MESSICO di Ninni Caraglia

Messico

di Ninni Caraglia

tratto dalla raccolta Tortelilini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

L’ospedale aveva sei piani ed era tutto rivestito da vetri specchiati per riflettere le colline di querce e ontani che lo circondavano. Un bianco sentiero contornato da bosso e ginestre conduceva alla reception in stile alberghiero più che di struttura sanitaria. Anche la malattia deve avere la sua parte di bellezza per diminuire il dolore: su questo concetto il dottor Rifkin, fondatore, aveva concepito e costruito il suo ospedale per chi il dolore poteva eliminarlo con trasfusioni di dollari. L’ultimo piano era una top suite, sia per il paziente sia per chi soggiornava per  assisterlo. Il piano sottostante dedicato agli uffici direzionali garantiva la privacy più assoluta; c’erano perfino due ascensori dedicati, uno esclusivo per il paziente ed uno per i sanitari.

La bionda e lentigginosa Linda Janssen era arrivata al Rifkin’s con la sua assistente Ana Sanchez il giorno prima, ovviamente in gran segreto per evitare il clamore della stampa. Linda e Ana erano coetanee, si erano conosciute al college e avevano mantenuto i contatti nonostante le loro vite completamente diverse. Ana era segretaria di direzione nel giornale della sua città: conosceva il mondo e la stampa; i “coccodrilli”, come diceva lei, crescevano in entrambi quei mondi e non solo nella sua Florida. Linda Janssen, bionda e procace, era in ogni foto del gruppo di cheerleader del college. Un sorriso fresco e una bella voce la portarono fino alla televisione: dai programmi per bambini a quelli del mattino, dove il suo sorriso apriva le finestre delle case di quella parte d’America che avevano cominciato a volerle un gran bene. Si ritrovarono quando Ana fu incaricata dal giornale di organizzare un’intervista a Linda. Quell’intervista ebbe molto successo, piacque come piacque a loro ritrovarsi. Decisero, dopo un paio di mesi, di continuare a lavorare insieme. Linda era serena, sapeva di poter contare sulla fiducia di Ana e a loro non interessavano i gossip dei rotocalchi su un presunto loro amore omosessuale. Affiatate ma diversissime nell’aspetto e nel carattere: Linda aveva giurato amore eterno alla sua bellezza e alla sua professione; Ana era di pelle dorata, dono del sole del Messico ai suoi nativi. Le canzoni di Linda risuonavano sempre nello studio di Ana e in mille altri sperduti motel, dove cameriere indaffarate cantavano quelle melodiche canzoni per divagarsi. “Ana, mi porteresti a trovare la tua famiglia in Messico? Ci meritiamo una vacanza”. Da allora, due volte l’anno si rifugiavano in un paesino sulla costa dell’Oceano Pacifico. C’era il giusto tempo per tutto: famiglia, sole, mare e anche il lavoro, visto che Linda aveva cominciato a pubblicare video sui social mentre cantava in spiaggia con i bagnanti. Linda non era abituata a vedersi così abbronzata, si vedeva più bella. Ana non era così amante del sole, quello del primo mattino era il suo vero caffè, poi era meglio lavorare all’ombra di casa.

Mentre disfacevano i bagagli nella suite dell’ospedale, ripensavano a quanti anni erano passati dalla prima vacanza in Messico, ormai la loro gioventù era trascorsa, per entrambe il successo professionale ed economico era al top. Le grandi vetrate del Rifkin’s sembravano membrane osmotiche per la luce del sole, che ora dava l’impressione di disturbarle. Le fronde ondeggiavano ipnotiche, assopite sui bianchi sofà.

Suonarono alla porta. Entrò un dottore con parecchi documenti in mano. “Buongiorno signora Janssen, mi chiamo Leonard Lewis e sarò il suo specialista dermatologo. Le lascio alcuni moduli da compilare e il calendario delle indagini che faremo in questi giorni. Si prenda del tempo per darci un’occhiata, può chiamarmi al 713 a qualsiasi ora”.

“La ringrazio, leggerò tutto subito e la richiamerò presto” rispose Linda stringendogli vigorosamente la mano per salutarlo.

“Ana, per favore, potresti ordinare in anticipo la cena? Così guardiamo insieme questi moduli” chiese sbuffando Linda. “Aggiungi anche una bottiglia di prosecco ben fresco!” aggiunse mentre disponeva sul tavolo i documenti.

“Alcol il giorno prima degli esami?” chiese stupita Ana.

“Ana, per favore! Ho già visto che il primo appuntamento, che fra l’altro è un semplice colloquio, è alle 11, quindi ho tutto il tempo per smaltire una bottiglia di prosecco. Anzi mezza, visto che beviamo insieme. Per favore! Già non dovrei essere qui! Sei stata tu ad insistere”.

Mentre Linda era di spalle, Ana alzò gli occhi al cielo e telefonò alla reception per ordinare.

La bottiglia di prosecco finì presto, Ana leggeva a Linda le domande del questionario anamnestico e poi scriveva subito la sua risposta. Ana evitava domande pensando che l’atteggiamento dell’amica fosse solo normale nervosismo. Due ore dopo telefonarono al dottor Lewis, che le raggiunse subito in stanza. Lewis era alto e ben piazzato, il camice bianco e gli occhiali tondi e dorati risaltavano sulla sua carnagione scura. Anzi, decisamente nera. Linda non era razzista ma quel colore la intimoriva. Ana gli fece cenno di accomodarsi al tavolo.

“Grazie per aver compilato tutto così presto. Leggerò e domani, se ne avrò bisogno, le farò altre domande. Domattina faremo un’epiluminescenza, una radiografia al torace e una biopsia. Se ci sono segnali dubbi faremo anche una tac. Meglio una cosa in più che una in meno, giusto? Tutto chiaro? Domande? Allora ci vediamo domani alle 11 al primo livello sotterraneo, stanza 10. Usi il suo ascensore e stia tranquilla, non la vedrà nessuno, anche se il nostro centralino oggi è andato in tilt per le telefonate dei giornalisti. Vi consiglio di usare la linea telefonica privata a voi dedicata. Buonanotte, signore”. Rimasero entrambe in silenzio sino al mattino successivo. Dopo gli esami del caso, pranzarono di gusto, visto che si era fatto tardi. Il dottor Lewis sarebbe ritornato in serata per parlare di alcuni risultati, quindi c’era tutto il tempo per un riposino.

Squillò il telefono, era Lewis che le invitava nel suo studio.

Il dottore iniziò mostrando la lastra al torace sullo schermo luminoso. “Alcuni linfonodi sul mediastino appaiono ingrossati, Linda”.

“Cosa vuol dire? È un tumore? O sono già metastasi?” chiese lei.

Lewis fece il giro della scrivania e prese le mani di Linda. Le indicò, nell’incavo dorsale tra pollice e indice della mano destra, alcune piccole piaghette rosse. “Linda, con grande probabilità questo è un melanoma. Anche il piccolo neo tra il dito indice e il medio è coinvolto. Faremo una nuova biopsia del tessuto vicino”.

Erano ammutolite da quella notizia.

“Dottore, io mi sento bene! I nei potrebbero essersi ingrossati per il sole e il prurito che la sabbia provoca. Non è possibile. Non ci credo!” insistette Linda.

“Vedremo gli altri risultati nei prossimi giorni e poi decideremo il da farsi. Buona serata, signore”.

Neanche il loro respiro si sentiva in ascensore, ma nella suite esplose la rabbia di Linda verso Ana. “Hai insistito e mi ritrovo in questo casino! È una cazzata! Non è possibile che sia così! Tutta colpa delle tue paure! Io sto benissimo!”

Ana le augurò la buona notte e si ritirò nella sua stanza. Linda ordinò vino e cantò fino a mezzanotte.

Il mattino seguente, Lewis rimase perplesso nel vedere Linda salutare dalla finestra alcuni fan che erano giù all’ingresso dell’ospedale e cantavano sventolando fiori per lei. Era sorridente quando si voltò per ascoltare il dottore.

È molto amata, vedo” disse Lewis accennando un mezzo sorriso.

“Sì! Perché sanno che il mio affetto per loro è sincero. Non fingo”.

Linda si sedette mantenendo la schiena orgogliosamente diritta e non rivolgendo lo sguardo all’amica.

“Sono qui per confermarle la diagnosi di melanoma. Ci sono piccole infiltrazioni linfovascolari che stanno cominciando ad ingrossare altri linfonodi. Tutto parte dalle prime tre dita della mano destra, come confermato dalla risonanza magnetica con contrasto. Abbiamo due strade che possiamo percorrere”. Lewis si fermò per riprendere fiato e concentrarsi sulle brutte notizie conclusive.

Linda si alzò di scatto andando nuovamente alla finestra per lanciare sue foto autografate agli ammiratori urlanti. Chiudendo la finestra disse al dottore: “Qual è la strada più breve?”

“Amputare le tre dita della mano destra per tentare di rallentare l’infiltrazione di cellule tumorali. Prima dell’amputazione ci sarebbero, tuttavia, tre cicli di chemioterapia per cicatrizzare il più possibile”. Lewis si fermò perché aveva visto il volto incredulo delle donne.

“E secondo lei mi faccio tagliare tre dita? Non basta fare la chemioterapia senza tagliare? E se le tagliassero a lei, le dita? No, dottore, questa strada non è per me. Mi prenderò del tempo per pensare, partiamo domani e poi le farò sapere” concluse Linda accendendosi una sigaretta.

“Non aspetti troppo, Linda. Ha il mio numero di telefono, mi chiami” disse lui tendendo la mano, che Linda non volle stringere.

Andarono via prima dell’alba il mattino dopo. Linda non rispose a nessuna domanda e proposta di Ana. Si ritrovarono negli studi televisivi dopo qualche giorno come se nulla fosse accaduto.

 

“Chiama Lewis, partiamo domani” disse Linda quasi senza voce. Si era presentata nell’ufficio di Ana scalza e claudicante. Gli ematomi sotto le unghie e le piante dei piedi ormai rendevano faticoso stare in piedi. Decisero tutto in quel momento: Linda avrebbe fatto con Ana un’ultima intervista. Ana avrebbe organizzato lo studio televisivo con le ultime foto fatte in Messico. Linda, dietro un ampio tavolo, sarebbe stata seduta normalmente nonostante la sedia a rotelle, il piccolo vaso di fiori rossi avrebbe coperto la mano mutilata mentre con l’altra avrebbe salutato in spagnolo il pubblico, una vez mas.

 

foto di Petra by Pixabay




TORTELLINI di Valentina Pucillo

Tortellini

di Valentina Pucillo

tratto da Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

“Quest’anno quanti ne facciamo? L’anno scorso erano davvero pochi” disse Maura con un sorrisetto ingolosito sul viso.
“Io ne ho calcolati una cinquantina per persona: per un piatto abbondante ne servono circa trenta, e con cinquanta viene fuori anche il bis per tutti” rispose zia Claudia mentre spargeva la farina sulla spianatoia. “Anche perché, a parte questi in brodo, il lesso e le verdure, io e Antonia abbiamo deciso di non preparare altro. Ci sono anche tutti i dolci. Altrimenti poi finisce che mangiamo troppo come tutti gli anni” continuò, prendendo l’impasto della sfoglia e iniziando a stenderlo col mattarello.

“È sufficiente il ripieno? Mi sembra poco, considerando che domani ci saranno anche altri ospiti. Dovremmo farne almeno 700” disse preoccupata nonna Mimì, che temeva sempre che il cibo non fosse sufficiente.
Il grande tavolo del tinello era allestito per l’occasione. Una tovaglia incerata era stesa su tutta la superficie per evitare che il legno scuro si rovinasse. Sopra c’erano la spianatoia, il recipiente contenente il ripieno profumato di mortadella e noce moscata, e svariati vassoi coperti da strofinacci candidi, incastrati con i bordi l’uno sull’altro, pronti ad accogliere le file ordinate di tortellini che tutta la famiglia, come ogni anno nel pomeriggio della vigilia di Natale, stava preparando per il pranzo del giorno dopo.

“Sòrbole, Claudia, tirala più sottile quella sfoglia, eh! Mario, mescola mo’ quel ripieno che lo vedo un po’ grumoso”: come ogni anno, forte delle sue origini emiliane, zio Paolo dispensava consigli e perle di saggezza a destra e a manca con il suo marcato accento bolognese.
La ripartizione dei compiti era più o meno sempre la stessa. Zia Claudia, avendo acquisito dal marito quel tanto di bolognesità che bastava, preparava e stendeva la sfoglia quasi come una perfetta sfoglina e tagliava i quadrelli di pasta delle giuste dimensioni; “Piccolini! Il vero tortellino deve essere grande come una moneta da venti centesimi!” continuava a ripetere zio Paolo fino allo sfinimento; Antonia, la sorella, insieme ai figli Maura e Valentino, era addetta alla preparazione del ripieno, a porzionarne la giusta quantità nei quadrati di pasta e a chiudere questi ultimi su sé stessi per formare i triangoli; zio Paolo e il cognato Mario, i due ‘precisi’ della famiglia, avevano il compito di sigillare i triangoli bagnando leggermente i bordi e di dar loro la tipica forma del tortellino ripiegandoli attorno al dito. Il tutto era supervisionato da nonna Mimì che, forte dell’immunità ai rimproveri datale dai suoi ottant’anni, danzava da una postazione all’altra, metteva le mani ovunque e pasticciava senza che nessuno avesse il coraggio di dirle nulla.

La famiglia Brambilla era molto unita; tuttavia, per qualche scherzo del destino, ognuno dei componenti aveva scelto di stabilirsi in posti piuttosto lontani l’uno dall’altro. Non erano quindi molte le occasioni in cui la famiglia Brambilla riusciva a riunirsi. Per questo il Natale tutti insieme nella casa dei nonni, con annesso il rito di preparazione dei tortellini, era un appuntamento che nessuno aveva mai messo in discussione. Intorno a quel tavolo del tinello si creava sempre un’atmosfera armoniosa. Claudia, che con movimenti sicuri preparava la pasta da riempire, ciarlava allegramente con Antonia e Mimì di parenti, storie del paese e ricette. I bisticci tra Valentino e Maura sui reciproci stili di vita sembravano quasi addolcirsi grazie all’odore denso del brodo di cappone che, sobbollendo in cucina per ore, li accompagnava durante tutta la preparazione dei tortellini.

Anche i due cognati, che normalmente non facevano che stuzzicarsi, in quell’occasione sotterravano l’ascia di guerra, concentratissimi sulle operazioni di chiusura della pasta; uno sguardo attento avrebbe comunque percepito una sorta di sfida silenziosa su chi dei due riuscisse a formare il maggior numero di tortellini chiusi a regola d’arte. A rallegrare la laboriosa famiglia c’era la sempre presente televisione che strepitava a tutto volume, spesso sintonizzata da nonno Giulio su affascinanti programmi di interesse generale quali, ad esempio, documentari sugli gnu.

Quel pomeriggio nonno Giulio era di umore variabile. Dopo aver imposto a tutti una mezz’ora di televendite di utensili da cucina di discutibile utilità, aveva di botto abbassato il volume della televisione e si era accomodato intorno al tavolo con gli altri, osservando la scena con espressione arcigna. Sembrava interessato a studiare la preparazione della sua portata preferita del pranzo di Natale. Aveva scelto una sedia a capotavola in posizione strategica, proprio davanti ai vassoi che iniziavano a riempirsi di tortellini; non appena gli altri si distraevano, il buon vecchio Giulio ne rubava qualcuno con movimenti fulminei e lo ingoiava crudo con colpevole voluttà.

Tutti lavoravano in silenzio, concentrati, essendo generalmente difficile chiacchierare a causa del baccano della televisione.
“Ma che silenzio stasera! Perché non mettiamo un po’ di musica?” chiese Maura rendendosi conto che il rimbombo della televendita era cessato.

“Sì, dai, passami lo zaino, ho un cd di etno marocchina che mi ha regalato Karima” ribatté subito Valentino, sempre voglioso di condividere le sue passioni con chiunque gli capitasse sotto tiro.
“Veramente pensavo a qualcosa di allegro, magari canzoni che conosciamo tutti e che possiamo canticchiare insieme” replicò seccata Maura, fulminando il fratello con lo sguardo. “Allora dovremmo cantare Nilla Pizzi, se teniamo conto dell’età di qualcuno intorno a questo tavolo, oppure tormentoni estivi idioti, se teniamo invece conto della cultura musicale di qualcun altro sempre intorno a questo tavolo” rispose Valentino, sostenendo ironico lo sguardo della sorella.

La discussione venne subito zittita da zio Paolo che, con un veloce click, fece partire uno dei suoi pezzi preferiti di musica classica, un requiem di Mozart.
“Allegro si era detto, eh? Qua mi pare il festival delle melodie d’oltretomba” mugugnò Mario guardando il cognato di sottecchi.

“E piantala di essere sempre polemico, diamine!” ribatté Antonia dando una gomitata al marito, cercando di capire se la sua lamentela fosse stata sentita da Paolo e Claudia.
Nonno Giulio ascoltava impassibile ma divertito i vari battibecchi; sentendosi piuttosto invisibile afferrava, ormai spudoratamente, un tortellino dopo l’altro e se li infilava meccanicamente in bocca. I suoi movimenti, per quanto scaltri, vennero tuttavia intercettati dall’occhio di falco di Mimì.

“Giulio! Ma tu guarda che disgraziato, questi sono per domani! Quanti ne hai mangiati già?” inveì nonna Mimì contro il marito, mettendosi le mani tra i capelli con fare angosciato. “Non hai nemmeno preso la pasticca! Adesso basta, tornatene a guardare la televisione!”
Non gradendo che l’attenzione di tutti fosse ormai su di lui, e ritenendosi probabilmente soddisfatto della scorpacciata, nonno Giulio assunse un’espressione di infastidita dignità e si accinse ad alzarsi dalla sedia per tornare alla poltrona davanti alla televisione. Per aiutarsi appoggiò con una certa foga entrambe le mani sul bordo del tavolo, che coincideva con il bordo di uno dei vassoi ormai stracolmi di tortellini. Ci fu un effetto domino al contrario: volo di vassoi, pioggia di tortellini che rotolarono ovunque, sotto il tavolo, sul pavimento impolverato, sotto i mobili. Intorno alla tavolata, tutti ammutoliti. Nel caos generale restarono sul tavolo solo tre tortellini, nascosti sotto uno strofinaccio. Nonno Giulio, ormai in piedi, li intercettò prontamente e li mangiò prima di tornare alla sua poltrona.




LA STANZA DEI BOTTONI di Cristina Cortelletti

La stanza dei bottoni

di Cristina Cortelletti

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Marco contrasse il viso stanco allo stridio della serranda che finiva di avvolgersi nel cassonetto. Doveva lubrificare le guide di ferro, pensò, l’avrebbe fatto l’indomani. Erano le 19,30 e aveva promesso a Sara di cucinare le linguine al limone per cena.
Dalle vetrate in fondo al capannone si intravedeva in tutta la sua bellezza l’ultimo crepuscolo di settembre, e Marco si incantò a guardare le sfumature rosa. Penetravano la spessa coltre di polvere che ricopriva i vetri. Quel frammento di natura era una di quelle cose per cui valeva la pena trattenersi al lavoro fino a tardi.

Sulle pareti in penombra le crepe avanzavano inesorabili, rendendo la superficie una scorza avvizzita. Marco s’incupì constatando che le mura non mentivano, stava invecchiando anche lui. Il capannone, insieme alla portineria e alla torre quadrangolare, faceva parte di un vecchio polo industriale, costruito negli anni Sessanta. Un’unica grande costruzione comprendente tre edifici a schiera, con mura portanti comunicanti; all’interno del capannone c’erano quattro grandi pilastri sui quali poggiavano le capriate in cemento a sorreggere la copertura curva. Sulla parete destra erano posizionati i macchinari principali per la produzione, compresa la grande pressa che occupava un terzo del capannone e invadeva parzialmente il camminamento pedonale: bisognava avanzare a zig zag.

Marco avanzò a naso, l’odore dell’olio da taglio impregnava l’aria in corrispondenza della cesoia, sulla quale lampeggiava la piccola luce rossa che era tornato a spegnere. Notò sul pavimento le due chiazze nere che aveva dimenticato di pulire. Le schivò, sperando che dopo la riparazione che lo aveva impegnato tutta la giornata, il macchinario non perdesse più olio. Gli borbottò lo stomaco e si ricordò delle linguine che aveva programmato di cucinare per cena. Avrebbe fatto una sorpresa a Sara.

Marco accelerò il passo, girò la manopola, il led si spense e nel capannone tutto assunse un aspetto dormiente. In quel momento sentì l’ululato sommesso della colonna sonora de Il Buono, il Brutto, il Cattivo, abbassò lo sguardo verso la parete in fondo al capannone e vide lo spiraglio di luce che filtrava dalla piccola fessura vicino al pavimento. La stessa feritoia dalla quale proveniva la musica.

“Ciao Tuco” gridò Marco tendendo inutilmente l’orecchio, difatti non ebbe risposta. Marco guardò l’orologio, non aveva molto tempo, ma decise comunque di passare in portineria a salutare Tuco. Aveva soprannominato Tuco uomo nuvola perché era impercettibile, sfuggente e soprattutto indecifrabile. Aveva avuto il posto di custode notturno, in quanto unico candidato con un requisito fondamentale: non dormire mai. Di lui si diceva che era stato membro dell’Agenzia, designato all’effrazione di siti potenzialmente pericolosi e poi congedato per disturbi mentali. Dopodiché era scomparso.

Marco costruiva serrature di sicurezza antiscasso e Tuco rappresentava l’antagonista per eccellenza; fu così che tra i due iniziò una fortissima competizione. Marco s’era imposto di costruire delle serrature che resistessero all’abilità manuale di Tuco. Di giorno le realizzava e la sera le lasciava in portineria. Tuco le testava e poi la mattina, prima di andare via, le metteva in un sacchetto che appendeva al portone del capannone. I primi tempi Marco trovava nel sacchetto tutte le serrature divelte, e impegnò tutto il suo ingegno per costruire ingranaggi sempre più sofisticati e combinazioni cifrate che le rendessero inattaccabili. Fino a quando una mattina trovò nel sacchetto tutte le serrature intatte, guadagnandosi l’apprezzamento di quell’introverso e nebuloso custode. Sorrise, ripensandoci.

Da qualche mese aveva iniziato a lavorare sull’idea di Tuco, e non aveva più orari. Sara condivideva lo stesso entusiasmo, ma ultimamente si lamentava dell’ossessione che lui rasentava per quel progetto. Un’idea ardita per lei, ma non per Marco, che s’era messo alla prova per vincere la sfida più difficile di tutte: quella con se stesso.

S’incamminò senza esitare verso la porticina di servizio sul retro del capannone, superò il tavolo da lavoro, scantonò la pila di pallets che, come tutto, intorno alle pareti si ergeva fino al soffitto a volta. Si fermò subito dopo la pressa.
“Tuco!” disse, provando a girare la maniglia della porticina.

“Cosa vuoi?”
“Finire il lavoro” rispose, pentendosi immediatamente.
Sara stavolta non l’avrebbe perdonato. Il tono della musica si affievolì. Qualcosa nella porta scattò diverse volte, il battente girò cigolando sui cardini e si aprì. Lo investì un’aria satura di canfora e dell’inconfondibile odore dei fagioli al sugo in barattolo della Star. Marco detestava i cibi in scatola, rabbrividì.
“Credevo non venissi stasera” disse Tuco.
“Voglio finire il lavoro prima che arrivino gli ospiti” rispose Marco.
Tuco gli fece cenno di stare zitto.
“Gli uomini si dividono in due categorie, quelli con la pistola carica e quelli che scavano; tu scava!” riecheggiò la voce di Clint Eastwood.
Illuminato dalla luce calda della lampadina, Tuco sembrava più smilzo e più vecchio, teneva la testa sprofondata fra le spalle e lo sguardo incollato alla TV. Tra la barba rada e incolta facevano capolino delle piccole briciole, e tutto intorno c’erano mosche e tafani. Un duello tra desolazione e solitudine.
“Non hai una bella cera” disse Marco.
“Sono appena uscito dall’ospedale”.
“Ho sentito dire che ti hanno tolto un pezzo di fegato”.
“No… è andata bene”.

L’aveva scampata per un pelo. Gli spari rimbombarono, il Biondo aveva reciso con una pallottola la corda al collo del Cattivo, che saltava sul cavallo e scappava.
Tuco vedeva tutte le sere lo stesso film. Spinse verso Marco una scatola di legno piena di sigarette.

“Prendi” disse.
“No” rispose Marco, facendo un cenno con la mano. Aggiunse: “Ora no”.
Tuco si sedette davanti al contenitore di latta pieno zeppo di fagioli al sugo, senza distogliere lo sguardo dal televisore.
“È ora di cena” disse portandosi il cucchiaio alla bocca.

“Finiremo stasera?” chiese Marco.
Non ebbe risposta. Poteva farcela, pensò, picchiettando l’avampiede a terra; in fondo tutto era pronto, sarebbero bastati pochi minuti e avrebbe raggiunto Sara. La lentezza lo metteva a dura prova: sin da quando aveva imparato a camminare, a Marco piaceva correre. Per lui il tempo che passava infruttuoso era sprecato. Mentre aspettava che Tuco finisse, si guardò intorno. La portineria non aveva finestre e in tutte le pareti, grezze e aggredite da colature giallastre, si annidavano tante varietà di insetti, soprattutto falene. Restò sorpreso nel vedere che, mentre tutto ciò che riempiva la stanza era interamente ricoperto di polvere e briciole, il pavimento era pulito nonostante fosse usurato.
Cercò con gli occhi la fessura sul muro e poi puntò lo sguardo in basso sulla parete in fondo, dove c’era l’armadietto arrugginito, e la vide. La fessura era comunicante con il suo capannone in prossimità di quella che aveva definito la stanza dei bottoni, precisamente l’area tra la pressa e la troncatrice.
Tutte le sere da quella fessura filtrava la musica di Morricone che si diffondeva nel capannone, rimbalzava sulle pareti e si amplificava nella volta. Le note degli ottoni e dei violini si espandevano fino a riempire tutta l’aria. Tuco non poteva essere un burbero animale se la musica lo afferrava a tal punto, pensò.
“Ecco, prendi” disse Tuco versando il caffè nelle solite tazze.
“Buono come sempre” rispose Marco sorseggiandolo. “Dobbiamo sbrigarci” proseguì, “ci resta poco tempo”.
Tuco, con fare calmo, accese una sigaretta e soffiò il fumo, che salendo scomparve nell’oscurità; prese la lista sulla parete di fianco al televisore e fece cadere a terra la puntina con la quale era fissata. Marco si chinò per raccoglierla e vide una nuova fessura sul muro, identica all’altra. “Accidenti!” esclamò tirandosi su a fatica.
“Cosa ti preoccupa?” chiese Tuco.
“Inizio ad essere vecchio per queste cose, e non dormo da troppe ore”.
“Non lamentarti” disse Tuco, “non è tardi”.

Pigiò il tasto del VHS sul telecomando e sullo schermo comparvero numerosi lepidotteri che volavano al rallentatore. Entrambi osservarono lo schermo, si scambiarono un’occhiata e annuirono.
“Ti aspetto di là” disse Marco aprendo la porticina.

Rientrò nel capannone, le sfumature incupite del tramonto avevano ceduto al buio; attese che gli occhi si abituassero e si diresse verso la pressa, dopo pochi passi si trovò nella stanza dei bottoni. L’odore di muffa si era intensificato negli ultimi giorni. Sulla parete comunicante con la portineria erano fissati degli argani a manovella, ai quali erano collegati dei cavi di acciaio che si allungavano verso il soffitto e si incanalavano nelle piccole carrucole ancorate alle travi. Ogni cavo scendeva parallelamente alla parete e si fermava ad una altezza diversa dagli altri. Alcuni terminavano con una lamina di acciaio, altri con una molla fissata ad un piccolo moschettone. Marco scrutò il marchingegno tenendo in mano la pulsantiera del comando a motore e corrugò la fronte, qualcosa non gli tornava. Per un attimo si scoraggiò. Lo scosse il pensiero di quanto avesse lavorato per trasformare il marchingegno degli ingranaggi da un progetto teorico in realtà tangibile.

Si focalizzò nuovamente sulla parete, ripassò mentalmente lo schema del circuito raccomandandosi ad ogni singola vite, alla quale aveva affidato una grande responsabilità: non allentarsi. Aveva scongiurato il rischio di mandare in frantumi l’ingranaggio, ma gli ospiti erano furtivi e si mostravano in giro raramente; mentre di notte erano alacri lavoratori, di giorno era difficile capire cosa facessero: un sabotaggio non era da escludere.

Quando Tuco aveva iniziato il lavoro di guardiano notturno, gli ospiti erano già lì, e in tre mesi era riuscito a studiarne le abitudini, condividendo con loro il cibo, la musica e le notti. Poi un giorno propose l’azzardato progetto a Marco, che accettò senza pensarci. Da quel giorno ci si erano dedicati, impegnando tutte le loro conoscenze per riuscire a realizzare un’opera di straordinaria architettura.

Marco strofinò le mani umidicce sul gilet, le tempie rigonfie scandivano i battiti.
“Ora ho capito” esclamò Marco ad alta voce, tenendo d’occhio la parete.
Lasciò la pulsantiera, prese quattro tavolette di legno e fissò su ognuna un rocchetto di plastica che avvolse con del filo di rame; prese due piccoli magneti, li forò e li mise all’interno di ogni rocchetto, poi fece passare trasversalmente nei fori un tondino di ferro, che collegò con il mastice alle manovelle di tutti gli argani. Si asciugò la fronte con il dorso della mano. “Giusto in tempo” disse con le labbra socchiuse, e inspirò soddisfatto.
“Tuco!” gridò Marco.
Tuco guardò l’orologio, selezionò sulla TV il fermo immagine con decine di falene immobili che riempirono lo schermo e mise il telecomando in tasca. Gettò nel secchio il barattolo vuoto dei fagioli, prese una tazza, la riempì di acqua e canfora, e la posizionò sul pavimento davanti alla fessura che stava sulla parete in fondo alla stanza. Si diresse verso la porticina, si voltò per accertarsi che tutto fosse a posto ed entrò nel capannone.

La lucetta calda della portineria che filtrava dalla fessura nel capannone si rifletteva sulla lamiera argentata della pressa, diffondendo un fioco bagliore nella stanza dei bottoni. In quel luogo tutto prendeva forma e vita. Le due pareti laterali erano tappezzate di disegni e bozzetti di miniature, oggetti che Marco aveva realizzato artigianalmente, pezzi unici nei quali aveva infuso la sua passione. Aveva sperimentato un’infinità di materiali per creare, e alcuni avevano dato risultati davvero magici. Tutt’intorno giravano ricordi. Ogni progetto generava in Marco un’energia incredibile che trasferiva negli oggetti costruiti, rendendoli testimoni di se stesso, in grado così di trasferire l’eredità della sua storia al futuro, certo che Sara avrebbe fatto tutto il possibile affinché ciò accadesse.

Tuco aveva già visto quei disegni, ma rimase ancora una volta affascinato. Ad un tratto sentirono i misteriosi rumori muoversi nella parete dove era stato costruito il marchingegno. Era arrivato il momento, Tuco si avvicinò e scrutò l’ingranaggio che risaltava sulla decadente parete scura. “Avevo utilizzato dei motorini elettrici” specificò Marco. “Che stupido… ora dovrebbe essere perfetto”.

“Sono delle piccole dinamo” osservò Tuco, facendo una smorfia di apprezzamento.
“Sì. Meno rumore faremo e più alte saranno la probabilità di successo” rispose Marco. Ripassò mentalmente tutte le funzioni, diede un’ultima lubrificata alle ruote delle carrucole e si accertò che i cavi fossero ben saldi.
Si posizionarono entrambi a circa due metri dalla parete. Un fremito scosse Marco, come se fosse parte del circuito.
“Vai, accendi”.
Tuco, impassibile, abbassò la levetta dell’interruttore e una cascata di luce proveniente da centinaia di micro lampadine alogene si diffuse sulla parete. Marco regolò l’intensità con il varialuce mentre Tuco, accanto alla pressa, si era preparato a girare due manovelle. Marco afferrò le altre due e iniziarono a girarle.

I cavi in tensione stridettero e, piano piano, si avvolsero alle bobine manovrate dagli argani; alcuni cavi tirarono su le lastre in acciaio fissate alle loro estremità, scoprendo così le numerosissime crepe sul muro. I cavi con i moschettoni sollevarono una specie di sipario in pvc trasparente che, una volta steso, rivestì l’intera parete come una pellicola di cellophane. L’idea della pellicola era venuta a Sara, che nella vita faceva la scenografa. L’utilizzo di questo materiale si era rivelato un ottimo compromesso. Il pvc stabilizzato, oltre ad essere malleabile e quindi facilmente arrotolabile, era molto resistente e, soprattutto, trasparente. Avevano creato un sistema per sovrapporre una finta parete sulla parete esistente.
Le travi del soffitto scricchiolarono, Marco e Tuco smisero di girare le manovelle e tutto il marchingegno si fermò. Restarono fissi a guardare in silenzio. Le crepe si intersecavano e formavano una fitta rete di gallerie comunicanti, un labirinto scavato nel muro; cunicoli contorti che sbucavano in altri cunicoli, una specie di sistema circolatorio interno alla parete.

“Eccole” sussurrò Tuco.
Finalmente le videro. Migliaia di falene brulicavano velocemente in ogni direzione, correvano nei caotici tragitti; attratte dalla luce alogena si mostravano a loro, contenute dalla pellicola che ne evitava la dispersione e le manteneva nelle loro caverne. Le falene entravano e uscivano, andavano e venivano, salivano e scendevano nel groviglio inestricabile multiviario.

“Guarda” disse Tuco, “sapevo che ne sarebbe valsa la pena”. E pensò che così doveva essere il giardino magico di Armida, ma senza piante: tanti involuti percorsi, per nascondersi e riprodursi. Nelle fenditure più in alto, sostavano immobili le mosche delle mansarde, forse migliaia, pronte a ibernarsi per tutto l’inverno. Erano vuote, invece, le crepe e le tane più in basso, quelle alla base della parete, comprese le due fessure comunicanti con la portineria.

Marco non era esperto di insetti, ma era impossibile distogliere lo sguardo dal lavoro di quei rispettabili ingegneri alati. Se potessero parlare, pensò, svelerebbero come possa esserci un’ordine in tanto caos. Avrebbe voluto che Sara fosse lì.
Decisero tacitamente di passare alla fase successiva, e spensero le lucette alogene. Attesero pochi secondi per abituarsi alla penombra della stanza dei bottoni, poi si concentrarono per intercettare qualsiasi movimento sulla parete, ancora rivestita con la pellicola trasparente. Marco distolse lo sguardo per arrotolarsi le maniche della maglietta; lo fece lentamente e senza fare rumore. Il sudore colava come se lo stessero strizzando. Si voltò a guardare Tuco, che era completamente preso dal tentativo di focalizzare gli insetti.

Perlustrarono la parete centimetro per centimetro, crepa per crepa, tutto il labirinto di gallerie ora pareva disabitato. Tutto sulla parete era immobile. Si avvicinarono ancora di più con movimenti sincroni, come se si fossero messi d’accordo.
“Gli insetti non possono essersi dissolti” disse Marco.

Dalle fessure in basso a terra filtrava la luce della portineria.
“Ecco, ora è perfetto” disse Tuco.
“Che succede?” chiese Marco.
Tuco si girò di scatto e si avviò a passo svelto verso la porticina, urtò la troncatrice e dalla tasca gli cadde il telecomando della TV. Improvvisamente la musica di Morricone si diffuse ovunque. Marco restò immobile a fissare la porticina.

“Tuco!” gridò, ma non ebbe risposta.
Bloccò i quattro cavi in prossimità delle manovelle, cercando nel buio un fermo appropriato per tenere ben saldo il telo che rivestiva l’intera parete.
“Accidenti, non vedo niente!” esclamò. “Ci si mette pure la musica…”

Nella confusione non riusciva a pensare. Si guardò intorno, afferrò un puntale e bloccò il tiro. S’incamminò verso la portineria, ormai conosceva a menadito ogni centimetro del capannone, e aprì la porticina.
“Shhh”sussurrò Tuco alzando le braccia sopra la testa, “vieni a vedere”.

Marco, piantato sulla soglia, sgranò gli occhi: tutta la stanza era piena zeppa di insetti, migliaia di falene volavano unite in un vortice. Una fioca luce intermittente tagliava il buio della stanza. Tanti lampi di luce biancastra venivano continuamente spezzati dagli insetti, che si inseguivano in un girotondo forsennato. Tuco aveva stampato sul viso un ghigno, pareva nutrirsi di soddisfazione da ogni poro.

“Diamine, che succede?” gridò Marco.
“Shhh” ripetè Tuco. “Tutto è come previsto” disse accennando appena il labiale.
“Dove ho sbagliato?” insistette Marco scuotendo la testa.
“È una straordinaria evasione di massa” gridò Tuco più forte della musica.
Le falene giravano sulle note in una veloce spirale, abbagliate dalla luce artificiale, insieme alle mosche e ai tafani che compivano numerose giravolte. Tutti gli insetti danzavano in una combinazione perfetta di acrobazie. Un innocuo battito d’ali aveva sortito l’effetto sperato da Tuco, che aveva scovato il tesoro sepolto nella parete e finalmente adesso era lui a muovere i fili. “Vedi? Con un semplice inganno di luce li ho dirottati” disse Tuco, compiaciuto.
La soddisfazione eccessiva per aver portato a termine il progetto si era trasformata nell’arrogante ingordigia di accaparrarsi il merito e il bizzarro bottino. Marco non era superstizioso, ma in quel momento gli balenò il pensiero che quelle creature potessero essere veramente portatrici di sventure. Lo fissava confuso.
“Sbrighiamoci, usciamo da qui” disse Marco ad alta voce.
“Ancora non hai capito!” gridò Tuco. “Non vuoi proprio vedere?”
“Non ora. Presto, usciamo” ribatté Marco.
“Troppo, troppo tempo…” disse Tuco. “Non va bene fare le cose per troppo tempo”.
Non dormiva da un pezzo, perché aveva l’idea che se avesse chiuso gli occhi si sarebbe perso nelle tenebre. Dal primo giorno che era stato assunto e per tutte le 733 notti che seguirono aveva ascoltato il brulicare degli insetti, ininterrottamente dal tramonto all’alba. Aveva studiato le loro abitudini e vulnerabilità; non avendo altro a cui valesse la pena dedicare del tempo, si era intestardito sull’idea di stanare quelle creature della notte che tanto gli somiglivano. Non ci volle molto a convincere Marco che, stuzzicato dalla strana e bizzarra idea, si era messo subito all’opera. Così ogni sera che Marco era rimasto al lavoro, Tuco aveva rubato con gli occhi le tecniche e i metodi che l’altro adottava per costruire oggetti. Aveva imparato ad usare tutti gli attrezzi e gli utensili da lavoro e aveva memorizzato i prontuari, la tenuta e la resistenza di infiniti materiali. Che Marco fosse un abile e intraprendente artigiano, era un fatto che volgeva a suo vantaggio, un colpo di fortuna. Lo avrebbe utilizzato per sfogliare la parete e portare alla luce gli insetti.

“Vecchio pazzo. Forza, facciamole uscire!” gridò Marco, dimenando le braccia nell’aria fitta di falene.

Tuco era al centro della stanza, i capelli arruffati gli spiovevano sulla fronte e la sua faccia aveva assunto un’aria sinistra. Teneva i denti serrati e non batteva ciglio. Lui non era l’uomo con la pistola carica, come il cattivo del film. Lui aveva scavato per tutta la sua insulsa e monotona vita, e lo aveva fatto sempre nello stesso identico modo, senza il coraggio di impugnarla e premere il grilletto. Finalmente poteva essere un bastardo, come suo padre e il padre di suo padre. Improvvisamente andò verso di lui e lo fissò, erano uno di fronte all’altro, e in quel lasso di tempo sospeso Marco vide riflessa negli occhi di Tuco un’invocazione di sfida. Non riusciva a spiegarsi cosa stesse succedendo né perché, ma sostenne comunque lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore. Avrebbe potuto raccogliere la sfida, com’era nella sua natura, si sarebbe messo in gioco e ne sarebbe uscito vittorioso, ma non lo fece. Afferrò Tuco per un braccio e tentò di trascinarlo verso la porticina, ma lui con uno strattone si liberò dalla presa e si diresse a passo deciso verso la televisione. Interruppe la musica.

Improvvisamente dal soffitto si sentì uno stridio ferroso che si mescolò al fervido battito d’ali delle falene. Il tetto della portineria si aprì e i raggi lunari si diffusero nella stanza. Gli stessi raggi che prima erano intermittenti, ora erano continui. Le falene, attratte in una vorticosa danza, intrecciavano giochi di luce. Era meraviglioso, eppure un brivido lo attraversò. Tuco pigio il tasto ‘on’ sul telecomando e sulla parete iniziò a sollevarsi un telo trasparente.

“Mio Dio, è identico all’altro!” esclamò Marco. “Sì”.
“Perché l’hai fatto?”
“Per me”.

“Non capisco” disse Marco.
“Vai di là e accendi le lucette” disse Tuco, agitando una mano nell’aria.
Marco obbedì e andò nel capannone.
Tuco pigiò un altro tasto e il soffitto si chiuse; fu subito buio. In pochi secondi gli insetti rientrarono nelle caverne della parete, attratti dalla luce proveniente dalla stanza dei bottoni. Poi azionò nuovamente il sipario, che scese e rivestì la parete impedendo agli insetti di uscire. Si lasciò cadere a terra, esausto.
Marco rientrò, accese la luce e restò a bocca aperta nel vedere tutto il lavoro che Tuco aveva fatto: un macchinoso congegno. Nella testa gli frullavano tante domande. Lo vide seduto a terra, con la sua giacca impolverata e la testa china sulle ginocchia. Non aprì bocca e restò ad osservare la stanza. Tutto era stato costruito in modo che si potesse celare nel buio dell’alto soffitto e mimetizzare con la parete: un sipario nel sipario. Si appoggiò allo stipite e la mente

ricreò i tre mesi di lavoro, le immagini scorrevano silenziose in un involontario susseguirsi di istantanee; si sentì rinfrancato e accennò una mezza domanda: “Allora è per questo che…”, si interruppe abbassando lo sguardo. Non ora, pensò, non è il momento. “S’è fatto tardi. Devo andare” disse Marco, dirigendosi subito dopo verso la porta.

Tuco alzò la testa e i loro sguardi si incrociarono. Marco sorrise, annuì e uscì. A Tuco piacque la considerazione silenziosa di Marco, che sarebbe andato a casa e avrebbe raccontato a Sara dello straordinario successo del loro lavoro. Le avrebbe parlato per un po’ di quel vecchio pazzo, se lei avesse voluto ascolarlo. Ci avrebbe almeno provato, ma forse Sara non gli avrebbe creduto.




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Tortellini

di Valentina Pucillo

tratto da Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

“Quest’anno quanti ne facciamo? L’anno scorso erano davvero pochi” disse Maura con un sorrisetto ingolosito sul viso.
“Io ne ho calcolati una cinquantina per persona: per un piatto abbondante ne servono circa trenta, e con cinquanta viene fuori anche il bis per tutti” rispose zia Claudia mentre spargeva la farina sulla spianatoia. “Anche perché, a parte questi in brodo, il lesso e le verdure, io e Antonia abbiamo deciso di non preparare altro. Ci sono anche tutti i dolci. Altrimenti poi finisce che mangiamo troppo come tutti gli anni” continuò, prendendo l’impasto della sfoglia e iniziando a stenderlo col mattarello.

“È sufficiente il ripieno? Mi sembra poco, considerando che domani ci saranno anche altri ospiti. Dovremmo farne almeno 700” disse preoccupata nonna Mimì, che temeva sempre che il cibo non fosse sufficiente.
Il grande tavolo del tinello era allestito per l’occasione. Una tovaglia incerata era stesa su tutta la superficie per evitare che il legno scuro si rovinasse. Sopra c’erano la spianatoia, il recipiente contenente il ripieno profumato di mortadella e noce moscata, e svariati vassoi coperti da strofinacci candidi, incastrati con i bordi l’uno sull’altro, pronti ad accogliere le file ordinate di tortellini che tutta la famiglia, come ogni anno nel pomeriggio della vigilia di Natale, stava preparando per il pranzo del giorno dopo.

“Sòrbole, Claudia, tirala più sottile quella sfoglia, eh! Mario, mescola mo’ quel ripieno che lo vedo un po’ grumoso”: come ogni anno, forte delle sue origini emiliane, zio Paolo dispensava consigli e perle di saggezza a destra e a manca con il suo marcato accento bolognese.
La ripartizione dei compiti era più o meno sempre la stessa. Zia Claudia, avendo acquisito dal marito quel tanto di bolognesità che bastava, preparava e stendeva la sfoglia quasi come una perfetta sfoglina e tagliava i quadrelli di pasta delle giuste dimensioni; “Piccolini! Il vero tortellino deve essere grande come una moneta da venti centesimi!” continuava a ripetere zio Paolo fino allo sfinimento; Antonia, la sorella, insieme ai figli Maura e Valentino, era addetta alla preparazione del ripieno, a porzionarne la giusta quantità nei quadrati di pasta e a chiudere questi ultimi su sé stessi per formare i triangoli; zio Paolo e il cognato Mario, i due ‘precisi’ della famiglia, avevano il compito di sigillare i triangoli bagnando leggermente i bordi e di dar loro la tipica forma del tortellino ripiegandoli attorno al dito. Il tutto era supervisionato da nonna Mimì che, forte dell’immunità ai rimproveri datale dai suoi ottant’anni, danzava da una postazione all’altra, metteva le mani ovunque e pasticciava senza che nessuno avesse il coraggio di dirle nulla.

La famiglia Brambilla era molto unita; tuttavia, per qualche scherzo del destino, ognuno dei componenti aveva scelto di stabilirsi in posti piuttosto lontani l’uno dall’altro. Non erano quindi molte le occasioni in cui la famiglia Brambilla riusciva a riunirsi. Per questo il Natale tutti insieme nella casa dei nonni, con annesso il rito di preparazione dei tortellini, era un appuntamento che nessuno aveva mai messo in discussione. Intorno a quel tavolo del tinello si creava sempre un’atmosfera armoniosa. Claudia, che con movimenti sicuri preparava la pasta da riempire, ciarlava allegramente con Antonia e Mimì di parenti, storie del paese e ricette. I bisticci tra Valentino e Maura sui reciproci stili di vita sembravano quasi addolcirsi grazie all’odore denso del brodo di cappone che, sobbollendo in cucina per ore, li accompagnava durante tutta la preparazione dei tortellini.

Anche i due cognati, che normalmente non facevano che stuzzicarsi, in quell’occasione sotterravano l’ascia di guerra, concentratissimi sulle operazioni di chiusura della pasta; uno sguardo attento avrebbe comunque percepito una sorta di sfida silenziosa su chi dei due riuscisse a formare il maggior numero di tortellini chiusi a regola d’arte. A rallegrare la laboriosa famiglia c’era la sempre presente televisione che strepitava a tutto volume, spesso sintonizzata da nonno Giulio su affascinanti programmi di interesse generale quali, ad esempio, documentari sugli gnu.

Quel pomeriggio nonno Giulio era di umore variabile. Dopo aver imposto a tutti una mezz’ora di televendite di utensili da cucina di discutibile utilità, aveva di botto abbassato il volume della televisione e si era accomodato intorno al tavolo con gli altri, osservando la scena con espressione arcigna. Sembrava interessato a studiare la preparazione della sua portata preferita del pranzo di Natale. Aveva scelto una sedia a capotavola in posizione strategica, proprio davanti ai vassoi che iniziavano a riempirsi di tortellini; non appena gli altri si distraevano, il buon vecchio Giulio ne rubava qualcuno con movimenti fulminei e lo ingoiava crudo con colpevole voluttà.

Tutti lavoravano in silenzio, concentrati, essendo generalmente difficile chiacchierare a causa del baccano della televisione.
“Ma che silenzio stasera! Perché non mettiamo un po’ di musica?” chiese Maura rendendosi conto che il rimbombo della televendita era cessato.

“Sì, dai, passami lo zaino, ho un cd di etno marocchina che mi ha regalato Karima” ribatté subito Valentino, sempre voglioso di condividere le sue passioni con chiunque gli capitasse sotto tiro.
“Veramente pensavo a qualcosa di allegro, magari canzoni che conosciamo tutti e che possiamo canticchiare insieme” replicò seccata Maura, fulminando il fratello con lo sguardo. “Allora dovremmo cantare Nilla Pizzi, se teniamo conto dell’età di qualcuno intorno a questo tavolo, oppure tormentoni estivi idioti, se teniamo invece conto della cultura musicale di qualcun altro sempre intorno a questo tavolo” rispose Valentino, sostenendo ironico lo sguardo della sorella.

La discussione venne subito zittita da zio Paolo che, con un veloce click, fece partire uno dei suoi pezzi preferiti di musica classica, un requiem di Mozart.
“Allegro si era detto, eh? Qua mi pare il festival delle melodie d’oltretomba” mugugnò Mario guardando il cognato di sottecchi.

“E piantala di essere sempre polemico, diamine!” ribatté Antonia dando una gomitata al marito, cercando di capire se la sua lamentela fosse stata sentita da Paolo e Claudia.
Nonno Giulio ascoltava impassibile ma divertito i vari battibecchi; sentendosi piuttosto invisibile afferrava, ormai spudoratamente, un tortellino dopo l’altro e se li infilava meccanicamente in bocca. I suoi movimenti, per quanto scaltri, vennero tuttavia intercettati dall’occhio di falco di Mimì.

“Giulio! Ma tu guarda che disgraziato, questi sono per domani! Quanti ne hai mangiati già?” inveì nonna Mimì contro il marito, mettendosi le mani tra i capelli con fare angosciato. “Non hai nemmeno preso la pasticca! Adesso basta, tornatene a guardare la televisione!”
Non gradendo che l’attenzione di tutti fosse ormai su di lui, e ritenendosi probabilmente soddisfatto della scorpacciata, nonno Giulio assunse un’espressione di infastidita dignità e si accinse ad alzarsi dalla sedia per tornare alla poltrona davanti alla televisione. Per aiutarsi appoggiò con una certa foga entrambe le mani sul bordo del tavolo, che coincideva con il bordo di uno dei vassoi ormai stracolmi di tortellini. Ci fu un effetto domino al contrario: volo di vassoi, pioggia di tortellini che rotolarono ovunque, sotto il tavolo, sul pavimento impolverato, sotto i mobili. Intorno alla tavolata, tutti ammutoliti. Nel caos generale restarono sul tavolo solo tre tortellini, nascosti sotto uno strofinaccio. Nonno Giulio, ormai in piedi, li intercettò prontamente e li mangiò prima di tornare alla sua poltrona.