IL ROSMARINO NON CAPISCE L’INVERNO di Matteo Bussola

IL ROSMARINO NON CAPISCE L’INVERNO

Di Matteo Bussola

Ed. Einaudi

 

Un romanzo composto da racconti, ognuno dei quali dedicato ad una donna: questo è Il rosmarino non capisce l’inverno, di Matteo Bussola, nato architetto, poi diventato fumettista e scrittore.

La bravura di questo giovane autore è nella capacità di descriverci storie di donne, narrate in prima persona, con frasi e parole che solo una donna può pensare e scrivere.

Il preambolo molto particolare, una specie di incipit lungo, è costituito da domande, apparentemente senza risposta, rivolte ad una interlocutrice non ben identificata, dai contorni sfocati, che può essere tutte o nessuna.

 

A cosa pensa una donna quando, assordata dalle voci di tutti, capisce all’improvviso di aver soffocato la propria?

Di non essersi mai davvero prestata ascolto?

Cos’hai pensato, tu, la mattina o il pomeriggio o la notte in cui, per la prima volta, lo hai capito?

  

Ne Il rosmarino non capisce l’inverno ci sono 18 storie di donne le cui vite sono intrecciate, i cui destini si sono sfiorati, e che si ritrovano tutte per l’ultimo saluto ad una di loro; racconti/capitoli che compongono un romanzo.

Matteo Bussola, con delicatezza e senza pietismo, ci descrive queste eroine che di super non hanno nulla, sono persone quali potrebbero benissimo essere la nostra dirimpettaia, una sorella, una casalinga che porta il cane a spasso nel parco dove andiamo a correre.

Queste donne non volano, non sono capaci di attraversare muri o lanciare dardi infiammati con gli occhi, ma hanno comunque il coraggio di andare avanti anche se fragili, di amare anche se odiate, di resistere alle intemperie della vita come il rosmarino resiste alle sferzate di gelo dell’inverno.

Il bello di questo breve ma intenso romanzo, o di questi 18 racconti, è che in ognuno di essi ritroviamo un pezzetto di noi stesse, e con queste donne ridiamo e piangiamo quasi come se le conoscessimo personalmente.

Leggere questo libro è quasi come andare la prima volta in una giostra, durante il giro ripetiamo a noi stessi che non ci andremo più, ma alla fine qualcosa dentro ci dirà: “ancora, ancora…”

Il rosmarino non capisce l’inverno ci incita a vivere, come se fosse l’ultimo, ogni istante della vita perché…

 

La vita di chi resta, alla fine, non è che questo.

Un insieme di “non”.

 

 

SINOSSI

Una donna sola che in tarda età scopre l’amore. Una figlia che lotta per riuscire a perdonare sua madre. Una ragazza che invece non vuole figli, perché non sopporterebbe il loro dolore. Una vedova che scrive al marito. Una sedicenne che si innamora della sua amica del cuore. Un’anziana che confida alla badante un terribile segreto.




Resto qui di Marco Balzano

Resto qui di Marco Balzano, pubblicato da Einaudi nel 2018, vincitore di numerosi premi e piazzatosi al secondo posto del Premio Strega.

Resto qui di Marco Balzano è un libro sulla resistenza nella sua accezione più ampia; resistenza alla guerra; resistenza alla persecuzione linguistica, etnica, culturale e morale avviata con l’italianizzazione nelle vallate del Sudtirolo; resistenza alla creazione della diga che sommergerà anche il paese di Curon; resistenza alla scomparsa della figlia.

La figura centrale del romanzo è Trina e si racconta della sua infanzia con le amiche di sempre Maja e Barbara, del periodo della scuola per diventare insegnante perché credeva «che il sapere più grande, specie per una donna, fossero le parole», dell’insegnamento clandestino, del suo amore per il marito Erich, della loro fuga sulle montagne in attesa della fine della guerra per rientrare al loro maso, alla loro vallata, alla loro terra.

Trina è una donna forte, determinata, coraggiosa “affamata di solitudine” che non recide mai i legami della sua vita, nonostante il tempo e le distanze, ma che deve fare i conti con la guerra, con la perdita e con la costruzione della diga che sommergerà tutto.

Non ti racconterò la tua assenza. Non ti dirò una sola parola sugli anni passati a cercarti, dei giorni sulla soglia a fissare la strada. […] Non ti dirò dei mesi in cui ciascuno di noi all’improvviso scappava, senza avvisare gli altri, e trovando la casa vuota pensava che prima o poi i boschi ci avrebbero inghiottito. Persi per sempre nell’insensato tentativo di riportarti qui, Dove non volevi stare.

Resto qui si basa su avvenimenti realmente accaduti romanzando una trama che riesce a mettere in primo piano le storie di chi ha vissuto la guerra nel quotidiano, facendo vivere al lettore quali devastazioni interiori e quali ferite creino un conflitto.

 

 

Spesso è necessario assumere un altra prospettiva per riuscire a comprendere scelte e non scelte e la scrittura di Marco Balzano riesce a mettere in luce la disperazione e i sentimenti di una piccola area territoriale incastrando benissimo le vicende personali con la tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

Un romanzo da leggere e che, con l’attuale Guerra in Ucraina, diventa ancora più importate per ricordare e non dimenticare mai quali devastazioni comportano una guerra per gli uomini e le donne che la vivono sulla propria pelle, ovunque si trovino nel mondo.




LA STRADA di Cormack McCarthy Ed. Einaudi

LA STRADA

 

La strada è un romanzo dello scrittore statunitense Cormac McCarthy, pubblicato nel 2006 e vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 2007. Da esso è stato tratto il film “The Road”.

La copertina è grigia, nera, c’è del fumo e tanta cenere, questa è l’atmosfera che permane durante tutta la storia. Una storia, quella di McCarthy, che parla di sopravvivenza e amore. Un romanzo post apocalittico per lettori non troppo sensibili anzi, per lettori dallo stomaco forte.

 

“Ce la caveremo, vero papà?

Sì. Ce la caveremo.

E non succederà niente di male?

Esatto.

Perché noi portiamo il fuoco.

Sì. Perché noi portiamo il fuoco”.

 

McCarthy usa uno stile asciutto e descrittivo per parlarci di un mondo finito, un mondo dove poche anime sparute vagano in cerca di cibo.

I protagonisti di questa storia sono un padre, un bambino e un carrello che raccoglie le loro poche, indispensabili, miserevoli cose: un telo per proteggersi dal freddo, del cibo e una pistola.

I due procedono sulla strada, vanno a sud per cercare caldo e persone come loro, attraversano un territorio arido con la vista sempre in tensione. Cercano abitazioni e negozi abbandonati dove poter cercare resti di cibo dimenticato. Scrutano e tengono i sensi sempre all’erta per evitare disperati come loro che avrebbero rischiato la vita pur di derubarli dei loro averi.

La tensione è palpabile, la paura non molla. i nostri occhi scorrono avidi dialoghi semplici, scarni, e gli “ok” si ripetono numerosi quasi come fossero un ritornello.

 

“Noi moriremo?

Prima o poi sì. Ma non adesso.

E stiamo andando sempre a sud?

Sì.

Per stare più caldi?

Sì.

Ok.

Ok cosa?

Niente. Così.

Adesso dormi.

Ok”.

L’istinto della sopravvivenza ci assale con tutta la sua forza, la natura è ostile, il paesaggio spietato. Padre e figlio si appoggiano uno sull’altro, il primo con la sua praticità, il secondo con il sentimento.

Un uso smodato di aggettivi tristi: loro sono magri e lerci, l’alba è pallida, la terra sterile e sventrata, le fattorie scalcinate. Tristi e scoraggiati siamo anche noi, ma non demordiamo, proseguiamo affamati la lettura con la speranza nel cuore.

La speranza che tutto vada bene.

 

SINOSSI

Un uomo e un bambino, padre e figlio, senza nome. Spingono un carrello, pieno del poco che è rimasto, lungo la strada americana. La fine del viaggio è invisibile. Circa dieci anni prima il mondo è stato distrutto da un’apocalisse nucleare che lo ha trasformato in un luogo buio, freddo, senza vita, abitato da bande di disperati e predoni. Mentre i due cercano invano più calore spostandosi verso sud, il padre racconta la propria vita al figlio.




IL TRENO DEI BAMBINI di Viola Ardone

Spesso diffido dei libri troppo “chiacchierati” dai social, ma stavolta gli occhi del  bambino in copertina hanno avuto la meglio.

Il “Treno dei bambini” parla di povertà, di amore, di decisioni difficili, di partenze e ritorni.

L’autrice, con una forte padronanza di linguaggio e con uno stile che cattura fin dall’incipit il lettore, ci racconta di un viaggio che inizia nel 1946 e termina nel 1994.

Amerigo, il protagonista/narratore vive in una Napoli del secondo dopoguerra, una Napoli piegata ma non spezzata dalla crisi economica. Da questa Napoli parte con un treno pieno di bambini dei quali la maggior parte non è mai uscita fuori dal proprio rione. Amerigo è molto povero, ha le scarpe strette ed è senza cappotto quando si siede nello scompartimento diretto in Emilia Romagna, dove tante famiglie si sono rese disponibili ad offrire a questi piccoli spauriti, qualche mese di vita confortevole e di studio. Nella stessa Napoli il bambino ritorna due volte: la prima dopo quei pochi mesi di calore e benessere, la seconda nel 1994 da adulto, musicista affermato.

Poi c’è la madre, Antonietta, una donna sola e forte ma duramente provata dal lutto e dalla povertà. Una donna che, a dispetto delle male lingue, decide di far partire suo figlio su quel treno organizzato dai comunisti, un treno che non lo deporterà in Russia ma al Nord, dove forse ci sarà un futuro che lei non può garantirgli. Antonietta un figlio lo ha già perso, l’altro non sa se e quando lo rivedrà.

Nel treno con Amerigo partono anche Tommasino e Mariuccia, in tre si fanno coraggio l’uno con l’altro. Bellissimo il punto in cui il treno esce da una galleria e, con il naso incollato al vetro del finestrino, vedono per la prima volta nella loro vita, la neve. “ A’ ricotta, a’ ricotta…” grida Mariuccia.

Una volta arrivati però, i tre bambini vengono separati, si rincontreranno?

Veramente una bella penna quella di Viola Ardone, una penna che parla di mamme e di bambini coraggiosi, di miseria e sofferenza senza però risultare minimamente stucchevole.

Mia mamma va avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo, due miei. Guardo le scarpe della gente.

SINOSSI

E’ il 1946 quando Amerigo lascia il suo rione a Napoli e sale su un treno.assiema a migliaia di altri bambini meridionali attraverserà l’intera penisola e trascorrerà alcuni mesi in una famiglia del Nord; un’iniziativa del Partito comunista per strappare i piccoli alla miseria dopo l’ultimo conflitto. Con lu stupore dei suoi sette anni e il piglio furbo di un bambino dei vicoli, Amerigo ci mostra un’Italia che si rialza dalla guerra come se la vedessimo per la prima volta. E ci affida la storia commovente di una separazione. Quel dolore originario cui non ci si può sottrarre, perché non c’è altro modo per crescere.




Maternità e Abruzzo: leitmotiv di Donatella Di Pietrantonio

La scrittura nuova, schietta e coinvolgente di Di Pietrantonio.

Donatella Di Pietrantonio vive a Penne, in Abruzzo dove svolge la sua professione primaria di odontoiatra pediatrico ma è conosciuta nel mondo dell’editoria per il grande successo di critica ricevuto con i tre libri pubblicati, l’ultimo dei quali L’Arminuta, edito da Einaudi le è valso il premio Campiello 2017. Gli altri suoi due romanzi sono Mia madre è un fiume del 2011 edito da Elliotedizioni e Bella Mia edito nel 2013 sempre di Einaudi.

Ho scoperto questa scrittrice per caso l’estate scorsa. Navigavo su Instagram quando rimasi colpita dal volto enigmatico di una donna fotografa in bianco e nero che volgeva uno sguardo profondo e intenso verso un punto lontano; la curiosità di sapere cosa stesse pensando e osservando mi ha aperto le porte del mondo raccontato da Donatella Di Pietrantonio.

Un mondo dove la terra nativa, l’amato Abruzzo, è onnipresente come reale protagonista, con le sue tradizioni, i suoi dialetti, le credenze popolari e la sua energia vitale e testarda ma è anche un mondo dove il significato della maternità diviene il filo conduttore capace di prendere per mano il lettore sin dalle prime pagine.

Una scrittura delicata, poetica e a tratti cruda e crudele che ci racconta le diverse angolazioni del significato di maternità. Se in Bella Mia la protagonista Caterina, dopo la tragica perdita della sorella gemella nel terremoto dell’Aquila, si vede costretta suo malgrado a fare da madre al nipote rimasto semi orfano, in L’Arminuta, (in dialetto La ritornata) troviamo la maternità vista dagli occhi di una bambina di tredici anni che da un giorno all’altro scopre di non essere la figlia delle persone con cui è crescita e si trova restituita alla sua vera famiglia. Situazione che la farà sentire orfana di due madri viventi.

Questo aspetto della maternità si apre sin dal suo primo romanzo Mia madre è un fiume, dove l’io narrante è la figlia che tiene per mano la madre affetta da una malattia che le toglie la memoria e in quel suo prendersi cura di lei emerge un rapporto di odio e amore celato da tempo.

Madre. Figlia. Sorella. Diverse angolazioni per far emergere il difficile rapporto tra madre e figlio attraverso una capacità di scrittura che, spesso, diventa poetica, riuscendo a svelare il pensiero più intimista del protagonista tanto da indurre il lettore a fermarsi per riflettere, considerare, soppesare.

La bravura di Di Pietrantonio è proprio quella di avvicinare ai conflitti generazionali con tale maestria da commuovere e arricchire nello stesso tempo e, anche quando le storie portano con sé perdite e lutti, emerge sempre una grande energia vitale che affonda le radici nel passato per proiettarle nel futuro.

 

«Mi sono seduta per terra, con il mento sulle ginocchia. Gli occhi mi bruciavano nello sforzo di contenere le lacrime. Lei è rimasta in piedi, con il cesto pieno appeso a un braccio.

Doveva essere mezzogiorno, sudava in silenzio. Non è riuscita a muovere l’unico passo che ci separava dalla consolazione.» tratto da L’Arminuta.