LA CUCINA INGLESE DI MISS ELIZA

LA CUCINA INGLESE DI MISS ELIZA

Di Annabel Abbs

Ed. Einaudi

 

Un po’ romanzo, un po’ biografia, un po’ libro di ricette, questo di Annabel Abbs è un gioiellino di scrittura capace di coinvolgere lettori di ogni genere.

Una storia al femminile narrata a due voci: Eliza e Ann, due donne di estrazione diametralmente opposta, che si ritrovano legate da un’unica viscerale passione che è quella della cucina.

Con La cucina inglese di Miss Eliza ci immergiamo in un mondo fatto per lo più di odori: predominano quelli del cucinato, ma intorno ruotano effluvi di povertà e miasmi di un’epoca lontana. Annabel Abbs ci trasporta nel 1835 raccontandoci, con uno stile entusiasta e appassionato, della vita di Eliza Acton, una donna indipendente che introdusse con enorme successo, un nuovo modo di scrivere libri di cucina.

Eliza Acton è una scrittrice di poesie in un periodo in cui alle donne veniva concessa ben poca libertà di essere, oltre al ruolo di moglie, madre, padrona di casa.

Ma lei non demorde di fronte all’ennesimo rifiuto, e non si spaventa di affrontare la sfida che le viene proposta: in cucina, immersa nei suoi profumi, Eliza capisce che tra ricette e poesie può esserci un legame.

 

 

Comincio a vedere la poesia nelle cose più impensate: un rozzo pezzo di noce moscata, o una pallida pastinaca sporca di terra.

E così mi chiedo se sia possibile scrivere un libro di ricette che comprenda la verità e la bellezza tipiche della poesia.

Perché le arti culinarie dovrebbero essere aliene alla poesia?

Cosa impedisce ad un libro di ricette di essere una cosa bella?

 

 

Ispirandosi alla storia vera di Eliza Acton, Annabel Abbs ci restituisce uno spaccato di vita che forse avevamo dimenticato. Nell’Inghilterra di metà ‘800 una zitella borghese, grazie all’inaspettato aiuto di una povera ragazza, si oppone ad un mondo prettamente maschile, ad una mentalità bigotta, ai preconcetti e alle maldicenze.

Leggendo ci emozioniamo, ci commuoviamo e ci par addirittura di sentire l’odore e il sapore delle pietanze cucinate da Eliza e Ann.

Proviamo astio verso le malelingue, ci infastidisce l’insistenza di Mrs Acton nel voler maritare sua figlia solo per redimersi dagli errori di suo marito.

Ci inorridiamo con le mani aggrappate al cancello di un manicomio e ci otturiamo il naso passeggiando nei vicoli di Londra.

In poche parole, Annabel Abbs ci rende attori, oltre che lettori, e questa è la cosa più bella che ad un amante della lettura può accadere scorrendo le pagine di un libro.

 

 

Miss Eliza mi chiede di pesare le briciole grattugiate e annotare il peso su una lavagnetta.

– Ci tengo a specificare pesi e misure, – dice.

– Ogni cosa deve essere precisa e ordinata. Così riusciamo a tenere sotto controllo il caos dell’esistenza. Non sei d’accordo, Ann?

 

 

  

SINOSSI

 

Inghilterra, 1835. Eliza Acton spera che la sua nuova raccolta di poesie la conduca al successo. I sogni di gloria, però, si infrangono contro l’oltraggioso rifiuto dell’editore, che la invita a dedicarsi ad un libro di ricette. Eliza si indigna, a casa Acton la cucina riguarda solo la servitù.

Ma quando suo padre, sull’orlo della bancarotta, si dà alla fuga, quella assurda proposta si rivela l’unico modo per sopravvivere. Eliza impara a conoscere i segreti di pentole e fornelli e, con l’aiuto della giovane Ann, finisce per scoprire che in ogni ricetta riuscita c’è sempre un pizzico di poesia.

 

E alla fine…Le ricette di Eliza Acton!




LE RICETTE DELLA SIGNORA TOKUE di Durian Sukegawa

LE RICETTE DELLA SIGNORA TOKUE

di Durian Sukegawa

Ed. Einaudi

 

 

Se dovessimo attribuire un sapore a questo breve romanzo scritto da Durian Sukegawa, forse potremmo definirlo…agrodolce.

La dolcezza della prima parte, con i suoi personaggi delineati in modo così delicato, con i ciliegi in fiore, le comitive di studenti e, soprattutto, con i suoi dorayaki. Poi il sapore cambia, si parla di segreti e di tragedia, il dolce ad un certo punto inizia ad affievolirsi fino a svanire quasi del tutto cedendo il posto ad un retrogusto aspro, molto aspro.

Durante le mie letture, in maniera costante, si inserisce l’esigenza di leggere autori giapponesi. A partire da Murakami, passando per Yoko Ogawa, Aki Shimazaki e arrivando a conoscere Durian Sukegawa con Le Ricette della signora Tokue.

Anche con quest’ultimo mi ritrovo immersa in un qualcosa che fatico a classificare come un romanzo esclusivamente realistico.

 

Perchè io credo che qualsiasi siano i nostri sogni, prima o poi troveremo per forza ciò che cerchiamo, grazie alla voce che ci guida.

La vita di un essere umano non è mai uniforme: ci sono momenti in cui il colore cambia di colpo.

 

È un libro carino, poetico, in cui le stagioni si alternano e gli animi umani cambiano.

Una storia da far leggere anche agli adolescenti, per il fatto che sottolinea l’importanza della lotta all’emarginazione, del non volersi fermare alle apparenze, dell’amicizia che non ha età.

Sentaro e la signora Tokue, i due nostri protagonisti, hanno entrambi una vita da recuperare; per uno dei due ciò sarà possibile, per l’altro solo in piccola parte.

Quella che all’inizio quasi ci si presenta come una favola, è invece solo il preludio ad un segreto che ci viene svelato poco a poco e al quale facciamo fatica a credere, e ad immaginare.

L’eleganza della scrittura orientale ci regala alla fine un senso di pace e di tranquillità.

 

 

Diventare come dei poeti era l’unico modo di vivere per noi, ha detto.

A guardare la realtà così com’era, veniva voglia di morire.

L’unica soluzione per oltrepassare la siepe era vivere come se l’avessimo già fatto.

 

 

SINOSSI

 

Sentaro gestisce una piccola panetteria che vende dorayaki, dolcetti formati da due piccoli dischi di pan di spagna al cui interno c’è una farcitura a base di fagioli rossi. Quando Tokue, un’anziana signora che sembra comparsa dal nulla si offre di aiutarlo, il ragazzo accetta con riluttanza. Ben presto però si renderà conto che la donna ha delle abilità particolari e grazie alla sua ricetta segreta, in poco tempo, la piccola attività inizia a prosperare. I segreti però della signora Tokue, non riguardano solo i suoi dolci.

 




OLIVA DENARO di Viola Ardone

OLIVA DENARO

Di Viola Ardone

Ed. Einaudi

 

 

 

“La femmina è una brocca: chi la rompe se la piglia, così dice mia madre”.

 

Viola Ardone è una scrittrice contemporanea dalla penna che scava, e non ha remore mentre scrive e denuncia; nel suo ultimo romanzo “Oliva Denaro” ci fa calare in un tunnel buio e aspro che sembra non avere fine.

Di miseria si parla, ma soprattutto di donne, anzi di femmine, al plurale perché al singolare non si può neanche dire.

 

“La donna singolare non esiste. Se è in casa, sta con i figli, se esce va in chiesa o al mercato o ai funerali, e anche lì si trova insieme alle altre. E se non ci sono femmine che la guardano, ci deve stare un maschio che la accompagna.”

 

Il sostantivo femmina la dice lunga, non donna, ma femmina, come una pecora, o una vacca. Fino ai primi anni ‘60 questa era la condizione delle donne, al pari di un animale, o di un oggetto; asservite ad una società patriarcale, bigotta, nella quale anche il solo alzare lo sguardo, era peccato.

Oliva ci viene subito tracciata con due personalità opposte: la prima è quella di una persona che si rende conto di avere un proprio pensiero, e di volerlo esternare a dispetto di tutto e tutti. La seconda è invece quella di una figlia che tenta di non far addolorare sua madre, di somigliarle, di fare e dire solo ciò che si deve. E il dire, secondo la mentalità del periodo, per una donna, anzi femmina, è veramente ridotto al niente.

Ci sembra, oggi, così naturale leggere di autrici e poetesse, politiche e dottoresse. Ma l’essere donna e non femmina è il risultato di lunghe battaglie e di atroci sofferenze tutt’ora non del tutto sopite.

Leggendomi noterete che ripeto e ripeto ancora quel sostantivo animalesco, non è un refuso e neanche un errore o una svista.

Voglio sottolineare, scrivendolo più volte, la sua accezione dispregiativa che fa male; considerate che parliamo di situazioni vissute fino a poche decine di anni fa, e non di medioevo o prima ancora.

Il tratto che usa la nostra Ardone, ha un forte sentore di sofferenza, i colori sono scuri, la paura è dietro ogni angolo.

 

E così sono le paure: sono porte che esistono solo fino a quando non abbiamo il coraggio di attraversarle.

 

I caratteri della Ardone cambiano quando descrive il padre di Oliva, o è lui che parla: un omuncolo a detta di molti nel paese, a volte anche sua moglie lo definisce così.

È invece un padre sui generis: lui la figlia la capisce più di tutti gli altri, e la sorregge, e l’aiuta a rialzarsi con una forza e con una determinazione che non sembra essergli propria.

Oliva Denaro non è un romanzo che ci lascia con delle domande, negli ultimi capitoli risponde a tutto ciò che il lettore vorrebbe. Sul finale poi, abbiamo due voci differenti, al contrario di ciò che accade prima, e che ci viene narrato esclusivamente in prima persona dalla protagonista.

Prima di chiudere il libro, o anche prima di iniziarlo, provate a fare l’anagramma del titolo.

 

SINOSSI

Oliva Denaro è una ragazzina che vive in un paese della Sicilia. Cosimino, suo fratello, può correre, fare tardi, può esercitare una libertà che a lei è negata. Perché Oliva Denaro è nata donna e come dice sempre la madre…

 




ACCABADORA di Michela Murgia Ed. Einaudi

ACCABADORA

Di Michela Murgia

Ed. Einaudi

Fillus de anima.

È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra.

Un incipit così causa soltanto una reazione: prendi il libro in mano, e non lo lasci finchè non lo finisci.

Michela Murgia ti trascina in un mondo che la maggior parte di noi non conosce, fai quasi fatica a leggere i nomi dei protagonisti, a comprendere quel linguaggio che sembra provenire da una terra lontana.

Eppure con una scrittura limpida l’autrice ti catapulta dentro una piccola comunità, poche le persone che la compongono, ancor meno le parole che essi scambiano tra loro. Consuetudini di gesti e sguardi che esprimono più di tante parole.

Un romanzo “sussurrato” perché fatto di gente che parla poco e piano, perché affronta un tema delicato e doloroso come la malattia terminale e la richiesta di una morte assistita.

 

Io sono stata l’ultima madre che alcuni hanno visto.

 

In un posto quasi senza tempo, dove la tradizione e gli antichi rituali la fanno da padrone, tutti conoscono l’accabadora, e tutti sanno. Ma, sotto lo scialle nero, non c’è solo una donna che assiste coloro che stanno per morire, sotto quelle frange c’è una madre che la natura ha impedito che fosse.

Il  rapporto tra Maria e Tzia Bonaria Urrai è strettissimo, più di un legame di sangue, nonostante ciò,  “…in tredici anni che vissero insieme, nemmeno una volta Maria la chiamò mamma, che le madri sono una cosa diversa”.

Ad un certo punto quel legame sembra spezzarsi, Maria non accetta l’accabadora, la condanna, la rifugge, ma tornerà e capirà, la Bonaria l’aveva avvisata.

 

-Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata –

 

 

Il libro finisce, e all’ultima pagina già so che lo rileggerò perché Maria e Bonaria non sono due personaggi che ti lasciano andare tanto facilmente.

 

 

SINOSSI

 

Maria e Tzia Bonaria vivono come mamma e figlia, ma la loro intesa ha il valore speciale delle cose che si sono scelte. La vecchia sarta ha visto Maria rubacchiare in un negozio, e siccome nessuno la guardava, ha pensato di prenderla con sé, perché “le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge”. E adesso ha molto da insegnare a quella bambina cocciuta e sola: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che l’aspettano, ma soprattutto come imparare l’umiltà di accogliere sia la vita che la morte.