Mia, un film sulla violenza e gli amori malati

In occasione della giornata nazionale contro la violenza sulle donne, svoltasi lo scorso 25 novembre, è stato trasmesso in prima serata “Mia”, film di Ivano De Matteo che racconta una triste realtà che ormai, ahimè, è sempre più preoccupante.

Il film è incentrato sulla storia di Mia, quindicenne che finisce in una storia sbagliata, logorata dall’amore malato di un adolescente violento. Aiutata dal padre cercherà di uscirne, ma il ragazzo decide di distruggerla. 

Oltre alla protagonista della vicenda, interpretata da Greta Gasbarri, troviamo Edoardo Leo  nei panni di uno dei personaggi più complessi: il padre di Mia. Da genitore premuroso e protettivo, lo vediamo pian piano trasformarsi, sempre più abbattuto e preoccupato per la figlia, fino al momento in cui la vendetta prende il sopravvento. Infine il ruolo del personaggio più detestabile, quello del ventenne aggressivo Marco, è affidato a Riccardo Mandolini.

“Mia” è una storia di manipolazione e controllo, affronta il tema del revenge porn e ci fa capire come, quando si parla di violenza, non si intenda solo quella fisica, ma anche quella psicologica, come in questo caso. 

Il regista ci mostra come, all’interno di una relazione tossica, una ragazza piena di vitalità e spensieratezza, che ama truccarsi e divertirsi con le amiche, possa spegnersi del tutto, perdere ogni contatto con le persone più care e chiudersi nel proprio dolore.

Particolarmente significativo poi il ruolo della famiglia di Mia, una famiglia che le sta sempre accanto, senza andarle contro quando commette degli sbagli, ma al contrario ascoltandola e aiutandola.

Ivano De Matteo ha rivelato di aver scritto il film insieme alla sua compagna, Valentina Ferlan e di averlo fatto più da genitori che da sceneggiatori, avendo la coppia due figli di 20 e 16 anni.  

“Mia” è quel film che ognuno di noi dovrebbe vedere. È vero, non si tratta di una storia vera, ma si ispira a quella di mille altre ragazze che ogni giorno vivono questa realtà infelice e ripugnante, da cui spesso non riescono a tirarsi fuori se non con gesti estremi.

Ormai siamo di fronte ad un’emergenza nazionale. Sono 51 le vittime di femminicidio nel 2024, quasi 3mila le violenze sessuali nel corso del primo semestre, sfiorano i 700 i casi di condivisione non consensuale di immagini e video intimi e poi ci sono 33 mila chiamate al numero anti violenza 1522. 

Insomma, questa situazione è diventata ormai inaccettabile e di fronte a queste ingiustizie non possiamo far altro che essere unite in quanto donne ed aiutarci a vicenda. È importante stare sempre all’erta e scegliere attentamente la persona al proprio fianco, ma, soprattutto, è fondamentale denunciare. 


Virginia Porcelli






Angelica Kauffmann tra Classicismo e Sentimento

Angelica Kauffmann (1741–1807) è stata una delle più celebri pittrici neoclassiche del XVIII secolo.

Pittrice, ritrattista e decoratrice, è nota soprattutto per la sua capacità di coniugare la raffinatezza formale del classicismo con un’intensa espressività emotiva.

Nata a Coira, in Svizzera, Kauffmann fu introdotta all’arte da suo padre Josef Kauffmann, un artista di modesta fama che la incoraggiò a sviluppare le sue doti precoci.

Viaggiarono molto per l’Italia, dove Angelica si immerse nello studio dei grandi maestri del Rinascimento e dell’antichità.

Questa formazione internazionale contribuì a plasmare il suo stile e il suo interesse per i soggetti storici e mitologici, tipici del neoclassicismo emergente.

 

Cornelia, madre dei gracchi

 

Nel 1766, Angelica Kauffmann si trasferì a Londra, dove raggiunse rapidamente la fama.

Il suo ingresso nell’alta società britannica fu favorito dal fascino personale e dalla sua cultura cosmopolita.
Nel 1768, Kauffmann fu una delle fondatrici della Royal Academy of Arts, insieme a Mary Moser, segnando un traguardo storico per le donne nel mondo dell’arte.

Sebbene le donne fossero ammesse solo marginalmente nelle accademie d’arte del tempo, la presenza di Kauffmann all’interno dell’istituzione sottolineava il suo riconoscimento come artista di talento.

 

Le sue opere di questo periodo si concentrano prevalentemente su temi storici e mitologici, come “Cornelia, mater Gracchorum” (1785), una tela che esprime perfettamente il contrasto tra virtù e vanità.

Cornelia, considerata un modello di matrona romana, mostra orgogliosa i suoi figli, a differenza di una donna accanto a lei che esibisce i suoi gioielli.

Questo dipinto evidenzia l’interesse di Kauffmann per i soggetti femminili virtuosi, attraverso i quali rifletteva anche una sensibilità morale che si rivolgeva soprattutto al pubblico colto e borghese.

 

Arianna abbandonata

Lo stile di Angelica Kauffmann si distingue per l’eleganza della composizione e la delicatezza del tratto.

I suoi personaggi, spesso ispirati alla mitologia e alla storia classica, sono ritratti con una grazia serena che richiama l’armonia ideale dei canoni estetici greci e romani.

Tuttavia, a differenza dei suoi contemporanei neoclassici, come Jacques-Louis David, Kauffmann inseriva nelle sue opere un elemento di tenerezza emotiva, una sorta di malinconia romantica che le conferiva un carattere unico.

 

 

Un esempio significativo di questo approccio è “Ariadne abbandonata” (1782), in cui l’eroina mitologica è raffigurata in un momento di vulnerabilità e solitudine dopo essere stata abbandonata da Teseo.

L’abilità di Kauffmann nel catturare i sentimenti più intimi e personali nei suoi soggetti mitologici è uno degli aspetti più apprezzati della sua arte.

Ritratto di Lady Elizabeth Foster

Oltre alle sue opere storiche, Kauffmann fu un’affermata ritrattista.

Durante il suo soggiorno a Londra, ricevette numerose commissioni da parte dell’aristocrazia e della borghesia inglese.
I suoi ritratti, caratterizzati da un’eleganza raffinata e un uso sapiente del colore, combinavano l’idealizzazione classica con la rappresentazione realistica della psicologia del soggetto.

Un esempio è il “Ritratto di Lady Elizabeth Foster” (1784), in cui la nobildonna è ritratta con uno sguardo malinconico, immersa in un’atmosfera intima e contemplativa.

 

Con il suo ritorno a Roma nel 1782, Angelica Kauffmann consolidò ulteriormente il suo prestigio internazionale.
Fu accolta calorosamente dagli ambienti artistici e culturali della città e continuò a produrre opere per collezionisti e mecenati di tutta Europa.

Le sue commissioni includevano decorazioni per palazzi e residenze aristocratiche, come quelle eseguite per Villa Borghese e il Palazzo di Caserta.

 

Angelica Kauffmann non fu solo una pittrice di talento, ma anche una figura di transizione tra il classicismo e i primi segnali di sensibilità romantica.
Le sue opere, intrise di nobiltà e grazia, restano testimonianza di un’arte che coniugava rigore formale e profondità emotiva. Il suo contributo all’arte europea è stato ampiamente riconosciuto sia dai contemporanei che dalle generazioni successive.

In un mondo dominato dalla figura maschile, Kauffmann riuscì a emergere e a lasciare un segno indelebile nella storia dell’arte.

Oggi, Angelica Kauffmann è ricordata non solo come una delle più grandi pittrici del suo tempo, ma anche come una pioniera che ha aperto la strada a future generazioni di artiste.




Per Elisa – Il caso Claps, una verità nascosta

Per Elisa – Il caso Claps, uscita su Netflix lo scorso 25 luglio, è senza dubbio tra le serie italiane di maggior successo di quest’anno, trovandosi ancora tra le più viste in classifica.

La triste storia vera di Elisa, sedicenne scomparsa a Potenza nel settembre del 1993 e ritrovata morta solo 17 anni dopo, viene oggi diretta da Marco Pontecorvo, che la rende nota a tutta Italia, denunciando diverse anomalie del sistema giuridico del nostro paese. Centrale nel film è, infatti, la battaglia della famiglia Claps e in particolare del fratello più grande Gildo, che lottarono fino alla fine affinché il vero assassino della piccola Elisa, Danilo Restivo, fosse incarcerato, così da fare giustizia.

Ad interpretare la protagonista è la giovane Ludovica Ciaschetti, nuovo volto che però riesce perfettamente a mostrare la solarità e la bontà che caratterizzavano la dolce Elisa. Chi però si è sicuramente distinto è Gianmarco Saurino nei panni di Gildo Claps, il quale, con un’interpretazione commovente, ha fatto scendere una lacrima ad ognuno di noi, lasciandoci solo immaginare ciò che si prova di fronte ad un’oscenità del genere. Accanto a loro, inoltre, non possiamo non citare Giacomo Giorgio, Anna Ferruzzo e Vincenzo Ferrera, rispettivamente l’altro fratello Luciano e i signori Claps e infine Giulio della Monica come Danilo.

Il caso di Elisa Claps fa rabbrividire tanto per la sua brutalità quanto per l’assurdità e l’ingiustizia con cui è stato affrontato secondo le leggi italiane del tempo. Non solo, infatti, il colpevole è stato accusato, nonostante prove concrete, solo diciassette anni dopo, dopo aver causato tra l’altro la morte di un’altra donna, ma, anche ora che si è giunti alla verità, vi sono ancora molte questioni sul caso lasciate aperte, come la complicità della Chiesa nella storia.

Traspare inoltre la corruzione e l’omertà di tutti quelli che, pur sapendo, sono restati in silenzio per anni, portando un’intera famiglia sull’orlo della disperazione e dell’impotenza.

La storia di Elisa Claps purtroppo è solo uno dei tanti casi di cronaca nera in Italia e nel mondo, in quanto, anche se a volte non ce ne accorgiamo, vi è tanta cattiveria intorno a noi, tanta da distruggere anche chi vede solo il buono nelle persone, come faceva Elisa. Si spera dunque che la sua morte, insieme a quella di tante altre, non sia stata vana, ma che possa invece prevenire ulteriori ingiustizie future.

Il mondo dovrebbe essere un posto sicuro, tuttavia a volte è la tomba dei più fragili.

Virginia Porcelli




It ends with us- Siamo noi a dire basta, un adattamento che non tradisce il romanzo

C’è chi aspettava solo questo momento dell’anno e chi mente. Ebbene sì, “It ends with us -Siamo noi a dire basta”, adattamento del romanzo bestseller di Colleen Hoover con protagonista Blake Lively, ha finalmente fatto il suo debutto nelle sale di tutta Italia.

Negli Stati Uniti invece, la pellicola era già uscita il 9 agosto, riscontrando subito un grandioso successo e piazzandosi al secondo posto tra i film più visti, dopo “Deadpool & Wolverine”, con protagonista il marito di Lively, Ryan Reynolds.

“It ends with us”, che ha come tema principale la violenza domestica, ci racconta la storia della giovane Lily, che lascia la città in cui è cresciuta per trasferirsi a Boston, dove realizzerà il suo sogno di aprire un negozio di fiori.

Inizialmente, dopo la rivelazione del cast lo scorso anno, gli accaniti lettori si erano subito scagliati contro gli attori scelti per i ruoli dei loro amati personaggi. Ora però, con l’uscita del film, si può dire che le critiche siano in gran parte diminuite, lasciando spazio invece ai commenti positivi.

Come già detto, infatti, il ruolo di protagonista e produttrice, è stato assegnato alla nota attrice americana Blake Lively, affiancata da Justin Baldoni nel ruolo di Ryle e da Brandon Sklenar in quello di Atlas. Nonostante i pregiudizi iniziali, questa si è mostrata più che all’altezza e ci ha fatto commuovere proprio come tra le righe. Nelle ultime interviste però, è stata particolarmente criticata per aver presentato il film come una commedia romantica e per non aver mai approfondito il tema della violenza, focalizzandosi invece sul nuovo film del marito e sulla promozione della sua linea per capelli. Al contrario Justin Baldoni, regista e co-protagonista del film, sottolinea ripetutamente l’importanza del tema della violenza domestica, motivo per cui tra i due vi sono rapporti gelidi al momento e per cui l’attore è sempre rimasto in disparte dal resto del cast.

Ciononostante, “It ends with us” non può che meritare tutto il successo ricevuto in questi pochi giorni, essendo una perfetta trasposizione del romanzo tanto amato dai giovani. Mentre, infatti, diverte e strappa un sorriso al pubblico da una parte, dall’altra lo fa commuovere e riflettere su una realtà triste che purtroppo al giorno d’oggi è sempre più preoccupante.

Virginia Porcelli




C’è ancora domani, il film dedicato a noi donne

Il nuovo film della Cortellesi, uscito nelle sale a fine ottobre, sta ottenendo sempre più successo. Dopo aver vinto tre premi al Festival del cinema di Roma, infatti, negli ultimi giorni è rientrato nella top 10 dei film italiani con più incassi, sfiorando quota 27 milioni e diventando il miglior titolo della stagione 23/24.

Ambientato a Roma nei tempi del dopoguerra, ci racconta la toccante storia di Delia, donna di casa costretta ad occuparsi ogni giorno dei tre figli, del suocero e dell’irascibile marito, che ritiene giusto riempirla di schiaffi e umiliarla. “Ho voluto realizzare un film contemporaneo ambientato nel passato, perché penso che purtroppo molte cose siano rimaste le stesse. Naturalmente ci sono stati dei progressi, sono cambiati i diritti, sono cambiate le leggi, ma non del tutto, non nella mentalità”, spiega l’attrice e regista in un’intervista.

La Cortellesi è impeccabile su tutti i fronti. Che fosse una magnifica attrice era già ben noto a chiunque, ma il suo esordio come regista è stato di certo pieno di sorprese. Non solo interpreta il suo ruolo alla perfezione, accompagnata tra l’altro da un cast spettacolare, ma tratta anche temi come la violenza domestica e i diritti delle donne in modo estremamente delicato e commovente.

Infatti, tra la comicità di alcune scene che strappano un sorriso e la drammaticità di altre, che provocano nel pubblico tristezza e compassione, ci tiene fissi allo schermo con gli occhi lucidi.

Tutto ciò, inoltre, arriva in un momento in cui tutta Italia soffre ancora per l’omicidio di Giulia Cecchettin, l’ennesima vittima di una cieca gelosia e violenza che non dovrebbe essere propria dell’amore, ma che purtroppo lo è sempre più spesso.

Insomma, il film è un vero e proprio omaggio alle donne, alla solidarietà femminile, all’amicizia e, in particolare, al rapporto madre figlia. La Cortellesi, infatti, ha deciso di dedicarlo a sua figlia Laura, o meglio “Lauretta”, come possiamo leggere prima dei titoli di coda; dedica in cui possiamo scorgere l’amore materno, più forte di qualsiasi altro legame.

“C’è ancora domani” dà forza a ognuna di noi e ci ricorda l’importanza di reagire, di avere coraggio e soprattutto di chiedere aiuto quando ci viene fatto del male o quando veniamo private dei nostri diritti. Alla prima offesa, al primo schiaffo, dobbiamo tenere in mente che c’è sempre domani e che meritiamo molto di più di qualcuno che ci tarpa le ali. È per questo che ogni donna dovrebbe vederlo, per imparare ad amare sé stessa e per far sì che tutte quelle morti non siano state vane.

Virginia Porcelli




Le mamme di Pomezia contro la violenza sulle donne

L’associazione Le Mamme di Pomezia ha organizzato per la giornata del 25 novembre 2022 un flash mob in Piazza Indipendenza, che si svolgerà alle ore 16.30.

In occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, tutti i partecipanti – invitati ad indossare un accessorio o un abito rosso – lasceranno volare dei palloncini rossi in memoria di tutte le vittime di violenza.

 

 

 

“Secondo il dossier del Viminale sono 96 le vittime donne negli ultimi 12 mesi, di queste, 84 in ambito familiare affettivo e 49 per mano del partner o ex partner.
Sono diminuite le denunce di stalking ma aumentati gli ammonimenti contro i persecutori.
Si rende necessario fare informazione, sensibilizzare ed essere coesi, tutta la società è chiamata in campo essere parte attiva verso queste donne che vivono nel privato violenze e soprusi che devono riguardare noi tutti.
Dietro questi omicidi etichettati come femminicidio si nasconde la componente di genere: l’UCCISIONE DI UNA DONNA IN QUANTO DONNA.”

 

“E’ “violenza contro le donne” ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà.
Così recita l’art. 1 della dichiarazione Onu sull’eliminazione della violenza contro le donne.”




Storia di una collezionista: Peggy Guggenheim a Venezia

Oggi parliamo di una donna straordinaria e importantissima per il mondo dell’arte: Peggy Guggenheim.
Forse il nome Guggenheim vi ricorda qualcosa, forse un famoso museo di New York?
Ebbene sì, lo zio di Peggy, Solomon R. Guggenheim fondò nel 1937 la Fondazione Guggenheim, che viene ospitata nel 1943 nel Museum of Non-Objective Painting costruito da Frank Lloyd Wright su richiesta dello stesso Solomon.
La famiglia di Peggy, di origine ebraica e provenienti dalla Svizzera, aveva messo su una bella fortuna grazie all’estrazione di argento e rame, ma il padre il 15 aprile 1912 naufragò sul Titanic.
Peggy si ritrovò in possesso di una cospicua somma di denaro. Cominciò a lavorare in una libreria di New York e a frequentare circoli e salotti dove entrò subito in contatto con le avanguardie artistiche (prima di tutto il dadaismo).
Si trasferì poi a Parigi, dove sposerà nel 1922 Laurence Vail e dove farà amicizia con artisti del calibro di Man Ray e Marcel Duchamp.
Tra le varie opere esposte nella sua collezione ci sono anche quelle di Pegeen Vail: sua figlia. Vicino alle figurine di vetro e ai quadri esposti, c’è una commovente lettera della madre che la ricorda con amore.
Dopo il divorzio da Vail, Peggy decise di viaggiare con i figli per l’Europa.
Piano piano, però, stava iniziando a collezionare numerose opere di artisti più o meno conosciuti (Kandinsky e Tanguy erano allora artisti emergenti).
Tra gli artisti che Peggy aiutò a consacrare alla memoria artistica dei posteri c’è da ricordare sicuramente Jackson Pollock.
È, infatti, da ascrivere a Peggy il merito della sua “scoperta” poiché Pollock espose per la prima volta proprio nella galleria che la Guggenheim aveva aperto a New York per scappare alla guerra in Europa.
Con la fine del conflitto mondiale, tuttavia, Peggy decise di tornare in Europa e scelse per la sua collezione una meta definitiva: Venezia.
È qui che infatti, ancora oggi, sorge il Peggy Guggenheim Museum, uno dei più importanti musei d’arte contemporanea in Italia.
Ho avuto il piacere di visitare questa meravigliosa collezione proprio qualche giorno fa, così da poter allegare alla storia della fantastica vita di Peggy anche il frutto del suo duro lavoro da collezionista.



Gauguin e la Polinesia

La vita

 

Paul Gauguin nacque a Parigi nel 1848. Dopo aver trascorso la sua prima infanzia a Lima, in Perù, si traferisce nuovamente in Francia con la madre, ad Orléans.

Ma la sua permanenza in Francia durerà poco: a diciassette anni si mette in viaggio per mare, girovagando per il mondo.

Terminato questo lungo periodo girovago decide di dedicarsi completamente alla pittura.
Uno dei momenti più importanti della vita di Gauguin è infatti l’incontro con Vincent Van Gogh: i due condivideranno anche un appartamento ad Arles, la famosa casa gialla.

Celeberrima, inoltre, è la vicenda dell’orecchio di Van Gogh, la cui causa sembra esser stato proprio un litigio tra i due!

 

Tuttavia, improvvisamente, Gauguin decide di vendere e liberarsi di tutti i suoi averi per trasferirsi a Tahiti, in Polinesia, alla ricerca di quel “paradiso perduto” tanto agognato.
Il primo soggiorno dura solamente due anni, ma nel 1895 Paul vi si trasferisce per non fare più ritorno.
Infatti lì morì, nel 1903.

 

La Polinesia

 

Possiamo dire che tutta la pittura precedente al periodo polinesiano è attesa e agonia.
E’ solamente

in questi quadri che si sprigiona tutta la vivacità e la vitalità di Gauguin; è in Polinesia che egli ritrova il suo io libero e selvaggio.

I colori accesi, vivaci e brillanti richiamano un’atmosfera magica, così lontana nello spazio e nel tempo da agitare nell’animo dello spettatore i desideri più reconditi e infantili.

Tutti quanti, almeno una volta, guardando un quadro di Gauguin abbiamo pensato “vorrei trovarmi lì”.
E questa è parte della sua magia: creare l’illusione di essere lì, di sentire il caldo ed il vento, i profumi dei frutti e il sole che scotta sulla pelle.

 

 

Ma Gauguin non è  interessato solamente alle atmosfere esotiche e alle donne polinesiane. Egli, piano piano, inizia a scavare in profondità, alimentando sempre di più il desiderio di conoscere ogni tradizione e ogni simbolo di una società così lontana dalla sua.

E anche se apparentemente Gauguin si dedica alla rappresentazione di scene di vita quotidiana, come donne in riva al fiume, sdraiate addormentate o intente ad acconciarsi i capelli, è possibile riconoscere un significato più profondo.

In un certo senso, le donne sono simbolo ed emblema della Madre terra, rappresentate quasi come divinità, pure ed irraggiungibili.

È assente qui ogni tipo di contesto sociale. Queste donne sono libere, selvagge e sempre silenziose.

 

La spiritualità

 

 

Affianco alle numerose tele di carattere quotidiano, ne esistono altre in cui Gauguin inserisce l’elemento cristiano cattolico nella contesto selvaggio e naturale: la ricerca spirituale non si limita perciò solamente nello scoprire le tradizioni e la religiosità indigena, bensì nel riconoscere una sacralità universale: egli arriva ad identificare la Madonna con il bambino in una donna tahitiana con il suo piccolo.

Insomma, Gauguin intende eguagliare tutte le religioni sotto una sola virtù: l’amore.

 

 

 

 

Ma l’opera più complessa, organica e misteriose fra tutte quelle prodotte nel periodo polinesiano è senza dubbio Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?

L’opera va letta da destra a sinistra: numerosi gruppi di figure si succedono uno dopo l’altro, ognuno indipendente ma interconnesso con l’altro. Sono tutti allegorie e metafore dell’esistenza umana e degli stadi della vita.




La lettrice di Čechov di Giulia Corsalini

Pubblicato da Nottetempo scandaglia il dramma di chi lascia la propria terra per emigrare all’estero come badante

 

La lettrice di Čechov è il primo romanzo di Giulia Corsalini pubblicato da Nottetempo nel 2018 che ci porta a scandagliare il dramma individuale delle donne dell’est europeo costrette ad abbandonare la propria terra e gli affetti per emigrare all’estero per lavorare come badante.

Nina è una quarantenne ucraina, laureata in letteratura che lascia Kiev, sua figlia Kàtja e il marito malato per permettere alla figlia di studiare all’università e al marito di essere curato.

Nina raggiunge Macerata per prendersi cura dell’anziana Mariangela portando con sé solo alcuni libri: La Bibbia, Tolstoj, Dostoevskij e Čechov.
Ed è proprio attraverso la lettura e la frequentazione della biblioteca nel suo unico giorno libero, che Nina inizia a valutare la possibilità di tornare a studiare, di darsi una nuova possibilità e ricominciare a vivere.

Ma il dolore per gli affetti che ha lasciato si rivelano sempre più forti e il distacco con la figlia una ferita che aumenta giorno dopo giorno fino a farle perdere ogni volontà di guardare avanti con ottimismo creando un parallelismo con il racconto Storia noiosa di Čechov dove il vecchio professore si ritrova alla fine della sua vita a analizzare dolorosamente il freddo distacco delle persone a lui care.

 

 

La lettrice di Čechov è narrato in prima persona permettendo al lettore di entrare nell’intimo di Nina e portandoci ad ascoltare la povertà di Kiev, il freddo intenso degli inverni nevosi, la semplicità di una vita povera ma sincera.

Un uso magistrale della punteggiatura e la bellezza della tripletta di aggettivi qualificati rende fluido e piacevole il ritmo del testo al punto che diventa impossibile non sentirsi Nina mentre passeggia la mattina presto con il marito, o non riuscire a percepire la luce che entra di traverso nella sala della biblioteca di Macerata, così come si sente tutto il dolore di Nina nel prendere atto di come il suo allontanarsi abbia lacerato i suoi affetti e di resi vani i successi lavorativi raggiunti.

 

«A quel tempo vivevamo, a Kiev, in via Anna Achmatova, nel distretto di Darnycja; abitavamo al sesto piano di un alto condominio dignitoso […] Dalle finestre, prive di tende e di serrande, coglievo ogni giorno tutte le variazioni del cielo.»

La scrittura di Corsalini è sussurrata e mai urlata e, il dolore di una donna che sacrifica tutto per amore, si trasforma in un leitmotiv sottile che pervade tutte le pagine senza mai graffiare, senza mai sgomitare come se quella scelta non fosse stata in effetti una scelta bensì l’unica strada possibile, un disegno più alto dettato dal fato e come tale debba essere seguito senza alcuna esitazione.

Se la cruda realtà di ciò che perdono lasciando affetti e patria è perentorio in tutto il romanzo, l’amore profondo per la letteratura di Nina appare come quella zattera capace di salvare se non il fisico almeno la mente degli esseri umani.




Equità di genere l’incontro al circolo cittadino di Latina

Un mosaico di storie di donne dei nostri giorni alle prese con un’uguaglianza apparente

 

Si parla di Equità di Genere questo sabato 19 Marzo alle ore 17.30 al Circolo Cittadino “Sante Palumbo” in piazza del Popolo a Latina. L’incontro organizzato dall’Associazione Culturale Officine della Fantasia, pone l’accento sulle persistenti disuguaglianze di genere che, sia in Italia che nel mondo, continuano a creare forti disparità tra uomini e donne, fra bambine e bambini.  Al tavolo dei relatori un crogiolo di professionalità al femminile pronte a raccontarsi fra routine e luoghi comuni.

Fra le ospiti del pomeriggio il sindaco di Sermoneta Giuseppina Giovannoli recentemente insignita del prestigioso Premio Minerva, il primo riconoscimento al femminile in Italia. Simona Iacovacci titolare dell’omonima ditta di Autotrasporti, una delle prime donne a dirigere una ditta prevalentemente al maschile in provincia. Sara Mariani, avvocato e mediatore Civile e Familiare, Alba Faraoni Ispettore Superiore della Questura di Latina, la Psicologa e Psicoterapeuta Cristina Panzera, la giornalista Dina Tomezzoli e la modella ed influencer Celeste Silvestro. Nello speciale sabato dedicato anche alla Festa del Papà si parlerà anche di com’è cambiata la famiglia nel terzo millennio e del ruolo dei nuovi genitori.

Il pomeriggio di riflessione sarà allietato dall’esibizione del Soprano Sabrina Fardello accompagnata al pianoforte dal Maestro Nicola Franco. A moderare l’incontro la Presidente dell’Associazione “Officine della Fantasia” Antonella Castiello.

 

 

La partecipazione è libera ma nel rispetto delle vigenti normative AntiCovid-19.

 

COMUNICATO STAMPA




A Roma, l’arte del flamenco

Parlare di flamenco è parlare di arte. Un’arte che unisce canto, danza e accompagnamento musicale (cante, baile y toque) che nasce in Spagna, soprattutto in Andalucia, una terra ricca di cultura, contrasti ed influenze di diversi popoli provenienti da Oriente, Europa dell’Est, territori del nostro Mediterraneo e che lì hanno messo radici o lasciato tracce del loro passaggio. Autentico segno di riconoscimento di varie comunità, tra cui quella gitana, il flamenco è un’espressione culturale che gli esperti fanno risalire al 1700 e che si trasmette di generazione in generazione, con festival, circoli di flamenco e scuole. Dal 2010 fa parte del Patrimonio culturale immateriale dell’Unesco. Tra le varie scuole e iniziative di flamenco promosse a Roma presentiamo le performance di Alessia Demofonti, danzatrice, coreografa, insegnante, che ha scelto il flamenco come mezzo di espressione personale, anche se in realtà, come dice lei, è il flamenco che l’ha trovata. L’abbiamo intervistata per conoscere quest’arte meravigliosa e le sue prossime proposte ‘flamenche’, ringraziandola per la disponibilità.

Lei e il rapporto con il flamenco

Da sempre sono un’appassionata di danza. Il flamenco mi accompagna da quando ero adolescente, quindi che dire… è proprio parte di me! Non potrei vivere senza. Nonostante non sia la mia cultura d’origine, lo considero il ‘mio’ modo di esprimere quello che sento e che provo e che, a parole, non sono affatto brava a mostrare. Ho iniziato gli studi di flamenco negli anni Novanta a Roma con maestri italiani e spagnoli, ma ben presto mi sono recata in Spagna, Siviglia e Madrid principalmente, per approfondire lo studio di questa meravigliosa cultura dove ho avuto l’opportunità di studiare con molti maestri, qualche nome fra tutti, Manolo Marìn, La Tati, Angel Atienza, Marco Flores, Belen Maya ed ho lavorato con alcune delle più famose compagnie italiane come Cantares di M. Lanza, Pasion Gitana di C. Costa, Danzarteflamenco di S. Javier e, ancora oggi, con Flamenco Tango Neapolis di Salvo Russo.

Alessia insegnante

Alla fine degli anni Novanta ho iniziato l’attività di insegnante e coreografa. Il flamenco è sempre più soggetto a fusioni, contaminazioni ed integrazione con altre culture e forme d’arte, anche se ancora c’è chi rimane fortemente legato alla sua forma più pura.  Io stessa collaboro ad un progetto molto interessante che si chiama ’Flamenco Tango Neapolis’, un‘originale contaminazione di stili fra la canzone napoletana, il flamenco ed il tango argentino, nato da un’idea di Salvo Russo, musicista e compositore napoletano. Sempre parlando di contaminazione, sto sperimentando una personale interpretazione del cosiddetto ‘flamenco arabo’ assieme a Nadia Slimani, insegnante di danza orientale: si tratta di un genere non ‘codificato’, ma che appartiene ai moderni stili di fusione, pur affondando le radici nella storia della Spagna arabo-andalusa.

Chi può ballare il flamenco?

Direi che può ballare chiunque abbia qualcosa da dire … Il flamenco non ha età, né genere, né forma fisica. il flamenco rappresenta lo stato dell’animo umano, per cui se hai un’anima… puoi ballare flamenco.

Su cosa sta lavorando in questo periodo? 

Sto lavorando su “Flamenco Terapia. Il corpo che sente”, un Laboratorio online su piattaforma Zoom dedicato al mondo femminile che partirà il prossimo giovedì 10 febbraio (18,30/20,00), con incontri quindicinali. E’ un’idea, anzi un vero e proprio desiderio che ho nel cuore da tempo, che ha iniziato a prendere forma e sostanza negli ultimi anni (quando ho incontrato la danzaterapia di Maria Fux) e che si è rafforzato in questo periodo particolare che tutti noi stiamo vivendo. Il Laboratorio non è un corso dove si insegnano “ricette magiche per una vita felice”, ma è un luogo di scoperta e di crescita continua, un momento di connessione con sé e con gli altri, un laboratorio esperienziale per ritrovar-Si e conoscer-Si attraverso il libero movimento danzato, aperto a tutte.

Il flamenco è un potente mezzo di espressione personale, permette di esplorarsi a fondo. Attraverso il linguaggio del corpo e la connessione con le emozioni più profonde può essere di aiuto per  connetterci con la nostra forza interiore, per risvegliare “la Donna selvaggia” che è in noi, per dirlo con le parole della scrittrice statunitense Clarissa Pinkola Estès. Il Laboratorio non è incentrato sull’apprendimento didattico (per quello ci sono i corsi di flamenco tradizionale), ma sull’utilizzo delle modalità espressive del flamenco per la ricerca e la scoperta di Sé. Per raggiungere questo obiettivo ci faremo ‘aiutare’ anche da altre discipline, come lo yoga e la danzaterapia in generale. Questo lavoro intende intraprendere un viaggio in due direzioni: verso ‘l’interno’, per trovare o semplicemente RI-trovare la propria essenza ed il proprio potenziale creativo, e verso ‘l’esterno’ per esprimere tutto ciò che siamo.

Informazioni Whatsapp – 333/6145935

www.corsoflamencoroma.com

 




27 NOVEMBRE 2021 – NON UNA DI MENO! CORTEO NAZIONALE A ROMA

ORE 14 PIAZZA DELLA REPUBBLICA – PIAZZA SAN GIOVANNI

– SAREMO MAREA CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE E DI GENERE –

CI VOGLIAMO VIVE!

 

Il 27 novembre la marea femminista e transfemminista ritorna in piazza per il corteo nazionale a Roma al grido di “Non una di meno”.

Dopo un anno di stop imposto dalla pandemia, è quanto mai urgente riprendere la parola e lo spazio pubblico contro la violenza maschile sulle donne e di genere approfondita dalla crisi pandemica e da una politica istituzionale preoccupante e ostile alle donne, alle persone lgbtqia+ e alle persone più esposte alla crisi economica, sociale e sanitaria.

 

 

 

 

“Da una parte, il governo dell’uomo solo al comando riprogramma in peggio le condizioni delle nostre esistenze, con riforme non contrattate né contrattabili che ipotecano il nostro futuro.

Dall’altra, la deriva xenofoba, patriarcale e individualista che attraversa il dibattito pubblico e che attacca la solidarietà, la cura collettiva, l’accesso alla salute per tutt* come priorità dell’agenda politica post pandemica” dicono le attiviste.

 

Mentre una donna ogni 72 ore muore per femminicidio e si registra un aumento della violenza domestica, il piano triennale antiviolenza istituzionale è scaduto e non viene ancora rinnovato.

Pubblicheremo e porteremo in piazza e in rete i dati dell’osservatorio sui femminicidi, lesbicidi e transcidi avviato da Non Una DI Meno per ribadire che la violenza è strutturale e si alimenta in condizioni di dipendenza economica, ricatto, giustizia patriarcale e politiche istituzionali inadeguate e sessiste.

 

Saremo in corteo e lo faremo insieme con tutte le cautele necessarie per garantire la sicurezza e la tutela della salute di chi vorrà partecipare. La manifestazione sarà segnata da azioni performative e collettive, tra queste il grido muto, ossia un minuto di silenzio che coinvolgerà l’intero corteo per ricordare le vittime di femminicidi e transcidi; la performance sensibili-invisibili per il riconoscimento delle malattie cosiddette “femminili” ignorate dalla medicina, quali, ad esempio, vulvodinia, neuropatia del pudendo, fibromialgia, endometriosi e tutte le varie forme di dolore pelvico. Ci saranno performance per segnalare l’intreccio tra le migrazioni e le frontiere dello sfruttamento lavorativo, oltre alle numerose vertenze in piazza, tra cui quelle delle lavoratrici della Rgis e GKN.

 

Lo spazio della lotta politica pubblica è una priorità irrinunciabile, lo è a maggior ragione nel quadro di una emergenza sociale e di grandi trasformazioni come quelle innescate dal covid 19.

 

 

Ufficio stampa «Non Una di Meno»