Fuoco amico – Chi ha rapito Davide Cervia?

fuocoamicofrancescodelgrossoQuella di Cervia è un’assenza forzata, che lo ha portato lontano dai suoi affetti in un giorno che segnerà in maniera indelebile le vite di un gruppo di persone qualunque, al quale è stato negato l’amore di un padre, di un marito, di un parente e di un amico, il diritto a una vita normale e soprattutto alla verità”.

Francesco Del Grosso ( come del resto chi Vi scrive ) è rimasto coinvolto intimamente dalla vicenda terribile di Davide Cervia, il tecnico elettronico rapito a Velletri il 12 settembre 1990. Un uomo semplice, una famiglia come tante violata per sempre.

Davide Cervia svanisce nel nulla in un buco nero che sembra averlo inghiottito. Ma dietro quella misteriosa scomparsa si nasconde una sconcertante verità. Il passato torna a bussare alla porta di Davide, un passato fatto di capacità e competenze tecnologiche su un sistema di puntamento per missili militari che è sicuramente la causa del suo rapimento. Un segreto di Stato, una verità non svelata per sporchi interessi e biechi affari che hanno coinvolto un innocente.

Tutto questo è “ Fuoco amico: La storia di Davide Cervia” il documentario di Del Grosso, che sarà presentato in concorso e in anteprima assoluta a Bari al “BIFEST“ che si svolgerà dal 5 al 12 Aprile nel capoluogo pugliese.

Con Fuoco amico si chiude una personale trilogia sulla figura del padre mancato” ha spiegato il regista “iniziata nel 2009 con Negli occhi e proseguita due anni dopo con 11 metri, rispettivamente dedicati alle vite di Vittorio Mezzogiorno e di Agostino Di Bartolomei. Un tema a me caro, diventato di fatto centrale nelle storie che ho deciso di raccontare e che adesso ritorna ancora più prepotentemente in questo terzo atto che ruota intorno a Davide Cervia e alla sua misteriosa scomparsa. Tre esistenze, le loro, legate ad altrettante storie così lontane, ma unite da uno stesso comune denominatore: l’assenza”.

Il film cerca di dipanare la matassa intricata di un evento tragico che schiuma di rabbia per un destino, quello del cittadino italiano Davide che deve rimanere segreto tra depistaggi, omissis e dichiarazioni mendaci di chi dovrebbe avere il compito di difendere i cittadini e la verità.

Un intrigo internazionale quindi, che però è soprattutto una vicenda familiare, che nel documentario la moglie di Davide Marisa e i figli Daniele e Erika raccontano con grande dignità e fermezza, coadiuvati dal papà di Marisa Alberto Gentile, che da quel giorno maledetto è stato aiuto forte e amorevole di questa famiglia splendida e spezzata. Una vicenda piena di verità scomode e di bugie omertose, portate a galla non solo dalla famiglia ma anche da un gruppo di persone che a vario titolo si sono occupate del caso, dovendo di volta in volta fare fronte comune contro atti intimidatori, depistaggi, processi, bugie, gravi omissioni, false testimonianze e tentativi di insabbiamento.

Fuoco amico” è un film necessario, racconto intimo e privato di un’odissea pubblica, un viaggio tra le parole, le testimonianze e i ricordi legati ad uno dei tanti Segreti di Stato taciuti e non ancora rivelati.

Il trailer del film


La proiezione ufficiale avrà luogo il 7 aprile alle ore 19 presso il Multicinema Galleria, alla presenza del regista, Francesco Del Grosso della produttrice Giulia Piccione, dei membri della troupe e della Famiglia Cervia. La replica è prevista per il giorno successivo alle ore 22:30. Una giuria del pubblico, presieduta dal critico Achille Bonita Oliva e composta da 30 spettatori, attribuirà il Premio Vittorio De Seta per il miglior documentario in concorso.

Per informazioni e notizie sul Festival:

http://www.bifest.it/

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5 aprile: Giornata Nazionale delle Manovre Salvavita Pediatriche

salvavitabambinoE’ di pochi giorni fa la terribile notizia del soffocamento di un bambino di soli tre anni in un centro commerciale di Roma. Un pezzetto di panino rimasto incastrato nella gola e l’assenza di attività respiratoria per tanti minuti ha procurato danni irreparabili.

Incidenti come questo sono molto più frequenti di quanto si possa pensare, tanto che il soffocamento per corpo estraneo è la seconda causa di morte per bambini fino a 4 anni e diventa la prima causa per bambini fino a 9 anni. 300 casi all’anno di cui la metà purtroppo fatali.

Ci si chiede come un centro commerciale enorme come quello di “Porta di Roma” non abbia al suo interno un presidio di pronto soccorso e certamente un esperto di manovre di disostruzione avrebbe salvato la vita al piccolo Francesco, esperienza e pratica che si possono fare anche da personale non medico o infermieristico grazie a una serie di corsi di preparazione.

Oltre alle associazioni medici pediatri che operano sul territorio e che garantiscono questi corsi di disostruzione, la Croce Rossa è in prima fila nelle piazze e nei centri dove i bambini sono in gran numero per spiegare come poche operazioni fatte con decisione e nella giusta maniera possono salvare una piccola vita.

In tutte le regioni d’Italia, quasi a scandirne l’urgenza dopo l’interesse mediatico del tragico evento romano la Croce Rossa Italiana in aggiunta alle normali attività formative in ambito pediatrico, offrirà il giorno 5 aprile 2014 a chi fosse interessato (fino ad esaurimento posti disponibili) una giornata informativa gratuita durante la quale si tratterà la prevenzione da ostruzione da corpo estraneo e le manovre salvavita pediatriche.

Per potersi iscrivere occorre inviare una mail all’indirizzo: 5aprile@cri.it.

Gli interessati sono invitati a citare la Regione d’appartenenza come oggetto della mail e nel contenuto andranno elencati i dati anagrafici e i recapiti (nome, cognome, regione, città, cellulare, email).”Un gesto cambia una vita, una manovra corretta la salva” è lo slogan della CRI per la giornata dedicata all’argomento.

Per informazioni:

http://cri.it/manovresalvavitapediatriche

http://www.manovredisostruzionepediatriche.com/

 

 




Allacciate le cinture – Ferzan Ozpetek scuote l’anima con un grande film

“…A mano a mano ti accorgi che il vento, Ti soffia sul viso e ti ruba un sorriso –
La bella stagione che sta per finire, Ti soffia sul cuore e ti ruba l’amore… “

Un temporale estivo allaga il selciato del centro storico di Lecce, tutti corrono a ripararsi sotto la pensilina degli autobus in una sequenza stupenda e di grande cinema.
È li che si conoscono Elena e Antonio, o meglio si scontrano duramente per una frase razzista che il rude e volgare Antonio lancia al vento e che l’elegante Elena non può far passare.
Inizia così “Allacciate le cinture“, decima creatura di Ferzan Ozpetek che ancora una volta porta la sua troupe in Puglia per scoprire e raccontare quanto siano incomprensibili i sentimenti e quanto folle sia l’amore .
Cosa spinge irresistibilmente tra le braccia di uno come Antonio una come Elena? La variopinta cerchia di affetti di lei non fa che chiederselo, anche perché lui fa di tutto per rendersi insopportabile, o forse lo è veramente.
Gli anni passano e con un salto temporale rapido ci troveremo i due cresciuti, rampante lei, rabbioso lui, fino a che la vita li scuoterà dal loro tran tran mostrandogli la faccia più feroce e più vera.

allacciate le cinture arca e Smutniak allacciate le cinture locandina 'Out Of The Furnace' Premiere - The 8th Rome Film Festival allacciate le cinture smutniak scicchitano allacciate le cinture smutniakUn film complesso questo del regista turco, il più ricco di personaggi ed eventi della sua carriera, un percorso tragico eppure sorridente, un itinerario affettivo colorato e straordinariamente intenso che rapisce e coinvolge dalle prime scene con sensualità e partecipazione.

Tanti i personaggi di contorno che concorrono in questa saga familiare alla costruzione di una storia che gira tutta intorno all’attrazione fatale dei due protagonisti che nulla hanno in comune se non il fatto di amarsi.
La scelta estrema di rendere così inaccessibile il personaggio di Antonio è una sfida che Ozpetek lancia allo spettatore, ma la storia scorrendo tra lacrime e risate ci spiegherà quello che è impossibile spiegare.

Personaggi “Almodoviani” che arricchiscono una storia corale e bellissima, una musica che traduce in emozioni i primi piani dei protagonisti tutti bravissimi, con Kasia Smutniak nel ruolo più importante della sua carriera, eroina senza corazza bellissima, intensa e fragile e con il quasi esordiente Francesco Arca a cui tocca il personaggio più detestabile del gruppo, ma che si trova a suo agio in un ruolo scritto con poche battute per lo più sgradevoli e molta fisicità  ( è sua l’unica scena di nudo di tutto il film ).

Bene benissimo Filippo Scicchitano e Carla Signoris, un po’ sottotono e poco credibile Carolina Crescentini, mentre solo il mestiere salva dall’unico ruolo scritto un po’ di fretta Elena Sofia Ricci nella parte di una zia sconclusionata e sognatrice.

Discorso a parte va fatto per Paola Minaccioni, toccante e magistrale in un ruolo che non si può svelare per non rovinare la trama, ma che in quella piccola porzione di film che la investe, regala un virtuosismo recitativo impossibile da dimenticare.

Un film bellissimo dunque, dialoghi fotografia e musiche che vanno dritte al cuore e una macchina da presa che Ozpetek sa sempre dove mettere, un virtuosismo quello del regista turco che incanta, coinvolge e lascia il segno.




La Grande Bellezza, Il “Napoletano a Roma” trionfa a Los Angeles

E così Sorrentino vince tutto! Dopo il prestigioso Golden Globe e il BAFTA britannico, “The Great Beauty” si porta a casa la statuetta che fu di Fellini, De Sica, Petri, Tornatore, Salvatores e Benigni.

Ma che film è? E come mai è così piaciuto alla critica internazionale?

Molto difficile sintetizzare e relegare dentro schemi prestabiliti questo film, così visionario eppur adeso alla realtà decadente e quasi di fine Impero moderno di Roma.

La grande bellezza” della Città Eterna, tutta sotto gli occhi di uno scrittore o pseudo tale, che tanti anni prima aveva scritto un romanzo di successo e con quel successo si era accaparrato un posto di primo piano nei salotti buoni della ricchissima società capitolina.

E la voce fuori campo, o in controcampo di Jep Gambardella, lo scrittore campano senza talento, riflette, sentenzia, calcola la giusta distanza tra il successo e l’eccesso, con quel sorriso sornione e svuotato, mostrandoci l’effimero in tutto il suo orrore.

Un “Napoletano a Roma” si direbbe parafrasando, che scivola tra feste e locali, tutti pieni  degli stessi ricchi viziati, con tutto intorno a questo mondo pessimi e pessimisti pseudo-artisti, drammaturghi, attori, scrittori del nulla e che cadono ai piedi di questo deprecabile pensatore sfaccendato.

La serie di viste da cartolina di Roma si dipana, si vola con pirotecniche di ripresa di grandissima qualità e di grande effetto, scollandosi via via dalla narrazione, a far da contraltare con tanta “grande bellezza” alla “grande miseria” dei suoi personaggi.

E la Roma vera? Dove si trova? Quella è sempre assente, forse secondo Sorrentino e Umberto Contarello, che hanno scritto il film, è solo appena accennata dietro le parolacce gridate al telefono da cafoni di passaggio, o nel sorriso incartapecorito di Antonello Venditti, che ci regala un cameo di inusitata tristezza.

Davanti a tutto c’è Jep e la sua visione dissacrata e posticcia di questa borghesia disfatta, due occhi i suoi, sfacciati e saccenti, che colpiscono senza pietà queste mezze figure, che sfoggia soldi e dissolutezze morali senza un minimo di amor proprio. Mezza tacca tra mezze tacche.

Sorrentino dopo i voli pindarici e molto apprezzati dell’America di “This must be the place” inciampa ad appena 200 km da casa, cercando di raccontare la caduta della Roma che conta, senza riuscire ad esser mai convincente.

La sua storia si aggroviglia fino alla contorsione, alla ricerca vana di un filo narrativo, per poi cadere sovente nel luogo comune, raccontandoci la penosa voglia di botulino di poveri cristi ricchissimi e fuori dal mondo, o le malcelate contraddizioni di uomini di chiesa, per poi concludere la dissertazione noiosa e saccente di Jep con un serafico (e prolisso) ritratto di una suora in odor di santità con il suo stuolo di parassiti di contorno.

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grandebellezzaservillo2Un film presuntuoso e pretestuoso dunque, che parte facendo il verso a Federico Fellini per poi inciampare nell’imitazione di Wim Wenders, diventando un piccolo tentativo scoordinato di creazione di un “Cult movie”.

Toni Servillo è sempre straordinario nella sua recitazione senza concitazione, che però diventa qui troppo auto referenziata, slegata quasi dal contesto, arrivando al paradosso di un film a servizio del suo attore principale e non il contrario come è d’obbligo nel Cinema. Le sue sigarette e i suoi silenzi compiaciuti sono sempre troppi, come di troppo sono gli ultimi 40 minuti di film, incensati di amore sacro, assolutamente profano.

Molti i personaggi di contorno, piccolissime apparizioni, quasi una ”isola dei famosi” tra alti e bassi, con Iaia Forte e Roberto Herlitzka molto a loro agio negli ondeggiamenti strambi della storia, mentre male malissimo Isabella Ferrari che come al solito finisce la sua performance in una camera da letto e Serena Grandi, su cui il regista indugia senza pietà disintegrandole quel poco di credibilità rimasta.

Carlo Verdone è bravissimo e al cospetto del pigmalione-Servillo regge il confronto, si cala molto bene nel ruolo drammatico e avvilito di Romano, commediografo senza arte nè parte, restituisce una grandissima prova d’attore togliendosi la maschera del comico, mentre lascia senza parole la triste Sabrina Ferilli, sempre fuori luogo, sempre senza vestiti, sempre senza espressione. Servillo prova a scuoterla, a rianimarla con i sali dell’arte, ma niente, la bambola ormai cresciuta rimane pur sempre imbambolata.

Fotografia bellissima di Luca Bigazzi, la “grande bellezza” si esprime soltanto cosi, visivamente, anche la musica è ricchissima, con Lele Marchitelli che scrive partiture romantiche e di grande respiro, che contrastano efficacemente i rumori delle feste mondane, ma tutto il film seppur ben confezionato tracima di saccenza, di prolissa deferenza verso se stesso e il finale che non arriva mai distrugge anche quel poco di appassionato che aveva mostrato nella prima parte.

Un film spiazzante, molto “Americano” e che infatti Cannes non aveva neanche notato, punendo forse quell’edonismo specchiato di un autore presuntuoso che però invece. ha conquistato l’Academy.




The Lego Movie

Un kit da montare senza istruzioni tra uno sbadiglio e l’altro.

In un disturbante mondo in 3D fatto di mattoncini Lego, il povero Emmet, pupazzetto qualunque del grande ingranaggio della società di costruzioni si trova per caso in possesso del “Pezzo Forte” in grado di neutralizzare una superarma denominata “Kragle” che minaccia il mondo delle costruzioni più famose al mondo.

Risparmiando i meandri articolati, intricati e neanche troppo comprensibili che si dipanano nella storia ecco in sintesi la trama di questo film Warner, co-prodotto dalla Lego che sta aggredendo il mercato con gadget in stile Mc Donalds e grande battage pubblicitario.

The Lego Movie appare fin dalla prima scena claustrofobico, troppo vivace e roboante per un pubblico di piccini e troppo immaturo per un pubblico che con i Lego ci giocava 20 anni fa e ci gioca ancora.

Qualche trovatina qua e là giocata sull’imbranato Emmet, eroe per caso che si trova ad affrontare avventure troppo grandi per lui, seguendo l’amore della bella ( insomma.. ) Wyldstyle anche detta Lucy e tanti personaggi famosi che strappano un sorrisetto di circostanza, passando da Batman a Wonder Woman, finanche ad Abramo Lincoln.

lego_movie legoemmet legospotQuella che si scoprirà essere una battaglia  generazionale contro “Lord Business”, è solo una scusa per spacciare per film di animazione un videogioco (che la Warner ha già annunciato pronto alla vendita) strutturato su vari livelli di difficoltà che il nostro Emmet, quasi mosso con un Joystick deve superare per l’agognato bacio di Lucy.

Una storiella messa in piedi con grande fatica, a giustificare 100 minuti di film che potevano esser 70 senza scandalo, con una trovata finale che potrebbe indurre ad addolcire il giudizio, ma che poi scade nel bieco perbenismo a stelle e strisce che i bambini europei non comprenderanno.

Unica risata sincera la strappa l’allegra invasione dei Duplo nel mondo Lego, ma nel complesso davvero un film insopportabilmente commerciale, uno spot in tre dimensioni che speriamo almeno serva a rilanciare le vendite dei mitici mattoncini, giocattolo creativo per eccellenza a rischio in questi anni pieni di console interattive.

 




Monuments Men – Salvare l’arte per salvare il mondo

Questa è la storia di un manipolo di romantici esperti d’arte, che non si rassegnarono al saccheggio di opere d’arte che i Tedeschi stavano perpetrando in tutta Europa. Salvare l’arte per salvare la storia e la Cultura, eroi straordinari realmente esistiti che George Clooney porta sullo schermo con grandissima abilità, per raccontarci come per l’arte vale la pena morire.

Una prova da grande regista questa del “più bello del reame” Hollywoodiano, che quando si tratta di gridare “ Ciak – Azione!” non sbaglia mai.

Un Kolossal questo “Monuments Men”, ambizioso e dalle immagini mozzafiato con al centro la bellezza dell’arte, le opere di Veermer e di Michelangelo da salvare dalle grinfie dei nazisti, che nel delirio di onnipotenza volevano riempire delle opere di tutta Europa il loro sinistro “Führermuseum“  di Linz.

Tratto dal libro di Robert M. Edsel e Bret Witter, è la vera storia di questi soldati non più giovani, chi direttore di museo, chi storico dell’arte, che sbarcando un mese dopo il “D-Day” in Normandia, corrono dietro le truppe che accerchiano i tedeschi in ritirata, cercando di recuperare quello che spariva dai musei del nord Europa e dall’Italia.

Un bellissimo omaggio all’Italia Clooney lo regala quando mostra (decontestualizzato dalla vicenda del film che si svolge dal Belgio a Monaco di Baviera), la difesa dai bombardamenti dell’affresco Milanese del Cenacolo di Leonardo da Vinci, un atto d’amore, uno sguardo verso la patria della Cultura nel mondo, vilipesa in questi ultimi anni non dalle bombe, ma dal degrado e dal taglio dei fondi… ma questa è un’altra storia.

Trama avvincente, ricostruzioni minuziose degli scenari di guerra, una fotografia quella di Phedon Papamichael (che aveva già “fotografato” Clooney in “Paradiso amaro” e “ Le idi di Marzo”)  bellissima e luccicante che sfiora con la stessa dolcezza i colori dei quadri di Monet e di Picasso ed i paesaggi, splendidi e feriti dai bombardamenti, che i nostri eroi attraversano nel loro pellegrinaggio salvifico, oltre ad un cast ricco di divi che non gareggia per primeggiare, ma che fa un gioco di squadra straordinario, altro merito di abilità e personalità del regista.

Vale la pena dunque rischiare la vita di uomini per salvare opere d’arte di inestimabile valore culturale? Questa è la domanda che accompagna tutto il film e la risposta che Clooney  ci da è tutta negli sguardi rapiti dei soldati intorno alla “Madonna di Bruges”, scolpita da Michelangelo nel 1505 e centro simbolico della missione.

Grandissimi attori per un grande film dunque, con George Clooney che si ritaglia un personaggio centrale che sembra dirigere il resto del cast, quasi un regista in scena, direttore di un gruppo fantastico, da Matt Damon a Jean Dujardin per cui trovare difetti vedrete, sarà impossibile;  possiamo solo spendere due parole in più per la personalità di Bill Murray e la leggiadria con cui Cate Blanchett si trasforma in una eroina francese seducente e dolente.

Ultimo omaggio per la colonna sonora, affidata ad un fuoriclasse del calibro del parigino Alexandre Desplat, che a scorrere il suo curriculum si rimane storditi, da “Il discorso del Re” ad “Argo” solo per dirne alcuni e che ha musicato il già citato “ Le idi di Marzo” con Clooney, che con un’epica sinfonia accompagna il gruppo di eroi a cui il mondo deve dire grazie.

Un film questo che George Clooney consegna alla Storia, un atto d’amore verso l’umanità e la Cultura, che non potete perdere.

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Un mostro ( innocente ) chiamato Girolimoni

” Non sono mai riuscito a farmi una famiglia. Non ho mai avuto il coraggio di chiedere a una donna se voleva assumere il mio cognome..”

Per chi è romano, l’appellativo di ” Girolimoni” suona come sinistro aggettivo, irriverente, scherzoso e terribile. Lo si usa per schernire qualche attempato dagli amori inconfessabili per le donne giovanissime, o è offesa inguaribile lanciata a chi si sospetta di pratiche immonde.

Eppure, più della metà dei romani non sa che Gino Girolimoni è il più famoso caso di errore giudiziario della storia.

Girolimoni è un innocente.

girolimonidipintodiantoniomolino girolimonicopertina girolimoni-giornaleditaliaFabio Sanvitale e Armando Palmegiani affrontano questo caso di inizio ventennio, ripercorrendo in una sorta di libro “on the road” le vie e i luoghi teatro dal 1924 al 1927 e con il loro acume investigativo confezionano un libro bellissimo e completo, un racconto che galleggia tra l’innocenza delle vittime e un serial killer che si muove come “un’Ombra”: questo è ” Un mostro chiamato Girolimoni“.

Il libro è diviso essenzialmente in tre parti, la prima che scandisce con sinistra cronologia i fatti, ricostruiti sia attraverso le testimonianze dei documenti dell’epoca, sia percorrendo quei “sanpietrini” del centro storico di Roma, in quel triangolo che parte da via dei Coronari e che attraverso il Tevere arriva a Borgo Pio e a Piazza Cavour.

Quel dedalo di vicoli teatro dell’orrore, pieni di dignitosa povertà prima dello squasso che (fors’anche per bonificare la zona) generò poi i lavori di Via della Conciliazione.

La seconda parte rilegge le carte delle indagini, e degli assurdi motivi che portarono ad arrestare ” er Sor Gino“, mentre la terza ed ultima cerca con gli elementi a disposizione di “riaprire l’incheista”, spunto letterario, per dare una spiegazione con gli occhi dell’esperienza degli autori a quello che fu il caso più terribile del secolo.

È tanto ricco questo libro; è un documento prezioso ma è anche e soprattutto un grande romanzo storico, un affresco di una Roma che non c’è più, che disorientata cercava di adattarsi a una dittatura giovane e inquieta, una dittatura che aveva urgenza di trovare un colpevole da sbattere in prima pagina, uno qualunque, colpevole o innocente che sia.

Si districano benissimo Palmegiani e Sanvitale tra i tanti personaggi coinvolti nella storia, alcuni davvero sinistri come il sospetto reverendo Brydges, inglese e anglicano insopportabilmente perverso, e altri virtuosi, come il poliziotto Dosi, che per questa indagine perderà tutto (salvo poi riavere onori e dignità nel dopoguerra, essendo tra gli artefici dell’istituzione dell’ Interpol ).

Si percepisce quanto i due autori siano rimasti coinvolti e quanta poesia si cela tra l’eleganza del racconto delle vittime e l”urgenza morale dell’investigatore, il tutto con una cura stilistica inconsueta in libri d’inchiesta.

Una qualità che lascia in alcuni tratti attoniti e storditi quasi fossimo davanti ad un racconto di Edgar Allan Poe.

Si legge anche tra queste belle pagine tanta nostalgia per quella Roma di allora, popolana, ingenua, ricca di botteghe artigiane e di relazioni sociali strette e rispettose, che in quegli anni persero l’innocenza e la sicurezza.

E Girolimoni? Lui ebbe la vita distrutta da questo errore giudiziario, accusato per indizi che con gli occhi di adesso appaiono risibili, tra testimoni che tergiversavano e prove che non c’erano, accuse costruite ad arte e date in pasto a giornali compiacenti al potere, il potere delle camicie nere. Non si rifece mai una vita per davvero una volta uscito di galera, l’unico caso di “Mostro innocente” finì per sparire nell’oblio della modernità post-bellica, sempre rimanendo sulla bocca di tutti; un cognome usato come aggettivo dispregiativo, a cui Sanvitale e Palmegiani con questa opera preziosissima restituiscono postuma dignità e pace.

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Con il fiato sospeso – non si può morire di Università

Questo film dà anche un altro punto di vista, il punto di vista di chi ‘va alla guerra’ e trova la morte per una passione. Sì, è vero, ci sono dei vertici che ti schiacciano, ti tradiscono, però c’è un esercito di persone, che poi sono quelle che abbiamo conosciuto e ci hanno accolto in questi laboratori, persone che dalla mattina alla sera fanno della loro vita universitaria una ragione di esistere”.

Cosi Alba Rohrwacher racconta con la sua straordinaria sensibilità artistica e militante quello che è stato “Con il fiato sospeso“, mediometraggio di Costanza Quatriglio presentato con straordinario successo a Venezia 2013.

Tutto nasce dalla notizia dell’apposizione dei sigilli ai laboratori di chimica della facoltà di farmacia dell’Università di Catania per sospetto inquinamento ambientale (processo ancora in corso ) a seguito di un diario denuncia scritto da Emanuele Patanè, un dottorando morto per un tumore che si prospetta causato dalle esposizioni ai locali insalubri e senza protezione dei laboratori.

Il film scorre su due binari, il documentario che indaga e la narrazione di Stella, che in una sorta di intervista-confessione ripercorre gli anni dello studio in facoltà, gli esperimenti la bellezza della chimica e la faccia cattiva e senza appello della malattia contratta.

Un atto d’accusa mai urlato, un film delicato eppure potente. una colonna sonora suonata dal vivo dai Black Eyed Dog che sono l’unico mezzo con cui la bravissima regista (già premiata per Terramatta con il Nastro D’argento 2013 per il documentario ) alza la voce a difesa di questi ragazzi contaminati e abbandonati da tutti.

Su tutto poi l’interpretazione immensa di Alba Rohrwacher che restituisce picchi di drammaticità narrativa che penetrano, scavano e indignano nella loro dolce fermezza.

Un film che è una scelta etica, un atto d’amore verso quei giovani ricercatori e studenti traditi per incuria e inefficienza nel momento in cui stavano diventando risorsa del paese.

Dietro le parole, le lacrime e i sorrisi amari di Stella si cela l’amara sconfitta dei sogni di tutti gli studenti di quella facoltà a cui il film è dedicato.

Un film questo che commuove per i temi e la spietata denuncia ma che è anche girato in maniera perfetta, un tocco cinematografico sapiente e geniale quello di Quatriglia, fotografia montaggio e direzione perfetta, che lascia prevedere grandi orizzonti futuri.

http://conilfiatosospeso.it/

Con il fiato sospeso – interpretato da Alba Rohrwacher, Gaetano Aronica, Anna Balestrierie con la voce di Michele Riondino. – Regia di Costanza Quatriglio.

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Il nostro ricordo di Carlo Mazzacurati

Quando il mondo della Cultura perde un uomo come Carlo Mazzacurati, la prima sensazione che pervade tutti gli amanti del cinema è di grande vuoto, di aver perso un menestrello della macchina da presa, un narratore delicato e attento delle trasformazioni di questo paese.

Cinema: è morto il regista Carlo Mazzacurati ++Uomo del “profondo Nord-Est” che nasce dal teatro ma che poi trova nel cinema la sua espressione. Dopo gli inizi con un cinema di nicchia, con film delicati e curati come “Domani accadrà”, l’impatto con il grande pubblico arriva a sorpresa con un film dai toni duri e disturbanti come “ Un’altra vita”, che colpisce come un pugno allo stomaco e sorprende critica e pubblico, spiazzati da quella violenza senza appello. Un film bellissimo dove gli attori protagonisti ( Claudio Amendola e Silvio Orlando ) danno il meglio di sé.

Questa sua abilità nel dirigere gli attori è forse il tratto più peculiare di Mazzacurati, il suo rimanere in punta di piedi nel racconto, lasciando ai volti e alle espressioni di chi recita l’onere e l’onore di portare il film oltre l’ostacolo.

E dunque, nel 1994 “ Il Toro” che vince a Venezia, un film toccante e di grande passione, con Diego Abatantuono e Roberto Citran che confezionano due personaggi indimenticabili. Due anni dopo “Vesna va veloce” che consacra Antonio Albanese in un ruolo drammatico, Albanese che tutto deve delle sue fortune cinematografiche a Mazzacurati.

Altra prova di attore straordinaria, come quella che ancora Albanese, quattro anni dopo, sfodera con Fabrizio Bentivoglio in “ La lingua del Santo”, racconto di una crisi morale ed economica che sembra attuale ora, ma che appariva lontana nel 2000  e che sembrava non poterci colpire mai.

Poi tanti documentari, intervallati da due film che non piacquero molto al pubblico come “ A cavallo della tigre” e “ L’amore ritrovato” dove però sempre la componente dell’attore si esalta nel disincanto del grande Bentivoglio o nel sorriso amaro e incredibilmente malinconico di Maya Sansa.

Poi il capolavoro, nel 2007 esce “ La giusta distanza”, un film crudele e straordinario che mette a nudo repressioni culturali e sentimentali dietro la morte di una ragazza bellissima e contesa da tutti gli uomini di un paesello Veneto diffidente e razzista.

Al Torino Film Festival nel novembre 2013 il tributo alla sua carriera, già malato, non vuole mancare all’incontro con il pubblico, presentando il film “La sedia della felicità” che uscirà postumo nelle prossime settimane e che appare come un “Gran Concerto finale”, con quasi tutti i suoi attori riuniti come in un omaggio, che si regala ai protagonisti di una “piece” teatrale quando il sipario è calato e si rialza per l’ovazione finale.

Ultimo applauso meritato per un artigiano del Cinema, appassionato e fuori dal coro, che amava raccontare e raccontarsi, che ricordava che “nella vita dovremmo recitare un po’ tutti quanti. Teatro è rompere gli schemi, cinema è capovolgere la realtà“.

Mauro Valentini




Il Capitale Umano

Il capitale dis-umano di Paolo Virzì

Ritmo incalzante tra thriller e noir, atmosfere cupe e tanta ma tanta miseria umana.

Paolo Virzì abbandona il tono scanzonato e romantico della commedia di costume, per raccontare il profondo nord, le trame meschine di un manipolo di trafficoni italioti, attingendo dall’omonimo libro di Stephen Amidon. Operazione di sceneggiatura complessa e ardimentosa, ma straordinariamente efficace, con il fedele Francesco Bruni che ha da sempre firmato gli script di Virzì, coadiuvato da Francesco Piccolo che con quel tocco di cinismo cinefilo e “Morettiano” fa da efficace collante alla storia e ai personaggi.

Il film, diviso in quattro capitoli ben distinti racconta gli intrecci economico-amorosi di Dino e Giovanni, uno immobiliarista l’altro squalo della finanza e di Carla, moglie di Giovanni, donna intellettuale e sfinita da tanta pochezza morale da rifugiarsi non senza conseguenze nell’amore segreto per il Professor Donato, intreccio che si completa con i figli dei due protagonisti fidanzati tra loro o presunti tali.

Un “Capitale dis-umano”fatto di facili arricchimenti a scapito di tutto e tutti, persone vuote o troppo piene apparentemente legate dal nulla, se non da quel dio-denaro che tutto regola e che spietatamente deciderà le vite di tutti i protagonisti.

Amaro questo nuovo Virzì, questa Brianza sfacciata e senza pietà che il regista toscano con mano ferma e abilissima trasferisce con straordinaria precisione, confezionando un film maturo e imperdibile, arricchito dal montaggio splendidamente narrativo di Cecilia Zanuso, un montaggio complesso che ricorda il capolavoro di Ettore Scola “La terrazza”, visto che nei capitoli distinti le stesse scene sono riprese da angolazioni opposte, in soggettiva rispetto agli eventi che si susseguono, scoprendo intime nefandezze umane ed il perbenismo insopportabile di quel mondo borghese.

Ed in questo mondo senza pietà, quello che restituisce speranza sono i tre giovani protagonisti, ancora capaci di amare e di appassionarsi, schiacciati per protezione o per ingordigia dagli adulti che li circondano, ma capaci di reazioni che forse diventeranno uomini e donne migliori dei loro genitori.

Personaggi cinici e dolenti dunque, affidati ad un cast quasi da “Dream Team” italiano, con Fabrizio Bentivoglio straordinariamente meschino, Fabrizio Gifuni e Valeria Golino perfetti nel ruolo, anche se gli sguardi più accecanti li regalano Valeria Bruni Tedeschi e Luigi Lo Cascio, toccanti nella loro angosciosa ricerca di un senso più alto della vita. Molto bravi come detto anche i tre giovanissimi interpreti, Matilde Gioli, Guglielmo Pinelli e Giovanni Anzaldo.

Un film bellissimo, che riflette quelle che sono le miserie umane di questo inizio secolo, uno sguardo attonito quello di Virzì su questi omuncoli dai conti correnti a 7 cifre, un grido di dolore di chi non si rassegna alla deriva e non può fare a meno di raccontarla.

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I sogni segreti di Walter Mitty – Ben Stiller e la ricerca della felicità

Gli ultimi giorni di vita di “LIFE” il più importante magazine del mondo, visti con gli occhi di un dipendente archivista di immagini, romantico e sognatore.

Ben Stiller nella non consueta veste di regista si affida a Steve Conrad, sceneggiatore abile nel modellare il “sogno americano” che ha scritto film di grande impatto emotivo come “The Weather Man” e il Mucciniano “La ricerca della felicità“.

Ecco appunto, anche qui quello che manca è la felicità,  quella che sogna nelle sue fughe dalla realtà il protagonista, la sua personale ricerca dentro  “I sogni segreti di Walter Mitty“.

Prendendo liberamente spunto dai racconti di James Thurber, si racconta di Walter, eccentrico custode dell’archivio dei negativi della celebre rivista, che è travolta dopo anni di fasti dalle bramosie di potere di un indisponente tagliatore di teste, che si occuperà di chiudere l’edizione cartacea per pubblicare solo on line, lasciando a casa la metà dei dipendenti.

Il tenero Mitty, che nutre un amore inconfessato per una sua collega (non riesce a dichiararsi neanche attraverso i social network)  vola con l’ immaginazione sognando ad occhi aperti rocambolesche vendette contro il despota neo-direttore e amorevoli scene con l’ inconsapevole donna dei suoi sogni in pieno stile Bogart- Bergman, in un crescendo di sorprese le quali restano però tutte nella mente del nostro sognatore, che si risveglia dai suoi “sogni segreti” ad occhi aperti tra lo scherno feroce di chi lo circonda.

E poi tutto cambia, lo scatto numero 25 dell’ultimo rullino del grande fotografo Sean O’Connel che non si trova, manca solo quello e proprio quello il fotografo ha indicato quale ultima copertina di LIFE, e questa ricerca costringerà Walter Mitty ad una meravigliosa avventura, tra  viaggi emozionanti e tumultuosi intorno al mondo, alla ricerca del fotogramma e di se stesso, attraversando luoghi incredibili e pericolosi, stavolta tutti veri.

Un film poetico, diretto con maestria insospettata da Stiller, che racchiude in due ore tanto cinema, grandi effetti speciali e romantica nostalgia, sfiorando temi molto attuali come la solitudine nell’era del Web e la ferocia del neo-new deal mondiale che strapazza dignità e posti di lavoro.

Un Ben Stiller in grande forma, anche davanti e non solo dietro la macchina da presa, al suo film migliore da protagonista, con mille trovate che incollano lo spettatore a partire dai titoli di testa davvero geniali, alle visioni in stile-Marvel della mente sognante di Walter e alla stupenda fotografia di Stuart Dryburgh che accompagna il nostro eroe al cospetto del misterioso O’Connel interpretato da uno straordinario Sean Penn.

Nel cast anche Shirley McLaine, splendida mamma di Walter, mentre sembrano un po’ fuori sincrono rispetto al ritmo del film le prove di Adam Scott e di Kristen Wiig che pure erano centrali nello script, surclassati dalla vena di Ben Stiller che confeziona un personaggio sognante e bellissimo.

Mauro Valentini




Old Boy – C’era una volta Spike Lee

Locandina film

Locandina film

In principio fu un successo, il primo Old Boy, quello del Coreano Park Chan-Wook che a Cannes nel 2004 in una giuria accondiscendente e con un Presidente “perfetto” come Quentin Tarantino fu premiato con il prestigioso “ Grand Prix”, premio non da poco se ( per fare qualche esempio) in questi ultimi anni è stato assegnato a “Gomorra” e “Reality” e che qualche anno prima di Chan-Wook se lo meritò Roberto Benigni per “ La Vita è bella”.

Non crediate per questo che ci si trovasse di fronte ad una grande storia, piuttosto una bella idea, violenta e dalle pretese psicologiche condita da splatter liberamente tratta da un famoso “Manga” giapponese.

Sorprende dunque che ne sia stato pensato quasi nell’immediato un remake, tutto americano, con grande dispendio di energie, scegliendo uno sceneggiatore abituato alle tinte fosche come Mark Protosevich , già script-maker di “The Cell” o di “ Io sono leggenda” e un regista come Spike Lee.

Josh Brolin

Josh Brolin

Il risultato è però cosi deludente che non si riesce a credere come un artista come Lee, che ha diretto film quasi perfetti come “La 25esima ora” o “ Malcom X” solo per citarne alcuni si sia gettato anima e corpo in un progetto così poco accattivante.

Joe Doucett è un agente pubblicitario disprezzato e sull’orlo dell’alcolismo e una sera al culmine di una cena piena di rimpianti viene avvicinato da una bellissima ragazza orientale che lo ammalia.

Al suo risveglio, si ritroverà in una stanza che è in realtà una prigione, dove qualcuno l’ha rinchiuso senza spiegargli perché e dove rimarrà per anni, disperato e incredulo, con la sola compagnia di un televisore che manda programmi di fitness e news h24.

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Una scena del film

Il malcapitato Joe sarà liberato dopo venti anni e pieno di rabbia cercherà di capire in una corsa a ritroso nel tempo chi gli ha rubato i migliori anni della vita così crudelmente.

Un film scollato, disconnesso dal pensiero logico, errori di sceneggiatura elementari, con un protagonista che dopo decenni di detenzione appare all’uscita da quel tugurio quasi ringiovanito e con un fisico da pugile che dovremmo credere costruito in una stanza angusta facendo esercizi fisici copiati dalle conturbanti istruttrici televisive di aerobica, mangiando per anni soltanto ravioli al vapore recapitati dagli aguzzini in un cinese take-away.

 

Il protagonista Josh Brolin davvero imbarazzante, che appare anche imbarazzato da tanta pochezza narrativa, con la sua espressione migliore recuperata in ogni situazione, sempre la stessa, all’inizio nei panni del venditore di fumo, poi del prigioniero disperato  e infine del vendicatore spietato con il vestito buono modello Giorgio Armani.

Nel cast anche un crudele Samuel L. Jackson, a suo agio tra gli psicopatici

carcerieri che dirige in questa prigione “sui generis” e l’inconsistente Elizabeth Olsen che un giorno potrà raccontare ai nipotini increduli di aver avuto un ruolo da protagonista in un film di Spike Lee.

Un film presuntuoso in alcuni passaggi che invece che atterrire lasciano indifferenti e che si consuma come fosse una puntata venuta male di “Smallville“, a cui sembra spesso fare il verso, un passo decisivo verso l’anonimato di un grande regista, che ha accettato di dirigere e co-produrre uno script che bastava leggere una volta per rimandarlo al mittente, che forse aveva un senso se raccontato nella folle cornice del Cinema asiatico di genere, ma che traslato in occidente suscita solo  perplessità, stentatamente  repressa a colpi di martello sulla fronte e di scontri con mazze da baseball che abbonderanno quando il recluso finalmente liberato cercherà di scoprire quale colpa avrà mai commesso per meritarsi anni di solitudine e di frustrazione incolpevole e per esser rimasto incastrato maldestramente in un film come questo.