Venezia 73 – Un Leone impossibile ma anche tanto Cinema d’autore

Lav Diaz discusso vincitore del Lene d'oro 73

Lav Diaz discusso vincitore del Lene d’oro 73

Da Venezia all’Oscar, la scommessa di Martina Farci

Nonostante i quasi quaranta film visti in dieci giorni alla 73.ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, mi sono persa, quasi volutamente, quello che ha vinto il Leone d’Oro, ovvero The Woman Who Left di Lav Diaz.

Il “quasi” perché la proiezione stampa è stata fatta dopo una settimana abbondante di festival, quando ormai la stanchezza ne era padrona e un film da quattro ore è veramente difficile da digerire, e perché quando avevo la possibilità di recuperarlo dopo l’assegnazione del premio, non l’ho fatto, pur consapevole che probabilmente non avrei avuto altre occasioni.

Quindi mi dispiace, ma non posso e non riesco a darvi un parere sul film, se non che la giuria presieduta da Sam Mendes ha voluto premiare il cinema d’autore di Diaz, che con la sua lunghezza sfida i sistemi classici per spingersi verso un nuovo tipo di cinema che però, indubbiamente, farà fatica ad uscire dall’ambiente festivaliero.

Per quanto riguarda gli altri premi, invece, la giuria ha cercato, a mio parere, di equilibrarli tra i migliori film passati in concorso e vi posso assicurare che mai come quest’anno c’era una qualità di altissimo valore. Il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria è andato a Tom Ford con Nocturnal Animals, perché nel suo secondo lungometraggio lo stilista ha dimostrato di saper gestire (e scrivere) perfettamente una storia cruenta e complicata, dirigere al meglio attori del calibro di Amy Adams, Jake Gyllenhaall e Michael Shannon e non rinunciare ad un’estetica fuori dal comune – e ci mancherebbe!. Ex equo, invece, il Leone d’Argento per la Miglior Regia, andato a due film che non potevano essere più diversi, soprattutto in fatto di temi narrati, ovvero La Region Salvaje di Amat Escalante e Paradise di Andrej Koncalovskij. Il Premio Speciale della Giuria, invece, è andato ad Ana Lily Amirpour con The Bad Batch, film ambientato in un deserto texano apocalittico, tra cannibali e una cittadina del tutto particolare. Per quanto riguarda gli attori, invece, il Premio Marcello Mastroianni è andato a Paula Beer per Frantz di Francois Ozon (che forse meritava qualcosa di più), mentre la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile è stata assegnata a Oscar Martinez per El Ciudadano Ilustre di Mariano Cohn e Gaston Duprat. La Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile, invece, ha premiato Emma Stone in La La Land di Damien Chazelle e non poteva essere altrimenti, perché questo musical non poteva e non doveva rimanere a mani vuote. Chi invece si è portato a casa solamente un premio minore, ovvero quello per la Miglior Sceneggiatura, andato a Noah Oppenheim, è Jackie di Pablo Larrain. Ma siamo certi che gran parte di questi film, compreso Arrival di Denis Villeneuve, li ritroveremo protagonisti ai prossimi Oscar, perché la 73.ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è riuscita a regalarci gran parte dei titoli più interessanti previsti in uscita quest’anno. Appuntamento, quindi, a febbraio per vedere se ci abbiamo visto giusto.

Martina Farci




Irrational Man

Woody Allen tra filosofia e delitto in un film scritto e diretto con la solita sapienza del genio di Manhattan

Abe Lucas è un professore di Filosofia, arriva in un college di quelli da sogno, dalle parti di Providence, a Rhode Island. Si porta dietro una grande fama di donnaiolo e di scrittore maledetto, ha un approccio singolare e affascinante con i suoi giovani studenti, immediatamente diventa il centro di quella piccola comunità un po’ provinciale e anche ninfomane.

Inizia così “Irrational Man”, il film numero 45 del regista newyorchese, che varcata la soglia degli 80 anni ha ancora voglia di stupire, raccontando il solito, inestricabile mistero della mente e dell’amore.

Un mistero che genera qualche volta, spesso nei film di Allen anche la morte. Si perché     il giallo, dopo i primi momenti commedianti e divertenti si impadronirà presto della scena, un “delitto e castigo” che non è una novità nella filmografia del regista , se solo si guarda a ritroso a “Crimini e misfatti” e a “Sogni e delitti”. Abe è depresso, alcolista e impotente e per questo cerca una nuova vita, non solo attraverso una nuova cattedra di prestigio, ma appunto, ideando quello che nella sua mente dovrà esser il “Delitto perfetto”. Che poi, come ci ha spiegato tanti anni fa il maestro del brivido Sir Alfred Hitchcock perfetto non è mai.

Ed in effetti questo piccolo gioiello cinematografico fa il verso ma si potrebbe dire meglio, rimanda a grandi classici, dal già citato Hitch a “Will Hunting” o anche, seppur con variabili complicanze amorose a “L’attimo fuggente”. Ma qualcuno, i più attenti, troveranno anche un omaggio sorprendente e spiazzante a “Il vedovo” di Dino Risi, del resto non è un mistero l’amore che Woody nutre per la commedia all’italiana di quegli anni, specie in quella che ha tra gli attori uno dei suoi miti assoluti, il nostro Alberto Sordi.

Comunque su tutto, su ogni battuta del film si staglia imponente la Filosofia, soprattutto, par di voler dire l’autore, la sua inapplicabilità nella vita di tutti i giorni.

Kant appare come il protagonista occulto del film, la voce narrante di ogni azione e reazione, che si svolgono sempre tra le mani, le parole e lo sguardo sfuggente di Joaquin Phoenix, perfetto in ogni movimento, imbolsito eppur proprio per questo ancora più efficace nel suo trapanante lavoro di seduzione che opererà in ognuno degli altri protagonisti, tutti comprimari, ma tutti molto bravi proprio perché capaci di lasciar spazio al mattatore Phoenix, “The Master” per rimanere in punta di citazione. Bene molto bene anche Emma Stone, nella parte della romantica “Lolita” Jill, complice ma non troppo del (finto) misogino Abe.

Un film bello, con una meravigliosa sceneggiatura e con una fotografia, quella dell’ormai sempre presente Darius Khondji, all’altezza delle opere migliori di Woody Allen, che seppur ottuagenario ha ancora molto da raccontare.

Mauro Valentini




Birdman

Ma questo Birdman, saprà volare?!?

Questo non è un film, almeno non per come normalmente si puo’ intendere un film.

È girato come se fosse una rappresentazione teatrale, in cui girano un film che parla di una rappresentazione teatrale… L’impressione è quella di assistere ad un solo piano sequenza, come se quacuno stesse riprendedo con uno smartphone ciò che sta vivendo il protagonista.

Siamo a New York e uno spettacolare Michael Keaton interpreta un attore holliwoodiano di nome Riggan Thomson, il quale negli anni novanti interpretava, sul grande schermo, un supereroe di nome Birdman. Lo conosciamo mentre, a venti anni dalla sua celebrità, decide di dirigere ed interpretare una commedia a Broadway. I personaggi che lo accompagnano in questa nuova avventura sono Emma Stone, quasi irriconoscibile ripensando a The Help, che interpreta la figlia scapestrata di Riggan. Naomi Watts, attrice emozionata e in ansia per la sua prima volta in un teatro di Broadway, fidanzata con un folle, conturbante e sempre esaltante Edward Norton, anche lui attore della compagnia.

Norton in questa pellicola gioca con il suo grande carisma interpretativo, cosa che si nota ancora di più vedendolo in lingua originale. Ci trascina in un personaggio egocentrico e assolutamente non etichettabile tra “buoni” o “cattivi”, in bilico tra il mondo reale e un proprio universo e pensiero in cui solo lui conta davvero.

Nei panni dell’avvocato, produttore, amico tutto fare e risolvi problemi, quello che tarantino avrebbe chiamato “Wolf“, qui si chiama Jake, ed un pò più imbranatello ed emotivo rispetto al meraviglioso personaggio del ’94 di Harvey Keitel, ed è interpretato da Zach Galifianaski.

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Per ultimo, ma assolutamente non meno importante, troviamo quello che forse è il vero protagonista di questo film, Birdman. O meglio la voce che continua a parlare nella testa di Riggan. Assistiamo infatti a questa inaspettata e potente dualità del personaggio principale, l’attore e il supereroe che lo ha reso famoso. E spesso durante la visione ci troviamo a non capire se stiamo vedendo un film ambientato nella realtà di una mente disturbata o l’ennesimo, ma un po’ piu’ di nicchia, film su di un supereroe. Non è scontato nè che il protagonista sia schizofrenico, nè che sia davvero Birdman, e forse è proprio qui la carta vincente di questa pellicola.

Che non ha assolutamente importanza. In molti hanno sottolineato la grande critica che, presumibilmente, l’abile Inarritu, ha voluto fare nei confronti dei nuovi media e non dobbiamo infatti sottovalutare una morale nemmeno troppo celata: che oggi giorno la realtà ha valore solo se, e nel modo in cui, gli viene dato valore sul web.

Ci sono scene disarmanti in cui ci ritrovamo a giudicare comportamenti come forzati, quando in realtà scopriamo che sono stati girati improvvisando, con una videocamera, nel pieno centro di Time Square e che le reazioni delle persone sono reali.

Ciò che mi ha colpita di più è la presa di coscienza del protagonista rispetto alla sua vita, ai suoi errori e alle sue vittorie. La scena che più mi ha gonfiato il cuore di emozione è stata quella nella quale Riggan si rende conto di non essere mai stato presente a se stesso in tutta la sua vita.. ma chi di noi lo è realmente? E non ci troviamo, dunque, a compatire questo personaggio, bensì a ringraziarlo per averci fatto da sveglia e per averci dato la possibilità di scandagliare dentro di noi universi fatti di voci di io nascosti e profondamente influenzati da tutto ciò che ci circonda e che abbiamo vissuto. Ci fa fare i conti con l’aspettativa, quella che noi abbiamo verso noi stessi e quella che gli altri hanno verso di noi.. “Che cosa saresti potuto diventare… invece..”

Quello che ai miei occhi è sembrato un meraviglioso dialogo interiore è un film che spiazza e non ti fa stare comodo sulla sedia, perche proteso in avanti a seguire gli eventi come se tu stesso fossi il cameramen! Girando l’angolo, tra un camerino e l’altro potresti trovare un batterista che prova la sua musica oppure un ragazza che disegna sulla carta igenica.

Inarritu, in queste due ore circa di film, ci fa fare un viaggio. Un viaggio in un teatro di Broadway dove condividiamo passioni, attese e disperazioni degli attori in attesa di andare in scena. E’ riscito, nel suo piccolo, a portare l’emozione del dietro le quinte di un teatro, al cinema.. a parer mio, assolutamente magnifico!