Il Giudizio Universale

La scorsa settimana abbiamo visto insieme la Cappella Sistina, dalla sua nascita fino alla decorazione Michelangiolesca del 1508-1512.

Oggi, invece, faremo un salto temporale di ventitrè anni, restando pur sempre all’interno dello stesso ambiente.

Infatti, il lavoro per Michelangelo nella Cappella Sistina, non finì con l’affresco della volta per volere di papa Giulio II.

Nel frattempo, ci fu però il Sacco di Roma del 1527 da parte dei Lanzichenecchi, che aveva sospeso ogni progetto di restauro. Piano piano, Roma ricominciò a riprendersi e negli anni successivi ideò un progetto per un intervento grandioso, da affidare, nuovamente, a Michelangelo.

Già dal 1533 Clemente VII de’ Medici aveva intenzione di far dipingere a Michelangelo la parete d’altare. Le idee sul tema non erano molto chiare, infatti il pontefice e l’artista si incontrarono varie volte per discuterne.

Tuttavia, alla morte di Clemente VII, avvenuta l’anno successivo, salì al potere pontificio Alessandro Farnese con il nome di Paolo III.
Il vero e unico papa di Michelangelo, l’unico che poteva commissionargli qualunque sfida.

Michelangelo accetta perciò l’incarico del grande affresco: è il maggio del 1536.

A differenza della Cappella Sistina, in cui Michelangelo entrò da trentenne e “incapace” di dominare la tecnica dell’affresco – ricordiamo infatti le prime muffe e i primi problemi con la pozzolana romana – ritroviamo nel Giudizio un Michelangelo che è ormai maestro di tale arte.

Lo dimostrano gli stessi preparativi per il muro di fondo: l’artista decide infatti di far distruggere la parete preparata da Sebastiano del Piombo, il quale insisteva per fargli adottare la tecnica ad olio su muro, molto in voga quel momento e di sostituirla con una nuova parete inclinata di 24 cm nella parte inferiore (il cosiddetto “zoccolo”).

Perché? Probabilmente Michelangelo voleva far sì che il nuovo affresco fosse più duraturo possibile ed in questo modo non ci sarebbero stati depositi di polvere vista l’inclinazione della parete.

Dopo la preparazione del muro, il Buonarroti proseguì con la pittura: concluse il Giudizio in 456 giornate (le giornate sono le porzioni fresche di intonaco su cui il pittore va a dipingere; in alcuni casi possono essere molto piccole per la maggior quantità di dettagli o molto grandi se meno definite)

 

Ma di che cosa tratta il Giudizio Universale?

Ovviamente, come dice il nome stesso, rappresenta la scena del Giudizio Finale, ovvero dell’avvento del giorno in cui Cristo sarà chiamato per giudicare i buoni e i malvagi.

Ma l’estrema originalità di Michelangelo lo ha portato a creare una scena nuova, senza precedenti.

Cristo è Giudice e si staglia minaccio al centro dell’opera. La Madonna, al suo fianco, ha uno sguardo afflitto perché lei, misericordiosa, non può più far niente.

Tutt’attorno a loro è un ammassarsi di corpi muscolosi e virili, di uomini e donne accalcati in posizioni contorte e atletiche.

In alto i Santi. Coloro che sono morti per il nome di Cristo. Vediamo San Bartolomeo, San Lorenzo, alla destra di Cristo Sant’Andrea e San Giovanni Battista. C’è anche San Pietro, simbolo della chiesa cristiana romana.

In basso, l’Inferno con tutti i condannati. Figure circondate da creature diaboliche. Sulla destra, vediamo la barca di Caronte; sulla sinistra, invece avviene “La disputa dei corpi” ovvero l’ascesa dei beati, coloro che lasciano il loro corpo umano per unirsi a Cristo.

Al centro di queste due scene, su delle nuvole, gli angeli suonano le trombe: è arrivata la Fine.




Il Flauto Magico

IlFlauto Magico (in lingua: Die Zauberflöte) è un’opera composta nel 1792 da Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Emanuel Schikaneder.
Mozart, che da tempo era malato, trovò un fortissimo senso di soddisfazione grazie all’immediato successo che ebbe l’opera nel grande pubblico.
Fu infatti la sua ultima opera.

L’opera è divisa in due atti ed è in forma di “singspiel” ovvero una forma popolare tedesca che univa i dialoghi parlati al canto.
Questo modello aveva origina dai commedianti tedeschi (nasce a Vienna e poi si diffonde anche in Germania) che all’interno dell’opera musicale solevano inserire canzoni popolari.

Tre potenti accordi ripetuti tre volte aprono le danze: questo tema musicale ritorna tre volte (tre damigelle, tre geni, tre schiavi, tre sacerdoti e le tre prove) e ha dato agli studiosi motivo di pensare che fosse un’opera che celava un significato massonico data la ripetizione del numero tre, che era sacro appunto per la massoneria.

La storia, in breve, racconta le vicende del principe Tamino il quale, aiutato da Papageno, supera numerosi ostacoli per liberare Pamina, la sua amata.

ATTO I

Tamino incontra tre donne mentre fugge da un serpente.
Le donne lo aiutano a salvarsi: sono le dame della regina della notte. Lo introducono così alla regina, Astrifiammante, la quale è disperata per la scomparsa della figlia Pamina, rapita da Sarastro.

Tamino, che vede un ritratto della giovane e subito se ne innamora, decide di andarla a cercare con l’aiuto di Papageno. Le tre dame consegnano al principe un flauto magico e Papageno un carillon.

Da qui iniziano le numerose sfide che i due sono costretti ad affrontare per la strada verso il Tempio di Sarastro, dove è imprigionata la bella Pamina.
Papageno giunge per primo al tempio dove trova Pamina, prigioniera di Monostato, il carceriere.
Tamino nel frattempo giunge ai Tre Templi (Natura, Ragione e Saggezza) dove incontra un sacerdote che cerca di fargli cambiare idea sulla cattiveria di Sarastro.
Tamino è così sconcertato che viene trascinato via e portato al cospetto di Sarastro stesso che lo libera e lo obbliga a purificarsi per poter entrare nel suo regno.

ATTO II

Inizia la prima prova: stare in silenzio qualunque cosa accada. Nel frattempo la regina della notte giunge da Pamina, chiedendole di uccidere Sarastro con un pugnale.
Monostato, servo di Sarastro, ascolta tutto e le minaccia, ma in quel momento giunge Sarastro, il quale spiega che solo l’amore può condurre alla verità, e non la vendetta.
Pamina tenta dunque di parlare con Tamino (che, ricordiamo, al momento non può parlare!) e credendolo non più innamorato di lei, tenta il suicidio.
Scopre poi, grazie a tre ragazzi, lo scopo della prova. Così, terminata la prima prova, alla quale ne seguiranno altre due superate con successo: l’attraversamento dell’acqua e del fuoco.

Infine, Astrifiammante, Monostato e le tre dame si uniscono per sconfiggere Sarastro. Un terremoto fa inabissare tutti, celebrando così la vittoria del bene sul male.




La Tosca di Puccini

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Giacomo Puccini (1858-1924) è stato un compositore italiano, considerato uno dei più grandi esponenti dell’opera lirica del suo tempo.
Nato a Lucca, in Toscana, Puccini proveniva da una famiglia di musicisti e iniziò la sua formazione musicale con suo padre e con altri insegnanti di Lucca.

Dopo aver studiato al Conservatorio di Milano, Puccini debuttò nel 1884 con l’opera “Le Villi”.
Tuttavia, la sua fama internazionale arrivò con la messa in scena di “Manon Lescaut” nel 1893 e poi con le successive opere “La Bohème” (1896), “Tosca” (1900), “Madama Butterfly” (1904), “La Fanciulla del West” (1910) e “Turandot” (1926, incompiuta).

Le opere di Puccini si caratterizzano per l’originalità delle melodie, la ricchezza dell’orchestrazione e la forza emotiva delle storie.

Il compositore era particolarmente attento alla rappresentazione dei personaggi femminili, che hanno spesso un ruolo centrale nelle sue opere.

La sua musica ha avuto un grande impatto sulla cultura popolare, influenzando il cinema e la musica leggera.
Anche oggi, le sue opere continuano ad essere rappresentate nei teatri di tutto il mondo, attirando un vasto pubblico di appassionati di musica lirica.

La Tosca

 

La Tosca di Puccini è un’opera lirica in tre atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, basata sulla pièce teatrale “La Tosca” di Victorien Sardou.

La prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900, ottenendo un enorme successo di pubblico e critica.

La trama ruota attorno alla storia d’amore tra la cantante Floria Tosca e il pittore Mario Cavaradossi, minacciati dalla malvagia azione del capo della polizia, il barone Scarpia, che vuole possedere la Tosca per sé.

La figura di Tosca è un’immagine emblematica dell’opera romantica: una donna passionale, impetuosa e gelosa che difende l’amato fino alla morte. La sua aria “Vissi d’arte” è uno dei momenti più toccanti dell’opera, in cui la protagonista si interroga sulla giustizia divina e sulla sua stessa vita dedicata all’arte.

La vicenda si sviluppa attraverso la storia d’amore tra i protagonisti ed esplora i temi della gelosia, della vendetta, della passione e della morte.
Fulcro della trama è la congiura contro il governo francese in cui Cavaradossi è coinvolto e che Scarpia vuole sventare a tutti i costi.

Il finale, tragico, vede la morte di tutti e tre i protagonisti. Nella celebre scena finale la protagonista si getta dalla cima del Castel Sant’Angelo per evitare di essere arrestata e condannata a morte.

La Tosca è una delle opere più celebri di Puccini e viene apprezzata soprattutto per le sue arie, tra cui spiccano “Vissi d’arte”, cantata dalla Tosca, e “E lucevan le stelle”, eseguita da Cavaradossi. La partitura è caratterizzata da un’orchestrazione ricca e variegata, che sottolinea gli aspetti drammatici della vicenda.

La sua bellezza e intensità emotiva sono dovute non solo alla musica, ma anche alla trama avvincente e alle forti personalità dei personaggi.

La Tosca, dunque, è un’opera lirica di grande bellezza e intensità emotiva, con personaggi profondamente caratterizzati.
Grazie alla sua storia d’amore travagliata e alla sua forza drammatica, continua a conquistare il pubblico di tutto il mondo.




La Salomè

La figura di Salomè

Forse molti di voi hanno sentito parlare della figura di Salomè.
Ebbene, Salomè è un famosissimo personaggio biblico, la bellissima figlia di Erodiade, principessa giudaica tanto affascinante quanto terrificante ed anche una delle prime danzatrici (parleremo più avanti della sua danza dei sette veli).

La figura di Salomè ha da sempre ispirato numerose opere d’arte, dal Cinquecento fino nel Novecento – basti pensare alla formella “Banchetto di Erode” di Donatello o al celeberrimo “Salomè o Giuditta” di Gustav Klimt – ma anche di opere teatrali.

Oggi andremo a vedere, infatti, la Salomè di Richard Strauss, composta nel 1905.

Strauss basa il suo dramma sull’omonimo in francese di Oscar Wilde, tradotto in tedesco da Lachmann e riadattato dunque da Strauss per la sua opera.

Già a partire dal 1900, anno della pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni di Freud, si era sviluppato un grande interesse per la psicologia dei personaggi, famosi e non, che erano talvolta passati alla storia come “negativi”.

È il caso di Salomè.

 

La Salomè di Strauss

 

La storia di Salomè, nell’opera di Strauss, comincia con l’arrivo di Jochanaan (Giovanni Battista) nella prigione del palazzo di Erode, tetrarca di Gerusalemme.

Nella sala accanto alla cisterna dov’è prigioniero il profeta è in corso un banchetto dal quale Salomè scappa, incuriosita dalla litania continua che sente provenire dalla stanza accanto.

A guardia del prigioniero vi è Narraboth, capitano dei soldati, il quale inizialmente cerca di desistere dalla pressante richiesta di Salomè di liberare Jochanaan per farglielo conoscere.
Narraboth, tuttavia, innamorato di Salomè e ammaliato dal suo fascino, si lascia convincere.

Jochanaan viene liberato e comincia a condannare i peccati di Erode e di sua moglie, Erodiade, madre di Salomè.
La ragazza, invece, guarda affascinata il profeta dai lunghi capelli e dalle belle labbra ed immediatamente se ne innamora.

Cerca di sedurlo, di avvicinarsi, ma Jochanaan è irremovibile: la respinge.

Intanto, in disparte, Narraboth assiste a questo atto di seduzione da parte della sua amata, e non potendo più sopportare tale visione, si uccide in silenzio.

Salomè neanche se ne accorge, tant’è presa dal desiderio di baciare Jochanaan, che tuttavia la allontana ferocemente. Egli la maledice e ritorna nella cisterna, sprezzante.

Erode, Erodiade ed il loro seguito, nel frattempo, cercano Salomè.
Una volta trovata Erode offre alla giovane vino, frutta ed un posto al suo fianco, sotto lo sguardo furente della madre, ma lei rifiuta.

Solo quando le offre in cambio qualunque cosa lei desideri, Salomè accetta di danzare.

La principessa esegue questa danza perturbante, movimentata, selvaggia: i suoi veli cadono uno ad uno mentre lei volteggia estatica di fronte ad Erode.

 

Il Finale

 

Alla fine della danza Erode le chiede quale sia la ricompensa da lei voluta e Salomè, orgogliosa, risponde: la testa di Jochanaan su un piatto d’argento.

Inorridito, Erode cerca di farle cambiare idea, ma invano, ed infine le offre la testa del Battista.
Salomè, al colmo della gioia, canta, afferra la testa del profeta e bacia, finalmente, la sua bocca.

Erode, dopo tanto orrore, ordina ai soldati di uccidere la figliastra.

Si conclude così una delle storie più perturbanti, che sin dall’antichità ha il potere di destare stupore, curiosità ma anche orrore e repulsione.




La Traviata

Oggi vorrei parlare di un’opera, non un’opera d’arte, ma un’opera teatrale.
La traviata è un melodramma (dunque, un’opera) di Giuseppe Verdi del 1853.

Ma dietro questa “opera di…” c’è tanto altro dietro.
Infatti, la storia è quella raccontata da Alexandre Dumas (figlio) nel suo romanzo “La signora delle camelie”. Il testo è stato adattato da Francesco Maria Piave, il termine tecnico è libretto, sulla musica di Giuseppe Verdi.

La prima rappresentazione fu tenuta al Teatro La Fenice nel 1853, ma non ebbe successo. Probabilmente la causa è da additare agli interpreti che poco rispecchiavano i personaggi dell’opera.
Ma, l’anno successivo, il personaggio di Violetta trovò il suo interprete prediletto: Maria Spezia Aldighieri. Il successo fu immediato.

Ma di cosa parla, dunque, La traviata, o anche conosciuta come La Violetta?

Il personaggio principale è, ovviamente, Violetta, una giovane cortigiana di Parigi dalla vita dissoluta e dedita ai piaceri mondani. Questa vita l’ha portata però a contrarre una terribile malattia: Violetta è malata di tisi.

Nel primo atto, Violetta, per dimenticare per un momento la sua malattia, organizza una cena dove conosce Alfredo, un giovane di buona famiglia, innamorato follemente di lei.

Dopo la cena, Alfredo le si confessa. Ma la ragazza, stupita, dubita di poter corrispondere il suo amore e gli regala una camelia, dicendogli di tornare il giorno dopo.
Rimasta sola, Violetta riflette sulla possibilità di potersi innamorare e cambiare vita, ma la risposta le arriva fredda e tonante: no, non può.

All’apertura del secondo atto, invece, vediamo Alfredo e Violetta che vivono felicemente insieme in una casa di campagna, innamorati e sereni.
Capiamo che Violetta ha fatto la sua scelta di cuore e ha deciso di cambiare vita per amore di Alfredo. I due non possono essere più felici.

Ma la felicità durerà poco: durante un’assenza di Alfredo, arriva il padre Germont e, dopo tanti discorsi, convince Violetta a lasciare Alfredo in nome di un bene più alto, un bene comune: la loro disdicevole convivenza, infatti, sta minando il matrimonio della figlia minore, sorella di Alfredo.

Germont supplica Violetta di compiere questo sacrificio, nonostante capisca che i sentimenti di lei nei confronti del figlio siano sinceri.

Violetta, rimasta sola, scrive una lettera d’addio per il suo amato, che proprio in quel momento torna a casa e capisce che qualcosa è successo: Violetta nega, ed arriva, a mio parere il momento più doloroso e straziante.
Violetta canta la famosissima “Amami, Alfredo!”.

Alfredo trova la lettera e va fuori di testa. Va a Parigi, dove sa di trovare Violetta alla festa dell’amica Flora e qui la umilia di fronte a tutti: le urla e le getta i soldi ai piedi. Violetta sviene.
Tutti quanti sono solidali nei confronti della giovane, persino il padre Germont che ha assistito alla scena, ma Violetta perdona Alfredo perché sa che non può capire.

Ecco che si riapre il sipario e l’ultimo atto, il terzo, inizia.
Violetta è costretta a letto, gravemente malata. Le resta ormai poco da vivere.
Le arriva una lettera da Germont che le spiega di aver rivelato tutta la verità ad Alfredo, il quale sta andando a Parigi per chiederle perdono.

Alfredo ed il padre arrivano giusto in tempo per implorare perdono, mentre Violetta muore.




Il Don Giovanni di Mozart

La figura del Don Giovanni nasce nel 1630 a opera del commediografo Tirso de Molina (1579-1648) nella sua opera in versi El burlador de Sevilla y convidado de piedra e fu creata “come nient’altro che un opera edificante, e svolto senza molta arte, né profondità”.

Il suo Don Giovanni non è tanto il seduttore di cui parleremo in seguito, quanto più un burlador, un ingannatore, un abbindolatore, intento solo a godere “il materiale e momentaneo possesso di questa o quella”.

Il fulcro di quest’opera ruota attorno alla caduta di Don Giovanni culminante nella cena con la statua di pietra, che terminerà con la sua morte.

L’intento morale è chiaro: l’uomo che non si pente dei propri peccati è destinato alla dannazione.

Nel 1787 Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) compose Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, un dramma-giocoso su libretto di Lorenzo da Ponte.

E sarà dunque Mozart ad analizzare e meglio interpretare la figura di Don Giovanni, non più “libertino” pentito come abbiamo visto in Tirso de Molina, bensì diabolus, ovvero colui che separa, che divide.

Ed è proprio in questo atto della separazione che risiede il potere demoniaco di Don Giovanni. Egli tiene separati i suoi nemici, soggiogandoli alla propria volontà, ma è qui che risiede anche la sua debolezza.

Come vedremo più avanti, sarà l’unione dei personaggi sue vittime a segnare la sua rovina.

L’opera è divisa in due atti: nel primo atto Don Giovanni, con l’aiuto del servo Leporello (nelle opere precedenti Sganarello) dopo essersi introdotto nella casa di Donna Anna per sedurla, cerca di scappare via furtivamente ma viene scoperto dal padre di lei, il Commendatore, e scontrandosi a duello con esso, lo uccide.

Donna Anna, insieme al fidanzato Don Ottavio, allora giurano vendetta per la morte dell’uomo.

Successivamente entra in scena Donna Elvira, la moglie abbandonata di Don Giovanni, che dopo aver scoperto la vera natura di Don Giovanni attraverso la famosissima Aria del Catalogo cantata da Leporello decide si impegnarsi affinché egli si penta e si redima.

Nel frattempo, Don Giovanni si imbatte nella festa di nozze di Masetto e Zerlina e decide di sedurre quest’ultima.
Donna Elvira, giunta tempestivamente, salva Zerlina.

Durante il funerale del Commendatore, avviene una disputa tra Donna Elvira e Don Giovanni, e Donna Anna riconosce la voce del suo assalitore in esso.

L’atto si conclude con una festa, dove tutti i personaggi, insieme alla stessa Zerlina, riescono a smascherare la vera natura di Don Giovanni. Da qui in poi sarà per lui la rovina.

Il secondo atto, molto più frammentario, comincia con un inganno teso a Donna Elvira da un Leporello travestito dal padrone, il quale la seduce e la conduce in un posto isolato per approfittarsi di lei. Tuttavia, viene smascherato e accusato dei crimini commessi dal Don Giovanni, che nel frattempo, travestito dal servo, incontra il contadino Masetto e lo picchia.

Entrambi i personaggi riescono a scappare dalle situazioni in cui si vengono a trovare e si ritrovano al cimitero, dove Don Giovanni in tono scherzoso invita la statua, posta sulla tomba del Commendatore, a cena.

Da questo momento comincia ciò che nella tradizione costituiva la parte del Convitato di pietra ovvero il finale dell’opera: la statua si presenta veramente la sera a casa di Don Giovanni, deciso a ricambiare l’invito e di portarlo con sé all’Inferno, se non si pente.

E così sarà.

La casa prende fuoco e viene scossa da terremoti e Don Giovanni muore inghiottito dalle fiamme degli inferi.

Tutti gli altri personaggi accorrono attorno al corpo morto ed insieme cantano un’ultima volta, ma poi si dividono. Ma sappiamo che è proprio nella separazione degli altri che Don Giovanni, il diavolo, vince.

Tuttavia, il finale non sempre ha convinto i critici dell’eterna malvagità che persiste nell’opera anche dopo la morte del protagonista e preferiscono riconoscere nella sua morte il tanto atteso e predicato ritorno a Dio.