con i loro vassoi pieni di piatti stracolmi. Non avevo pranzato, lo stomaco mi brontolava, avevo una fame assurda e tanto caldo. Alzai lo sguardo, in fila c’era Paolo, il cliente per me più affascinante. Tiravo il camice verso il basso illudendomi di coprire le mie rotondità. Gli preparai la sua solita acqua liscia fredda e la macedonia.

“Ciao Paolo, buon pranzo” mi affrettai a dirgli, facendo in modo che non si fermasse più di tanto davanti a me, tanto lui pagava a fine mese.

“Grazie Laura”, e se ne andò a tavola, strizzando l’occhio e sorridendomi.

Forse è soltanto una mia fissazione, forse non si nota poi così tanto, pensavo, continuando a fare i conti e a tirare il camice. Ecco Nella, sempre sorridente, con una longuette gessata che la avvolgeva in tutta la sua magrezza. E guarda quanto mangia! Beata lei, pensavo mentre le facevo il conto.

“Mi daresti una porzione di tiramisù alle fragole?” chiese Nella.

“Certo” le risposi porgendole il dolce.

“L’hai fatto tu, vero?”

“Sì sì” risposi con l’acquolina in bocca.

Lei si può permettere anche il dolce, pensai.

“Buon pranzo, Nella” le augurai con tutta l’invidia possibile.

“Buongiorno Cinzia, mangi solo l’insalata o aspetti altro dalla cucina?”

“No, mangio solo questo, con questo caldo mi si chiude lo stomaco e non riesco a mangiare”.

“Capisco, buon pranzo”.

No, non capisco invece. Possibile che solo a me l’appetito non manca mai?

I clienti in fila erano ancora tanti.

“Buongiorno signor Giovanni”.

“Ecco la nostra signora Laura. Come sei bella con questa divisa bianca e rossa!” disse, con quell’accento siciliano che rafforzava la erre e che mi piaceva tanto.

“Grazie Giovanni, è sempre tanto gentile. Lo prende il caffè, o anche oggi è nervoso?”

“Oggi lo prendo, ma tu sai come”.

“Come al solito, ristretto e schiumato. Buon pranzo” gli dissi dandogli il resto.

Mi ero un po’ rilassata; nessuno si era accorto del camice stretto e ormai anche sudato.

“Buongiorno Marco, scommetto che aspetti il petto di pollo alla griglia”.

“Ciao Laura, lo so che sono monotono, ma io adoro il vostro petto di pollo alla griglia”.

“Sì, ma non so come fai a mangiarlo tutti i giorni, prima o poi ti cresceranno le piume”.

“Me lo dice sempre anche mia moglie” disse ridendo di gusto.

“Ecco la tua acqua liscia a temperatura ambiente, e buon pranzo”.

Mi divertivo a scherzare con i clienti abituali. Con molti di loro si era creata una bella amicizia, tanto che spesso andavamo a cena insieme e con alcuni anche in vacanza.

“Ciao Emilio, metto un po’ di peperoncino sulla pasta, come piace a te?”

“Tu mi vizi, poi mia moglie è gelosa”.

“Maria non è gelosa di me, lo sai”.

“Ecco a te anche il tuo mezzo litro di vino bianco. Buon pranzo”.

“Grazie, e buon lavoro”.

Il servizio era quasi finito. Avevo iniziato a fare le registrazioni di fine giornata quando entrò un cliente. L’ultimo è sempre quello un po’ malvisto, ma questo era un cliente che non vedevo da tanto tempo. Mi faceva sempre piacere rivedere i vecchi clienti.

“Buongiorno, bentornato” gli dissi appena arrivò in cassa.

“Grazie”.

“Cosa le preparo da bere?”

“Un quartino di vino bianco frizzante e acqua gassata”.

“È tanto tempo che non ci viene a trovare!”

“Eh sì, sto lavorando a Roma e non sono più capitato da queste parti”.

“Basta che si sta bene e si lavori. Vuole altro?

“Sì, un caffè e una grappa”.

“Ok. Sono 15 euro, grazie”.

“Ti trovo ingrassata”.

Alzai lo sguardo dal registratore di cassa e fissai per qualche secondo quel cliente. Brutto ciccione che non sei altro, ma ti sei guardato, con quella pancia che a stento sta in quella camicia sudicia e con quei capelli ridicoli e unti?, gli avrei voluto rispondere. Ora, non è che io con questo cliente avessi mai avuto confidenza o amicizia; non era un cliente assiduo, e con lui avevo sempre scambiato battute convenevoli e di circostanza, niente di più. Come ti permetti, tu che non sai neanche il mio nome! Feci un respiro profondo e cercai di recuperare quel poco di autocontrollo che mi era rimasto: era pur sempre un cliente, e non potevo rispondergli male.

Stizzita, mi avvicinai come per fargli una confidenza e quasi sussurrando gli risposi:“Sa, ho una malattia abbastanza grave, sto facendo una cura di farmaci molto aggressiva e prendo anche molto cortisone. Questo è tutto gonfiore” gli dissi pizzicandomi il bicipite.

Lui, imbarazzato e forse anche dispiaciuto per la mia salute, balbettando disse: “Ah, mi dispiace, spero che vada tutto bene”.

Immagino quanto ti dispiace, brutto insolente! “Lo spero anch’io” gli risposi garbatamente e sfoderando uno dei miei migliori sorrisi.

Lui prese il resto, il vassoio e andò a tavola. Lo guardavo allontanarsi un po’ claudicante, soddisfatta della menzogna appena raccontata.

Più di una volta incrociai il suo sguardo compassionevole mentre mangiava, ma ero troppo contenta della mia piccola vendetta e poco mi importava se lui fosse preoccupato per me.

“Alla prossima, e spero di avere buone notizie” mi disse il ciccione andandosene.

“Arrivederci e grazie”.




COSA HAI COMBINATO IN MIA ASSENZA? di Laura Avati

Cosa hai combinato in mia assenza?

di Laura Avati

tratto da Voci Nuove

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

“Non so se ho fatto bene ad accettare l’invito di Luca, non vorrei dargli false speranze, ma di certo non potevo perdere questa occasione” pensava Eleonora, come al solito in ritardo, camminando di fretta sui tacchi a spillo, che sui sampietrini la facevano sembrare ubriaca. Aveva impostato l’indirizzo sul cellulare per evitare di girare a vuoto. “Il civico è questo” pensò, ed entrò esitante in un piccolo locale desolato, a metà tra un negozio di cianfrusaglie cinesi e un kebab. “Lo sapevo, si è vendicato quello stronzo” disse a denti stretti Eleonora. Era disorientata, il forte odore di spezie le dava la nausea mentre un paio di indiani stavano friggendo delle verdure. Nel vederla suonarono un campanello.

Da quella che sembrava una cella frigorifera uscì un uomo talmente inamidato che le sembrò di avere di fronte Lloyd, il barista fantasma di Shining. “Posso aiutarla, signorina?” disse con voce cavernosa. “Avevo un appuntamento con un mio amico, ma credo di aver sbagliato indirizzo” rispose e sorrise, imbarazzata, Eleonora. Si avviò verso l’uscita.

“O forse no, si accomodi signorina Eleonora” rispose l’ipotetico Lloyd, spostandosi dalla porta e facendole segno di entrare.
Eleonora si ritrovò in un ripostiglio pieno di scope, stracci, detersivi e secchi ammucchiati. “Ma dove diavolo sono capitata? E come fa a sapere il mio nome?” si chiedeva, impaurita e un po’ preoccupata, mentre Lloyd apriva una seconda porta e ad Eleonora sembrò di aver varcato le porte di Narnia. Una cappa di fumo di sigarette e sigari rendeva l’atmosfera ancora più misteriosa, ma il locale era davvero particolare ed affascinante come le avevano raccontato le sue amiche. Sulla destra, un tavolo con una macchina da cucire Singer anni Cinquanta fungeva da tavolino per una coppia di giovani, e la debole fiamma di una candela illuminava un angolo in fondo alla stanza, facendo risaltare una carta da parati con disegni geometrici in rilievo di velluto nero; al centro della sala c’era un pianoforte a coda e un’affascinante ragazza bionda che suonava musica jazz.

Sdraiato su una chaise lounge in fondo al locale, Luca sorseggiava il suo drink; appena vide Eleonora le andò incontro. “Ormai pensavo non venissi più” le disse, dandole un bacio sulla guancia.
Un cameriere con straccali, coppola scozzese e baffi rigirati all’insù li fece accomodare su vecchie poltrone in legno di un cinema, in una zona riservata del locale. Eleonora si sentiva a disagio perché era finalmente riuscita ad entrare al Jerry Thomas, lo speakeasy più famoso di Milano, dove solo su invito di altri tesserati potevi accedere. Stavolta aveva dovuto accettare l’invito di Luca, che più volte aveva declinato sempre con scuse più o meno credibili: quell’uomo non le piaceva molto, era sempre molto misterioso e sulle sue.

Eleonora era nervosa, ma decise di godersi la serata e chiese la carta dei cocktail: era su carta riciclata e usurata, il che le dava un’aria antica, vissuta. Pensò a quante mani l’avevano sfogliata prima di lei; abbozzò un sorriso e sulle guance le si formarono le due fossette che piacevano tanto a Luca.

“Questo posto è fantastico, meglio di come lo immaginavo, a parte l’entrata enigmatica…” disse Eleonora, e aggiunse: “Un po’ mi ero spaventata, ad essere sincera”.
“Sì, è vero, ma mai giudicare dalle apparenze!” rispose Luca.

“Anche tu mi hai sorpresa, stasera: non hai il doppiopetto!” disse Eleonora osservando Luca, che indossava jeans attillati, camicia bianca, giacca di lino azzurra e una pashmina blu al collo che faceva risaltare ancora di più i suoi occhi verdi.
“Non sono in servizio”.

“Mi puoi consigliare qualcosa, visto che qui sembri di casa?”
“Io non bevo cocktail, non mi piace il miscuglio di sapori, preferisco il whisky. Questo giapponese è fantastico, il mio preferito” rispose Luca, mandando giù un altro sorso.
Dopo aver letto tutti i cocktail disponibili e i loro ingredienti, Eleonora decise per un “Improved Aviation”, un cocktail a base di gin e liquore alle viole.

Per una ventina di secondi ci fu un silenzio pesante e imbarazzante, poi per fortuna Lloyd le portò il suo cocktail, servito in una coppa di cristallo con dentro una viola e una scorza di limone.
“Grazie” disse Luca al cameriere, dandogli una pacca sulla spalla. Eleonora ebbe l’impressione che fossero vecchi amici.

“Allora, Luca, raccontami qualcosa. In fin dei conti, si può dire che non so niente di te”.

“Non c’è molto da dire su di me, ho avuto una vita abbastanza normale” rispose Luca. “La cosa più interessante che mi è capitata è stata trasferirmi a Milano e iniziare a lavorare alla New Pack”.
“Cosa ti ha spinto a trasferirti?”

Luca si irrigidì e, dopo averci pensato un po’ su, disse: “Discutevo sempre con mio padre, il mio piccolo paese mi stava stretto”.
Eleonora gli confessò di aver avuto una sola storia importante, con un uomo più grande di lei, finita molto male perché aveva scoperto che era sposato e con dei figli. Luca le confessò cinicamente di essere stato fidanzato più volte, niente di serio, e che non aveva mai sofferto per una donna. Continuarono a chiacchierare e a raccontarsi, finché Lloyd si avvicinò e li avvisò con gentilezza che a breve avrebbero chiuso.

“È stata proprio una bella serata, grazie per avermi invitata” disse Eleonora salutando Luca all’uscita del locale.
“Grazie a te per aver finalmente accettato il mio invito, cominciavo a pensare di non aver nessuna chance” rispose lui.

“Vorrei sdebitarmi con te, magari invitandoti a cena. Che ne dici?” disse Eleonora. “Solo se cucini tu” rispose Luca.
“Ok, ci sto. Ci vediamo in ufficio, buonanotte e grazie ancora” disse, e si allontanò soddisfatta.

Per un po’ di giorni, in ufficio Luca ed Eleonora non si incontrarono: lui era in trasferta all’estero, tuttavia si spedirono qualche e-mail. Quando Luca le fece sapere che era di nuovo a Milano, Eleonora lo invitò a cena da lei. Lui accettò e lei iniziò subito a pensare al menù: voleva stupire Luca con una delle sue ricette speciali, ma non sapeva i suoi gusti e la cosa le metteva ansia. Decise per un filetto di maiale in crosta con mele e prugne, la ricetta che meglio le era riuscita al corso di cucina per single, per cui lo chef le aveva fatto i complimenti.

Luca arrivò puntuale. Entrando rimase sorpreso dal calore e dall’atmosfera che si respirava in quella casa. Notò subito la particolarità del lampadario: era una ruota di bicicletta fissata al soffitto dalla forcella, con le lampadine inserite nel tubolare. “Metti qui il giacchetto” disse Eleonora, indicando l’appendiabiti ricavato da rami inseriti in una cornice incollata al muro.

“Ti ha aiutata un architetto ad arredare casa?”
“No, sono tutte mie creazioni: amo il bricolage e i materiali di recupero. Credo che questi siano per me!” disse Eleonora, prendendo dalle mani di Luca un mazzo di fiori e una bottiglia di vino.
“Sì, scusami, ero stato distratto dalle tue opere d’arte” rispose Luca, adesso rapito da un’altalena attaccata al soffitto il cui seggiolino era stato ricavato da una mezza botte. “Mettiti pure comodo sul divano, dieci minuti e la cena è pronta”.
Anche il divano era una chicca: un assemblaggio armonioso di pallets e comodissimi cuscini beige a righe marroni. Luca, vergognandosi, non poté fare a meno di fare i confronti con il suo divano, ricoperto di cartoni di pizza, lattine di coca-cola e vaschette del take-away.
“Hai davvero talento e buon gusto, Eleonora, credo che ti ingaggerò per sistemare la mia topaia” disse Luca sorridendo, mentre la padrona di casa arrivava dalla cucina con due calici di vino bianco.
“La cena è pronta, ci possiamo mettere a tavola” disse Eleonora, che era un po’ in ansia. Aggiunse: “Ho preparato il mio cavallo di battaglia, spero ti piaccia”.
Il cavallo di battaglia era impiattato molto bene e aveva un profumo davvero invitante. Altro che quei piatti della rosticceria! pensò Luca mentre mangiava lentamente per assaporare al meglio il suo filetto.
“Non solo sei una bravissima arredatrice, sei anche un’ottima cuoca” le disse. “Grazie, sono contenta che ti sia piaciuto. E invece qual è la tua specialità?”

“Il pollo arrosto con le patate del fast food sotto casa, sono bravissimo a comprarlo e a mangiarlo” rispose Luca, guardando Eleonora che rideva. “Per non parlare della pizza e del sushi consegnato direttamente a casa” continuò Luca, “credo di aver acceso il gas di casa solo per fare il caffè”.

“Non ci credo” disse Eleonora, ridendo di gusto.
“Sediamoci sul divano, così finiamo il vino e stiamo più comodi” disse lei sprofondando nei cuscini.
Come delle vecchie pettegole, avevano parlato molto durante la cena, soprattutto di lavoro e dei colleghi, e l’avevano fatto senza risparmiare nessuno!
Eleonora a un certo poggiò ingenuamente una mano sulla gamba di Luca. Inaspettatamente lui si alzò e disse che si era fatto tardi, doveva andare via perché l’indomani aveva una trasferta a Milano. I saluti, frettolosi e freddi, lasciarono Eleonora perplessa.
La trasferta di Luca fu più lunga del previsto e, dopo qualche settimana, Eleonora seppe che si era licenziato dalla New Pack, senza dare il preavviso e senza nessuna spiegazione, lasciando tutti i colleghi molto sorpresi. Lei aveva provato a contattarlo, ma non c’era stato modo: sembrava sparito nel nulla.

“Questo posto è sempre bello ed enigmatico; sono anni che lo frequento e ogni volta noto un nuovo particolare che mi colpisce” disse Eleonora ai suoi amici, osservando una lampada ricavata da una bottiglia di rum e sorseggiando uno dei suoi drink preferiti del Jerry Thomas. Una donna al bancone del bar la stava fissando già da un po’: Eleonora non la conosceva, ma in lei aveva qualcosa di familiare e non riusciva a capire se e dove l’avesse vista prima. Seduta su una poltrona da barbiere con i cuscini un po’ rigidi, Eleonora non riusciva a stare ferma, si muoveva nervosamente, ma la scomodità della poltrona non era l’unico motivo della sua inquietudine: quella donna la turbava. Chiese a Lloyd se la conoscesse, lui rispose: “È una vecchia cliente”. Eleonora prese il suo boulevardier e si avvicinò al bancone del bar. “Ci conosciamo?” chiese alla donna misteriosa. Notò che da vicino era ancora più bella, aveva gli occhi verdi e penetranti.

“Ciao Eleonora” rispose la donna. “Sì, ci conosciamo. Sono… anzi, ero Luca” rispose la donna tutto d’un fiato.
Eleonora sgranò gli occhi, non riusciva a parlare. Bevve un sorso del suo drink sperando che la aiutasse. “Luca?” disse, incredula.

“Sì…”
“Forse è il caso di parlare un po’, ma non qui e non stasera” disse Eleonora, continuando a fissare il suo amico e non credendo ai suoi occhi.
“Mi potresti preparare un’altra cenetta, magari, e ti prometto che questa volta non scapperò” rispose Luca.
“Ok, domani sera, l’indirizzo lo conosci”.

L’indomani, Eleonora cucinava nervosamente e stavolta non per paura che le sue pietanze potessero non piacere, ma perché non le era mai capitata una situazione del genere e non sapeva come comportarsi.
Eleonora accolse il suo ospite con un sorriso imbarazzato.

“Ciao, chiamami Arianna” disse il suo ex collega.
Eleonora non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: il suo viso, che già da uomo aveva dei lineamenti dolci, adesso le sembrava ancora più bello. Indossava un tailleur rosso fragola con pantaloni che facevano risaltare le gambe lunghe e armoniose, e poi scarpe con tacco non esagerato; gli occhi verdi, sempre bellissimi, erano messi in risalto da una matita blu e dal mascara, e un filo di rossetto evidenziava le labbra sicuramente rifatte: Arianna era bellissima. Eleonora si guardò di sfuggita allo specchio e si sentì, in confronto, la brutta copia di Cenerentola.
Iniziarono a cenare, “Mi sono sempre sentita uno, nessuno, centomila…” fece Arianna.
“Perché non me ne hai parlato?” chiese Eleonora.
“Volevo farlo quella sera a cena, ma quando hai poggiato la tua mano sulla mia gamba…”
Eleonora si sentì mortificata e si scusò. Prese la mano di Arianna, che stavolta non reagì allontanandola, e restarono in silenzio.

“Non mi dici niente?” chiese Arianna.
“Sì, ti dico che ho bisogno di bere qualcosa di forte” disse Eleonora, capendo che non era certo il momento di fare domande. “Ti va un whisky?” le chiese.
“Sì, grazie, anche se non avrai il mio preferito” disse Arianna, sorridendo e lasciando andare la mano di Eleonora.
“Ho sempre pensato che in te c’era qualcosa di diverso: eri più sensibile rispetto agli altri uomini che avevo conosciuto, più attento ai particolari, gentile…” disse Eleonora, mentre serviva da bere alla sua ospite.
“Cosa hai combinato in mia assenza?” chiese Arianna.
“Vediamo un po’: ho costruito altri pezzi d’arredamento, ho cambiato la macchina e mi sono fidanzata con un uomo di cui sono molto innamorata e che tu devi assolutamente conoscere” rispose Eleonora.
“Questa sì che è una bella notizia!” esclamò Arianna. “Da quanto tempo state insieme?”
“Da quasi tre anni. Si chiama Teodoro, e credo proprio che sia quello giusto! Aspetto solo l’anello e la proposta di matrimonio”.
Chiacchierarono a lungo prima di salutarsi e darsi appuntamento al Jerry Thomas per il venerdì successivo.
Eleonora decise di fare una sorpresa ad Arianna: le voleva far conoscere Teodoro, era sicura che si sarebbero piaciuti.

Arianna era seduta al bancone del bar a chiacchierare con Lloyd. Quest’ultimo, appena vide Eleonora, fece un gesto con la testa alla sua vecchia cliente per indicarle che era arrivata la sua amica. Arianna si girò e, come se avesse visto un fantasma, iniziò a sudare freddo.

“Ciao cara, ti presento il mio Teodoro” disse Eleonora facendo le presentazioni. “Piacere, Arianna” rispose lei, con lo sguardo basso.
Arianna voleva fuggire da quella situazione imbarazzante: Teodoro era stato un suo cliente quando era già fidanzato con Eleonora e, soprattutto, questo era accaduto prima dell’operazione. Teodoro guardò per tutta la serata Arianna insistentemente: c’era qualcosa in quella donna che lo indisponeva, ma non riusciva a capire cosa né perché. La serata non fu certo un successo.

“Che ne dici di Arianna?” chiese Eleonora al suo fidanzato mentre, abbracciati, tornavano a casa.
“Simpatica, ma un po’ scontrosa” rispose lui.
“Sì, stasera era un po’ strana in effetti”.

Arianna era seduta ancora al bar. Chiese un whisky doppio e, torturandosi nervosamente le mani, pensava a cosa avrebbe pensato di lei Eleonora se avesse saputo. Prima dell’operazione aveva fatto di tutto per potersi mantenere. Aveva dovuto lasciare il lavoro, le cure e i trattamenti erano costosi, e quel poco che aveva messo da parte era finito presto. Doveva dirglielo? Eleonora avrebbe accettato e capito? Sarebbero rimaste amiche? Del resto, lei che colpa aveva…

Teodoro, nel frattempo, non riusciva a dimenticare gli occhi di Arianna e aveva cominciato a far caso ad alcune coincidenze. Cominciò a sudare. Decise di tornare al Jerry Thomas, nella speranza di trovare ancora Arianna e chiarire il suo sospetto: su, non poteva essere Luca, era molto tempo che non riusciva più a contattarlo; inoltre, alcuni suoi amici gli avevano detto che era sparito.

Arrivò all’entrata ma, non essendo socio del locale, i ragazzi indiani in cucina non lo facevano entrare. Teodoro cominciò ad innervosirsi, poi passò ad insultare i due ragazzi. Ad un tratto, Arianna uscì da quella che sembrava la porta di una cella frigorifera. Vedendo Teodoro in quelle condizioni, si spaventò.

“Adesso mi dici chi sei!” urlò Teodoro, che si era lanciato contro Arianna come per aggredirla. I due ragazzi indiani cercarono di fermarlo, ma non riuscivano a staccarlo da Arianna.
“Si può sapere cosa vuoi da me?” fece lei.

“Solo sapere chi sei: sei Luca, vero?”
“Sì, ero Luca…”
“Sei tornato per rovinarmi la vita! Vero, brutta puttana?”

In quel momento uno dei due ragazzi indiani colpì con un bastone la testa di Teodoro, che si accasciò a terra. Arianna riuscì a scappare e a prendere un taxi, arrivò a casa che ancora tremava per la paura e per la rabbia.
Il telefono svegliò Eleonora in piena notte. “Pronto?” rispose lei con un filo di voce. “Eleonora, sono Arianna. Ti devo parlare. Sei sola?”

“Sì. Che succede? Ti senti male?” chiese Eleonora, che intanto s’era messa a sedere sul letto.
“Più o meno. Posso venire a casa tua?”
“Sì, certo. Ti aspetto”.

“Cosa hai fatto? Cosa sono quei segni sul collo?” chiese Eleonora ad Arianna appena la vide.
“Non so da dove cominciare, Eleonora. È stato… Teodoro, mi ha aspettata all’uscita del Jerry Thomas e mi ha aggredita”.

“Non ti credo, è impossibile!” fece Eleonora, a cui venne da piangere. Prese a camminare nervosamente avanti e indietro.
“Forse non lo conosci bene neanche tu” disse Arianna.
“Teodoro mi ama, e io amo lui. Non ti permetterò di parlare male di lui”.

“Ho fatto male a venire qui. Chiedi al tuo caro Teodoro la verità e poi decidi tu stessa a chi credere” disse Arianna prima di andarsene. Eleonora era spaventata. Provò a chiamare Tedoro, ma il telefono era spento, probabilmente già dormiva. Riprovò varie volte, ma fu inutile. Si rimise a letto, tuttavia non riuscì più ad addormentarsi. La mattina successiva, Eleonora fece una doccia fredda e bevve un caffè forte prima di uscire per andare a lavorare. Accese come sempre la radio della macchina, già sintonizzata sulla sua stazione preferita. Una notizia data al giornale radio le provocò uno spasmo: una donna era stata mortalmente aggredita nel parco vicino a casa sua; grazie alle telecamere di sorveglianza, l’aggressore era stato riconosciuto e arrestato. Non avevano dato le generalità della vittima e neanche dell’aggressore. Eleonora, inebetita, provò a chiamare per l’ennesima volta Teodoro, ma il cellulare era ancora spento. Provò a chiamare Arianna, ma il telefono squillò a vuoto più e più volte.

Foto di Edar/85 images da Pixabay.jpg




RUGGINE e RICORDI di Ninni Caraglia

Ruggine e ricordi

di Ninni Caraglia

tratto dall’antologia Voci Nuove

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

 

All’età di nove anni, Tord era già bravo a pescare salmoni. Andavano al fiume maschi e femmine, famiglie e anziani. A luglio gli “anadromi” pesci cominciavano la loro corsa all’indietro per andare incontro all’amore e nella foga era facile prenderli mentre saltavano tra le piccole onde del fiume.

A quel tempo saper pescare voleva dire vivere: salmoni, trote e gamberetti nutrivano tutta la comunità del villaggio di Grodas, una manciata di case rosse e bianche posate delicatamente lungo il fiume Horndola , la parte più a est del profondo lago Hornidal,vanto della Norvegia.

Incredibile come un pesce viscido, guizzante e scivoloso sapesse invece far passare anni e momenti di vita passando di mano in mano tra le persone del villaggio.

Marit aveva sette anni quando cominciò ad andare al fiume con gli altri.

Maschi e femmine seguivano i loro padri e ognuno aveva il suo compito: i maschi pescavano, le femmine rimanevano più vicine alla riva del fiume. Se il pesce sfuggiva alla presa potevano essere fortunate a riprenderlo ma principalmente guardavano se tra i sassi del greto si nascondevano gamberetti.

Quando le gambe cominciavano ad arrossarsi per l’acqua gelida, uscivano dal fiume e si davano il cambio; cominciavano allora a giocare tutti insieme tirando piccoli sassi in acqua e cercando il legno bianco più bello, più particolare e dalla forma unica.

Proprio i più piccoli che rimanevano fuori cercavano piccoli rami di betulla, foglie di ontano, rami e aghi di abete che portavano alle madri ed alle nonne. Il fumo di quei ramoscelli bruciati avrebbe reso squisito quel pesce furbo e sfuggente.

Ogni giorno, per un mese o poco più, cercavano di pescare il più possibile; dopo l’affumicatura le carni rosa avrebbero fatto compagnia al flatbrod di segale e alle patate.

Marit era affascinata dalle forme di quei rami: piccoli o lunghi, fini o contorti. Ognuno aveva un nome ed ognuno aveva una precisa collocazione sul bancone del grande capanno. Ricordava ancora che con i sottili ramoscelli di tiglio aveva costruito il suo kling-korg con il quale aveva distribuito pane e dolci al suo matrimonio con Tord.

Erano cresciuti insieme passando stagioni diverse in quel grande capanno.

Quando Tord fu in grado di distillare la sua prima aquavit dalle patate, decise che era pronto il brindisi per le loro nozze.

Impreviste arrivarono le doglie e proprio nel grande capanno, tra gli attrezzi, i pesci ad essiccare e le caldaie per l’aquavit, nacquero i gemelli Gerd e Silje. Era autunno inoltrato ma nel grande capanno le pareti di legno mantenevano il calore del tiepido sole. Anche la copertura in lamiera quel giorno era meno fredda del solito, il calore di quelle nuove vite era arrivato in alto fin lassù.

Il biondo Gerd e la castana Silje trascorsero l’infanzia che tutti dimentichiamo di aver vissuto: innocenti e puri tra natura innocente e pura. L’adolescenza arrivò poi velocemente come tutti i cambiamenti che il villaggio stava subendo: macchine, computer, piccole industrie e traffico.

Gerd e Silje portarono i salmoni nella loro azienda a Flåm, cuore e punto estremo del Sognefjørden, Tord e Marit li aiutavano dal villaggio ma ormai gli anni cominciavano a pesare.

Come da padri si prendono decisioni per i figli, i figli prima o poi prendono decisioni per i padri: Gerd e Silje convinsero i genitori a trasferirsi con loro a Flåm.

Il porto, le barche, i traghetti, le macchine e i containers che cominciavano ad arrivare e partire da tutte le parti del mondo. Marit aiutava i figli con le faccende domestiche, Tord si annoiava. Certo, ormai aveva capito che le patate più buone erano quelle vendute da Bjorn, ma…le comprava, non le piantava e non le cercava sotto terra. Una grigia tristezza lasciò campo libero ad una profonda depressione. Il grigio della tristezza di Tord diventò così intenso che una mattina si svegliò al buio.

Il medico non sapeva spiegare quella improvvisa cecità, consigliò quindi un periodo di vacanza.

Marit con i figli decise di prendere il treno da Flåm e ripercorrere quel bellissimo ripido tratto che di villaggio in villaggio li avrebbe riportati a Grodas.

L’aria tiepida ed i profumi dell’estate scaldarono gli occhi di Tord, adesso vedeva con il cuore e sapeva dove stavano andando.

Finite le vacanze, tutta la famiglia ritornò a Flåm, e a far compagnia a Tord c’erano di nuovo solo le grida dei gabbiani ed i motori delle barche.

Marit fu irremovibile come il silenzio di Tord, loro due sarebbero ritornati a Grodas. La loro casa vicino al grande capanno abbandonato, sarebbe stata sufficiente per le loro esigenze. Il primo piano aveva tutto quello che serviva e avrebbe permesso a Tord di muoversi con facilità.

E poi la casa della loro vecchia amica Greta ed i suoi tre cani era dietro la loro, non sarebbero stati soli.

Marit e Tord ritornarono a fare quello che facevano da bambini, quello che avevano sempre fatto.

Per Marit quella era la casa del matrimonio, quindi tutto era ancora al suo posto, e per Tord divenne tutto più facile quando cominciò a memorizzare quanti scalini doveva scendere per andare nel campo, dopo quanti passi si trovava di fronte all’ingresso maggiore del grande capanno.

Si ricordò che la quarta trave a destra del portone aveva l’occhiatura del legno cava…da li poteva vedere se arrivava qualcuno quando si nascondeva per baciare Marit.

Piano piano tutto ritornò al suo posto, Marit e Greta tolsero erbacce e suppellettili rotte.

Sul grande tavolo di lavoro, mollicci e scuri, giacevano ancora legni vari. Decise di buttare tutto. Cadde qualcosa in terra ma non fece troppo rumore, Marit lo raccolse senza vedere.

Rimase immobile a guardare quella strana pietra porosa e leggera di forma triangolare…nelle sue mani di bambina quella pietra, che ricordava essere di color celeste, sembrava grandissima.

Quante volte lei e sua cugina l’avevano usata per pulire la pelle del salmone! Il coltello sarebbe stato troppo pericoloso, ma con quella pietra potevano anche loro preparare il salmone per la cena come vere donnine.

Ora tutto aveva un perché ed uno scopo, tutto aveva un posto preciso e dedicato. L’affumicatore ad una estremità e le caldaie per l’acquavite all’altra, Tord lo ricordava ancora come se lo vedesse. Tutto continuò a rimanere così fino all’estate seguente quando, insieme ai figli, Marit e Tord fecero una festa per inaugurare il grande vecchio capanno come Museo della Vita di Grodas.

Dopo tutto proprio lì dentro si era svolta la vita di tutti gli abitanti del villaggio, quelli prima di Marit e Tord, Marit e Tord, i loro figli e presto il loro primo nipote.

Ognuno aveva costruito, vissuto, cantato, mangiato, ballato, partorito e pianto lì nel grande capanno abbandonato. Ogni generazione poteva dirsi fondatrice del Museo.

Per quelli che non c’erano più o non potevano vedere,Tord era felice di essere lì a dimostrare che il loro passato era ancora un tangibile presente.

Il grande capanno con quel tetto un po’ sbilenco, nasconde ancora gelosamente tutti i loro giorni: il fumo, l’odore di pesce e di alcol non distorcono i ricordi, anzi, essi sono lì alle pareti come quadri appena appesi.

Mantenerlo così è come avere una vecchia fotografia che anche Tord riesce a vedere.

Il tetto del vecchio capanno non è più lucente ed accecante quando splende il sole d’estate, il tetto è ormai quasi tutto rosso e brunito per la ruggine. Anche il vecchio capanno porta i segni del tempo…il vecchio grande capanno è il tempo: ogni anno che passa tramuta un punto di ruggine in righe sempre più fitte, come fitte diventano le nostre rughe, firme orgogliose che la Vita lascia sul nostro volto.

 

Foto-di-Karolina-Grabowska-da-Pixabay-.jpg




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Tortellini

di Valentina Pucillo

tratto da Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

“Quest’anno quanti ne facciamo? L’anno scorso erano davvero pochi” disse Maura con un sorrisetto ingolosito sul viso.
“Io ne ho calcolati una cinquantina per persona: per un piatto abbondante ne servono circa trenta, e con cinquanta viene fuori anche il bis per tutti” rispose zia Claudia mentre spargeva la farina sulla spianatoia. “Anche perché, a parte questi in brodo, il lesso e le verdure, io e Antonia abbiamo deciso di non preparare altro. Ci sono anche tutti i dolci. Altrimenti poi finisce che mangiamo troppo come tutti gli anni” continuò, prendendo l’impasto della sfoglia e iniziando a stenderlo col mattarello.

“È sufficiente il ripieno? Mi sembra poco, considerando che domani ci saranno anche altri ospiti. Dovremmo farne almeno 700” disse preoccupata nonna Mimì, che temeva sempre che il cibo non fosse sufficiente.
Il grande tavolo del tinello era allestito per l’occasione. Una tovaglia incerata era stesa su tutta la superficie per evitare che il legno scuro si rovinasse. Sopra c’erano la spianatoia, il recipiente contenente il ripieno profumato di mortadella e noce moscata, e svariati vassoi coperti da strofinacci candidi, incastrati con i bordi l’uno sull’altro, pronti ad accogliere le file ordinate di tortellini che tutta la famiglia, come ogni anno nel pomeriggio della vigilia di Natale, stava preparando per il pranzo del giorno dopo.

“Sòrbole, Claudia, tirala più sottile quella sfoglia, eh! Mario, mescola mo’ quel ripieno che lo vedo un po’ grumoso”: come ogni anno, forte delle sue origini emiliane, zio Paolo dispensava consigli e perle di saggezza a destra e a manca con il suo marcato accento bolognese.
La ripartizione dei compiti era più o meno sempre la stessa. Zia Claudia, avendo acquisito dal marito quel tanto di bolognesità che bastava, preparava e stendeva la sfoglia quasi come una perfetta sfoglina e tagliava i quadrelli di pasta delle giuste dimensioni; “Piccolini! Il vero tortellino deve essere grande come una moneta da venti centesimi!” continuava a ripetere zio Paolo fino allo sfinimento; Antonia, la sorella, insieme ai figli Maura e Valentino, era addetta alla preparazione del ripieno, a porzionarne la giusta quantità nei quadrati di pasta e a chiudere questi ultimi su sé stessi per formare i triangoli; zio Paolo e il cognato Mario, i due ‘precisi’ della famiglia, avevano il compito di sigillare i triangoli bagnando leggermente i bordi e di dar loro la tipica forma del tortellino ripiegandoli attorno al dito. Il tutto era supervisionato da nonna Mimì che, forte dell’immunità ai rimproveri datale dai suoi ottant’anni, danzava da una postazione all’altra, metteva le mani ovunque e pasticciava senza che nessuno avesse il coraggio di dirle nulla.

La famiglia Brambilla era molto unita; tuttavia, per qualche scherzo del destino, ognuno dei componenti aveva scelto di stabilirsi in posti piuttosto lontani l’uno dall’altro. Non erano quindi molte le occasioni in cui la famiglia Brambilla riusciva a riunirsi. Per questo il Natale tutti insieme nella casa dei nonni, con annesso il rito di preparazione dei tortellini, era un appuntamento che nessuno aveva mai messo in discussione. Intorno a quel tavolo del tinello si creava sempre un’atmosfera armoniosa. Claudia, che con movimenti sicuri preparava la pasta da riempire, ciarlava allegramente con Antonia e Mimì di parenti, storie del paese e ricette. I bisticci tra Valentino e Maura sui reciproci stili di vita sembravano quasi addolcirsi grazie all’odore denso del brodo di cappone che, sobbollendo in cucina per ore, li accompagnava durante tutta la preparazione dei tortellini.

Anche i due cognati, che normalmente non facevano che stuzzicarsi, in quell’occasione sotterravano l’ascia di guerra, concentratissimi sulle operazioni di chiusura della pasta; uno sguardo attento avrebbe comunque percepito una sorta di sfida silenziosa su chi dei due riuscisse a formare il maggior numero di tortellini chiusi a regola d’arte. A rallegrare la laboriosa famiglia c’era la sempre presente televisione che strepitava a tutto volume, spesso sintonizzata da nonno Giulio su affascinanti programmi di interesse generale quali, ad esempio, documentari sugli gnu.

Quel pomeriggio nonno Giulio era di umore variabile. Dopo aver imposto a tutti una mezz’ora di televendite di utensili da cucina di discutibile utilità, aveva di botto abbassato il volume della televisione e si era accomodato intorno al tavolo con gli altri, osservando la scena con espressione arcigna. Sembrava interessato a studiare la preparazione della sua portata preferita del pranzo di Natale. Aveva scelto una sedia a capotavola in posizione strategica, proprio davanti ai vassoi che iniziavano a riempirsi di tortellini; non appena gli altri si distraevano, il buon vecchio Giulio ne rubava qualcuno con movimenti fulminei e lo ingoiava crudo con colpevole voluttà.

Tutti lavoravano in silenzio, concentrati, essendo generalmente difficile chiacchierare a causa del baccano della televisione.
“Ma che silenzio stasera! Perché non mettiamo un po’ di musica?” chiese Maura rendendosi conto che il rimbombo della televendita era cessato.

“Sì, dai, passami lo zaino, ho un cd di etno marocchina che mi ha regalato Karima” ribatté subito Valentino, sempre voglioso di condividere le sue passioni con chiunque gli capitasse sotto tiro.
“Veramente pensavo a qualcosa di allegro, magari canzoni che conosciamo tutti e che possiamo canticchiare insieme” replicò seccata Maura, fulminando il fratello con lo sguardo. “Allora dovremmo cantare Nilla Pizzi, se teniamo conto dell’età di qualcuno intorno a questo tavolo, oppure tormentoni estivi idioti, se teniamo invece conto della cultura musicale di qualcun altro sempre intorno a questo tavolo” rispose Valentino, sostenendo ironico lo sguardo della sorella.

La discussione venne subito zittita da zio Paolo che, con un veloce click, fece partire uno dei suoi pezzi preferiti di musica classica, un requiem di Mozart.
“Allegro si era detto, eh? Qua mi pare il festival delle melodie d’oltretomba” mugugnò Mario guardando il cognato di sottecchi.

“E piantala di essere sempre polemico, diamine!” ribatté Antonia dando una gomitata al marito, cercando di capire se la sua lamentela fosse stata sentita da Paolo e Claudia.
Nonno Giulio ascoltava impassibile ma divertito i vari battibecchi; sentendosi piuttosto invisibile afferrava, ormai spudoratamente, un tortellino dopo l’altro e se li infilava meccanicamente in bocca. I suoi movimenti, per quanto scaltri, vennero tuttavia intercettati dall’occhio di falco di Mimì.

“Giulio! Ma tu guarda che disgraziato, questi sono per domani! Quanti ne hai mangiati già?” inveì nonna Mimì contro il marito, mettendosi le mani tra i capelli con fare angosciato. “Non hai nemmeno preso la pasticca! Adesso basta, tornatene a guardare la televisione!”
Non gradendo che l’attenzione di tutti fosse ormai su di lui, e ritenendosi probabilmente soddisfatto della scorpacciata, nonno Giulio assunse un’espressione di infastidita dignità e si accinse ad alzarsi dalla sedia per tornare alla poltrona davanti alla televisione. Per aiutarsi appoggiò con una certa foga entrambe le mani sul bordo del tavolo, che coincideva con il bordo di uno dei vassoi ormai stracolmi di tortellini. Ci fu un effetto domino al contrario: volo di vassoi, pioggia di tortellini che rotolarono ovunque, sotto il tavolo, sul pavimento impolverato, sotto i mobili. Intorno alla tavolata, tutti ammutoliti. Nel caos generale restarono sul tavolo solo tre tortellini, nascosti sotto uno strofinaccio. Nonno Giulio, ormai in piedi, li intercettò prontamente e li mangiò prima di tornare alla sua poltrona.