“E poi non ne rimase nessuno”

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Biometria

Anche la biometria entra allo stadio

La questione “sicurezza stadio Olimpico” è sempre stata al primo posto nell’agenda del Prefetto Nicolò D’Angelo, ex poliziotto di ferro e dal 2014 a capo dell’ufficio più importante per la sicurezza della Capitale.

Nell’ottobre 2014 difatti, appena insediato la sua prima dichiarazione fu proprio in questo senso: «lavoreremo per evitare gli incidenti soprattutto all’esterno dello stadio Olimpico dove sono successi negli ultimi tempi gli episodi più gravi. Certo molto si è fatto ma miglioreremo quegli aspetti che sono stati studiati con l’Osservatorio.»

Il Prefetto aveva ragione ad esser preoccupato, Ciro Esposito era morto da pochi mesi in circostanze ancora tutte da chiarire, ma accadute a 2800 metri dal primo cancello dello stadio. Si, per il Prefetto era chiaro: il problema era fuori dello stadio. E che ci avesse visto giusto lo dimostrano i referti della Lega, che hanno multato la Roma e la Lazio solo per striscioni e cori, spesso con motivazioni straordinariamente fantasiose come quella che veniva definita “discriminazione territoriale”(infatti abolita subito dopo un anno di inutile applicazione) ma mai per atti violenti all’interno dell’impianto.

Semmai se un problema c’era e c’è ancora ai bordi del rettangolo di gioco sono gli ordigni e i petardi fatti esplodere con incredibile frequenza, quelli si molto pericolosi per l’incolumità pubblica. Ordigni che come tutti anche il Prefetto si sarà chiesto come facciano ad entrare se anche ad un comune tifoso con bambino a fianco gli vengono sequestrati i tappi delle bottiglie di plastica e fatto aprire l’incarto con il “panino con frittata di cipolle” d’ordinanza. Solo che il Prefetto D’Angelo dovrebbe non solo chiedersi come mai entrano ma trovare dall’alto della sua esperienza anche il modo di non farli entrare più, visto che si accede attraverso ben tre controlli e un tornello servo assistito elettronicamente.

Ed invece la strada intrapresa per la sicurezza, in barba ai proclami è ancora concentrata dentro lo stadio. Ci si è concentrati ancora li, in primis con l’intensificazione dei controlli in fase di acquisto di abbonamento o di biglietto singolo e poi creando ad inizio stagione 2015-2016 una serie capillare di divisori settoriali all’interno delle curve che ha sezionato gli spalti e la cui motivazione non è chiara se non nelle segrete stanze dell’osservatorio per l’ordine e la sicurezza. La particolarità di questi provvedimenti è che sono attuati solo all’Olimpico di Roma, che è l’unico impianto d’Italia a giurisdizione del Coni e non dei comuni o meglio (come nel caso di Sassuolo, Juventus e Udinese) delle stesse società.

Ma non è finita qui. Con la stagione che sta per iniziare infatti ecco un’altra trovata straordinaria che renderà ne siamo certi più sicuro ancora uno stadio ormai semideserto. Arrivano infatti i “controlli biometrici”.

Qualcuno ha visto al cinema “Minority Report” di Steven Spielberg con Tom Cruise?

Ebbene, il controllo è praticamente simile. In quel bellissimo film c’erano i sistemi di scansione oculare, qui il sistema è addirittura più sofisticato perché analizza i tratti somatici di quello che davanti al tornello inserisce il biglietto e se li tiene in memoria. Va da se che sarà impossibile entrare nell’impianto con cappelli, sciarpe e con il chador, questo perché altrimenti cosa scansiona lo “scansionatore” di volti? E soprattutto a che serve?

Il motivo è presto spiegato dal Prefetto D’Angelo: «se qualcuno all’interno si macchierà di un reato sarà facile rintracciarlo attraverso la memoria del sistema.» Un sistema che è davvero fantascientifico e che sarebbe piaciuto anche a George Orwell che, seppur armato di tanta fantasia letteraria non l’aveva previsto nei suoi romanzi, almeno per i controlli su una partita di calcio.

Ma che ci chiediamo quanto potrà incidere nella sicurezza? Ma se i biglietti sono già nominativi che senso ha usare questa macchina per registrare ulteriormente chi entra? La sicurezza di Roma è davvero tutta da concentrare intorno alle quattro bandierina del calcio d’angolo?

La metropolitana per esempio, non sarebbe stato il luogo più consono a sperimentare questo sistema di controllo, considerando l’allarme terrorismo sempre altissimo, il Giubileo e soprattutto il fatto che nessun controllo viene effettuato sui passeggeri, di nessun tipo? Chiunque la frequenta sa infatti che si può entrare con qualsiasi cosa pericolosa addosso con grandissima probabilità di non esser scoperto, basta avere il biglietto, tutt’altro che nominativo.

Torniamo allo stadio: per 50 mila spettatori le linee guida del Viminale scrivono che ci devono esser almeno 200 steward all’interno dell’impianto. 1 su 250. Nella metropolitana al controllo dei tornelli non solo non c’è l’apparecchio di rivelazione biometrico ma non ci sono quasi mai neanche quelli che dovrebbero verificare se chi entra lo fa con qualcosa di visibilmente pericoloso. Considerando che fonti del Comune di Roma indicano che nei giorni feriali quasi un milione di utenti attraversano la città con le linee A B e C, con lo stesso calcolo delle linee guida del Viminale per lo stadio, dovremmo aver dislocato nelle stazioni per la verifica dell’ordinario funzionamento ben 4000 addetti, la metà di tutti i dipendenti dell’Atac.

Ma poi che fine ha fatto la lotta alla violenza fuori dallo stadio se il controllo futurista avverrà dalla prima partita del 20 agosto davanti all’ultimo tornello?

Grandi manovre per la verità sono attese anche fuori, occorre dare atto che la fantasia agli operatori della sicurezza non manca: saranno infatti allestite in via sperimentale (tutto è sperimentale quando si tratta di calcio) due aree di parcheggio e sapete dove? A Piazzale Clodio e a Viale della XVII Olimpiade che, “Google maps” alla mano distano a piedi tutte e due come le avessero scelte con un compasso 2 km e 400 metri dall’obelisco con la scritta “DVX” dove c’è il primo controllo. Non sono previste chiaramente navette figuriamoci, ma un non meglio precisato “servizio di steward per gestire il flusso”. Ma quello che potrebbe esser davvero il punto di svolta per la sicurezza dell’area è anche un “potenziamento del contrasto al parcheggio abusivo” promesso ogni anno dal 1983 e mai attuato finora con efficacia.

Eppure, anche difronte a tanta capacità qualche domanda ci sarebbe piaciuto farla al Prefetto D’Angelo, rischiando magari di passare per giornalisti capziosi e sempre poco propensi a guardare la luna invece che il dito:

  • Perché questi sistemi di controllo sono presenti soltanto all’Olimpico? Altri stadi sono più sicuri dottor D’Angelo? È mai stato in curva a Napoli, a Milano o a Bergamo?
  • Possibile che quando si parla di soluzioni per la sicurezza le due società: la Roma e la Lazio non vengono mai coinvolte nelle decisioni, ma le possono soltanto subire, salvo poi multarle salatamente quando qualcuno dei loro supporter combina qualche guaio anche a 5 chilometri dalla curva?
  • Ma davvero è azione adatta alla sicurezza far camminare per due chilometri e mezzo la gente a piedi verso lo stadio? Chi si è già abbonato magari con bambini o persone anziane ma senza contrassegno disabile scopre ora che parcheggerà così lontano. Perché non prevedere come accade per esempio per i concerti o i grandi eventi religiosi una rimodulazione del traffico ad hoc cosi da consentire il parcheggio nelle zone limitrofe come si è sempre fatto del resto?

Domande sicuramente inutili, l’Osservatorio e la Prefettura hanno scelto e per il meglio siamo certi. Un ultimo dubbio però percorre il cronista: ci si potrà considerare ad un livello di sicurezza alto soltanto quando lo stadio Olimpico sarà svuotato completamente dagli esausti spettatori che rimarranno a casa davanti a veder la partita davanti alla loro Smart-TV 55 pollici?

Perché se quello è l’obiettivo, ci siamo quasi, signor Prefetto. La strada è quella. Come scriveva Agatha Christie: “E poi non ne rimase nessuno”.

Mauro Valentini




Presentazione del libro “Io e il mio fratellastro”

Il 29 luglio, ore 16:30 alla Biblioteca Comunale la giovanissima Martina Massa presenta il suo romanzo, intreccio di passioni, amori e dolori tutto descritto con gli occhi della speranza

Non fa sconti Martina Massa. Seppur così giovane ha voluto raccontare una storia difficile ed anche piena di vita. Di vita vera, di quella fatta di dolori, di accettazione del destino ma anche e soprattutto quella di quei giovani adolescenti come lei che a quel destino vanno incontro con fierezza perché hanno un’arma letale contro le avversità: hanno l’amore.

Se definissimo però “Io e il mio fratellastro” (m@rp edizioni) un semplice romanzo d’amore faremmo un torto all’opera in primis ed anche a Martina. Perché tutto quello che accade alla protagonista della storia (che non a caso si chiama come l’autrice) è un turbine di eventi e di sconvolgimenti che lei cerca di mettere in fila e di metabolizzare proprio con la sua imperturbabile instancabile e sfacciata voglia di amare. Piccole gioie, grandi drammi e miracolosi eventi si rincorrono in un susseguirsi di personaggi e di situazioni dove l’America, luogo dove è ambientato il racconto, appare soltanto come tavola di palcoscenico, tanto poco conta per Martina Massa il “dove” rispetto al “come” e al “cosa” raccontare.

Un libro giovane ma non solo destinato ai coetanei dell’autrice che appare nel suo stile sobrio e tagliente già predestinata alla narrazione, un libro che la stessa autrice con l’affettuoso patrocinio della Biblioteca Ugo Tognazzi di Largo Catone descriverà venerdì 29 luglio alle 16:30 proprio nella sala incontri, che speriamo sia luogo felice per far scoccar la scintilla tanto attesa di una nuova vivacità letteraria, che Pomezia spesso nasconde sotto la cenere ma che è ricca di germogli e di fiori limpidi come sono i sorrisi, le parole e le pagine di Martina Mazza.

“Io e il mio fratellastro – Martina Massa – m@rp edizioni”

Mauro Valentini




La morte corre sul treno

La stazione di Casabianca

La stazione di Casabianca

l'incidente del 27 gennaio 1992 a Casabianca

l’incidente del 27 gennaio 1992 a Casabianca

Il pericolo del binario unico e quell’incidente sulla Roma-Velletri del 1992

Tutta Italia si è ridestata dal torpore e dalla rassegnazione che dal dopoguerra ormai ha nei confronti della rete ferroviaria regionale. Quelle immagini che arrivano da Corato hanno colpito l’opinione pubblica che si è interrogata sull’incredibile (ri)scoperta del binario unico. Come è possibile che si viaggi con il solo controllo telefonico e con un solo binario nel 2016? Come si è potuto creare negli anni una discrepanza così evidente tra le “Frecce” e gli “Italo” che corrono tra le nostre grandi città e la rete ferroviaria semplice che percorre lunghi tratti del paese a binario unico, quasi fossero tratte di servizio e non percorsi strapieni di pendolari.

Escono allora di colpo fuori dati allarmanti sulla situazione delle ferrovie del sud Italia, dati che sono tutti facilmente reperibili su Wikipedia, dati noti a tutti da anni, a cui nessuno ha mai fatto caso. Si, c’era un progetto, sembra finanziato già con i soldi della Comunità Europea, ma neanche aver avuto i soldi pronti ha fatto iniziare i lavori di raddoppio di quella linea assassina. Burocrazia ed espropri, male impossibile da superare per un paese che tra ricorsi al Tar e pressioni del potente di turno per bloccare lavori di pubblica utilità conosce da sempre un atavico immobilismo (infra)strutturale.

Ma come è la situazione nel Lazio? Mica ci saranno intorno alla Capitale ancora situazioni di questo tipo?

Noi di Pomezianews una piccola ricerca, “sorvolando” con Google Map e consultando i dati ufficiali delle Ferrovie l’abbiamo fatta e i risultati occorre dirlo subito sono sconfortanti in termini di sicurezza. Linee a binario unico ce ne sono ancora tante: la Roma – Viterbo per esempio che da Cesano fino al capoluogo della Tuscia corre a senso unico alternato, così come, molto più prossime al Pontino, la Roma – Velletri, la Roma – Frascati e la Roma – Albano. Tutte queste ultime tre hanno il doppio binario solo da Termini a Ciampino, poi, tutto affidato all’alternanza del percorso.

E la sicurezza? Le linee ora nel Lazio sono controllate da sistemi automatici che, bloccano i treni quando si incrociano nelle tratte a binario unico nelle stazioni di transito, fino al passaggio del treno che percorre la linea opposta. Controllo affidato a sistemi di sicurezza internazionali. Il Sistema di Controllo della Marcia Treno (in sigla SCMT) è un sistema di verifica che ha il compito di mantenere sotto vigilanza elettronica il comportamento del personale di macchina, parametrando e verificando le velocità e i rallentamenti per evitare gli incroci e gli scontri. Sistema che è stato completato qui nella nostra regione dopo l’incidente del 27 gennaio del 1992. Prima di quel terribile schianto della stazione di Casabianca, alle porte di Ciampino, tutto era regolato, anche qui come nella linea di Corato in Puglia, con il controllo telefonico. Il Capostazione avvisa l’altro della stazione prossima che il treno è partito, l’altro allora ferma il suo in transito e aspetta. Incredibile ma vero, è così in quel tratto (e non solo) della Puglia, quello dei 27 morti di ieri. Incredibile ma era così anche qui, fino a quel maledetto 27 gennaio 1992. Fino a quello schianto.

Erano le 17:45, faceva freddo ma la visibilità era perfetta, non fu infatti un problema di visibilità ma un semplice e terribile ritardo di comunicazione. Errore umano si dice. Da Ciampino il capostazione diede precedenza al treno diretto a Velletri, che era in ritardo, non verificando che l’opposto diretto a Roma Termini non era ancora arrivato in stazione. Ci si rese subito conto del pericolo, si provò a chiamare il capostazione di Casabianca ma inutilmente. Lo schianto fu terribile, i morti furono 6, tra macchinisti e pendolari dell’Hinterland romano e pontino. Gente che viaggiava per lavoro. Per andare al lavoro soprattutto.

Dopo quell’incidente, solo dopo quelle morti così vicine, a 15 km da Pomezia e a 15 da Roma, il sistema di controllo telefonico fu abbandonato. Allora in un baleno arrivò il sistema SCMT. C’è da giurarlo, arriverà anche a Corato di Bari. Anche li dopo i morti. Sempre dopo.

Mauro Valentini




La pazza gioia

Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi

Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi

Il dramma della follia senza i particolari in cronaca

Una mamma con il suo bambino piccolo affacciata ad un dirupo, che guarda un mare blu cobalto. Un treno che passa proprio lì vicino. Non è un’immagine serena e poetica, ma è l’inizio di un dramma, perché si ha la chiara sensazione che qualcosa stia per accadere. E quello che accadrà percorrerà in lungo e in largo tutta la storia. Inizia così il dodicesimo film di Paolo Virzì, “La pazza gioia” un’opera coraggiosa, che scava dentro un percorso intimo ed umano che è ormai il “capitale” narrativo del regista livornese, che abbandonata da tempo la commedia sociale è ormai un fine narratore di drammi sociali, un poco infarciti di commedia.

Beatrice Morandini è una splendida donna in continua lotta con la sua schizofrenia, millanta ma non troppo conoscenze con “il Presidente” e tratta i pazienti di una casa famiglia per psicolabili dove anch’essa è ricoverata come fosse la sua servitù. In questo bel casale adibito ad ospedale psichiatrico immerso nel Chianti irrompe la disperazione di Donatella, scheletrica, sofferente e vilipesa dalla vita, con cui Beatrice intreccerà un’amicizia complice e solidale. Beatrice è lucida nella sua pazzia, combina guai per il gusto di farlo e trascina in uno sprazzo di vitalità la povera Donatella, che invece i suoi mostri della mente sono tutti giustificati dalla vita e dalle crudeltà che ha subito nei suoi pochi anni.

Un legame spregiudicato e opposto, due poli sono Beatrice e Donatella che si attraggono nella follia, sconsiderate per motivi opposti, malate soprattutto di solitudine.

Un film bello, toccante ed intimo, scritto a quattro mani con Francesca Archibugi e che eredita dalla stessa Archibugi qualche imperfezione narrativa che però non inficia un racconto che cattura e non lascia più, anche dopo i titoli di coda.

Tanti gli omaggi al “grande Cinema” voluti anzi ostentati dal regista toscano e che trasudano amore per il mestiere; richiami a “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e all’epica coppia “Thelma e Louise” arrivano evidenti, rilanciati soprattutto dalla classe di Valeria Bruni Tedeschi che si erge ad attrice di livello internazionale, ma molti sono anche i richiami al proprio cinema con cui Virzì gioca di rimando, tanto che alcune scene sembrano estrapolate da “Ovosodo” o da “Bacie abbracci” dando un tocco quasi nostalgico ad un lavoro che rimane però maturo e imparagonabile ai suoi primi film per qualità e quantità.

Due protagoniste incantevoli e diverse, diversissime, un abbraccio continuo tra due anime perdute, insieme a Valeria Bruni Tedeschi la bravissima Micaela Ramazzotti a comporre una coppia d’attrici straordinarie che mai si sovrappongono anche per merito dei dialoghi, perfetti a cui forse manca appena appena in qualche passaggio quella sobrietà che avrebbe evitato qualche forzatura di troppo.

Il dramma della follia senza i particolari in cronaca.  Due donne come tante,  come troppe,  a cui la vita per un momento breve ha dato senza misura ma che poi spietatamente ha tolto, lasciandole sole, nude e in compagnia del loro privato dolore.

Mauro Valentini




Perfetti Sconosciuti

un "selfie" durante il film

un “selfie” durante il film

Ovvero: l’amore ai tempi della connessione dati

“Nessun film dell’orrore saprebbe essere così pauroso come quella sensazione glaciale, toccando la propria tasca, di non sentire più il proprio Smartphone”(Twitter anonimo)

A pensarci bene un‘idea così, è incredibile che non sia venuta prima di oggi a qualcuno. Scrivere una commedia, o per meglio dire una commedia di costume come questa, raccontando soltanto (si fa per dire) il rapporto morboso e malato che ormai tutti abbiamo con quell’aggeggio malefico e fantastico che è il telefono cellulare, possibile che non era venuta a nessuno?

Ebbene, ci ha pensato, e l’ha scritta Paolo Genovese, un regista che dimostra ancora una volta la sua capacità di acuta osservazione dei fenomeni sociali, riuscendo a fare quello che i suoi colleghi italiani non fanno mai, troppo legati come sono al “qui e oggi”: e cioè scrivere una storia che esca dagli stereotipi e i confini del nostro paese.

Perché “Perfetti sconosciuti” è una storia italianissima ma che, come si affretta a dire in conferenza stampa un raggiante Giampaolo Letta, che lo ha prodotto per Medusa Film (e che è già sommerso da richieste di acquisto dei diritti del film dall’estero) :«può tranquillamente essere una storia ambientata a New York, come a Tokyo o in ogni altra parte del mondo.»

Comunque, qui siamo a Roma, nell’autunno del 2015, riconoscibile dai tanti cartelli pubblicitari disseminati della decima Festa del Cinema capitolina, ripresi volontariamente per lasciare un marchio temporale. Rocco ed Eva sono una coppia borghese, agiata e lievemente in crisi di coppia, sicuramente in crisi d’identità genitoriale, incapaci di fare i conti con una figlia quasi diciottenne, dai modi quasi insopportabili. Eva e Rocco hanno organizzato una cena, chiamando due coppie di amici e un altro amico di vecchia data, Peppe, che dovrebbe, proprio quella sera, presentare la sua nuova fidanzata, l’ennesima par di capire dai discorsi che gli altri fanno nell’attesa. Peppe si presenta da solo però, butta giù una scusa a cui nessuno crede e quindi si mettono a tavola per la cena in sette.

E qui, tra l’antipasto e il soufflé che Eva, con molta malizia chiede a tutti di fare un bel gioco: condividere per quella sera tutti gli Smartphone, leggendo ogni messaggio a voce alta, rispondendo alle telefonate in viva voce così da palesare a tutti i presenti ogni parola detta o scritta.

Quello che accadrà sarà esplosivo, con un equilibrio perfetto nella comica che inevitabilmente tracimerà nel dramma, travolgendo tutto e tutti come uno tsunami. Un esercizio quasi letterario messo in piedi da ben 5 sceneggiatori, Genovese compreso, che costruiscono dialoghi di grande efficacia, al ritmo via via sempre più incalzante che costringerà alla partecipazione attiva lo spettatore. Un film fotografato e diretto in maniera sublime, con un cast eccezionale che straborda dai soliti ruoli della commedia di costume dove qualcuno di loro era stato relegato per troppo tempo, per elevarsi tutti, davvero tutti è il caso di dirlo in una grande interpretazione. Marco Giallini sembra aver fatto il salto definitivo, è il centro di questa storia e se ne prende carico con eleganza, senza strafare, soppesando ogni gesto come fanno appunto i più bravi, ma anche gli altri interpreti sono un gradino sopra il loro standard, a parte forse Kasia Smutniak che patisce più degli altri la vicinanza del mattatore Giallini. Superlativi sono quindi anche Valerio Mastandrea, Giuseppe Battiston, Edoardo Leo (irriconoscibile nella sua maturità artistica) Alba Rohwacher e la sorpresa più grande del film, Anna Foglietta, dolorosa moglie in crisi con i nervi a pezzi e il bicchiere sempre troppo pieno.

Forse il più bel film italiano degli ultimi quattro anni, forse un film che entrerà nell’immaginario collettivo assumendosi il ruolo di spartiacque generazionale, per costringere tutti, uomini e donne, a guardare dentro il pericoloso baratro dei 40 anni e a specchiarsi, attraverso l’uso che si fa di quell’aggeggio elettronico, dentro le proprie insicurezze e le ipocrisie con cui spesso nutriamo le nostre esistenze.

IL TRAILER

https://www.youtube.com/watch?v=Kp8JX3-b9tw

Mauro Valentini




HUMAN

La locandina del film

La locandina del film

Credere negli esseri umani, la missione antropologica e umanitaria di Yann Arthus Bernard

“Un capolavoro” . Senza mezzi termini così è stato definito questo documentario del regista francese Yann Arthus Bertrard quando (dopo la presentazione a “Venezia 2015” qualche giorno prima) fu proiettato nella sede delle Nazioni Unite, il 12 settembre 2015.

“Un capolavoro” ha dichiarato Ban Ki-Moon, presente alla visione, ed in effetti questo lavoro sontuoso che si condensa in un film ha davvero una missione (riuscita) immensa: far comprendere attraverso immagini e parole l’unicità della specie umana nelle sue mille, molteplici sfaccettature.

Questo è “Human” che arriva in Italia con colpevole ritardo. Ma arriva, ed è già una notizia. La proiezione, alla presenza del regista, sarà in un unico giorno a Roma, il 29 febbraio al Cinema Farnese alle 18:00 e al Quattro Fontane alle 20:00, un evento voluto dalla Academy Two, poche copie, poche proiezioni mentre in Francia, per esempio, il film quest’ultimo autunno è stato proiettato per mesi con 540 copie nei cinema.

Il film è stato girato in più di sessanta paesi, in un arco temporale ristretto considerando le difficoltà di viaggio, raccogliendo immagini e interviste da ogni angolo del pianeta. Con un unico scopo, che racconta lo stesso regista nella conferenza stampa di presentazione: “raccogliere storie e immagini del nostro mondo con cui immergersi nel cuore di quello che significa essere umani. Perché è nei visi, negli sguardi e nelle parole che vedo un modo per entrare nell’anima degli uomini”.

Attraverso queste storie e immagini aeree mai viste prima, “Human” ci fa osservare la Terra e gli uomini da un punto di vista nuovo e originale, spingendoci a riflettere sulle nostre vite. Storie quotidiane, testimonianze delle vite più incredibili, questi toccanti incontri hanno in comune una rara sincerità e pongono in evidenza chi siamo, il nostro lato più oscuro, ma anche ciò che è più nobile e universale.

2500 interviste, tra i tanti, l’ex Presidente dell’Uruguay Jose Mujica per un viaggio nella mente e nelle speranze delle donne e degli uomini di ogni angolo della terra: “L’ispirazione mi è venuta vedendo The Tree of life di Terrence Malick, quel coraggio di unire le immagini sulla creazione del mondo con una storia molto intima”.

Ed in effetti di coraggio Bertrand ne ha dimostrato molto, regalandoci però un’istantanea di incalcolabile valore, un’istantanea perché per dirla sempre con le parole del regista, i cambiamenti dovuti alle migrazioni sono così repentini da render impossibile ogni previsione nelle relazioni umane da qui ai prossimi anni.

Un film che diventa patrimonio di tutti gli esseri umani. Che hanno il coraggio di esser umani.

IL TRAILER UFFICIALE

https://www.youtube.com/user/HUMANthemovie2015

Mauro Valentini




The Hateful Eight

Tarantino torna ad omaggiare il western per raccontare la cattiveria umana nella sua forma peggiore

Attesissimo, come tutti i film del geniale ed imprevedibile regista di Tennessee, è arrivato con il fragore che merita nelle sale l’ottavo film di Quentin Tarantino: “The Hateful Eight”. Inizio davvero scoppiettante almeno qui in Italia, grazie soprattutto alla vittoria del Golden Globe per la colonna sonora del nostro Ennio Morricone.

The Hateful eight

The Hateful eight

E nella maestosa meraviglia del 70 mm (a Roma in questo formato è proiettato addirittura nel Teatro 5 di Cinecittà) la storia si dipana con una trama via via sempre più feroce nella steppa del Wyoming, durante l’età dell’oro, dove una diligenza che trasporta un ferocissimo cacciatore di taglie e la sua prigioniera, la ricercatissima Daisy, è costretta a soccorrere prima un soldato nero, fresco di battaglia tra nordisti e sudisti, poi uno sceriffo fresco di insediamento, tutti diretti nella sinistra cittadina di Red Rock. La tormenta di neve obbliga O.B. il conducente di questa sgangherata diligenza e del suo carico umano pericoloso a fermarsi nella locanda di Minnie, che è un’oasi in quel deserto a meno 20 gradi. L’arrivo di questi 5 strani personaggi scombina e disarticola il già instabile equilibrio dentro la locanda, stranamente occupata soltanto da altri energumeni pieni di armi e di cattiveria, dove manca proprio la proprietaria e suo marito.

Da questo momento in poi, in un fittissimo gioco di dialoghi e di sospetti, prigionieri di una tormenta che ucciderebbe chiunque decida di uscire, si scatenerà la parte peggiore di ciascuno di loro, in un crescendo impossibile da narrare ma che tratterrà il fiato per tutti i lunghi 170 minuti di film.

Gli otto manigoldi del titolo (ma sono un po’ di più a guardar meglio) che Tarantino mette in scena, rappresentano in maniera truce e meschina tutto lo scibile del crimine umano, ma come sempre nei film del regista, i suoi personaggi hanno una carica dialettica e umoristica tale da renderli quasi simpatici, divertenti, violenti fino al paradosso da farli apparire (e questa è l’arte di Tarantino) maschere di se stessi.

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Samuel L. Jackson

Breve ma intense riprese esterne fanno da contorno ad una scena claustrofobica dove, tutti chiusi li dentro la locanda nell’attesa che la tempesta si plachi prima che sia troppo tardi, ci si allea e si combatte in una raffica di sequenze continuamente sorprendenti e dallo stile prettamente “Tarantiniano”. Tanti sono i rimandi ai suoi precedenti film, ad esempio per la narrazione a capitoli a “Kill Bill” oppure nella ferocia dei dialoghi e delle situazioni a “Bastardi senza gloria” e soprattutto a “Le Iene” di cui questo film sembra esser il fratello maggiore.

Ed in questo mondo a parte, l’unico appiglio alla storia vera a cui si aggrappano i protagonisti è dato da una lettera di Abramo Lincoln conservata dal più spietato tra gli spietati, il Maggiore Warren, che ha quello sguardo sardonico di Samuel L.Jackson, che guida un cast splendido, con Tim Roth e Michael Madsen che si stagliano un gradino appena sopra gli altri.

Un film non certo per spettatori impressionabili, il sangue, la violenza gratuita scorrerà a fiumi, ma non è questo che ci si aspetta dal più originale dei registi nati dopo la seconda metà del secolo passato?

Mauro Valentini




Oscar 2016 – Le nomination

Difficile la scelta per i giurati Academy in una edizione mai come quest’anno ricca di grandi film

Il 28 febbraio è il giorno, l’ennesima benedetta ed emozionante cerimonia di consegna degli Oscar, il rito per eccellenza in cui la settima Arte si (auto)celebra.

Una sfilza di grandi film, mai come quest’anno danno la sensazione di un verdetto contrastato, che di sicuro non vedrà un’opera fare incetta di premi. Certo, le dodici candidature per “Revenant” di Alejandro González Iñárritu potrebbero far pensare ad un effetto “Titanic” (che ne vinse 11 nel 1997), ma stavolta i concorrenti sono tutti di altissimo livello e crediamo che la distribuzione delle statuette sarà più capillare, tanta è la scelta.

Si è parlato molto del Golden Globe a Ennio Morricone, un po’ anche per la sorpresa manifestata dallo stesso compositore che non ricordava neanche fosse in concorso; stavolta sicuramente lo avranno avvertito per tempo, perché la sua colonna sonora dello snobbatissimo “The hateful height” di Quentin Tarantino sarà tra le papabili di vittoria. Potrebbe esser il secondo Oscar per il Maestro, sarebbe davvero singolare vincere dopo quello alla carriera di qualche anno fa che, in effetti, è sempre consegnato a chiosa di una carriera che invece Morricone non vuole ancora chiudere.

Quindi verdetto controverso, previsione difficile se non impossibile, ma qualche favorito si può azzardare, con la coscienza del fatto che i favoriti sono sempre quelli che rimangono a guardare gli altri salire sul palco della Academy Awards per le foto e i discorsi di rito, succede sempre, succederà anche stavolta.

Per il miglior film sembra una corsa a due tra “Revenant” e “Il ponte delle spie”, anche se “La grande scommessa” di Adam Kay potrebbe, per il tema che tratta (la bolla immobiliare che ha generato la crisi più cruenta dell’economia mondiale del 2007) potrebbe sorprendere tutti e potrebbe aggiudicarsi con maggiori chance la miglior regia.

Tra gli attori, è bagarre tra il sempre candidato ma mai vincente Leonardo Di Caprio, Matt Damon con il suo naufrago spaziale e il sempre più amato Michael Fassbender per il Bio-Pic su Steve Jobs.

Tra le attrici invece si può arrischiare una previsione, perché sarà dura battere Cate Blanchett con la sua Carol, forse solo Jennifer Lawrence potrebbe sgomitare, le altre non hanno secondo noi speranza.

Tra i non protagonisti maschili, una lotta con qualche possibile sorpresa, con il redivivo Sylvester Stallone che appare in leggero vantaggio su Mark Rylance che pure ha rubato l’occhio ne “Il ponte delle spie”, mentre tra le donne, Kate Wislet direbbero tutti, ma attenzione alla possibile accoppiata per “Carol” e quindi rischieremo una previsione per la dolcissima Rooney Mara.

Altri possibili premi per le sceneggiature al bellissimo Carol e tra le originali per The Martian, mentre tra i cartoon qualcuno pensa di poter contrastare l’innovativo ed entusiasmante “Inside Out”?

Appuntamento dunque tra un mese o poco più, il 28 febbraio, condurrà Chris Rock, visione in diretta per 220 paesi, per l’Italia Sky Cinema e Cielo che lo trasmetterà in chiaro.

Sotto: la lista completa delle nomination.

Mauro Valentini

Miglior film
La grande scommessa di Adam McKay
Il ponte delle spie di Steven Spielberg
Brooklyn di John Crowley
Mad Max: Fury Road di George Miller
Sopravvissuto – The Martian di Ridley Scott
Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu
Room di Lenny Abrahamson
Il caso Spotlight di Tom McCarthy

Migliore regia
Alejandro González Iñárritu per Revenant – Redivivo
Adam McKay per La grande scommessa
Lenny Abrahamson per Room
George Miller per Mad Max: Fury Road
Tom McCarthy per Il caso Spotlight

Migliore attrice protagonista
Brie Larson per Room
Cate Blanchett per Carol
Charlotte Rampling per 45 anni
Jennifer Lawrence per Joy
Saorsie Ronan per Brooklyn

Miglior attore protagonista
Bryan Cranston in Trumbo
Matt Damon in Sopravvissuto – The Martian
Leonardo DiCaprio in Revenant – Redivivo
Michael Fassbender in Steve Jobs
Eddie Redmayne in The Danish girl

Migliore attrice non protagonista
Alicia Vikander per The Danish girl
Jennifer Jason Leigh per The Hateful Eight
Kate Winslet per Steve Jobs
Rachel McAdams per Il caso Spotlight
Rooney Mara per Carol

Migliore attore non protagonista
Christian Bale per La grande scommessa
Mark Ruffalo per Il caso Spotlight
Mark Rylance per Il ponte delle spie
Sylvester Stallone per Creed
Tom Hardy per Revenant – Redivivo

Migliore sceneggiatura originale
Matt Charman e Ethan Coen & Joel Coen per Il ponte delle spie
Alex Garland per Ex_Machina
Pete Docter, Meg LeFauve, Josh Cooley per Inside Out (storia originale di Pete Docter, Ronnie del Carmen)
Josh Singer e Tom McCarthy per Il caso spotlight
Jonathan Herman e Andrea Berloff per Straight Outta Compton (storia originale di S. Leigh Savidge & Alan Wenkus e Andrea Berloff)

Migliore sceneggiatura non originale
Nick Hornby per Brooklyn
Phyllis Nagy per Carol
Emma Donoghue per Room
Charles Randolph e Adam McKay per La grande scommessa
Drew Goddard per Sopravvissuto – The Martian

Migliore film d’animazione
Anomalisa di Charlie Kaufman
Boy and the World (O Menino e o Mundo) di Alê Abreu
Inside Out di Pete Docter e Ronnie del Carmen
Shaun, vita da pecora – Il film di Mark Burton e Richard Starzak
Quando c’era Marnie di Hiromasa Yonebayashi

Migliore film in lingua straniera
A war di Tobias Lindholm (Danimarca)
Embrace of the Serpent di Ciro Guerra (Colombia)
Mustang di Deniz Gamze Ergüven (Francia)
Il figlio di Saul di László Nemes (Ungheria)
Theeb di Naji Abu Nowar (Giordania)

Migliore fotografia
Ed Lachman per Carol
Robert Richardson per The Heightful Eight
John Seale per Mad Max: Fury Road
Emmanuel Lubezki per Revenant – Redivivo
Roger Deakins per Sicario

Migliore colonna sonora
Thomas Newman per Il ponte delle spie
Carter Burwell per Carol
Jóhann Jóhannsson per Sicario
John Williams per Star Wars – Il risveglio della Forza
Ennio Morricone per The Hateful Eight

Migliore canzone originale
Earned it in Cinquanta sfumature di grigio
Manta Ray in Racing Extinction
Simple Song #3 in Youth – La giovinezza
Til it Happens To you in The Hunting Ground
Writing’s on the wall in Spectre

Migliore montaggio
Margaret Sixel per Mad Max: Fury Road
Tom McArdle per Il caso Spotlight
Maryann Brandon e Mary Jo Markey per Star Wars 7 – Il risveglio della Forza
Hank Corwin per La grande scommessa
Stephen Mirrione per Revenant- Redivivo

Migliore scenografia
Adam Stockhausen (Production Design); Rena DeAngelo e Bernhard Henrich (Set Decoration) per Il ponte delle spie
Colin Gibson (Production Design); Lisa Thompson (Set Decoration) per Mad Max: Fury Road
Colin Gibson (Production Design); Lisa Thompson (Set Decoration) per The Danish girl
Arthur Max (Production Design); Celia Bobak (Set Decoration) per Sopravvissuto – The Martian
Jack Fisk (Production Design); Hamish Purdy (Set Decoration) per Revenant – Redivivo

Migliori costumi
Sandy Powell per Carol
Sandy Powell per Cinderella
Jenny Beavan per Mad Max: Fury Road
Paco Delgado per The Danish girl
Jacqueline West per Revenant – Redivivo

Miglior trucco e acconciatura
Mad Max: Fury Road (Lesley Vanderwalt, Elka Wardega e Damian Martin )
Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve (Love Larson e Eva von Bahr)
Revenant – Redivivo (Siân Grigg, Duncan Jarman e Robert Pandini)

Miglior montaggio sonoro
Mad Max: Fury Road (Mark Mangini e David White)
Sicario (Alan Robert Murray)
Star Wars 7 – Il risveglio della Forza (Matthew Wood e David Acord)
Sopravvissuto – The Martian (Oliver Tarney)
Revenant – Redivivo (Martin Hernandez e Lon Bender)

Miglior mixaggio sonoro
Il ponte delle spie (Martin Hernandez e Lon Bender)
Mad Max Fury Road (Chris Jenkins, Gregg Rudloff e Ben Osmo)
Star Wars – Il risveglio della Forza (Andy Nelson, Christopher Scarabosio e Stuart Wilson)
Sopravvissuto – The Martian (Paul Massey, Mark Taylor e Mac Ruth)
Revenant – Redivivo (Jon Taylor, Frank A. Montaño, Randy Thom e Chris Duesterdiek)

Migliori effetti speciali
Ex_Machina (Andrew Whitehurst, Paul Norris, Mark Ardington e Sara Bennett)
Mad Max Fury Road (Andrew Jackson, Tom Wood, Dan Oliver e Andy Williams)
Star Wars 7 – Il risveglio della Forza (Roger Guyett, Patrick Tubach, Neal Scanlan e Chris Corbould)
Sopravvissuto – The Martian (Richard Stammers, Anders Langlands, Chris Lawrence e Steven Warner)
Revenant – Redivivo (Rich McBride, Matthew Shumway, Jason Smith e Cameron Waldbauer)

Migliore documentario
Amy di Asif Kapadia
Cartel Land di Matthew Heineman
The Look of Silence di Joshua Oppenheimer
What Happened, Miss Simone? di Liz Garbus
Winter on Fire: Ukraine’s Fight for Freedom di Evgeny Afineevsky

Migliore cortometraggio
A Girl in the River: The Price of Forgiveness di Sharmeen Obaid-Chinoy
Body Team 12 di David Darg e Bryn Mooser
Chau, Beyond the Lines di Courtney Marsh
Claude Lanzmann: Spectres of the Shoah di Adam Benzine
Last Day of Freedom di Dee Hibbert-Jones

Miglior cortometraggio animato
Bear Story di Gabriel Osorio e Pato Escala
Prologue di Richard Williams e Imogen Sutton
Sanjay’s Super Team di Sanjay Patel e Nicole Grindle
We Can’t Live without Cosmos di Konstantin Bronzit
World of Tomorrow di Don Hertzfeldt

Miglior cortometraggio in live action
Ave Maria di Basil Khalil ed Eric Dupont
Day One di Henry Hughes
Everything Will Be Okay (Alles Wird Gut) di Patrick Vollrath
Shok di Jamie Donoughue
Stutterer di Benjamin Cleary e Serena Armitage

 




Quo Vado?

La nuova comica di Checco Zalone, un film che vuole far ridere senza esser fenomeno di costume

«Da grande voglio fare il posto fisso!». fin da piccolo, ha le idee chiare Checco e quando la maestra gli chiede di raccontare le sue ambizioni, lui non ha dubbi. E con la raccomandazione di un senatore potente, Checco centra il suo sogno, un posto in provincia, in un ente inutile, a cinque metri da casa. Tutto sembra andare per il verso giusto per lui, viziato da mamma e papà (pensionato statale della prima ora) e con una fidanzata avvenente innamorata più che di lui della sua tredicesima. Ma con la riforma delle province, qualcosa si incrina in questo ammantato ozio, ma lui non demorderà, accettando trasferimenti impossibili, anche al Polo Nord, pur di non firmare le dimissioni e la buonuscita imposta dal Ministero.

La sintesi dell’inizio del film che sta sbancando in tutt’Italia, è tutta qui. Semplice e geniale, figlia del più antico dei luoghi comuni italiani, che fa il verso alla madre di tutti i vizi di questo paese. Figlia soprattutto della classica, immortale commedia nostrana, spietata e assolutoria al tempo stesso con le meschinità del “bel paese”.

Salteremo a piè pari, lo diciamo subito, tutta la riflessione sociologica e di costume sul “fenomeno Zalone” che sta imperversando su giornali e televisioni; il compito del giornalista è raccontare il film e soprattutto guardarlo con occhi purificati dal retroscena mediatico e analitico che, invece, questa semplice comica sta subendo, come al solito dividendo gli italiani tra chi lo adora senza un minimo di senso critico e chi lo critica soltanto perché fenomeno di massa.

Critiche che piovono soprattutto per la grave colpa di esser “nazional-popolare”, come se poi un film che come obiettivo ha solo far ridere le famiglie, debba esser carico di significati più alti. E non richiesti.

Diciamo quindi per sgombrare il campo da dubbi, che il film è molto divertente. Si ride di gusto, senza l’ausilio di quella volgarità scorretta e vagamente sessista che faceva da curriculum televisivo e cinematografico al primo Zalone. L’attore pugliese riesce in “Quo Vado?” a sublimarsi, uscendo dal suo stereotipato linguaggio pecoreccio e gestendo con pregio una comicità di sintesi, crasi quasi perfetta tra la comica assoluta alla Mister Bean e quella dialettica, straordinariamente meridionale, attingendo per questo ad un repertorio storico che solo in Italia sa esser così ricco.

Inutili i paragoni con i mostri sacri; chi fa riferimento a Totò non fa il bene all’ex ragazzo di Bari, semmai qualche riferimento puramente stilistico nella costruzione della “sit-com” la si può trovare con Salemme e Pieraccioni, ma non sarebbe giusto visto che comunque, il prodotto, resta originale nel suo genere e per questo così di successo.

Eppure manca qualcosa, un pizzico di investimento in più in termini di qualità per far diventare un film divertente un grande film di genere. La sceneggiatura è scritta con un po’ di approssimazione, più preoccupata nella costruzione dello sketch fine a se stesso che di una storia vera e propria, che infatti incespica proprio nel finale, obiettivamente pretenzioso, non riuscendo a chiudere in uno scrigno logico la splendida idea iniziale. Ed è un peccato perché la comica era stata costruita, fino a pochi minuti dalla fine con sapienza. Manca poco quindi a Checco Zalone per arrivare alla perfezione, servirebbe forse un “aiutino da casa” per dirla con una delle battute più belle del film, una scrittura più di livello, ed il gioco sarà fatto. Perché, asciugato dalla volgarità il suo personaggio risulta incredibilmente più efficace di prima.

Buona la regia, Gennaro Nunziante ormai è in simbiosi con l’attore barese, cofirmando anche la sceneggiatura, le musiche e le canzoni, scritte dallo stesso Zalone (firmate con il suo vero nome Luca Medici) saranno, c’è da giurarlo, il tormentone dell’anno, l’esterna in Norvegia è supportata da un’ottima fotografia e gli attori che affiancano Checco sono troppo comprimari per esser giudicati. Anche Maurizio Micheli, che di classe ne ha da vendere è troppo racchiuso in un ruolo muto e poco mutevole, al servizio del sorriso sornione del protagonista, che c’è da giurarlo scriverà in futuro il suo nome tra i big della commedia all’italiana, checché ne dicano i puristi radicali del cinema di qualità.

Mauro Valentini




Irrational Man

Woody Allen tra filosofia e delitto in un film scritto e diretto con la solita sapienza del genio di Manhattan

Abe Lucas è un professore di Filosofia, arriva in un college di quelli da sogno, dalle parti di Providence, a Rhode Island. Si porta dietro una grande fama di donnaiolo e di scrittore maledetto, ha un approccio singolare e affascinante con i suoi giovani studenti, immediatamente diventa il centro di quella piccola comunità un po’ provinciale e anche ninfomane.

Inizia così “Irrational Man”, il film numero 45 del regista newyorchese, che varcata la soglia degli 80 anni ha ancora voglia di stupire, raccontando il solito, inestricabile mistero della mente e dell’amore.

Un mistero che genera qualche volta, spesso nei film di Allen anche la morte. Si perché     il giallo, dopo i primi momenti commedianti e divertenti si impadronirà presto della scena, un “delitto e castigo” che non è una novità nella filmografia del regista , se solo si guarda a ritroso a “Crimini e misfatti” e a “Sogni e delitti”. Abe è depresso, alcolista e impotente e per questo cerca una nuova vita, non solo attraverso una nuova cattedra di prestigio, ma appunto, ideando quello che nella sua mente dovrà esser il “Delitto perfetto”. Che poi, come ci ha spiegato tanti anni fa il maestro del brivido Sir Alfred Hitchcock perfetto non è mai.

Ed in effetti questo piccolo gioiello cinematografico fa il verso ma si potrebbe dire meglio, rimanda a grandi classici, dal già citato Hitch a “Will Hunting” o anche, seppur con variabili complicanze amorose a “L’attimo fuggente”. Ma qualcuno, i più attenti, troveranno anche un omaggio sorprendente e spiazzante a “Il vedovo” di Dino Risi, del resto non è un mistero l’amore che Woody nutre per la commedia all’italiana di quegli anni, specie in quella che ha tra gli attori uno dei suoi miti assoluti, il nostro Alberto Sordi.

Comunque su tutto, su ogni battuta del film si staglia imponente la Filosofia, soprattutto, par di voler dire l’autore, la sua inapplicabilità nella vita di tutti i giorni.

Kant appare come il protagonista occulto del film, la voce narrante di ogni azione e reazione, che si svolgono sempre tra le mani, le parole e lo sguardo sfuggente di Joaquin Phoenix, perfetto in ogni movimento, imbolsito eppur proprio per questo ancora più efficace nel suo trapanante lavoro di seduzione che opererà in ognuno degli altri protagonisti, tutti comprimari, ma tutti molto bravi proprio perché capaci di lasciar spazio al mattatore Phoenix, “The Master” per rimanere in punta di citazione. Bene molto bene anche Emma Stone, nella parte della romantica “Lolita” Jill, complice ma non troppo del (finto) misogino Abe.

Un film bello, con una meravigliosa sceneggiatura e con una fotografia, quella dell’ormai sempre presente Darius Khondji, all’altezza delle opere migliori di Woody Allen, che seppur ottuagenario ha ancora molto da raccontare.

Mauro Valentini




Il Ponte delle spie

Locandina del film

Locandina del film

Un uomo dipinge placido, guardando la vita che scorre sotto la finestra del suo appartamento di Brooklyn. Sembra un personaggio di nessun interesse, eppure quello è Rudolf Abel, è una spia sovietica in seno agli Stati Uniti nel periodo più buio della storia del mondo post guerra mondiale: il 1959. L’arresto sarà eclatante e dato in pasto ad un’opinione pubblica terrorizzata e già addestrata ad una possibile guerra atomica. Inizia così “Il ponte delle spie”, ventinovesima pellicola nata dal genio di Steven Spielberg. Il “Re Mida” del cinema di fine secolo ritorna in quella che sembra la prosecuzione amara del suo “Salvate il soldato Ryan” datato 1998. Alla fine di quel film, alla fine della II° Guerra Mondiale, il sacrificio di Ryan e di tutti quei soldati morti per liberare l’Europa dal nazismo sembrava aver portato il ristabilimento della pace assoluta tra i popoli, eppure, solo dopo 15 anni tutto sembra sull’orlo del precipizio, con in più la minaccia nucleare.

Rudolf Abel, la spia, viene dunque incarcerato, non collabora, non parla. Come tutte le spie. E mentre tutti ne chiedono a gran voce la pena di morte, la Corte Federale concede la difesa d’ufficio all’avvocato Donovan, idealista, molto preparato e figlio dell’America libera e democratica, che ha il volto, proprio per rimarcare quel sottile filo rosso recuperato da Ryan, di Tom Hanks.

E qui il nostro racconto si ferma, perché è impossibile dire molto di più della trama senza toccare le corde vive di una vicenda che va molto aldilà della “Spy Story”, intrisa com’è di spunti politici più ampi e di storie intime. Il nostro Eroe avvocato si troverà al centro di una trattativa che si svolgerà a Berlino, al culmine di quella crisi che porterà da Est i soldati russi e della DDR ad alzare il muro. Un muro culturale oltre che di mattoni, un muro che ci ricorda che la guerra c’è da sempre e che, forse, l’eredità del “secolo breve” è stata soltanto una lunga scia di guerra di posizione ideologica e di terrore.

Nel cast oltre allo strepitoso Tom Hanks, al massimo della sua carriera così ricca ci sono Amy Ryan, brava e commovente, che con un cognome così non poteva che esser la moglie di Hanks/Donovan, poi Dakin Matthews, personaggio molto televisivo e popolare e l’ottimo Alan Alda. Anche se il duetto tutto ricco di sguardi d’intesa che Hanks instaura con Mark Rylance (la spia Abel), è di quelli che vanno annoverati tra i migliori della storia del cinema e non solo per merito di Hanks. La ricostruzione della fredda Berlino del 1961 da sola varrebbe già il biglietto al botteghino dei cinema, con una musica e una fotografia da kolossal, ma Spielberg non gira solo un grande film, lui come sempre va oltre l’ostacolo, parlando al cuore libero di ognuno di noi, per gridare ancora una volta, l’ennesima nella sua filmografia, che si può e si deve dire basta ai conflitti. Che si può vivere in pace.

Mauro Valentini




Parola chiave: Partecipazione

Intervista al Segretario del PD di Pomezia Stefano Mengozzi

Seicento giorni da Segretario, un leader giovane eppure molto conosciuto nel territorio, sia per radici che per la sua attività di giornalista a Pomezia e nel territorio Pontino. Incontro Stefano Mengozzi di primo mattino, è stato il Direttore del giornale per cui ho scritto, la confidenza è immediata e non c’è bisogno di preamboli. Un caffè al bar seduti in un tavolo all’aperto, per potersi consentire la prima sigaretta di una giornata che si preannuncia, a giudicare dalle telefonate che riceve, molto lunga. Poi spegne il telefono, è il segno che si può cominciare.

Stefano sei il Segretario del partito da 20 mesi, possiamo già fare un bilancio di questa esperienza? Ti sei pentito?

«No non sono pentito, assolutamente!» sorride della provocazione che forse si aspettava: «Una domanda che mi piace. È un’esperienza faticosa ma molto, molto bella. Quando ho iniziato sapevo che il percorso era di ricostruzione di una classe dirigente del partito, non solo a livello politico ma anche e soprattutto aggregativo, di voglia di condividere e di condivisione. Voglio aggiungere che è anche e soprattutto un’esperienza appassionante. Davvero. Il momento più bello è stata la “Festa de l’Unità” di quest’estate, dove ho ritrovato compagni storici che erano anni che non si affacciavano più alla politica e che ti ritrovi, di colpo, nelle cucine a servire ai tavoli e a collaborare con un entusiasmo nuovo, ritrovato. Che si sentono di nuovo parte di una comunità che vuole fare il bene di tutti.

Sei alla prima grande esperienza politica dopo esser stato osservatore e giornalista. La tua percezione della politica è diversa adesso rispetto a prima?

«Ti confesso che è quasi imbarazzante trovarmi dall’altra parte, con te che mi intervisti, dopo aver per tanto tempo fatto io il giornalista che faceva le domande e che non doveva rispondere. Fammi dire innanzitutto una cosa importante perché ci tengo: questa città ha un’ottima informazione e bravi giornalisti, che tra mille sacrifici, quotidianamente ci mettono passione e sanno andare oltre la semplice notizia. Per quanto mi riguarda, ti rispondo subito: l’essere giornalista è importante perché mi ha regalato la conoscenza del territorio. La sua complessità è evidente e grazie al fatto di essere stato sul campo per anni sai subito quali sono i problemi della gente e quelli di alcune zone del territorio che sono in sofferenza.

Parliamo delle elezioni 2013. Ha pesato per te la scelta di candidare Schiumarini? Quelle primarie hanno sancito forse uno strappo con l’elettorato di sinistra?

«Noi perdiamo nel 2013 per diverse ragioni: innanzitutto la proposta alternativa di Fabio Fucci e del Movimento 5 Stelle ha affascinato la città, è innegabile. Ma perdiamo soprattutto secondo me per la mancanza di fiducia maturata dalla precedente amministrazione. Ora, dire che è colpa di Schiumarini non è corretto, sarebbe troppo semplice. Hanno pesato e non poco invece le questioni giudiziarie e l’incapacità di comunicare quello che avevamo fatto di buono. Pensa soltanto ai fondi ottenuti dalla Regione e dall’U.E. con i “PLUS” (Piano Locale Urbano di Sviluppo n.d.r.) dove Pomezia con la giunta De Fusco arriva addirittura seconda tra i comuni del Lazio, proprio per la qualità del lavoro svolto a livello progettuale. Questo successo della precedente giunta ha consentito di incassare quei fondi di cui ti dicevo, a seguito dei quali quei progetti messi su carta dall’amministrazione De Fusco sono state inaugurate ora dal Sindaco Fucci».

Ci torneremo più tardi alla questione dei PLUS, si sente che è un argomento che Mengozzi vorrebbe sviscerare meglio, per il momento rimaniamo però sulla questione politica del partito.

Sempre a proposito di Schiumarini, e delle Primarie che lo candidarono: tra due anni prevedi il ricorso ancora a quello strumento per decidere chi sfiderà il M5S?

Le primarie del 2013 furono purtroppo una resa dei conti all’interno del partito, non un forte confronto aperto agli elettori. Io lo dico sempre, non è lo strumento delle primarie in se ad esser giusto o sbagliato, ma come lo si usa. Al momento non mi interessa e non mi appassiona sapere se le faremo o no, mi interessa che ci sia “partecipazione” al progetto. Questa deve essere la parola chiave! L’ho detto prima e lo ribadisco. Ci siamo dati un obiettivo : restituire proprio partecipazione e condivisione altrimenti non si vincerà la sfida con il Movimento 5 Stelle».

Si accende un’altra sigaretta e continua sul tema che più gli è a cuore: «negli ultimi anni il PD di fatto era un veicolo buono solo per il periodo delle elezioni. Diciamoci la verità. Il confronto e la discussione politica e programmatica avveniva solo in quelle occasioni. Io ho cercato e sono riuscito, lo dico senza indugio, di farlo diventare di nuovo un punto di aggregazione vero e vivo e di questo posso ritenermi soddisfatto».

Non credi che ci sia bisogno di forze nuove nel partito? Pensi che le prossime elezioni possano esser l’occasione per il PD, ma anche per tutte le altre liste ora all’opposizione, di un cambio generazionale profondo al proprio interno?

«La mia idea è proprio di dare vita ad un radicale rinnovamento all’interno, anche su chi si candiderà nelle liste del mio partito. Se sarà una linea condivisa da tutti lo scopriremo al congresso nel 2017, proprio poco prima delle elezioni comunali. Siamo convinti, come direzione, che solo con una nuova proposta programmatica e con volti nuovi saremo capaci di tornare al governo di questa città».

In questo progetto rivedi un compattamento delle forze di Sinistra o correrete da soli?

La domanda lo sorprende, si prende qualche secondo per rispondere… «vedi, le cose si decidono sempre in due. O comunque insieme. Noi adesso dobbiamo fare un lavoro dentro al nostro partito, è questo il nostro obiettivo assoluto e prioritario per il momento, non quello di cercare alleati. Se proprio però devo pensare ad una coalizione che vada insieme alle elezioni del 2017, non posso non pensare alle forze di sinistra, certamente. Si potrebbe, anzi si dovrebbe ricreare però un gruppo che sia in assoluta sintonia sui grandi temi e sulle sfide ancora irrisolte della città, allora si che ci sarebbe coalizione. Vedremo, è presto per parlarne».

Abbiamo finito, ma Stefano Mengozzi ha ancora qualcosa da puntualizzare. Vuole tornare sull’argomento che gli sta a cuore, quello delle opere realizzate e inaugurate dall’attuale governo della città, le avevamo accennate poco prima parlando dei PLUS.

«Si perché vedi, questa cosa voglio proprio dirla: la vicenda dei plus ha mostrato il lato più basso di questa amministrazione. Peggio della vecchia politica. Fucci ha invitato addirittura Di Battista e Di Maio ad inaugurare un’opera resa possibile dall’Europa e dalla Regione Lazio, gli stessi enti contro cui M5S si scaglia quotidianamente. Ma la questione più importante a mio parere è un’altra: queste opere sono state realizzate appunto a fronte di progetti realizzati e messi in gara dalla passata amministrazione, proprio quello che chi governa la città non sta facendo adesso. Questa situazione è preoccupante perché fa emergere soprattutto la mancanza di progettazione per il futuro. Mi chiedo, dove sono i progetti per far arrivare nuovi fondi Europei o Regionali? Cosa troverà la prossima amministrazione cittadina»?

Mauro Valentini