CHICCHI DI CAFFÈ di Meri Borriello

CHICCHI DI CAFFÈ

di Meri Borriello

tratto da Voci Nuove 6

ed. Rapsodia

a cura di Daniele Falcioni

 

Dalla sua finestra poteva vedere due alberelli. Non avevano nulla di speciale, ma erano speciali per lei. Erano anche un po’ miseri, a dire la verità, eppure lei li trovava belli, e li osservava sorridendo tutte le mattine mentre beveva il suo caffè. Ogni tanto li potavano, e questo un po’ la rattristava. Lei immaginava che le radici dei due alberelli fossero intrecciate. Le radici se ne fregavano di chi aveva tanta premura di separarli: aveva letto questa cosa delle radici intrecciate da qualche parte, e da allora l’immagine che quelle parole avevano evocato non l’aveva più abbandonata.

Beveva il suo caffè ogni mattina verso le otto, prima di andare al lavoro, e pensava al suo amico. Erano distanti: tentava di convincersi che lui avesse trovato un’entrata segreta, come quando giocavano a fare gli esploratori, che avesse trovato la porta d’accesso per un mondo pieno di gelato e caffè. Entrambi adoravano il caffè: toglieva quel brutto senso di nausea che saliva su, che invadeva le bocche dopo che l’infermiera aveva inserito l’ago nelle loro vene: piccoli sorsi di caffè freddo rinfrescavano le labbra mentre aspettavano pazientemente che quella tortura avesse fine. Si erano conosciuti così, in una stanzetta asettica, mentre li bucherellavano, ed erano diventati subito amici. Bevevano caffè e mangiavano gelato sciolto: erano le uniche cose che riuscivano a mandar giù in quei momenti. Non avevano la forza di parlare, cercavano di comunicare mentalmente da un lettino all’altro: ridipingevano le pareti di quelle grigie stanzette. Contemplavano la piantagione di caffè che dipingevano indossando cappelli di paglia: proteggevano i loro lunghi capelli, il volto rosso per il troppo sole, i piedi nudi e sporchi di terra.

Per arrivare a quella piantagione dovevano fare un lungo viaggio: erano pirati clandestini imbarcati su navi senza bandiera, sconfiggevano loschi figuri che tentavano di gettarli in mare, che impedivano loro di raggiungere la meta. Quando, invece, non riuscivano ad avere la meglio, nuotavano nelle profondità del mare alla ricerca di tesori nascosti nei fondali. Qualche tesoro li riportava a galla ed erano pronti a salire su un’altra nave, che li avrebbe condotti in una terra sconosciuta che li avrebbe accolti e gli avrebbe permesso di realizzare il loro sogno. Si raccontavano i frammenti di quei sogni qualche ora dopo che l’ago dal braccio era stato tolto ed erano liberi di tornare ad essere umani. A volte ci voleva più di qualche ora per tornare umani, ci volevano giorni interi per recuperare le forze, ma i sogni non si interrompevano mai. Frenavano l’invadenza delle gocce che lentamente penetravano nei loro corpi bevendo caffè per placare la nausea, immergendosi nei potenti chicchi.

Anche quella mattina, Marta sorseggiava caffè ed osservava i due alberelli. Aveva smesso di piovere da poco. D’un tratto chiuse gli occhi, si immerse nel silenzio e vide le radici intrecciate, sentì l’odore della terra mischiato all’aroma di caffè, e la sua mente prese a rincorrere i ricordi. Il suo amico le stringeva forte la mano, aveva il respiro affannato. Avevano corso quasi per tutto il pomeriggio in mezzo alla terra rossa dietro la casa di Maurizio. Andavano spesso a giocare lì la domenica pomeriggio. Non era stato costruito nulla su quel piccolo pezzo di terreno. Correvano avanti e indietro col sole di inizio autunno che li scaldava e creava, solo per loro, frammenti di luci che si incastravano tra le foglie. Registravano tutto con gli occhi mentre correvano, finiva tutto in uno scrigno segreto. Cantavano una canzone, quando si fermavano per riposarsi un pochino; la trovavano un po’ sciocca, ma in fondo credevano al primo verso quando lo intonavano: “Nella notte delle favole / esprimi un desiderio pure tu”.1
Avevano entrambi compiuto dieci anni, passavano tutto il tempo che potevano giocando, inventando storie: stavano bene insieme. Lui era un portento, lei lo guardava ammirata: sentiva le sue labbra aprirsi in un sorriso ogni volta che, osservandolo di nascosto, sapeva di averlo sorpreso a pensare a un nuovo progetto, a un nuovo sogno da realizzare. Sopportava tutto quello che lei non riusciva atollerare, aveva un senso innato dell’umorismo. E, se proprio non si riusciva a ridere in certi momenti, almeno si poteva tentare di sorridere.

Niente sentimentalismi con Maurizio. “La notte è giovane e la vita breve” diceva sempre quando cercavano di farlo andare a dormire distogliendolo dai suoi giochi. E lo sapevano tutti e due quanto fosse vero, ma lui forse lo sapeva di più.
Il sole li stava salutando: dovevano rientrare. Il programma della serata era guardare un film dell’orrore. Lui voleva assolutamente vedere un film con un pagliaccio che dicevano essere spaventoso. Ne parlavano da qualche settimana. Entrarono in casa e se ne fregarono di darsi una pulita, piaceva a entrambi sentire la terra ancora addosso, sui jeans, sulle scarpe. Accendendo la luce, lui le disse: “Dai, lavati almeno le mani e prepara il popcorn”.
“Okay” rispose lei, e continuò: “C’è anche il gelato, lo facciamo sciogliere e ci mettiamo il popcorn dentro?”
Lui non rispose, stava armeggiando con il televisore e il lettore dvd; lei si fermò a guardare l’ingrandimento di una foto appesa al muro: era stata scattata a carnevale l’anno prima. Lui era vestito e truccato come Brandon Lee nel film Il Corvo.

“Sei proprio bello in questa foto” disse mentre andava in bagno. Lui, alzando un po’ la voce per farsi sentire, rispose: “Guarda che io sono sempre bello”. Lei rise mentre si insaponava le mani. Quando rientrò nel salone, dopo aver messo in una padella l’olio e i chicchi di mais, lo trovò intento a leggere degli appunti su un quadernino. Gli si avvicinò e chiese: “Che combini?”

“Contabilizzo i miei guadagni” rispose lui, e lei rise di nuovo perché sapeva del suo piccolo commercio di giocattoli. Ne aveva tanti e non sapeva che farci, così aveva pensato di venderli, improvvisando un mercatino delle pulci sul vialetto di casa.

“Dovresti darti da fare anche tu. So che non hai giocattoli da vendere, ma potresti provare a piazzare quella roba da femmina che sta ammucchiata nella tua camera. Di questo passo, chissà quando potremo dare vita al nostro progetto” disse lui, la testa china su una calcolatrice. “Allora, lo guardiamo questo film?” chiese poi, chiudendo il quadernino. Lei si era risentita un pochino. Esclamò: “Aspettiamo almeno che siano pronti i popcorn!”

Mentre lui borbottava, Marta tornò in cucina per vedere se avessero cominciato a scoppiettare. Stavano scoppiettando. Finì di prepararli, prese anche il gelato e lo mise in due bicchieri, poi portò tutto nel salone.
Maurizio si era sistemato sul divano e aveva poggiato sulle gambe una copertina di lana a quadretti. Guardò Marta e le disse: “Non te la devi prendere se ho sempre fretta”.

Lei gli sorrise, appoggiò tutto su un vecchio tavolino che stava accanto al divano. Si sedette tirando un pochino la coperta per coprirsi le gambe. “Non me la prendo, tranquillo. Non fare il tirchio e dammi un altro po’ di coperta” disse. Dopo essersi sistemata meglio, riprese: “Stavo pensando di fare un salto al mercatino delle pulci vicino casa uno di questi giorni, per vedere di piazzare, come dici tu, le miecianfrusaglie”. Lui annuì, poi fecero silenzio e si concentrarono sul film. Fotogramma dopo fotogramma il film scorreva via. Non avevano paura, non avevano nemmeno voglia di giocare a far finta di aver paura. Peccato non ci fossero altri bambini, pensò lei stiracchiandosi: lo spasso più grande sarebbe stato vederli terrorizzati. Lui, quasi leggendola nel pensiero, spense il televisore e disse: “Mi sto annoiando. Prepariamo del caffè, poi ti insegno a giocare a dama. Mia madre ha comprato una nuova miscela, devi assaggiarla. Forse dovremmo fare un’indagine di mercato per capire cosa manca, quale potrebbe essere l’ingrediente che possa rendere speciale il nostro caffè. Voglio creare una miscela tutta nostra, non so, mi piacerebbe qualcosa che avesse anche un gusto alla vaniglia, oppurealla liquirizia”.

Lei lo ascoltava mentre prendeva la scacchiera che era sotto il mobiletto della tv, poi, rimuginando su quello che aveva detto a proposito di creare una miscela originale, andò in cucina e mise su il caffè. Lui stava finendo di sistemare le pedine sulla scacchiera. Aveva provato a insegnarle a giocare qualche anno prima, quando entrambi, nello stesso periodo, avevano avuto la varicella. Ma forse a causa della febbre, del prurito costante e del talco mentolato sparso dappertutto, lei non era riuscita a concentrarsi, e quindi non aveva imparato quel gioco.

“Te la ricordi la regola numero uno?” le chiese serio Maurizio quando lei fece ritorno dalla cucina. Marta lo guardò confusa, lui continuò: “Non si soffia”. Pazientemente le rispiegò le regole del gioco e lei stavolta sembrò capire. Cominciarono una partita. A un certo punto, lui disse: “Hanno visto di nuovo una macchia. Stavolta è vicina all’intestino. Che dici, dovrei preoccuparmi?”

Lei rimase immobile con la pedina tra le mani, non aveva idea di dove piazzarla. Sapeva cosa significava quella macchia, sapeva anche che non avrebbe potuto raccontargli balle. Così disse l’unica cosa che non potesse tradirla: “Direi di aspettare prima di fasciarci la testa”. Provando a sorridere, continuò: “Anche se ci donassero le fasciature e i turbanti”.

Marta non riusciva a concentrarsi. Disse: “Vado a vedere se è pronto il caffè. Tra un po’ i miei vengono a prendermi. Beviamoci il caffè in santa pace, concentriamoci sul sapore, sull’aroma, altrimenti non riusciremo mai a realizzare il nostro sogno”. Andò in cucina e, come un automa, versò il caffè e lo zuccherò, poi tornò nel salone e passò la tazzina a Maurizio.

Chiusero gli occhi.
I genitori di Marta arrivarono puntuali e la loro serata si concluse. Lei si rigirò tutta la notte nel letto, non riuscì a chiudere occhio: pensava ai loro progetti, al latte freddo che macchiava il loro caffè e i loro sogni.

Passò un po’ di tempo prima che si rivedessero: lui aveva avuto da fare, lo immaginava con i suoi genitori andare da un ospedale all’altro in cerca di nuove risposte. Lei, tra la scuola e tutto il resto, non aveva avuto molto tempo, ma pensava sempre a lui, sperava che si fossero sbagliati, che sarebbe saltato fuori un modo per risolvere il problema, come era già accaduto altre volte. Aveva cercato di non pensare al peggio concentrandosi sul loro progetto: non solo aveva comprato tutte le miscele di caffè che aveva trovato al supermercato, ma prendeva continuamente appunti sul sapore, il colore e la tostatura di ogni miscela che assaggiava.

Arrivò il 15 novembre. I genitori di Maurizio avevano organizzato una festa per il suo compleanno: palloncini colorati, decorazioni per i suoi undici anni, ogni tipo di dolcetto.

Maurizio aveva versato in certe caraffe colorate il caffè, in alcune aveva aggiunto un po’ di gelato alla vaniglia, in altre galleggiavano pezzetti di liquirizia. Pochi giorni prima erano arrivati anche i risultati delle analisi: quella macchia non si poteva far sparire in alcun modo. Tutti lo sapevano, ma lui voleva festeggiare lo stesso, e Marta era d’accordo con lui.

Arrivò il momento di tagliare la torta. Lui si fece scattare una foto col suo cappellino da baseball degli Yankees, le dita in segno di vittoria. Spense le candeline con un sorriso che illuminò tutta la stanza. Il suo papà, la sua mamma, le sue sorelline erano accanto a lui. La sua mamma sembrava aver disegnata sul viso un’eterna preghiera mentre lo guardava, mentre lo stringeva con dolcezza per la foto con la torta. Le sue sorelline si tenevano per mano, aspettavano il loro turno per la foto. Quando anche gli ultimi invitati se ne stavano andando, lo salutò anche Marta e la sua famiglia.

La festa era finita.

Puntuale arrivò maggio con i suoi raggi delicati e i boccioli di rosa. Prima di andare a trovare Maurizio un pomeriggio, Marta e la sua mamma si erano fermate a prendere del gelato. Sulla copertina del quadernino che aveva nella borsa, lei aveva disegnato due chicchi di caffè. Il quadernino conteneva le annotazioni degli ultimi mesi, tutte le osservazioni, i commenti sulle miscele che aveva assaggiato e mescolato. C’era anche una colonnina con il riepilogo dei guadagni ottenuti vendendo le sue cianfrusaglie.

Quando entrarono in casa, lei si sentì mancare vedendo Maurizio sul divano. Si aggrappò al braccio di sua madre, ma lui le sorrise. Si sedette sul divano accanto a lui mentre aspettavano insieme che il gelato si ammorbidisse un po’. Prese un pezzetto della sua coperta, lui sorridendo le disse: “Mi sento molto meglio oggi”. Lei annuì fissando il pavimento, si fece coraggio e mormorò: “Ho portato il mio quadernino: rimarrai stupito nel vedere il lavoro che ho fatto in questi mesi”. Maurizio si girò verso il muro dall’altra parte della stanza e disse: “Magari me lo fai vedere più tardi, okay?”

Lei annuì, ma lui non poté vederla.
Stettero un po’ in silenzio. Lei girava il cucchiaino nel bicchiere pieno di gelato, poi, con voce stanca, Maurizio le domandò: “Ti va un caffè?”
“Sai che non so dire di no al caffè. Vado a prepararlo”.
Lui la fermò con un cenno e le disse: “Lascia, lo prepara mamma. Resta qui con me”. Poi, accarezzando distrattamente un lembo della coperta, le chiese: “Non ti sembra che alcune persone siano ridicole?”

“Io sono ridicola e la cosa mi piace molto!”
Lui la guardò in modo strano e lei capì che non avrebbe potuto usare alcun trucco: doveva fare silenzio. Stavano giocherellando con i loro cucchiaini quando la mamma di Maurizio portò il caffè. Aspettarono un pochino, poi chiusero gli occhi e strinsero le loro tazzine.

Lentamente, scegliendo parole conservate chissà dove, lui le disse quasi in un sussurro: “Prometti che non permetterai a nessuno di dire che siamo dei mostri”. Stringendo di più la tazzina, riprese: “Tutte le porcherie che ci hanno fatto prendere e tutto quello che ci hanno fatto non ci ha reso mostruosi. Siamo come due chicchi di caffè. Probabilmente io rimarrò un chicco verde, mai pronto per la tostatura, oppure sono stato tostato troppo, non lo so. Non siamo mostri. Siamo solo due chicchi di caffè usciti fuori da una piantagione strana”. La guardò mentre lei continuava a stringere la sua tazzina, poi riprese: “Promettimi che non coprirai le tue cicatrici. Ci sono anche io tra quelle linee. Fammi questo regalo: coltiva la nostra piantagione tra quelle linee, inventa nuove storie che si intreccino con la mia. Non dimenticare quello che abbiamo sognato insieme, non dimenticare i nostri viaggi, le nostre avventure”.

Lei voleva piangere, ma sapeva che lui l’avrebbe detestata se lo avesse fatto. Deglutì e disse: “Lo farò. Te lo prometto”. Posò la tazzina sul tavolino e gli sussurrò: “Ti voglio bene”.
“Non sei male per essere una femmina” disse lui, e le strinse forte la mano.

 

1 Libera citazione da La notte delle favole, canzone di Tania Tedesco (Festival di Sanremo 1988).

 




“Aspetto Godot, papà” di Meri Borriello

Aspetto Godot, papà

di Meri Borriello

a cura di Daniele Falcioni

tratto da antologia Voci Nuove

ed. Rapsodia

Marlene spingeva la carrozzina di suo padre faticosamente sotto il sole rovente di luglio. Non aveva mai odiato tanto l’estate come quell’anno. Si stavano allontanando velocemente dall’ospedale.
“Qui è pieno di gente che gioca a fare dio, non li sopporto, spingi più in fretta questo affare. Andiamo via da questo inferno” disse stancamente lui.

“Certo, papà” rispose lei in tono obbediente; poi, per alleggerire la tensione, continuò: “Almeno non hai dovuto far fuori noi della famiglia per averne una; te lo ricordi quel film… come si chiamava? El cochecito, mi sembra. Te ne regalo una motorizzata, promesso, papà”.
“Bel film. Ma non ho voglia di scherzare adesso. Portami via da qui, torniamo a casa, ci vediamo un altro film. Sei mesi? Vorrei sapere dove hanno letto la mia data di scadenza. Resisto solo per contraddirli, questi quattro sapientoni imbalsamati”.

Marlene rimase in silenzio per qualche istante, poi dolcemente disse: “Papà, pensa a quelle medicine che ti hanno proposto di prendere”. Sperava che il padre acconsentisse a provare le cure sperimentali.
“Non ho voglia di parlarne. Quella roba ti toglie la dignità. Non ho nessuna intenzione di prenderla”.

Il padre aveva alzato la voce e cominciato a gesticolare nervosamente; alcuni passanti incuriositi li guardavano. Lei sperò che quello sfogo avesse fine presto. Il suo desiderio fu esaudito: suo padre si interruppe.
A un tratto, però, disse: “Ho la bocca che va a fuoco, prendiamo un gelato al limone. Però facciamo in fretta, voglio tornare da tua madre, portiamo del gelato anche a lei. E una rosa. Ecco, là, guarda quella, è perfetta; fammi il favore: arrampicati e prendila”.

Suo padre sorrideva contento. Lei provò a dissuaderlo: “Papà, è un giardino privato. Non si potrebbe…”
Lui la interruppe stizzito: “Fai come ti ho detto, i fiori sono di tutti! Che diamine, quasi non sembri mia figlia! Tutto questo perbenismo chi te l’ha insegnato? Prendi la rosa e andiamocene. Al diavolo anche il gelato”. Sbuffò alzando gli occhi al cielo.

Lei si sentì mortificata, ma cercò di non darglielo a vedere. Si fermò e scavalcò il muretto; sperò che nessuno la vedesse, non avrebbe avuto la pazienza per giustificarsi. Staccò la rosa gialla che le aveva indicato il padre, poi tornò da lui più velocemente che poteva.
“Ce l’hai fatta, brava”. Lei gli baciò la guancia ruvida, poi poggiò la rosa sulle sue ginocchia. La misero in una bottiglietta con un po’ d’acqua, poi lei lo aiutò a salire in macchina e partirono per far ritorno a casa.

Fecero il viaggio di ritorno in silenzio. Quando suo padre chiuse gli occhi per riposare un po’, lei cercò di perdersi nel suo mondo, tentava di aggrapparsi alle sue fantasie, ma questa volta proprio non ci riusciva. Provò a sentire un po’ di musica, ma tutto le dava la nausea: la voce del dj, i brani tutti identici che passavano senza sosta su ogni stazione, tutte quelle stupide pubblicità. Le dava fastidio persino intravedere le famiglie nelle altre auto. Molti tornavano dal mare: abbronzati, affamati. Li immaginava con i capelli ancora umidi, il sale addosso, felici per la bella mattinata trascorsa. Com’era accaduto del resto anche a lei tante volte. Le sembrava una vita fa. Non era mica colpa loro se lei ora stava di merda!

Suo padre si risvegliò quando spense il motore. Erano a casa. Sua madre li aspettava. Non appena lo vide, stanco ma sorridente mentre le porgeva la rosa, lo abbracciò.

Suo padre fece un cenno a Marlene, che si avvicinò: “Lasciaci un po’ soli. Ti aspetto nel mio studio tra un paio d’ore. Devo farti vedere una cosa”.
“D’accordo papà, io vado a riposare un po’. Ci vediamo più tardi”.
Era stanca, non vedeva l’ora di buttarsi sul letto.

Tornò da suo padre che era pomeriggio inoltrato, la canicola era scemata e lei riusciva a respirare e a pensare più lucidamente. Lo trovò nel suo studio, con una scatola tra le mani.
“Ce ne hai messo di tempo! Bene, ora sei qui, veniamo al punto” disse, e le tese la scatola di legno. Marlene la prese: era liscia, di un marrone chiaro, la avvicinò al suo viso. “Ha un buon odore, papà. Dove devo metterla?”

“Da nessuna parte. Devi intagliarla”.
Lei lo guardò perplessa, lui continuò: “Lo so che non sei brava in queste cose, però bisogna che tu lo faccia per me. Voglio lasciarla a te e alle tue sorelle, e voglio che la intagli esattamente come dico io. Ci sono degli scalpelli e un coltellino nella mia cassetta degli attrezzi, prendili e comincia a lavorare”.
Marlene provò a replicare, ma poi le parole le morirono in gola e fece come le aveva chiesto il padre.
“Che cosa devo incidere, papà?”
“Tanto per cominciare, il simbolo dell’infinito. Non è difficile. E poi le nostre iniziali”.
Marlene disegnò numerose volte la base per poter iniziare ad intagliare. Alla fine fu soddisfatta, prese il coltellino e cominciò ad affondarlo nel legno.
Passò almeno un’oretta, stava sudando. Si fermò un attimo. Le facevano male le mani, i pezzetti di legno erano sparsi dappertutto. Non aveva voglia di continuare ad intagliare un bel niente, voleva solo rimanere in silenzio e godersi suo padre. Non si accorse di fissarlo fino a quando lui non le disse: “Non guardarmi, continua ad intagliare, devi imparare a distaccarti da tutto. Continua ad intagliare con pazienza e decisione. Non sei mai stata paziente, ma devi imparare ad esserlo”. “Non voglio imparare, papà” rispose lei con la voce che le tremava.
“Devi. Verrà fuori un lavoro bellissimo, ne sono sicuro”. Poi, sorridendo riprese: “Socchiudo un po’ gli occhi. Mentre intagli, ripetimi quel monologo che devi portare a teatro. Non me ne sono dimenticato”.
Lei sorrise e disse: “Ho un pezzo comico fortissimo, papà”, ma il padre la interruppe bruscamente: “Voglio che mi reciti l’altro monologo. Smettila di fare il pagliaccio”.
Marlene prese fiato, poi lentamente cominciò a snocciolare le parole del monologo: “Nascere fu la sua morte. Le parole sono poche, morenti per di più. Pronto per il coperchio avvenire. Dalla culla al lettino in poi. Per tutto il tempo. Rimbalzato andata e ritorno…”(2)
Suo padre la interruppe: “Va bene, va bene. Però lo carichi troppo, lascia andare le parole, hanno già il loro peso, non serve che le carichi. Altrimenti diventi patetica. Beckett è assenza, non piagnisteo. Continua”.
Marlene, stringendo con forza il coltellino tra le mani sudate, continuò: “Di funerale in funerale. Tremila notti. Nato di notte. Stanza sempre più buia. Anni di notte. Niente che si muova da nessuna parte. Solo e andato”.
Il padre la interruppe di nuovo: “Molto meglio di prima, la voce però deve essere piena, non di testa, non sei un’isterica, mantieni la voce bassa”.
Marlene riprese cercando di modulare la voce meglio che poteva: “Solo e andato. Mi dico che la terra si è spenta, benché io non l’abbia mai vista accesa. È facile andare. Quando cadrò, piangerò di gioia”.

(2) Qui, come in seguito, si tratta ovviamente di Samuel Beckett, Un pezzo di monologo (n.d.c.).

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Guardò suo padre, che aveva chiuso di nuovo gli occhi, lo chiamò in sussurro: “Papà?”
Lui socchiuse gli occhi, poi le disse: “Ora è quasi perfetto. Ricorda di tenere sotto controllo la voce. Ripetimelo ancora”.
Marlene intagliava e recitava. Si costrinse a continuare ancora e ancora, anche se le veniva da vomitare.
Finì di incidere la scatola che era quasi l’una di notte; suo padre era andato a dormire, ma lei aveva continuato il suo lavoro imprecando e a tratti calmandosi, ma era riuscita a portare a termine quello che il padre le aveva chiesto; questo solo contava.
La scatola rimase nello studio per mesi, poi una mattina di marzo il padre le chiese di prenderla. Marlene entrò nella camera dei suoi genitori, c’erano anche le sorelle; sentiva un vuoto terribile, tremava mentre passava la scatola alle sorelle. Non riusciva a cogliere nessuna parola, le sembrava di essere immersa in un mondo irreale. Guardava fuori dalla finestra, il suo sguardo si perdeva oltre i grigi palazzi, oltre quel cielo così azzurro.
“Che fai? Perché fissi il vuoto?” le chiese il padre. Lei continuò a guardare oltre la finestra, poi dopo un po’ rispose: “Aspetto Godot, papà”.
“Tanto lo sai già che non arriverà” le disse il padre in un soffio di voce. Lei si avvicinò al letto, gli strinse la mano e gli accarezzò la fronte sudata. Anche la madre e le sorelle si erano avvicinate. Seguirono tutte e quattro in silenzio i suoi ultimi respiri. Poi ci furono solo ore concitate. Ricordando gli avvenimenti di quegli ultimi lunghi giorni, Marlene, come se fosse un oggetto magico con chissà quale potere, continuava a rigirare tra le mani il suo portachiavi. Era una piccola clessidra. La sabbia scivolava da una parte all’altra, e lei pensava a quanto fosse veloce il tempo, e a quanto potesse dilatarsi senza senso proprio come in quel momento. Guardò le persone riunite intorno a quel loculo. Vide il volto provato di sua madre, le sue sorelle in un angolo, gli occhi rossi e persi nel vuoto, e una serie di personaggi, le mani giunte, le braccia conserte, che in quel momento avevano per lei volti anonimi.
Era una bellissima giornata, il sole primaverile batteva sul suo viso, sentiva il vento leggero che entrava nella sua camicetta e le accarezzava le braccia. Si sentiva in colpa nel provare piacere per quei raggi solari e quel vento, che sembrava volessero farsi spazio nel suo vuoto.
C’era un odore insopportabile di fiori; si voltò e li vide in un angolo ammucchiati, c’erano delle fasce con incisi sopra dei nomi che non riconosceva. Con amore, con affetto, con stima. Robaccia che si stava già decomponendo, come tutti loro, del resto. Perché bisognava coprire l’odore della morte? Erano più disgustose tutte quelle rose, gerbere, lilium, orchidee recise e profumate fino alla nausea che l’odore della morte!
La voce del prete che cominciava a sciorinare le sue litanie richiamò la sua attenzione. A suo padre probabilmente quella nenia senza senso non sarebbe nemmeno piaciuta. Ebbe l’impulso di girarsi per dirglielo, ma lui non c’era. Non ci sarebbe stato mai più. Si fece forza pensando alla legge di Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Che cazzata. Lei voleva la forma esatta, precisa di suo padre. Non voleva una sua trasformazione. Voleva rivedere lo stesso viso, sentire le stesse identiche inflessioni della sua voce, non voleva qualcosa che lo ricordasse anche solo vagamente. Lei stessa era una trasformazione di suo padre, pensò guardando le sue mani, ma questo non le bastava in quel momento.
Guardò il prete nel suo abito talare, lui era eternamente in lutto, aveva rinunciato ad ogni forma di vita. Beato lui, pensò guardando il crocifisso di legno, la piccola Bibbia che teneva tra le mani e la stola viola che ricadeva su quell’abito nero.
Non riusciva a respirare, detestava quei fiori, e tutta quella gente non le permetteva di rinchiudersi nel suo angolo segreto. C’era sempre qualcuno che arrivava a stringerle la mano, a dirle:

“Condoglianze. È la vita”. Fanculo. Al prossimo individuo che avesse pronunciato quelle parole probabilmente avrebbe dato una testata.
Decise di allontanarsi per non creare imbarazzo e dolore alla madre e alle sorelle, già provate da tutto il resto. Sapeva che anche loro non sopportavano tutte quelle persone. Avrebbe voluto cacciare tutti via, e rimanere solo loro quattro chiuse a schermarsi a vicenda in quel dolore.

Vide una coppia di amici di famiglia, potevano avere al massimo una sessantina d’anni, si tenevano per mano. Sperò che sua madre non li vedesse: lei aveva appena perso il compagno della sua vita, non avrebbe più potuto prendergli la mano. Le aveva stretto le mani per l’ultima volta solo poche ore prima, ma erano ormai fredde, non era la stessa cosa.

Allontanandosi notò una panchina di marmo bianca, si sedette per calmarsi. Era lucida, con delle piccole venature nere, stava sotto un albero che non capiva di che specie fosse. Ma chi se ne frega, pensò, erano tre giorni che non dormiva, non aveva poi molta importanza riconoscere la sua specie. Era un bell’albero, con i rami carichi che quasi scendevano a posarsi sulla fredda panchina e le restituivano un po’ di colore in mezzo a quelle tristi lapidi con le foto di volti dalle storie sconosciute. Accarezzò la corteccia, voleva sentire qualcosa di ruvido sotto le sue mani, poi si sedette e accese una sigaretta.

Le venne da ridere. In quella circostanza nessuno le avrebbe detto che non doveva fumare. Era uno di quei momenti in cui chi sta provando dolore è autorizzato dagli altri a fare qualsiasi cosa. Cercò di non ridere, ma non ci riusciva, pensava che anche suo padre avrebbe trovato divertente questa cosa. Si coprì il viso con i capelli: se qualcuno l’avesse guardata in quel momento, avrebbe sempre potuto simulare un finto pianto. Proprio non ci riusciva a piangere. Era come se dentro non avesse più niente che potesse far uscire le lacrime. Si sentiva in colpa anche per questo. Guardò la sigaretta, magari se l’avesse spenta sulla sua pelle le lacrime sarebbero uscite. Aspirò di nuovo, poi la gettò e la vide rotolare sulla terra rossa oltre le sue scarpe nere.

Di nuovo il vento venne ad accarezzarla, e portò con sé anche il profumo e il polline dei fiori di campo. Seguì il percorso delle particelle di polline che volavano lontano, quasi a voler raggiungere le bianche nuvole. Sentiva una strana dolcezza dentro in quel preciso momento; non si sentiva quasi più in colpa provando piacere per la vita che le scorreva dentro, anche se il suo stomaco si stringeva in una morsa glaciale se solo ripensava all’immagine di suo padre. Le sembrava che lui fosse seduto accanto a lei. Chiuse gli occhi. Sentiva il sole che voleva poggiarsi sulla sua mano, la allungò tentando di prendere un raggio.

Riaprì gli occhi e vide sua madre in mezzo a quegli sconosciuti. Si era voltata e la guardava, sorridendo appena un po’. Le sorrise anche lei. Non l’aveva mai amata tanto come in quel momento. Poi vide un suo amico che tirava fuori da una custodia logora una tromba. Il sole si appoggiava sul suo ottone lucido e sembrava che la chiamasse. Lentamente si alzò. E andò avanti.

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DISTORSIONI EROTICHE NON AUTORIZZATE

Meri Borriello

Distorsioni erotiche non autorizzate

 

Si guardò attentamente intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi: nessuno scocciatore, intravide soltanto dall’altro lato della strada una macchina nera, ma era lontana, non le avrebbe creato problemi quella presenza. Guardò di sfuggita le buste sistemate con cura sul sedile posteriore della sua auto e si avviò lungo il viale che portava al suo rifugio segreto. Il rumore dei tacchi sul selciato non la distrasse dal piacere che provava sentendo frusciare le sue autoreggenti contro la gonna; il pensiero di lui la faceva fremere, spingendola ad assaporare ancora di più quella breve passeggiata. Era completamente immersa nel silenzio che circondava quella casa sperduta in campagna, i rami degli aceri si piegavano mossi dal vento, li sfiorò, lasciando che la pioggia, posatasi sulle fitte foglie rosse, le scorresse tra le dita.

La casa che l’aspettava era su tre piani, le grandi vetrate sembravano osservarla.
Stringeva tra le mani un sacchetto di stoffa, ne accarezzò la morbida seta, poi tirò fuori una chiave.
C’era un forte odore di chiuso al pianterreno, ma non le importava, sarebbe rimasta lì giusto il tempo che le occorreva per spogliarsi. Lasciò scivolare a terra la gonna e sbottonò la camicetta. I suoi pensieri si persero nel ricordo delle mani delicate che le stringevano con forza il collo, della calda voce che le sussurrava cosa avrebbe dovuto fare. Era già accaduto tante volte, ma l’attesa di stare ai suoi piedi e di stringersi alle sue gambe, mentre lo pregava di prenderla ancora, le toglieva sempre il respiro.
Avvolta nella carta velina c’era la sua sottoveste preferita, l’avrebbe indossata per lui. Accarezzò le lunghe ciocche dei suoi capelli: era pronta.
Non sapeva se lui fosse già arrivato, ma non aveva fretta. Gli istanti poco prima di scendere le scale erano troppo preziosi. La sua mano stringeva con forza il freddo pomello della porta, fece un profondo respiro e la aprì.
Era quasi del tutto al buio; da una finestrella filtravano deboli le ultime luci di quel pomeriggio invernale. Scese lentamente i gradini di marmo, che conosceva a memoria; i piedi le scivolavano un po’ e aveva il respiro leggermente affannato. Non poté fare a meno di immaginare le scarpe infangate che avevano già disceso quegli scalini.
Lui era lì, lo sentiva. Non si era ancora abituata al buio e non riusciva a vederlo. Cercò di raggiungere il divano di velluto sul quale probabilmente lui si era già seduto. I suoi passi erano incerti. Riconobbe le sagome dei quadri sul muro, il vaso pieno di fiori sul tavolo. Continuò ad

avanzare lentamente. Intravide la sua figura attraversare per un attimo il vecchio specchio d’ottone appoggiato alla parete. Aveva quasi raggiunto il divano, quando una voce profonda interruppe i suoi passi: “Hai voglia di una sigaretta?”
Per una frazione di secondo vide scintillare la fiamma di un accendino: adesso sapeva dove andare.

“Sì” rispose in un sussurro, continuando ad avanzare.
Il fumo si disperdeva leggero in quell’angolo buio della stanza, allungò la mano per prendere la sigaretta. Sfiorando le sue dita sentì crescere in lei l’eccitazione.
Lui ritrasse la mano e disse: “Vieni più vicina”.
La sua voce roca le fece muovere gli ultimi passi che li dividevano. Sentì una mano fredda sfiorarle il collo, dischiuse le labbra e, fermando le dita che stringevano la sigaretta, aspirò profondamente.
Le loro labbra erano vicinissime, lui la fece girare e le strinse un braccio intorno al collo. Avvicinò di nuovo la sigaretta alla sua bocca, lei aspirò ancora, deliziata dal sapore del tabacco e da quella stretta. La sigaretta si accorciò, consumata dal loro tirare.
Sentì le sue mani abbassarle le spalline della sottoveste per poi poggiarsi sul seno; guardava il mozzicone spegnersi lentamente sul pavimento, non riusciva a smettere di muoversi.
“Devi stare ferma” le sussurrò lui, stringendole più forte il seno.
“Ti prego…” disse lei gemendo; stava cercando, inutilmente, di rimanere immobile.
Sentì le mani di lui infilarsi tra le sue gambe, le schiuse ansimando, poi si accorse che le stava facendo risalire lentamente lungo i suoi fianchi.
“Pregami ancora” le ordinò lui sottovoce.
“Ti prego” ripeté lei, cercando di aderire di più al suo corpo.
Le sue mani forti le strapparono la sottoveste con decisione, sentiva il suo respiro addosso. “Qual è il tuo nome?” le chiese accarezzandole il volto.
Gemendo lei rispose: “Non ho nome”.
Senza smettere di accarezzarla, lui continuò: “A chi appartieni?”
Cercando di rimanere immobile il più possibile, lei rispose in un soffio: “A tutti. A nessuno”. Lui la lasciò andare.
Era eccitatissima, sentiva bisbigliare tutta la stanza mentre lo seguiva in quella tortura deliziosa. L’aveva fatta sedere, il metallo della sedia era freddo al contatto con la sua pelle. Non poteva più vederlo adesso che era alle sue spalle, cercò invano di allungare le braccia dietro di sé per poterlo toccare, poi sentì la sua mano posarsi sulla sua nuca. Era accaldata. Si voltò, disposta ad accontentare qualunque sua richiesta.

“Devi stare ferma ti ho detto!” le ordinò di nuovo lui, aspramente. Le tirò i capelli e lentamente disse: “Apri la bocca”.
Fece quello che le aveva chiesto e sentì il sapore acre del raso: le stava legando un sottile pezzo di stoffa intorno alle labbra. Chiuse gli occhi e aspettò quella che le sembrò un’eternità. Finalmente, sentì le sue mani schiuderle le gambe. Sapeva di non dover aprire gli occhi, ma non sapeva per quanto tempo sarebbe riuscita a resistere; si abbandonò ai baci che le percorrevano le gambe risalendole.

Allungò le mani per accarezzargli i capelli, per rendere quei baci ancora più profondi. Lui si irrigidì, lo sentì sospirare, poi disse: “Non ce la fai proprio, vero? Non ce la fai a star ferma!” Non poteva rispondergli, ma non era necessario: lui conosceva già le sue risposte. Riaprì gli occhi, lo vide alzarsi e sistemarsi i pantaloni, poi le chiuse le mani intorno ai polsi. Lei sperò per un attimo che glieli spezzasse, che quella stretta divenisse una morsa dolorosa. Trattenne il respiro, ma lui mollò la presa. Lo guardava con occhi supplichevoli, e lui ora la osservava con gelido distacco. Ruppe quel silenzio pesante solo per dirle che doveva andarsene.

Lei provò ad allungare le braccia timidamente, voleva fargli cambiare idea, impietosirlo in qualche modo, ma lui le scostò, dicendo: “Non sei il niente che voglio riempire”.
La guardò ancora, quasi con disprezzo, lei abbassò lo sguardo, poi sentì le sue calde labbra posarsi sul suo collo. Credette che avesse cambiato idea, che ci avesse ripensato, ma quel contatto durò solo un istante. Sentì che si allontanava verso l’uscita posteriore, sbattendo con forza la porta. Non poteva crederci: aveva mandato tutto a puttane, era stata una stupida, pensò, mordendo la stoffa e maledicendosi.

Le venne da piangere: non sapeva quanto tempo avrebbe dovuto aspettare prima di poterlo rivedere. Nervosamente si liberò del raso e se lo avvolse intorno al polso, respirò ancora l’odore nella stanza, poi, come un automa, raggiunse il piano superiore.
Accarezzò lo strappo della sottoveste, sospirando se la tolse e la ripose con cura nella carta velina; si rivestì svogliatamente, il suo corpo era inappagato, con stizza si riabbottonò la camicetta, infine infilò le scarpe e le calze in una busta di cartone insieme alla sottoveste.

Era buio pesto quando chiuse la porta alle sue spalle. Poteva godere solo del contatto con l’erba bagnata sotto i suoi piedi nudi.
La pioggia finissima, che non si sarebbe fermata per tutta la notte, le bagnò il viso. Il cielo era carico di nubi. Stava congelando, e questo non le dispiaceva affatto.

C’era una macchina abbandonata, guardiana di quel posto, i contorni della lamiera arrugginita la affascinavano. La pietra che qualcuno aveva messo al posto della ruota, ormai andata o

rubata, le apparve perfetta mentre la sfiorava con le dita; rimase a stringerla per alcuni istanti, poi lasciò andare la presa.
Non fece fatica ad aprire la portiera, il sedile sporco e logoro era invitante e lei si sedette per raccogliere le idee. Le finestre della casa la scrutavano. Sciolse dal polso la stoffa inumidita, la passò intorno al collo e strinse, poi tornò a guardare le finestre: le sembravano occhi vuoti, ipnotici. Sentì salirle su per la gola una risata irrefrenabile, che divenne presto un pianto spezzato dal suono stridulo della sua voce. Gli occhi pieni di lacrime le offuscavano la vista, e quel laccio intorno al collo adesso non la faceva più respirare. Lo allentò e le cose tornarono al loro posto.

Si stava infilando le calze quando, tirando su la gonna per sistemarle, stupita si accorse che un piccolo ragno nero le camminava su una gamba. Lo scrutò meravigliata: aveva paura che si sarebbe fermato, che avrebbe cambiato percorso. Trattenne il respiro, doveva stare ferma, chiuse gli occhi e si rilassò, sperò che il ragnetto svanisse lentamente tra le sue gambe.

Un tuono improvvisamente la riscosse dal torpore. Non sapeva quanto tempo fosse passato, guardò le sue gambe: nessuna traccia del piccolo ragno.
Sospirando guardò i rami degli alberi che si muovevano attorno alla macchina, sembravano sussurrarle di alzarsi, di andare via. Era tardissimo, si strinse forte il cappotto addosso e si infilò le scarpe.

Scendendo dall’auto accarezzò la fredda lamiera arrugginita, si voltò a guardare ancora una volta il suo rifugio segreto. Doveva fare in fretta: quelle finestre, adesso, erano occhi minacciosi che la seguivano. Riprese il sentiero per tornare alla sua macchina, non era molto distante, cercò di accelerare il passo, ma i tacchi affondavano nel fango facendola rallentare.

Adesso stava cercando nervosamente le chiavi della macchina, che erano finite sul fondo della sua borsa, sepolte da inutili oggetti. Finalmente le trovò e si sedette al sicuro, i battiti del suo cuore si calmarono.
Lo specchietto retrovisore le restituì un’immagine orribile: aveva il viso sfatto, il trucco era colato e i capelli erano arruffati. Tentò di darsi una ripulita con le salviette umidificate, frugando nella borsa trovò la cipria e il lucidalabbra, infine si spazzolò i capelli: andava molto meglio.

Fece manovra stando ben attenta a non rovesciare le buste della spesa sul sedile posteriore; un’occhiata all’orologio la rassicurò: sarebbe arrivata a casa in tempo.
Per fortuna aveva preparato quasi tutto il giorno prima, pensò mentre parcheggiava la sua auto. Suo marito le aveva ripetuto fino alla nausea quanto fosse importante quella cena, e lei aveva cucinato fino alla nausea cercando di accontentarlo. Non aveva capito bene chi fosse il tizio

che doveva andare a cena da loro: quando Carlo le parlava, il più delle volte lei non ascoltava, si limitava ad annuire; aveva perso le speranze che lui si accorgesse di non essere ascoltato quasi per niente quando parlava; rise di gusto a quel pensiero mentre apriva la porta.
Aveva giusto il tempo di farsi una doccia e apparecchiare: era in orario, ma non poteva permettersi di perdersi in pensieri inutili. Carlo sarebbe arrivato direttamente dopo il lavoro con questo tizio e avrebbero cenato insieme.

Impostò il timer del forno e andò in bagno. Cominciò a far scorrere l’acqua della doccia, poi andò nella camera da letto per preparare i vestiti che avrebbe indossato. Si sarebbe messa il suo bel tubino nero. Si ricordò delle scarpe: doveva pulirle, erano piene di fango. Corse a prendere la busta che aveva lasciato in cucina insieme alle ultime cose comprate per quella cena. Accarezzò la sua sottoveste e a malincuore la ripose nell’armadio, poi tornò in bagno. Le dispiaceva togliere quel fango, ma doveva farlo: quelle scarpe erano perfette col suo vestito; lasciò solo una macchiolina, quasi invisibile, in un angolo della scarpa sinistra, ma lei sapeva che c’era e questo la divertiva.

Si spogliò, era quasi in ritardo adesso, e si infilò velocemente sotto la doccia. L’acqua calda la rilassò, prese la spugna e se la passò pigramente sul corpo. Non riusciva a smettere di pensare a quel pomeriggio, a quelle finestre che la scrutavano. Lasciò cadere la spugna e poggiò le mani sulle fredde piastrelle. Non ce la faceva più. Avrebbe voluto dar sfogo ai suoi desideri, ma era tardi, non voleva farlo in fretta: meglio l’insoddisfazione, pensò, che sciupare un momento così bello.

L’acqua le scorreva lentamente sul corpo facendo scivolare via gli ultimi residui di sapone. Uscì dalla doccia e finì di prepararsi; le rimaneva un’ora scarsa. Lasciò le scarpe per ultime: le avrebbe messe solo dieci minuti prima dell’appuntamento.
In cucina il timer aveva cominciato a suonare, corse a spegnerlo. Apparecchiò svogliatamente; presto però la sua passione per le geometrie prese il sopravvento: allineò le posate perfettamente sui tovaglioli, mise i bicchieri che preferiva uno accanto all’altro, sorrise, aggiustò le piccole grinze della tovaglia e si allontanò per osservarla meglio: sì, pensò, andava bene, era soddisfatta.
Accese una candela e tornò in cucina per sistemare le ultime cose e aprire una bottiglia di vino; se ne versò un po’ e bevve lentamente; guardò fuori: pioveva ancora.
Aprì la portafinestra per respirare l’odore della terra bagnata; mancavano dieci minuti, lasciò il bicchiere sul lavello e corse ad infilarsi le scarpe, si spruzzò un po’ di profumo e mise il suo braccialetto portafortuna.
Sentì il portone chiudersi. Erano arrivati. Chiuse la porta della camera e si avviò per il corridoio.

Carlo stava entrando seguito dal tizio misteriosamente importante, lei si sarebbe volentieri acquattata dietro la sua rosa del deserto.
“Giulio, questa è mia moglie” disse facendo qualche passo verso di lei.
“Mi chiamo Dafne” aggiunse lei, sentendo il solito prurito affacciarsi al polso destro.

“Cara” continuò Carlo, “ti presento il mio nuovo collaboratore nella sezione acquisti”. “Salve” disse lei, stringendogli la mano.
“È un nome insolito Dafne, veramente bello, ma insolito” disse il loro ospite ricambiando la stretta.
Era un tipo non molto alto, stempiato, abbronzato in pieno novembre; non sopportava i suoi occhi che la scrutavano, mettendola a disagio.
Aveva già dimenticato il suo nome, o forse Carlo non lo aveva proprio detto; avrebbe ascoltato con attenzione, prima o poi il nome sarebbe saltato di nuovo fuori. Si riprese dai suoi pensieri e disse: “Datemi i cappotti, sarete infreddoliti. Mi dispiace per questa brutta giornata, anche se a me la pioggia piace; mi piacciono le giornate così”.
Carlo rise e, togliendosi il cappotto, disse: “Scusala Giulio, è fissata con la pioggia! Io vorrei stare al sole dei Tropici e lei dice che la pioggia è bella! Ho regolato i riscaldamenti proprio pochi giorni fa: non saranno i Tropici, ma in casa nostra c’è proprio un bel calduccio!” Giulio! Ecco quale era il nome, pensò afferrando i cappotti per metterli su una stampella e farli asciugare nell’armadio a muro.
C’era uno strano silenzio. Giulio si schiarì la voce e disse: “La pioggia ha anche i suoi lati piacevoli, è romantica”.
Lei si mise a ridere. Aveva proprio detto che la pioggia era romantica? O se l’era solo immaginato?
Cercando di rimanere seria esclamò: “Siamo rimasti impalati in corridoio! Andate a mettervi comodi a tavola, arrivo subito”.
Deviò verso la cucina. Li sentiva parlottare, ma non capiva cosa dicessero; aprì un’altra bottiglia e si versò da bere; mise i piatti che aveva preparato su un carrellino e portò tutto nell’altra stanza.
I due fecero silenzio, lei mise tutto a tavola, poi Carlo disse: “Grazie cara”; fece una piccola pausa e continuò: “Mia moglie è un portento in cucina. Quando le gira bene. Altrimenti non c’è verso di mangiare qualcosa di decente”, e rise seguito da Giulio.
Il prurito ricominciò. Dafne si grattò il polso e si sedette.
“Facciamo un brindisi” propose Carlo, poi aggiunse: “Agli acquisti di qualità!”
Fecero tintinnare i bicchieri e bevvero.

La cena continuò così per un bel po’. Carlo e Giulio parlavano di acquisti, di vendite e di noiose scadenze; lei tentava di agganciarsi a qualche discorso, ma niente la interessava; si limitava a passargli il pane, sorrideva e ci beveva su. Ogni tanto se ne andava proprio altrove. Ripensava al suo pomeriggio sprecato, però evitava di soffermarsi troppo su quelle fantasticherie. Il vino nella brocca era quasi finito, così, approfittandone per allontanarsi, disse: “Vado ad aprire un’altra bottiglia, aspettatemi, non voglio perdermi nemmeno una parola: i vostri discorsi sono davvero avvincenti!”

Carlo la guardava scocciato, lei alzandosi continuò: “Dico davvero, sono avvincenti!”
Carlo fissava il tavolo, come per sottolineare qualcosa che le sfuggiva; lei intercettò il suo sguardo, poi disse: “Oh! Scusami. La brocca! Devo prendere la brocca!” e ridacchiando si allontanò.
Non li sopportava, pensò aprendo la bottiglia. Questo Giulio, così romantico, magari ci teneva ad aprire le bottiglie, magari stava facendo una pessima figura. Ormai era fatta. Rise lasciando scorrere il vino nella brocca.
Tornò a tavola. Versando il vino nei bicchieri esclamò: “Propongo un brindisi!”
Carlo la guardò, aveva socchiuso gli occhi come se volesse ammonirla, ma lei non gli diede peso e continuò: “Alla Groenlandia!”
“Perché proprio alla Groenlandia?” chiese stupito Carlo.
“Qualche sera fa stavo guardando in televisione un documentario, è un posto davvero affascinante!” rispose lei. Poi bevve. Giulio e Carlo la osservavano con un’espressione indecifrabile.
“Facciamo una piccola pausa dal lavoro, che ne dite?” propose Dafne. Poi appoggiò il bicchiere sul tavolo, ma ci ripensò e bevve un altro sorso prima di continuare: “C’è questo tizio che vive in Groenlandia…”
Carlo la interruppe: “E che combina questo tizio in Groenlandia?”
“Dammi tempo!” disse lei, poi riprese: “Semplicemente vive lì”.
“Sì, d’accordo, ma perché è così interessante?” continuò Carlo giocando col suo tovagliolo. “Questa specie di tribù nella quale vive ha eliminato dal linguaggio tutti gli aggettivi possessivi. Sai quelle frasi assurde tipo: questa è mia moglie! Questo è mio figlio! Lì non si possono dire. Non mi ricordo bene, ma forse ti fanno addirittura una multa se infrangi questa regola”.
C’era un silenzio imbarazzante, lei cominciava a divertirsi; Carlo riprese: “Non capisco dove vuoi arrivare, cara”.
“E poi questo tizio adora le foche. Come direbbe il nostro nuovo amico, posso definirti amico, vero Giulio? Dicevo, come direbbe il nostro amico Giulio, è una cosa così romantica!”

Si raddrizzò sulla sedia e lasciò scivolare sotto la sedia le sue scarpe. Ridendo esclamò: “Chiedo scusa! In Groenlandia mi avrebbero multato, ti ho definito “nostro amico”! È davvero difficile eliminare questa brutta abitudine. Sarebbe carino pensare a un modo per modificare questo modo di marchiare le persone come fossero vacche da consorzio”. Fece una pausa, poi disse: “Scusate, mi sembrava una cosa divertente da condividere; ma viste le vostre facce, forse mi sbagliavo”. Si portò una mano alla bocca per reprimere uno sbadiglio: si stava annoiando a morte.

Aveva deciso di andarsene a letto, fingendo un improvviso mal di testa, quando intercettò lo sguardo di Giulio: la fissava in maniera strana. Sentì, improvvisamente, che avrebbe potuto trasformare quella noiosa serata in una serata perfetta. Respirò profondamente, si concentrò sul ticchettio della pioggia sui vetri e disse: “Dopo il documentario, ho continuato a guardare la tv. Mi sono imbattuta in un film molto coinvolgente, mi ha catturato fin dalle prime immagini, anche se a tratti mi si chiudevano gli occhi per il troppo sonno; credo si intitolasse: The Butcher, the Baker, the Candlestick Maker”. Si fermò un attimo, poi concluse: “Se volete ve lo racconto”.

Carlo la scrutava perplesso, lei lo ignorò e, guardando Giulio, riprese: “È un film particolare, ma tu, Giulio, mi sembri il tipo di persona che apprezza questo genere di storie” concluse a bassa voce.
Giulio la fissò nello stesso strano modo in cui l’aveva guardata prima. Lei si alzò e disse: “Secondo me adesso muori dalla voglia di sapere di cosa parla!”

Senza aspettare una risposta, aggiunse: “Stiamo più vicini. Sono certa che ti piacerà”. Avvicinò la sua sedia a quella di Giulio e continuò: “Carlo, avvicinati anche tu, altrimenti ti perdi il meglio! Anzi, facciamo una cosa, spegniamo la luce e lasciamoci trasportare dalla fiamma della candela, questo racconto necessita di una certa intimità. Carlo, ci pensi tu?”

Carlo, suo malgrado, spense la luce, mise la candela sul tavolo ed avvicinò la sedia a quella di Giulio: le loro ombre si proiettavano sulla tovaglia, adesso.
Le ci volle qualche secondo per abituarsi alla penombra, poi, sporgendosi verso Giulio e picchiettando lentamente le unghie sul tavolo, cominciò a raccontare: “Questo film si apre con il frusciare del vento tra le foglie di alcuni vecchi aceri; la pioggia ticchetta sui vetri di una grande casa; una voce maschile fuori campo bisbiglia alcune parole”. Abbassò la voce e riprese, dicendo le parole di quella voce: “Non le andava di giocare, quasi mai, eccetto alcune notti speciali, perfette”.

Carlo la interruppe: “Come inizio non sembra un granché!”

Lei sorrise e con voce mielosa disse: “Devi avere pazienza. E poi magari a Giulio questa storia già piace” concluse sfiorando la mano di Giulio. Lui si mise più comodo e disse: “L’inizio sembra interessante, continua”.
Lei si accarezzò i capelli e riprese: “Una donna ha chiuso la porta di casa con tre mandate e posato le chiavi in un vaso di coccio. Attraversa un lungo corridoio buio, fino a giungere alla sua camera da letto, accende una piccola lampada”. L’attenzione di Dafne era tutta su Giulio, Carlo sembrava essere sparito. Sospirando, riprese il suo racconto: “Si guarda allo specchio, scostandosi i capelli per osservare i suoi occhi. Si volta di scatto, getta i vestiti sul pavimento e si infila le autoreggenti”.

Giulio si mosse sulla sedia.
Lei continuò: “Accarezzandosi le gambe lascia andare lo sguardo sul suo armadio. Sul ripiano più alto c’è un tesoro nascosto che la aspetta”.
Carlo la interruppe nuovamente: “Quindi è una specie di thriller!”
Dafne si girò e, seccata, disse: “Forse, non ricordo tutto precisamente, avevo molto sonno, te l’ho detto, ma ti prego: smettila di interrompermi. Perché non segui in silenzio la storia, come fa Giulio?”
Sorrise a Giulio mentre Carlo sbuffava stizzito, poi riprese: “Apre il cassettino di un portagioie intarsiato, poggiato su un grande comò: cerca il rimmel. Lo stende con cura sulle ciglia, poi tira fuori da un altro cassettino un rossetto; vaga col pensiero mentre disegna le linee delle sue labbra, ora di un intenso rosso scarlatto. Segue con la lingua il contorno dei suoi denti bianchi, poi i suoi occhi si soffermano su una boccetta di profumo. Ne spruzza un po’ nella stanza e si immerge nell’aria profumata di iris; sbatte gli occhi ammiccando allo specchio”.
Giulio non riusciva a staccare gli occhi dalla bocca di Dafne. Lei sorseggiò il suo vino poi, mordendosi le labbra, riprese: “China la testa e lascia che i suoi capelli si scompiglino, li ravviva con le dita; sorride impercettibilmente andando all’armadio: un grande specchio ricopre l’anta, le restituisce la sua immagine e l’immagine del letto. L’anta centrale scorre via veloce. In punta di piedi cerca con mani impazienti qualcosa, poi, finalmente, sente frusciare il raso leggero: è la sua sottoveste preferita, nera, con un inserto di pizzo intricato sul davanti. La indossa, e facendo scorrere la mano sulla stoffa ritrova lo strappo profondo sui fianchi; non ha mai voluto ricucirlo”.
La voce stridula di Carlo la interruppe per l’ennesima volta: “Ma che razza di film stavi guardando?”

Lei fece un gesto con la mano, come a dire che quello che diceva lui non aveva importanza, guardò nuovamente Giulio, che con voce roca mormorò: “Continua, Dafne, avevi ragione: questa storia mi piace”.
Dafne, divertita, riprese a raccontare: “Il letto sembra invitarla e lei, rapita, si distende; lo specchio che ha di fronte la osserva, lei gli sorride e si accarezza il collo. Fa scivolare una spallina della sottoveste e trova il suo seno, lo stringe un po’ e rimane immobile ad ascoltarsi respirare nel silenzio della notte, poi lo stringe più forte e con l’altra mano fa sparire le sue culottes tra le lenzuola. Inizia a giocare: sorride allo specchio mentre dischiude le gambe”. Fece una pausa, guardò Carlo, che abbassò gli occhi imbarazzato; Giulio sembrava stesse trattenendo il respiro, il suo sguardo passava dalla bocca agli occhi di Dafne.

Lei riprese a raccontare: “Le sue mani scendono per accarezzare i contorni delle sue cosce; si sofferma e si perde lungo quei confini. Si gira sul letto, può guardarsi attraverso lo specchio solo con la coda dell’occhio: è in ginocchio, la sottoveste alzata, i capelli da un lato le lasciano scoperta la nuca. Trova quello che cerca, si increspa e aumenta un po’ il ritmo, non ha fretta di venire; stringe più forte le gambe intorno alle sue dita per sentirle chiuse in una stretta forte.Strofinandosi sulle lenzuola, strappa ancora un po’ la sottoveste e si lascia trasportare dal dondolio, si morde le labbra: è tutto sfocato”.

Dafne aveva allungato le gambe e nel farlo aveva incontrato quelle di Giulio. Prese a sfiorarle col piede. Carlo giocava nervosamente con il tovagliolo, con le posate, col suo bicchiere; non riusciva a stare fermo.
Dafne riprese: “Non è più sola: la stanza è popolata da volti senza nome; immersi nell’ombra, assecondano i suoi movimenti, li sente fremere su tutto il corpo; afferra, in quel silenzio, parole irripetibili, sussurrate da voci roche, che la fanno gemere. La schiena si inarca, ancora un pochino di più, mentre le sue dita la fanno precipitare in mille vertigini. Le voci si moltiplicano, aumenta il suo dondolare, il respiro si fa corto, vortica tra tutti quei corpi. Affonda la testa nel cuscino umido di sudore, lo morde, vorrebbe inghiottirlo, lo stringe con forza, forte, sempre più forte, poi, senza fiato, si libera in un urlo soffocato”.

Dafne si passò febbrilmente una mano tra i capelli. Sentiva gli occhi di Giulio addosso a lei, li sentiva percorrere il suo corpo mentre le loro gambe si continuavano a sfiorare. Percepiva il suo tubino aderirle perfettamente al corpo, i suoi respiri corti le schiacciavano il seno contro la stoffa ruvida. Le si offuscò la vista, chiuse gli occhi trasportata da quelle immagini, sussurrando disse: “La voce narrante, per quel che ricordo prima che le immagini diventassero confuse,bisbiglia nuovamente alcune brevi parole”. Lentamente, concluse: “La donna guarda lo

specchio e si lecca le labbra. Il rossetto sbavato, le guance piene di rimmel colato, si accende una sigaretta: è una notte perfetta”.
Rimasero immobili tutti e tre. Dafne godeva nel sentire i loro respiri affannati, avrebbe voluto prolungare quell’istante il più possibile. Carlo ruppe improvvisamente il silenzio con una risata isterica, poi disse: “Che film bizzarro! È osceno!”

Accese la luce e disse: “Scusala, Giulio”; rivolgendosi a Dafne aggiunse: “A volte non ti capisco proprio”. Si sedette di nuovo e, guardando per terra, continuò: “Forse hai esagerato col vino. Perché non vai a prendere il dolce?”
Poi, come se di colpo avesse ritrovato il buonumore, si girò a guardare Giulio e disse: “Mia moglie fa dei dolci buonissimi!”

Dafne, sorridendo, si sciolse dalla stretta delle gambe di Giulio, si alzò, ed aggiustandosi il vestito esclamò: “Multa, multa, multa! Ti correggo, caro: Dafne fa dei dolci buonissimi! E poi non trovo che il film sia osceno, anzi, credo che sia divino. Tu che ne pensi, Giulio?”
Sentì la voce stizzita di Carlo richiamarla: “Dafne, non hai le scarpe”. Lei lo guardò stupita, poi sorridendo replicò: “Bravissimo! Impari in fretta!”

Prese le scarpe, sorrise guardando la macchiolina di fango e se le infilò. Barcollando leggermente disse: “Voi continuate a chiacchierare, vi ho distratto fin troppo con tutte queste storie. Ci vorrà un po’ per guarnire il dolce. Però fatecelo un pensierino: è veramente affascinante la Groenlandia, potremmo andarci tutti e tre insieme!”

Giulio abbassò gli occhi e lei continuò: “Faccio in un lampo”.
Si fermò accaldata vicino alla finestra della cucina, la aprì, aveva bisogno d’aria. Prese dei cubetti di ghiaccio e se li passò sul viso. Le era piaciuto provocarli in quel modo, era contenta della piega che aveva preso la serata. Tirò fuori il dolce alla frutta e lo appoggiò sul tavolo. Le scappava da morire la pipì. Non riusciva a stare ferma, si muoveva su un piede e sull’altro cercando di trattenersi. Non le andava di passare di nuovo davanti a quei due per andare in bagno. Chiuse la porta ed aprì la portafinestra, prese al volo dei fazzoletti e uscì fuori; quella parte della casa era abbastanza coperta: non l’avrebbe vista nessuno.
Le venne un’idea. Si mise a ridere. Sperava di non farsela sotto, doveva resistere. Trovò un barattolo vuoto lasciato sul davanzale, lo prese, si accucciò vicino all’alberello che avevano piantato quando si erano sposati, tirò giù le calze e le mutandine, e finalmente si liberò.
Era brilla, un po’ di pipì le aveva sporcato le mani, ma quasi tutta era finita nel barattolino. Si sistemò e rientrò in cucina, si sciacquò velocemente le mani col sapone per i piatti; non poteva fare a meno di ridere guardando la sua pipì.

Il dolce alla frutta sembrava chiamarla. Prese il dosatore, lo infilò nel barattolino e fece cadere le piccole gocce dorate tra le fragoline, i pezzetti di ananas e arancia. Si assorbiva rapidamente; al massimo avrebbe mascherato tutto con della panna. Quel dolce era un capolavoro!
Aprì la porta e gridò: “Ancora un minuto! Sto preparando anche il caffè!”

Era proprio un bel dolce, pensò guardandolo, ma le sembrava che mancasse qualcosa. Uscì di nuovo all’aperto, prese un paio di ramoscelli di nocciolo e li immerse nel barattolo, li scolò un pochino e li dispose agli angoli del dolce come abbellimento: adesso era perfetto. Prese il vassoio e lo portò a tavola.

Carlo aveva ripreso a discutere di affari, Giulio non lo ascoltava più: la sua attenzione era di nuovo rivolta a Dafne.
“Questo è un dolce speciale, per i palati più romantici” disse lei facendo l’occhiolino al loro ospite.

“Si presenta davvero bene! Sono bellissimi quei ramoscelli; di che albero sono?” chiese Giulio continuando a fissarla.
“Di un nocciolo, li raccolgo quando vado a passeggiare e li conservo per occasioni speciali come questa”.

“E dove vai a passeggiare di bello?” fece Giulio, mentre lei aveva cominciato a tagliare il dolce. “Marciapiedi. Ci passeggio parecchio” rispose lei ridendo. Carlo la guardava inviperito. “Scherzo. Passeggio per qualche boschetto quando ho un po’ di tempo libero”.
Gli porse il piattino, poi disse: “Dimmi sinceramente se ti piace, e anche tu, caro, dimmi cosa ne pensi. Intanto vado a vedere se è pronto il caffè”.

Ritornò in cucina, chiuse la porta e si appoggiò allo stipite, fece un profondo respiro, prese le capsule del caffè e preparò tre caffè lunghi. Li versò nella caffettiera e la mise su un vassoio insieme alla zuccheriera e alle tazzine. Vide il barattolino con la pipì sul tavolo, ridendo lo nascose sotto il lavello accanto al veleno per gli scarafaggi, poi tornò soddisfatta nel salone. “Allora che mi dite? Com’era il dolce?”

Giulio, poggiando il cucchiaino sul piatto, rispose: “Ha ragione Carlo, sei bravissima! Uno dei migliori dolci che abbia mai assaggiato”.
“Sono contenta! Anche se mi dispiace non aver fatto il dolce al cioccolato, visto che Carlo lo adora. Ma non mi sembrava adatto per questa serata. Sarà per la prossima volta. Perché non ne prendete un altro pezzo? Intanto vi verso il caffè”.

Carlo tagliò altre tre fettine e disse stancamente rivolto a lei: “Tu non l’hai ancora assaggiato”. Dafne gli passò la tazzina, commentando: “Proprio non ce la faccio, sto per esplodere”. Poi,

dopo essersi seduta, disse: “Volete sapere qual è l’ingrediente segreto per rendere questo dolce così buono?”
Giulio annuì incuriosito. Lei disse: “Non dovrei dirlo, perché questo è un dolce davvero speciale”. Fece una piccola pausa, poi lentamente continuò: “Il Sauvignon. L’ingrediente segreto è il Sauvignon. Bisogna far macerare la frutta a lungo per ottenere un risultato eccellente, la frutta deve assorbirlo tutto. Ma non ditelo a nessuno, è un segreto”.

Giulio si pulì la bocca, poggiò il tovagliolo sul tavolo e disse: “Non vorrei sembrarti presuntuoso, lo volevo quasi dire che sentivo il Sauvignon”.
Lei sorrise. Inclinando un po’ la testa, lo guardò e disse: “Giulio, prendi un ramoscello di nocciolo, porta fortuna”. Giulio lo prese e, fissandola, rispose: “Ha un buon profumo. Ti ringrazio”. Aggiunse: “Adesso, però, ci vuole proprio una sigaretta. Vi dispiace se fumo?” Dafne sussurrò: “Accendine una anche a me”.

Carlo la guardò confuso, poi le chiese: “Ma non avevi smesso?”
“Sì, ma ogni tanto una sigaretta ci sta bene” rispose lei.
Giulio le passò la sigaretta, lei aspirò. Poi, buttando fuori il fumo, esclamò: “Che meraviglia! Una serata meravigliosa!”

Meri Borriello, Distorsioni erotiche non autorizzate, in Voci Nuove 5, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2018, pp. 175-194.




Raccolta di racconti e poesie: Voci Nuove

Lavoro finale del corso di scrittura creativa di Daniele Falcioni

Quando la mia amica Silvia mi ha portato il suo regalo di Natale si capiva fosse un libro, ma non capivo quel sorriso sicuro che le illuminava il viso «Questo non c’è nella tua libreria, contaci!» e solo dopo averlo scartato ho gioito e compreso: il libro in regalo è l’ultimo volume Voci Nuove edito da Rapsodia Edizioni uscito a dicembre.
Non poteva farmi regalo più bello, perché nel libro ci sono anche i racconti e le poesie a firma Silvia De Felice.

Voci Nuove volume 7 è una raccolta di racconti e poesie frutto di un anno di duro lavoro di otto autrici che seguono da alcuni anni il corso di scrittura creativa di Daniele Falcioni ad Aprilia.
Un lavoro certosino, fatto di idee, tagli, revisioni, fogli accartocciati, cancellature e frasi trasportate da pagina in pagina che si è svolto da remoto, visti i provvedimenti di distanziamento dovuti al Covid-19 e anche perché il loro docente è insegnante di Lingua Italiana all’Università di Edimburgo.

Incisiva e toccante la prefazione al libro del docente Falcioni il quale, prendendo a prestito le parole di Gottfriend Benn, afferma come durante quest’anno lui, insieme alle sue autrici

 

Abbiamo vissuto qualcosa di diverso, pensato qualcosa di diverso da ciò che ci aspettavamo, e ciò che rimane è qualcosa di diverso da ciò che avevamo in mente

 

Ho avuto il piacere di leggere i racconti di Silvia De Felice quando ancora erano in fase di revisione ma la forza della sua capacità narrativa è così insita nelle parole utilizzate che, leggendoli ora inseriti in un libro, mi hanno fatto dimenticare completamente chi fosse l’autrice spingendomi ad arrivare fino in fondo ad ogni racconto catturata dal ritmo incalzante.
Ha prevalso il testo rispetto al legame e credo che questo sia quanto di più bello possa sentirsi dire chi scrive per il puro piacere di creare storie, perché non conta chi sia a narrarle ma la capacità che hanno le parole di far viaggiare il lettore.

Ho amato il profondo senso di amicizia tra Elisabeth, Arthur e John in “Adagio” e sono rimasta piacevolmente catturata dall’energia di “Avventura di un’estate” mentre non oso dare un giudizio sulle poesie inserite nel volume in quanto considero l’arte della poesia come qualcosa di estremamente personale, capace di innalzare l’animo o di passare senza alcun smottamento interiore in relazione allo stato emotivo del lettore.

Ci tengo a inserire i nomi di tutte e otto le autrici del volume in ordine alfabetico: Laura Avati, Martina Belvisi, Meri Borriello, Ninni Caraglia, Cristina Cortelletti, Silvia De Felice, Valentina Pucillo e Silvia Zaccari.

Voci Nuove è volume che merita di essere letto per la grande capacità narrativa delle autrici, ciascuno con un proprio stile e, proprio per questo, capaci di soddisfare e di raggiungere il cuore di diversi tipi di lettori.

Voci Nuove è disponibile nelle librerie di Pomezia e Aprilia e mi auguro che presto possa esserci l’occasione di una bella presentazione in presenza.