MESSICO di Ninni Caraglia

Messico

di Ninni Caraglia

tratto dalla raccolta Tortelilini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

L’ospedale aveva sei piani ed era tutto rivestito da vetri specchiati per riflettere le colline di querce e ontani che lo circondavano. Un bianco sentiero contornato da bosso e ginestre conduceva alla reception in stile alberghiero più che di struttura sanitaria. Anche la malattia deve avere la sua parte di bellezza per diminuire il dolore: su questo concetto il dottor Rifkin, fondatore, aveva concepito e costruito il suo ospedale per chi il dolore poteva eliminarlo con trasfusioni di dollari. L’ultimo piano era una top suite, sia per il paziente sia per chi soggiornava per  assisterlo. Il piano sottostante dedicato agli uffici direzionali garantiva la privacy più assoluta; c’erano perfino due ascensori dedicati, uno esclusivo per il paziente ed uno per i sanitari.

La bionda e lentigginosa Linda Janssen era arrivata al Rifkin’s con la sua assistente Ana Sanchez il giorno prima, ovviamente in gran segreto per evitare il clamore della stampa. Linda e Ana erano coetanee, si erano conosciute al college e avevano mantenuto i contatti nonostante le loro vite completamente diverse. Ana era segretaria di direzione nel giornale della sua città: conosceva il mondo e la stampa; i “coccodrilli”, come diceva lei, crescevano in entrambi quei mondi e non solo nella sua Florida. Linda Janssen, bionda e procace, era in ogni foto del gruppo di cheerleader del college. Un sorriso fresco e una bella voce la portarono fino alla televisione: dai programmi per bambini a quelli del mattino, dove il suo sorriso apriva le finestre delle case di quella parte d’America che avevano cominciato a volerle un gran bene. Si ritrovarono quando Ana fu incaricata dal giornale di organizzare un’intervista a Linda. Quell’intervista ebbe molto successo, piacque come piacque a loro ritrovarsi. Decisero, dopo un paio di mesi, di continuare a lavorare insieme. Linda era serena, sapeva di poter contare sulla fiducia di Ana e a loro non interessavano i gossip dei rotocalchi su un presunto loro amore omosessuale. Affiatate ma diversissime nell’aspetto e nel carattere: Linda aveva giurato amore eterno alla sua bellezza e alla sua professione; Ana era di pelle dorata, dono del sole del Messico ai suoi nativi. Le canzoni di Linda risuonavano sempre nello studio di Ana e in mille altri sperduti motel, dove cameriere indaffarate cantavano quelle melodiche canzoni per divagarsi. “Ana, mi porteresti a trovare la tua famiglia in Messico? Ci meritiamo una vacanza”. Da allora, due volte l’anno si rifugiavano in un paesino sulla costa dell’Oceano Pacifico. C’era il giusto tempo per tutto: famiglia, sole, mare e anche il lavoro, visto che Linda aveva cominciato a pubblicare video sui social mentre cantava in spiaggia con i bagnanti. Linda non era abituata a vedersi così abbronzata, si vedeva più bella. Ana non era così amante del sole, quello del primo mattino era il suo vero caffè, poi era meglio lavorare all’ombra di casa.

Mentre disfacevano i bagagli nella suite dell’ospedale, ripensavano a quanti anni erano passati dalla prima vacanza in Messico, ormai la loro gioventù era trascorsa, per entrambe il successo professionale ed economico era al top. Le grandi vetrate del Rifkin’s sembravano membrane osmotiche per la luce del sole, che ora dava l’impressione di disturbarle. Le fronde ondeggiavano ipnotiche, assopite sui bianchi sofà.

Suonarono alla porta. Entrò un dottore con parecchi documenti in mano. “Buongiorno signora Janssen, mi chiamo Leonard Lewis e sarò il suo specialista dermatologo. Le lascio alcuni moduli da compilare e il calendario delle indagini che faremo in questi giorni. Si prenda del tempo per darci un’occhiata, può chiamarmi al 713 a qualsiasi ora”.

“La ringrazio, leggerò tutto subito e la richiamerò presto” rispose Linda stringendogli vigorosamente la mano per salutarlo.

“Ana, per favore, potresti ordinare in anticipo la cena? Così guardiamo insieme questi moduli” chiese sbuffando Linda. “Aggiungi anche una bottiglia di prosecco ben fresco!” aggiunse mentre disponeva sul tavolo i documenti.

“Alcol il giorno prima degli esami?” chiese stupita Ana.

“Ana, per favore! Ho già visto che il primo appuntamento, che fra l’altro è un semplice colloquio, è alle 11, quindi ho tutto il tempo per smaltire una bottiglia di prosecco. Anzi mezza, visto che beviamo insieme. Per favore! Già non dovrei essere qui! Sei stata tu ad insistere”.

Mentre Linda era di spalle, Ana alzò gli occhi al cielo e telefonò alla reception per ordinare.

La bottiglia di prosecco finì presto, Ana leggeva a Linda le domande del questionario anamnestico e poi scriveva subito la sua risposta. Ana evitava domande pensando che l’atteggiamento dell’amica fosse solo normale nervosismo. Due ore dopo telefonarono al dottor Lewis, che le raggiunse subito in stanza. Lewis era alto e ben piazzato, il camice bianco e gli occhiali tondi e dorati risaltavano sulla sua carnagione scura. Anzi, decisamente nera. Linda non era razzista ma quel colore la intimoriva. Ana gli fece cenno di accomodarsi al tavolo.

“Grazie per aver compilato tutto così presto. Leggerò e domani, se ne avrò bisogno, le farò altre domande. Domattina faremo un’epiluminescenza, una radiografia al torace e una biopsia. Se ci sono segnali dubbi faremo anche una tac. Meglio una cosa in più che una in meno, giusto? Tutto chiaro? Domande? Allora ci vediamo domani alle 11 al primo livello sotterraneo, stanza 10. Usi il suo ascensore e stia tranquilla, non la vedrà nessuno, anche se il nostro centralino oggi è andato in tilt per le telefonate dei giornalisti. Vi consiglio di usare la linea telefonica privata a voi dedicata. Buonanotte, signore”. Rimasero entrambe in silenzio sino al mattino successivo. Dopo gli esami del caso, pranzarono di gusto, visto che si era fatto tardi. Il dottor Lewis sarebbe ritornato in serata per parlare di alcuni risultati, quindi c’era tutto il tempo per un riposino.

Squillò il telefono, era Lewis che le invitava nel suo studio.

Il dottore iniziò mostrando la lastra al torace sullo schermo luminoso. “Alcuni linfonodi sul mediastino appaiono ingrossati, Linda”.

“Cosa vuol dire? È un tumore? O sono già metastasi?” chiese lei.

Lewis fece il giro della scrivania e prese le mani di Linda. Le indicò, nell’incavo dorsale tra pollice e indice della mano destra, alcune piccole piaghette rosse. “Linda, con grande probabilità questo è un melanoma. Anche il piccolo neo tra il dito indice e il medio è coinvolto. Faremo una nuova biopsia del tessuto vicino”.

Erano ammutolite da quella notizia.

“Dottore, io mi sento bene! I nei potrebbero essersi ingrossati per il sole e il prurito che la sabbia provoca. Non è possibile. Non ci credo!” insistette Linda.

“Vedremo gli altri risultati nei prossimi giorni e poi decideremo il da farsi. Buona serata, signore”.

Neanche il loro respiro si sentiva in ascensore, ma nella suite esplose la rabbia di Linda verso Ana. “Hai insistito e mi ritrovo in questo casino! È una cazzata! Non è possibile che sia così! Tutta colpa delle tue paure! Io sto benissimo!”

Ana le augurò la buona notte e si ritirò nella sua stanza. Linda ordinò vino e cantò fino a mezzanotte.

Il mattino seguente, Lewis rimase perplesso nel vedere Linda salutare dalla finestra alcuni fan che erano giù all’ingresso dell’ospedale e cantavano sventolando fiori per lei. Era sorridente quando si voltò per ascoltare il dottore.

È molto amata, vedo” disse Lewis accennando un mezzo sorriso.

“Sì! Perché sanno che il mio affetto per loro è sincero. Non fingo”.

Linda si sedette mantenendo la schiena orgogliosamente diritta e non rivolgendo lo sguardo all’amica.

“Sono qui per confermarle la diagnosi di melanoma. Ci sono piccole infiltrazioni linfovascolari che stanno cominciando ad ingrossare altri linfonodi. Tutto parte dalle prime tre dita della mano destra, come confermato dalla risonanza magnetica con contrasto. Abbiamo due strade che possiamo percorrere”. Lewis si fermò per riprendere fiato e concentrarsi sulle brutte notizie conclusive.

Linda si alzò di scatto andando nuovamente alla finestra per lanciare sue foto autografate agli ammiratori urlanti. Chiudendo la finestra disse al dottore: “Qual è la strada più breve?”

“Amputare le tre dita della mano destra per tentare di rallentare l’infiltrazione di cellule tumorali. Prima dell’amputazione ci sarebbero, tuttavia, tre cicli di chemioterapia per cicatrizzare il più possibile”. Lewis si fermò perché aveva visto il volto incredulo delle donne.

“E secondo lei mi faccio tagliare tre dita? Non basta fare la chemioterapia senza tagliare? E se le tagliassero a lei, le dita? No, dottore, questa strada non è per me. Mi prenderò del tempo per pensare, partiamo domani e poi le farò sapere” concluse Linda accendendosi una sigaretta.

“Non aspetti troppo, Linda. Ha il mio numero di telefono, mi chiami” disse lui tendendo la mano, che Linda non volle stringere.

Andarono via prima dell’alba il mattino dopo. Linda non rispose a nessuna domanda e proposta di Ana. Si ritrovarono negli studi televisivi dopo qualche giorno come se nulla fosse accaduto.

 

“Chiama Lewis, partiamo domani” disse Linda quasi senza voce. Si era presentata nell’ufficio di Ana scalza e claudicante. Gli ematomi sotto le unghie e le piante dei piedi ormai rendevano faticoso stare in piedi. Decisero tutto in quel momento: Linda avrebbe fatto con Ana un’ultima intervista. Ana avrebbe organizzato lo studio televisivo con le ultime foto fatte in Messico. Linda, dietro un ampio tavolo, sarebbe stata seduta normalmente nonostante la sedia a rotelle, il piccolo vaso di fiori rossi avrebbe coperto la mano mutilata mentre con l’altra avrebbe salutato in spagnolo il pubblico, una vez mas.

 

foto di Petra by Pixabay




IL TROLLEY di Silvia De Felice

IL TROLLEY

di Silvia De Felice

tratto dalla raccolta Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

Ed. Rapsodia

 

Francesca quel giorno proprio non riusciva a trattenersi dal sorridere, eppure era consapevole che sarebbe stata una serata lunga e faticosa. Tutto intorno a lei esultava: il mestolo sporco di sugo, la presina macchiata appoggiata sul lavandino, la scopa nell’angolo della cucina. Mentre spadellava guardava le zucchine, anche quelle sembravano ballare insieme ad aglio, olio e peperoncino. Era sicura che non sarebbe stato facile, che i toni si sarebbero alzati, e che forse qualche piatto sarebbe volato durante la cena con Antonio, ma non era preoccupata più di tanto, Francesca si sentiva forte e felice.

Era ormai tutto pronto, aveva preparato i piatti preferiti di suo marito, che sarebbe ritornato a breve dal lavoro, affamato come sempre ma totalmente all’oscuro di ciò che lo attendeva. La casa era in ordine, il frigo pieno, le lenzuola del letto matrimoniale fresche di bucato, fiori freschi nel vaso in corridoio; Francesca si guardava intorno soddisfatta. “Ho fatto proprio un bel lavoro” disse tra sé e sé, mentre il suo trolley da viaggio, nascosto dietro la porta, le faceva l’occhiolino. Oggi sembrava che tutti gli oggetti facessero comunella intorno a lei.

Il tintinnio delle chiavi alla porta la fece sobbalzare. Antonio era rientrato, iniziavano le danze.

“Mmmmm, che buon profumo” esordì suo marito, “una bella cena è proprio quello che mi ci voleva dopo una giornata di merda”. Dopo aver lanciato il soprabito sul divano, si diresse in bagno.

“Ciao” rispose Francesca mentre lui già non la sentiva più, “tra dieci minuti la cena è in tavola” aggiunse mentre scrosciava l’acqua della doccia.

“Devo decidermi a guardarmi intorno, l’aria dello studio è diventata davvero irrespirabile”. Queste furono le prime parole che le rivolse suo marito dopo essersi seduto e aver iniziato a mangiare. Parlava e neanche la guardava, Francesca sembrava invisibile per lui. “D’altronde sono ancora giovane, ho un curriculum di tutto rispetto e le riaperture dopo l’estate mi favoriranno” continuò lui.

“Sono contenta che la cena ti sia piaciuta, anche perché questa era l’ultima che ti preparo. Ho deciso di andarmene, ma ti ho lasciato il frigo pieno e la casa pulita” disse Francesca con tranquillità.

“Pensa che oggi quella stronza di Roberta ha avuto da ridire sul progetto che ho presentato in riunione, proprio lei che di fondamenta e pilastri non capisce un cazzo!”

Antonio non l’aveva ascoltata, anzi non l’aveva proprio sentita.

“Ho anche messo dei piatti pronti nel surgelatore e pulito tutta la casa, così avrai qualche giorno di autonomia finché non troverai una persona che possa aiutarti con le pulizie e i pasti” continuò lei, poi si alzò per cambiare i piatti.

“Quella crede che possedere qualche quota in più della società le dia il diritto di spadroneggiare con chi si sobbarca della maggior parte del lavoro. Se ne accorgerà, la deficiente, quando me ne andrò”.

“Non mi hai sentita neanche questa volta?” si azzardò a chiedere lei.

“Sono mesi che lavoro come un pazzo per rispettare i termini e le scadenze concordate con i clienti, per evitare allo studio di dover pagare delle penali, per far fare bella figura a quel manico di scopa travestito da donna in carriera! E lei che fa? Cerca la magagna per screditarmi davanti agli altri e risultare la più competente. Sai cosa penso, Francesca?”

Lei non rispose, ma lui continuò lo stesso.

“Penso proprio che quella volta che mi si buttò addosso, anziché fare la parte del marito fedele, me la dovevo scopare! Ecco che penso!”

“Sì, hai ragione” disse Francesca, e aggiunse: “Così avremmo deciso prima e con più facilità di non portare avanti questo nostro pseudomatrimonio”.

Chissà se ora l’aveva sentita.

“Lo capisco che potrò sembrarti brutale, cara, ma forse se non l’avessi rifiutata mi sarei evitato di ritrovarmi i bastoni tra le ruote per tutti questi mesi”.

Francesca si alzò di nuovo, tolse piatti e posate e li sostituì con quelli per il dolce; aveva preparato anche il dessert: un’ultima cena perfetta. Davanti ad un tripudio di pasta sfoglia, crema pasticcera e fragole, Antonio sembrò riscuotersi dal suo monologo.

“Scusami, tesoro, stasera ho parlato solo io, com’è andata la tua giornata?”

“Molto bene, direi, anche se un po’ faticosa”.

“Immagino: spesa, cucina e gli altri tuoi numerosi impegni domestici ti avranno stancata. Non avrai avuto neanche il tempo per scambiare due chiacchiere con quella pettegola del banco al mercato”.

Le fece un sorriso benevolo, accarezzandole la mano in modo comprensivo, e concluse dicendo: “Povero, il mio tesoro”.

“No, Antonio, niente di tutto questo” disse Francesca, facendo un bel respiro e pensando a chi e cosa l’attendeva. Finalmente suo marito la guardò e, soprattutto, sembrava che ora la stesse ascoltando, quindi senza aspettare oltre proseguì, guardandolo negli occhi: “Mi sono un po’ stancata, è vero, ma sono contenta perché ho lasciato tutto in ordine, i tuoi vestiti sono lavati e stirati e il frigo è pieno di cose da mangiare, crude e cotte, così per i primi giorni in cui sarai solo non avrai problemi”.

“Da solo io? E perché? Vai da tua madre? Sta male?” le chiese.

“No, sta bene per fortuna, e finalmente starò bene anche io, dopo tanto tempo”.

Lui ora la guardava senza parlare, incerto se finire il dolce o iniziare a preoccuparsi.

“Qualche mese fa, proprio al banco della verdura al mercato, ho conosciuto una persona, per caso. La settimana dopo l’ho incontrata di nuovo mentre curiosavo tra i libri usati: ci siamo scambiate qualche parola sui romanzi letti e poi, davanti ad un caffè, abbiamo scoperto di avere molte cose in comune”.

Sentendo queste parole, Antonio poggiò la forchetta sul piatto e strinse il tovagliolo. Francesca continuò: “Mi dispiace, Antonio, me ne vado”. Non aggiunse altro, per qualche istante aspettò che il marito le dicesse qualcosa, si arrabbiasse, sbattesse i pugni sul tavolo o magari si mettesse a piangere, ma niente di tutto questo successe. Antonio era ammutolito, si sentiva solo il suo respiro, leggermente affannato. Francesca allora si alzò da tavola e si mise a sistemare, pulì la cucina, riempì e attaccò la lavastoviglie, tolse e ripiegò la tovaglia. Suo marito era rimasto immobile sulla sedia, ora un po’ ingobbito. Decise di evitare di guardarlo, non voleva farsi prendere dalla compassione. Andò in camera, prese il trolley che l’aspettava dietro la porta e si guardò intorno un’ultima volta. Infine Francesca appoggiò il suo mazzo di chiavi sul tavolo, uscì e chiuse la porta.

Lui si alzò e lanciò furioso le chiavi, che finirono sulla portafinestra rompendone il vetro.  Antonio uscì sul balcone urlando: “Francesca! Dove pensi di andare?”

Si affacciò per vedere se riusciva a richiamarla, ma anche per capire chi fosse quella maledetta persona che si stava portando via la sua vita. Francesca però non aveva sentito il suo richiamo. Antonio fece appena in tempo a vedere che saliva decisa in una macchina scura; il lampione bordo strada fece brillare i gioielli sul polso e sulle dita di una mano femminile che gettava una sigaretta dal finestrino del guidatore. Sul sedile posteriore spiccava, insolente, la macchia fucsia del trolley di sua moglie. Lo stava facendo davvero, se ne stava andando.

 

 

foto Pizabay voltamax/97 images

 

 

 




TORTELLINI di Valentina Pucillo

Tortellini

di Valentina Pucillo

tratto da Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

“Quest’anno quanti ne facciamo? L’anno scorso erano davvero pochi” disse Maura con un sorrisetto ingolosito sul viso.
“Io ne ho calcolati una cinquantina per persona: per un piatto abbondante ne servono circa trenta, e con cinquanta viene fuori anche il bis per tutti” rispose zia Claudia mentre spargeva la farina sulla spianatoia. “Anche perché, a parte questi in brodo, il lesso e le verdure, io e Antonia abbiamo deciso di non preparare altro. Ci sono anche tutti i dolci. Altrimenti poi finisce che mangiamo troppo come tutti gli anni” continuò, prendendo l’impasto della sfoglia e iniziando a stenderlo col mattarello.

“È sufficiente il ripieno? Mi sembra poco, considerando che domani ci saranno anche altri ospiti. Dovremmo farne almeno 700” disse preoccupata nonna Mimì, che temeva sempre che il cibo non fosse sufficiente.
Il grande tavolo del tinello era allestito per l’occasione. Una tovaglia incerata era stesa su tutta la superficie per evitare che il legno scuro si rovinasse. Sopra c’erano la spianatoia, il recipiente contenente il ripieno profumato di mortadella e noce moscata, e svariati vassoi coperti da strofinacci candidi, incastrati con i bordi l’uno sull’altro, pronti ad accogliere le file ordinate di tortellini che tutta la famiglia, come ogni anno nel pomeriggio della vigilia di Natale, stava preparando per il pranzo del giorno dopo.

“Sòrbole, Claudia, tirala più sottile quella sfoglia, eh! Mario, mescola mo’ quel ripieno che lo vedo un po’ grumoso”: come ogni anno, forte delle sue origini emiliane, zio Paolo dispensava consigli e perle di saggezza a destra e a manca con il suo marcato accento bolognese.
La ripartizione dei compiti era più o meno sempre la stessa. Zia Claudia, avendo acquisito dal marito quel tanto di bolognesità che bastava, preparava e stendeva la sfoglia quasi come una perfetta sfoglina e tagliava i quadrelli di pasta delle giuste dimensioni; “Piccolini! Il vero tortellino deve essere grande come una moneta da venti centesimi!” continuava a ripetere zio Paolo fino allo sfinimento; Antonia, la sorella, insieme ai figli Maura e Valentino, era addetta alla preparazione del ripieno, a porzionarne la giusta quantità nei quadrati di pasta e a chiudere questi ultimi su sé stessi per formare i triangoli; zio Paolo e il cognato Mario, i due ‘precisi’ della famiglia, avevano il compito di sigillare i triangoli bagnando leggermente i bordi e di dar loro la tipica forma del tortellino ripiegandoli attorno al dito. Il tutto era supervisionato da nonna Mimì che, forte dell’immunità ai rimproveri datale dai suoi ottant’anni, danzava da una postazione all’altra, metteva le mani ovunque e pasticciava senza che nessuno avesse il coraggio di dirle nulla.

La famiglia Brambilla era molto unita; tuttavia, per qualche scherzo del destino, ognuno dei componenti aveva scelto di stabilirsi in posti piuttosto lontani l’uno dall’altro. Non erano quindi molte le occasioni in cui la famiglia Brambilla riusciva a riunirsi. Per questo il Natale tutti insieme nella casa dei nonni, con annesso il rito di preparazione dei tortellini, era un appuntamento che nessuno aveva mai messo in discussione. Intorno a quel tavolo del tinello si creava sempre un’atmosfera armoniosa. Claudia, che con movimenti sicuri preparava la pasta da riempire, ciarlava allegramente con Antonia e Mimì di parenti, storie del paese e ricette. I bisticci tra Valentino e Maura sui reciproci stili di vita sembravano quasi addolcirsi grazie all’odore denso del brodo di cappone che, sobbollendo in cucina per ore, li accompagnava durante tutta la preparazione dei tortellini.

Anche i due cognati, che normalmente non facevano che stuzzicarsi, in quell’occasione sotterravano l’ascia di guerra, concentratissimi sulle operazioni di chiusura della pasta; uno sguardo attento avrebbe comunque percepito una sorta di sfida silenziosa su chi dei due riuscisse a formare il maggior numero di tortellini chiusi a regola d’arte. A rallegrare la laboriosa famiglia c’era la sempre presente televisione che strepitava a tutto volume, spesso sintonizzata da nonno Giulio su affascinanti programmi di interesse generale quali, ad esempio, documentari sugli gnu.

Quel pomeriggio nonno Giulio era di umore variabile. Dopo aver imposto a tutti una mezz’ora di televendite di utensili da cucina di discutibile utilità, aveva di botto abbassato il volume della televisione e si era accomodato intorno al tavolo con gli altri, osservando la scena con espressione arcigna. Sembrava interessato a studiare la preparazione della sua portata preferita del pranzo di Natale. Aveva scelto una sedia a capotavola in posizione strategica, proprio davanti ai vassoi che iniziavano a riempirsi di tortellini; non appena gli altri si distraevano, il buon vecchio Giulio ne rubava qualcuno con movimenti fulminei e lo ingoiava crudo con colpevole voluttà.

Tutti lavoravano in silenzio, concentrati, essendo generalmente difficile chiacchierare a causa del baccano della televisione.
“Ma che silenzio stasera! Perché non mettiamo un po’ di musica?” chiese Maura rendendosi conto che il rimbombo della televendita era cessato.

“Sì, dai, passami lo zaino, ho un cd di etno marocchina che mi ha regalato Karima” ribatté subito Valentino, sempre voglioso di condividere le sue passioni con chiunque gli capitasse sotto tiro.
“Veramente pensavo a qualcosa di allegro, magari canzoni che conosciamo tutti e che possiamo canticchiare insieme” replicò seccata Maura, fulminando il fratello con lo sguardo. “Allora dovremmo cantare Nilla Pizzi, se teniamo conto dell’età di qualcuno intorno a questo tavolo, oppure tormentoni estivi idioti, se teniamo invece conto della cultura musicale di qualcun altro sempre intorno a questo tavolo” rispose Valentino, sostenendo ironico lo sguardo della sorella.

La discussione venne subito zittita da zio Paolo che, con un veloce click, fece partire uno dei suoi pezzi preferiti di musica classica, un requiem di Mozart.
“Allegro si era detto, eh? Qua mi pare il festival delle melodie d’oltretomba” mugugnò Mario guardando il cognato di sottecchi.

“E piantala di essere sempre polemico, diamine!” ribatté Antonia dando una gomitata al marito, cercando di capire se la sua lamentela fosse stata sentita da Paolo e Claudia.
Nonno Giulio ascoltava impassibile ma divertito i vari battibecchi; sentendosi piuttosto invisibile afferrava, ormai spudoratamente, un tortellino dopo l’altro e se li infilava meccanicamente in bocca. I suoi movimenti, per quanto scaltri, vennero tuttavia intercettati dall’occhio di falco di Mimì.

“Giulio! Ma tu guarda che disgraziato, questi sono per domani! Quanti ne hai mangiati già?” inveì nonna Mimì contro il marito, mettendosi le mani tra i capelli con fare angosciato. “Non hai nemmeno preso la pasticca! Adesso basta, tornatene a guardare la televisione!”
Non gradendo che l’attenzione di tutti fosse ormai su di lui, e ritenendosi probabilmente soddisfatto della scorpacciata, nonno Giulio assunse un’espressione di infastidita dignità e si accinse ad alzarsi dalla sedia per tornare alla poltrona davanti alla televisione. Per aiutarsi appoggiò con una certa foga entrambe le mani sul bordo del tavolo, che coincideva con il bordo di uno dei vassoi ormai stracolmi di tortellini. Ci fu un effetto domino al contrario: volo di vassoi, pioggia di tortellini che rotolarono ovunque, sotto il tavolo, sul pavimento impolverato, sotto i mobili. Intorno alla tavolata, tutti ammutoliti. Nel caos generale restarono sul tavolo solo tre tortellini, nascosti sotto uno strofinaccio. Nonno Giulio, ormai in piedi, li intercettò prontamente e li mangiò prima di tornare alla sua poltrona.




ARRIVEDERCI E GRAZIE di Laura Avati

ARRIVEDERCI E GRAZIE

di Laura Avati

tratto dalla raccolta Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

Era una delle prime giornate calde dell’estate e nella cucina del ristorante si iniziava a sudare. Anche in sala faceva molto caldo, e infatti avevamo deciso di indossare le nuove divise estive.

A me andava decisamente stretta: il camice mi strizzava come una camicia di forza. Non mi sentivo a mio agio: mi specchiavo continuamente nel vetro del frigo dei gelati, cercando di capire come fare per non far notare i chili di troppo.

I clienti cominciavano ad arrivare:

“Buongiorno signor Marcello”.

“Buongiorno Laura, inizia a fare caldo” disse asciugandosi la fronte con il fazzoletto di stoffa.

“Eh sì, è arrivata l’estate e purtroppo non possiamo accendere l’aria condizionata”.

“Come mai?”

“Dobbiamo fare la sanificazione dei filtri. Il tecnico viene domani”.

“Ah va bene, per oggi sopportiamo il caldo”.

Il signor Marcello era uno dei nostri primi clienti e tutti i giorni, da trenta anni più o meno, veniva a mangiare da noi: ero molto affezionata a lui.

“Che belle le nuove divise!” disse il signor Marcello.

“Ha visto che bei colori?” risposi, senza alzare lo sguardo dalla calcolatrice e cercando di allentare un po’ il camice, tirandolo da una parte e dall’altra.

“Sì, sono molto belle e mettono tanta allegria”.

“Grazie, lei è sempre tanto gentile. Buon pranzo, signor Marcello, e a domani”.

“Grazie e buon lavoro a te”.

I clienti scorrevano con i loro vassoi pieni di piatti stracolmi. Non avevo pranzato, lo stomaco mi brontolava, avevo una fame assurda e tanto caldo. Alzai lo sguardo, in fila c’era Paolo, il cliente per me più affascinante. Tiravo il camice verso il basso illudendomi di coprire le mie rotondità. Gli preparai la sua solita acqua liscia fredda e la macedonia.

“Ciao Paolo, buon pranzo” mi affrettai a dirgli, facendo in modo che non si fermasse più di tanto davanti a me, tanto lui pagava a fine mese.

“Grazie Laura”, e se ne andò a tavola, strizzando l’occhio e sorridendomi.

Forse è soltanto una mia fissazione, forse non si nota poi così tanto, pensavo, continuando a fare i conti e a tirare il camice. Ecco Nella, sempre sorridente, con una longuette gessata che la avvolgeva in tutta la sua magrezza. E guarda quanto mangia! Beata lei, pensavo mentre le facevo il conto.

“Mi daresti una porzione di tiramisù alle fragole?” chiese Nella.

“Certo” le risposi porgendole il dolce.

“L’hai fatto tu, vero?”

“Sì sì” risposi con l’acquolina in bocca.

Lei si può permettere anche il dolce, pensai.

“Buon pranzo, Nella” le augurai con tutta l’invidia possibile.

“Buongiorno Cinzia, mangi solo l’insalata o aspetti altro dalla cucina?”

“No, mangio solo questo, con questo caldo mi si chiude lo stomaco e non riesco a mangiare”.

“Capisco, buon pranzo”.

No, non capisco invece. Possibile che solo a me l’appetito non manca mai?

I clienti in fila erano ancora tanti.

“Buongiorno signor Giovanni”.

“Ecco la nostra signora Laura. Come sei bella con questa divisa bianca e rossa!” disse, con quell’accento siciliano che rafforzava la erre e che mi piaceva tanto.

“Grazie Giovanni, è sempre tanto gentile. Lo prende il caffè, o anche oggi è nervoso?”

“Oggi lo prendo, ma tu sai come”.

“Come al solito, ristretto e schiumato. Buon pranzo” gli dissi dandogli il resto.

Mi ero un po’ rilassata; nessuno si era accorto del camice stretto e ormai anche sudato.

“Buongiorno Marco, scommetto che aspetti il petto di pollo alla griglia”.

“Ciao Laura, lo so che sono monotono, ma io adoro il vostro petto di pollo alla griglia”.

“Sì, ma non so come fai a mangiarlo tutti i giorni, prima o poi ti cresceranno le piume”.

“Me lo dice sempre anche mia moglie” disse ridendo di gusto.

“Ecco la tua acqua liscia a temperatura ambiente, e buon pranzo”.

Mi divertivo a scherzare con i clienti abituali. Con molti di loro si era creata una bella amicizia, tanto che spesso andavamo a cena insieme e con alcuni anche in vacanza.

“Ciao Emilio, metto un po’ di peperoncino sulla pasta, come piace a te?”

“Tu mi vizi, poi mia moglie è gelosa”.

“Maria non è gelosa di me, lo sai”.

“Ecco a te anche il tuo mezzo litro di vino bianco. Buon pranzo”.

“Grazie, e buon lavoro”.

Il servizio era quasi finito. Avevo iniziato a fare le registrazioni di fine giornata quando entrò un cliente. L’ultimo è sempre quello un po’ malvisto, ma questo era un cliente che non vedevo da tanto tempo. Mi faceva sempre piacere rivedere i vecchi clienti.

“Buongiorno, bentornato” gli dissi appena arrivò in cassa.

“Grazie”.

“Cosa le preparo da bere?”

“Un quartino di vino bianco frizzante e acqua gassata”.

“È tanto tempo che non ci viene a trovare!”

“Eh sì, sto lavorando a Roma e non sono più capitato da queste parti”.

“Basta che si sta bene e si lavori. Vuole altro?

“Sì, un caffè e una grappa”.

“Ok. Sono 15 euro, grazie”.

“Ti trovo ingrassata”.

Alzai lo sguardo dal registratore di cassa e fissai per qualche secondo quel cliente. Brutto ciccione che non sei altro, ma ti sei guardato, con quella pancia che a stento sta in quella camicia sudicia e con quei capelli ridicoli e unti?, gli avrei voluto rispondere. Ora, non è che io con questo cliente avessi mai avuto confidenza o amicizia; non era un cliente assiduo, e con lui avevo sempre scambiato battute convenevoli e di circostanza, niente di più. Come ti permetti, tu che non sai neanche il mio nome! Feci un respiro profondo e cercai di recuperare quel poco di autocontrollo che mi era rimasto: era pur sempre un cliente, e non potevo rispondergli male.

Stizzita, mi avvicinai come per fargli una confidenza e quasi sussurrando gli risposi:“Sa, ho una malattia abbastanza grave, sto facendo una cura di farmaci molto aggressiva e prendo anche molto cortisone. Questo è tutto gonfiore” gli dissi pizzicandomi il bicipite.

Lui, imbarazzato e forse anche dispiaciuto per la mia salute, balbettando disse: “Ah, mi dispiace, spero che vada tutto bene”.

Immagino quanto ti dispiace, brutto insolente! “Lo spero anch’io” gli risposi garbatamente e sfoderando uno dei miei migliori sorrisi.

Lui prese il resto, il vassoio e andò a tavola. Lo guardavo allontanarsi un po’ claudicante, soddisfatta della menzogna appena raccontata.

Più di una volta incrociai il suo sguardo compassionevole mentre mangiava, ma ero troppo contenta della mia piccola vendetta e poco mi importava se lui fosse preoccupato per me.

“Alla prossima, e spero di avere buone notizie” mi disse il ciccione andandosene.

“Arrivederci e grazie”.




LE TRACCE SUL VETRO di Cristina Cortelletti

Le tracce sul vetro

di Cristina Cortelletti

tratto da Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Non è mai piovuto così tanto a settembre, pensò Vincent fissando, dalla finestra della cucina, la fermata dell’autobus sul lato opposto della strada. Tutti i giorni, da sempre, alle 19:00 passava l’ultima corsa. “Accidenti, proprio oggi!” esclamò. La pioggia peggiorava il suo già altalenante umore, non doveva perdere di vista l’obiettivo, stavolta ce l’avrebbe fatta e Martin non sarebbe arrivato in tempo. Il sottofondo musicale trasmesso dalla emittente radiofonica, sulla quale si era sintonizzato dallamattina, gli teneva compagnia mentre osservava l’umida foschia pomeridiana che offuscava il paesaggio e intensificava il dolore alla sua stramaledetta gamba. Sobbalzò quando suonarono alla porta. Deve essere Jennifer con la terapia, pensò. Diede un’occhiata all’orologio: le 18:25. Era ancora presto per le medicine. Non andò ad aprire, tutto sarebbe andato secondo i piani. La sua attenzione fu richiamata dal ticchettio della pioggia che, frustando i vetri da ore, lo stava irritando.

Non si sorprese quando, appoggiando il dito sulla superficie del vetro, iniziò a seguire le tracce irregolari delle gocce che scendevano, una cosa che faceva quando era piccolo e gli sembrava di essere un esploratore a caccia di un codice cifrato. Con il dito tracciava linee virtuali che univano gocce, rivoli e chiazze, fino al palesarsi di una visione che siglava con l’iniziale del suo nome.

Ritornò improvvisamente in sé al rumore sordo dei colpi alla porta, in simultanea con la voce che gridava: “Martin! Martin! Apri la porta!”

“Andate via, andate via!” urlò. “Oggi no… voglio stare solo!” disse Vincent.
Il chiarore che entrava dalla finestra illuminava fiocamente il termosifone sulla parete di fronte. Vincent guardò distrattamente i calzettoni stesi lì sopra ad asciugare, gettati malamente, spaiati e stropicciati; non ricordava neanche di averceli messi, rispecchiavano perfettamente la sua vita disordinata e caotica.
Fremeva, ancora un po’ di pazienza e tutto sarebbe passato.

Per tutta la mattina Martin era stato alle prese con il televisore e poi con la sostituzione della lampadina del lume, poi con la preparazione del pranzo e infine con le scartoffie da riordinare. Martin era il suo punto di riferimento: negli ultimi tempi avevano condiviso ogni accadimento delle loro vite. Vincent, in poche parole, dipendeva da lui.

Condividevano da due anni quella che era stata la casa dei loro avi, una piccola dimora a mattoncini rossi con le finestre bianchesituata in una zona isolata nella periferia del paese, tipica della contea di West Midlands. “Rifugio e capanna, riferimento e radice”. Così diceva Martin, e in quanto tale andava difesa. Martin era conosciuto da tutti nel quartiere, lo chiamavano “l’insegnante degli ultimi”, ovverogli abitanti del quartiere più isolato e meno abitato di Rednal.

Vincent era arrivato all’improvviso, disperato e vulnerabile, e Martin dal principio aveva cercato di gestire le sue manie e gli sbalzi di umore con i farmaci. Ma nessuna terapia era riuscita nell’arduo compito di sollevarlo dai momenti di follia. Decise così di vivere in simbiosi con lui, senza più separarsene. Vincent adorava quella casa e soprattutto Martin, ammirava la sua tenacia, la forza, l’ottimismo e la gioia con la quale affrontava la quotidianità. Soprattutto, adorava la sua disponibilità incondizionata e senza pretese per chiunque. Avrebbe voluto essere lui, Martin. Una volta lo era stato, in effetti: prima di diventare un povero storpio e scemo.

Nella testa i rumori si mescolavano, rimbombavano, si espandevano a comprimere il cervello, fino a che Vincent si augurava che esplodessero le membrane per farli uscire da ogni possibile orifizio.
Il rumore metallico della chiave nella toppa lo distolse dall’ansia che lo attanagliava. Nel voltarsi riconobbe il familiare riflesso che balenò sul vetro della finestra, sorrise. Mordendosi il labbro inferiore cercò un nascondiglio, proprio come quelli nei quali si rifugiano i bambini quando giocano o quando sono impauriti, o come quelli sempre più reconditi che, da tempo, anche le sue emozioni scovavano e ne facevano una tana.In quei nascondigli si abbandonava e aspettava che Martin lo trovasse e si prendesse cura di lui. Ma non oggi.

Improvvisamente la porta sbatté. “Maledizione, troppo presto” sussurrò. “Sei già tornato?” chiese Vincent. Ma non ebbe risposta. Erano le 18:35. Per andare verso l’ingresso dalla cucina bisognava attraversare un lungo e stretto corridoio semibuio. Non c’erano fonti di luce artificiale, e inoltre il corridoio era reso ancora più angusto da due grandi poster speculari appesi alle pareti. Le riempivano per tutta la loro lunghezza, interrotti solamente dalle due porte delle camere da letto, rivestite di carta da parati. Martin le teneva sempre chiuse per suscitare il forte impatto visivo creato dalle stampe in stile neoplastico. Le geometrie in bianco e nero riempivano il vano, infinite forme si susseguivano ad oltranza originandone altre man mano che lo si attraversava: pareva di essere in un caleidoscopio, all’interno del quale Vincent tentennò un attimo prima di avventurarsi. Nonostante condividesse questa stranezza di Martin, infatti, ogni volta che lo attraversava veniva sopraffatto dall’inquietudine. Un effetto allucinante, che lo destabilizzava e confondeva.Aveva smesso di porsi interrogativi sui gusti di Martin da quando si era convinto che, più che uno stile d’arredo, quei decori fossero una strategia a scopo terapeutico.

Devo evitare di fissare le pareti per non restare ipnotizzato, pensò, poi si concentrò sulla lampada di stoffa nera, unica fonte luminosa alla fine del lungo corridoio, e si incamminò. Lo strusciamento pesante e prolungato della ciabatta sul pavimento echeggiava in tutta la casa. Costretto alla lentezza dalla gamba offesa, imprecò. “Martin!” chiamò, e l’eco della sua voce risuonò. Continuò a camminare, ma il corridoio era più lungo del solito, le stampe nere prevalevano sulle bianche e si allargavano, si deformavano fino ad intrecciarsi sul soffitto, che ricadeva all’ingiù come fosse molle, formando lunghe stalattiti che lo lambivano ed erano pronte a trafiggerlo.

Il silenzio si era fatto fitto e un tremore dolente gli attraversò lo stomaco. “Martin… Martin!?”
Erano passati pochi ma interminabili minuti. Sentì una forte fitta alla gamba, che subito dopo cedette e lo fece cadere. Temendo di essere inghiottito dal famelico tunnel, chiuse gli occhi e, disorientato proseguì a carponi per pochi metri. Urtò qualcosa, spalancò gli occhi e la fioca luce della lampada gli rivelò la sagoma di un uomo a terra riverso e immobile, tutto sporco di una melma nera, in una posizione inverosimilmente innaturale.

“Martin… Martin” balbettò senza toccarlo. Non vedeva bene, maledizione, c’era pochissima luce. Poi sentì l’odore, rabbrividì e fu catapultato nel passato.Davanti agli occhi ricominciarono a scorrere i flash remoti, sempre gli stessi, ricordò Eva, bellissima, sorridente e felice, e anche quella condivisione dell’amaro delle sconfitte e della gioia nel raggiungere piccoli traguardi che li aveva uniti in una perfetta sintonia.

Rivide quando si trasferirono lì, a Rednal, in quella stessa casa in cui si trovava ora, la spensieratezza preziosa e impagabile di quel periodo che, lo avrebbe scoperto poco dopo, sarebbe stato l’inizio della fine. Le sorprese che la vita riserva sono sempre in agguato. Avrebbe appurato con rabbia che alcuni, purtroppo, non hanno accesso al lieto fine. Ricordò la cruenta esplosione in cui Eva perse la vita. In quella stessa occasione lui perse la ragione di vita. Il cielo divenne di un malinconico sapore cupo, e una profonda tristezza lo condusse in un viaggio psichedelico senza ritorno.

Il dolore lo attanagliava ogni volta che i ricordi riaffioravano. Se le ferite del corpo si erano cicatrizzate, a dominare la sua vita, pesanti come un fardello straziante, erano rimasti il buio, le paure e l’odore dei loro due corpi dilaniati.

Era una persona inutile. Sperava, Dio solo sa quanto, di svegliarsi un mattino di settembre con un cielo azzurro, completamente diverso e finalmente libero da se stesso.
Eccoci nuovamente, bella gente, il prossimo brano sarà… la voce dello speaker radiofonico lo riportò al presente. Spaventato e fragile, si asciugò le lacrime che gli appannavano la vista, strofinando l’avambraccio sul viso. Si fece coraggio, infilò un braccio sotto le spalle dell’uomo e, con una delicata manovra, lo rigirò per metterlo in posizione supina. Gli sollevò la testa, e in quel momento un brivido gelido gli bloccò il fiato: il fango chiazzava il volto dell’uomo e, sebbene i lineamenti non fossero bendefiniti, la fisionomia era famigliare. Si alzò e indietreggiando urtò la consolle, facendo così cadere a terra l’unica lampada, che rotolò e si fermò sulla gamba scomposta del corpo senza vita.Il buio improvviso lo immobilizzò, e le narici furono nuovamente sature di quell’odore. Cercò disperatamente l’interruttore tastando le pareti, senza trovarlo. “Aiuto! Aiuto!” provò a gridare, ma la voce spezzata non emise suoni. Il respiro si fece affannato, sentì i rivoli di sudore scendere lungo la schiena e iniziò a dondolarsi avanti e indietro, strofinando freneticamente le mani umidicce sulle cosce. Che diamine sta succedendo? Che ci fai qui? pensò senza capacitarsi di quello che stava succedendo.

Il buio spense anche l’ultimo barlume di ragione che gli era rimasta. Improvvisamente, eccola: la voce di Eva risuonò frastornante nella sua testa. Era diventato sempre più difficile scacciarla, e ogni volta gridava più forte, non riusciva più a sopportarla. Si strinse la testa fra le mani, chiuse gli occhi e si mise a battere forte il piede illeso a terra per sovrastare, con il rumore, quella voce che non perdonava la sua fragilità.

Quando aveva iniziato a sentirla, le parole erano state confortanti, lo aiutavano a sostenere il peso gravoso di essere sopravvissuto; non avrebbe mai voluto smettere di sentirle, ma il silenzio della solitudine lo aveva schiacciato, il delirio e il caos si erano impossessati di lui e le parole erano diventate di biasimo e offesa. In questa casa periferica, situata ai margini della vita, aveva riposto infine il suo dolore. Era un codardo, lo sapeva, e per questo si rifugiava in Martin.

Finalmente la voce fu smorzata dalla musica della radio. Vincent aprì gli occhi, si fece coraggio e guardò nuovamente l’uomo che, stranamente, ora pareva evanescente. Quando si accorse che era il ritratto del proprio corpo disarticolato, una lacrima gli scivolò sul ciondolo a forma di M che aveva al collo. Quella fu la conferma che era giunto il momento di sconfiggere i fantasmi della sua vita una volta per tutte.

Alternò lo sguardo tra la porta d’ingresso e il corridoio; avrebbe voluto oltrepassare quella porta aperta sul mondo tante e tante volte, ma era stato meno doloroso restare dentro, esule nel suo stesso rifugio. Non gli restava che ripercorrere per l’ultima volta il corridoio, che appariva ora più che mai soffocante e cieco. Il corridoio: l’inesorabile condotto che quotidianamente collegava il passato al presente.S’incamminò, sperando che stavolta le mille sfaccettature nere che lo riempivano si combinassero in modo ordinato nella sua mente di uomo alla deriva.

“Santo cielo, Martin, rispondi! Dove sei?” urlò Jennifer. Erano le 19:00 ed era in ritardo per la medicina. “Eccomi, arrivo. Non preoccuparti, sono qui” rispose. L’autobus era passato, si allontanò dalla finestra. L’acqua aveva lavato le tracce della sua vita confusa, Martin era tornato appena in tempo.

Con la mano cancellò dal vetro, forse per sempre, il riflesso di Vincent lo storpio.

foto di Pexels da Pixabay




CHICCHI DI CAFFÈ di Meri Borriello

CHICCHI DI CAFFÈ

di Meri Borriello

tratto da Voci Nuove 6

ed. Rapsodia

a cura di Daniele Falcioni

 

Dalla sua finestra poteva vedere due alberelli. Non avevano nulla di speciale, ma erano speciali per lei. Erano anche un po’ miseri, a dire la verità, eppure lei li trovava belli, e li osservava sorridendo tutte le mattine mentre beveva il suo caffè. Ogni tanto li potavano, e questo un po’ la rattristava. Lei immaginava che le radici dei due alberelli fossero intrecciate. Le radici se ne fregavano di chi aveva tanta premura di separarli: aveva letto questa cosa delle radici intrecciate da qualche parte, e da allora l’immagine che quelle parole avevano evocato non l’aveva più abbandonata.

Beveva il suo caffè ogni mattina verso le otto, prima di andare al lavoro, e pensava al suo amico. Erano distanti: tentava di convincersi che lui avesse trovato un’entrata segreta, come quando giocavano a fare gli esploratori, che avesse trovato la porta d’accesso per un mondo pieno di gelato e caffè. Entrambi adoravano il caffè: toglieva quel brutto senso di nausea che saliva su, che invadeva le bocche dopo che l’infermiera aveva inserito l’ago nelle loro vene: piccoli sorsi di caffè freddo rinfrescavano le labbra mentre aspettavano pazientemente che quella tortura avesse fine. Si erano conosciuti così, in una stanzetta asettica, mentre li bucherellavano, ed erano diventati subito amici. Bevevano caffè e mangiavano gelato sciolto: erano le uniche cose che riuscivano a mandar giù in quei momenti. Non avevano la forza di parlare, cercavano di comunicare mentalmente da un lettino all’altro: ridipingevano le pareti di quelle grigie stanzette. Contemplavano la piantagione di caffè che dipingevano indossando cappelli di paglia: proteggevano i loro lunghi capelli, il volto rosso per il troppo sole, i piedi nudi e sporchi di terra.

Per arrivare a quella piantagione dovevano fare un lungo viaggio: erano pirati clandestini imbarcati su navi senza bandiera, sconfiggevano loschi figuri che tentavano di gettarli in mare, che impedivano loro di raggiungere la meta. Quando, invece, non riuscivano ad avere la meglio, nuotavano nelle profondità del mare alla ricerca di tesori nascosti nei fondali. Qualche tesoro li riportava a galla ed erano pronti a salire su un’altra nave, che li avrebbe condotti in una terra sconosciuta che li avrebbe accolti e gli avrebbe permesso di realizzare il loro sogno. Si raccontavano i frammenti di quei sogni qualche ora dopo che l’ago dal braccio era stato tolto ed erano liberi di tornare ad essere umani. A volte ci voleva più di qualche ora per tornare umani, ci volevano giorni interi per recuperare le forze, ma i sogni non si interrompevano mai. Frenavano l’invadenza delle gocce che lentamente penetravano nei loro corpi bevendo caffè per placare la nausea, immergendosi nei potenti chicchi.

Anche quella mattina, Marta sorseggiava caffè ed osservava i due alberelli. Aveva smesso di piovere da poco. D’un tratto chiuse gli occhi, si immerse nel silenzio e vide le radici intrecciate, sentì l’odore della terra mischiato all’aroma di caffè, e la sua mente prese a rincorrere i ricordi. Il suo amico le stringeva forte la mano, aveva il respiro affannato. Avevano corso quasi per tutto il pomeriggio in mezzo alla terra rossa dietro la casa di Maurizio. Andavano spesso a giocare lì la domenica pomeriggio. Non era stato costruito nulla su quel piccolo pezzo di terreno. Correvano avanti e indietro col sole di inizio autunno che li scaldava e creava, solo per loro, frammenti di luci che si incastravano tra le foglie. Registravano tutto con gli occhi mentre correvano, finiva tutto in uno scrigno segreto. Cantavano una canzone, quando si fermavano per riposarsi un pochino; la trovavano un po’ sciocca, ma in fondo credevano al primo verso quando lo intonavano: “Nella notte delle favole / esprimi un desiderio pure tu”.1
Avevano entrambi compiuto dieci anni, passavano tutto il tempo che potevano giocando, inventando storie: stavano bene insieme. Lui era un portento, lei lo guardava ammirata: sentiva le sue labbra aprirsi in un sorriso ogni volta che, osservandolo di nascosto, sapeva di averlo sorpreso a pensare a un nuovo progetto, a un nuovo sogno da realizzare. Sopportava tutto quello che lei non riusciva atollerare, aveva un senso innato dell’umorismo. E, se proprio non si riusciva a ridere in certi momenti, almeno si poteva tentare di sorridere.

Niente sentimentalismi con Maurizio. “La notte è giovane e la vita breve” diceva sempre quando cercavano di farlo andare a dormire distogliendolo dai suoi giochi. E lo sapevano tutti e due quanto fosse vero, ma lui forse lo sapeva di più.
Il sole li stava salutando: dovevano rientrare. Il programma della serata era guardare un film dell’orrore. Lui voleva assolutamente vedere un film con un pagliaccio che dicevano essere spaventoso. Ne parlavano da qualche settimana. Entrarono in casa e se ne fregarono di darsi una pulita, piaceva a entrambi sentire la terra ancora addosso, sui jeans, sulle scarpe. Accendendo la luce, lui le disse: “Dai, lavati almeno le mani e prepara il popcorn”.
“Okay” rispose lei, e continuò: “C’è anche il gelato, lo facciamo sciogliere e ci mettiamo il popcorn dentro?”
Lui non rispose, stava armeggiando con il televisore e il lettore dvd; lei si fermò a guardare l’ingrandimento di una foto appesa al muro: era stata scattata a carnevale l’anno prima. Lui era vestito e truccato come Brandon Lee nel film Il Corvo.

“Sei proprio bello in questa foto” disse mentre andava in bagno. Lui, alzando un po’ la voce per farsi sentire, rispose: “Guarda che io sono sempre bello”. Lei rise mentre si insaponava le mani. Quando rientrò nel salone, dopo aver messo in una padella l’olio e i chicchi di mais, lo trovò intento a leggere degli appunti su un quadernino. Gli si avvicinò e chiese: “Che combini?”

“Contabilizzo i miei guadagni” rispose lui, e lei rise di nuovo perché sapeva del suo piccolo commercio di giocattoli. Ne aveva tanti e non sapeva che farci, così aveva pensato di venderli, improvvisando un mercatino delle pulci sul vialetto di casa.

“Dovresti darti da fare anche tu. So che non hai giocattoli da vendere, ma potresti provare a piazzare quella roba da femmina che sta ammucchiata nella tua camera. Di questo passo, chissà quando potremo dare vita al nostro progetto” disse lui, la testa china su una calcolatrice. “Allora, lo guardiamo questo film?” chiese poi, chiudendo il quadernino. Lei si era risentita un pochino. Esclamò: “Aspettiamo almeno che siano pronti i popcorn!”

Mentre lui borbottava, Marta tornò in cucina per vedere se avessero cominciato a scoppiettare. Stavano scoppiettando. Finì di prepararli, prese anche il gelato e lo mise in due bicchieri, poi portò tutto nel salone.
Maurizio si era sistemato sul divano e aveva poggiato sulle gambe una copertina di lana a quadretti. Guardò Marta e le disse: “Non te la devi prendere se ho sempre fretta”.

Lei gli sorrise, appoggiò tutto su un vecchio tavolino che stava accanto al divano. Si sedette tirando un pochino la coperta per coprirsi le gambe. “Non me la prendo, tranquillo. Non fare il tirchio e dammi un altro po’ di coperta” disse. Dopo essersi sistemata meglio, riprese: “Stavo pensando di fare un salto al mercatino delle pulci vicino casa uno di questi giorni, per vedere di piazzare, come dici tu, le miecianfrusaglie”. Lui annuì, poi fecero silenzio e si concentrarono sul film. Fotogramma dopo fotogramma il film scorreva via. Non avevano paura, non avevano nemmeno voglia di giocare a far finta di aver paura. Peccato non ci fossero altri bambini, pensò lei stiracchiandosi: lo spasso più grande sarebbe stato vederli terrorizzati. Lui, quasi leggendola nel pensiero, spense il televisore e disse: “Mi sto annoiando. Prepariamo del caffè, poi ti insegno a giocare a dama. Mia madre ha comprato una nuova miscela, devi assaggiarla. Forse dovremmo fare un’indagine di mercato per capire cosa manca, quale potrebbe essere l’ingrediente che possa rendere speciale il nostro caffè. Voglio creare una miscela tutta nostra, non so, mi piacerebbe qualcosa che avesse anche un gusto alla vaniglia, oppurealla liquirizia”.

Lei lo ascoltava mentre prendeva la scacchiera che era sotto il mobiletto della tv, poi, rimuginando su quello che aveva detto a proposito di creare una miscela originale, andò in cucina e mise su il caffè. Lui stava finendo di sistemare le pedine sulla scacchiera. Aveva provato a insegnarle a giocare qualche anno prima, quando entrambi, nello stesso periodo, avevano avuto la varicella. Ma forse a causa della febbre, del prurito costante e del talco mentolato sparso dappertutto, lei non era riuscita a concentrarsi, e quindi non aveva imparato quel gioco.

“Te la ricordi la regola numero uno?” le chiese serio Maurizio quando lei fece ritorno dalla cucina. Marta lo guardò confusa, lui continuò: “Non si soffia”. Pazientemente le rispiegò le regole del gioco e lei stavolta sembrò capire. Cominciarono una partita. A un certo punto, lui disse: “Hanno visto di nuovo una macchia. Stavolta è vicina all’intestino. Che dici, dovrei preoccuparmi?”

Lei rimase immobile con la pedina tra le mani, non aveva idea di dove piazzarla. Sapeva cosa significava quella macchia, sapeva anche che non avrebbe potuto raccontargli balle. Così disse l’unica cosa che non potesse tradirla: “Direi di aspettare prima di fasciarci la testa”. Provando a sorridere, continuò: “Anche se ci donassero le fasciature e i turbanti”.

Marta non riusciva a concentrarsi. Disse: “Vado a vedere se è pronto il caffè. Tra un po’ i miei vengono a prendermi. Beviamoci il caffè in santa pace, concentriamoci sul sapore, sull’aroma, altrimenti non riusciremo mai a realizzare il nostro sogno”. Andò in cucina e, come un automa, versò il caffè e lo zuccherò, poi tornò nel salone e passò la tazzina a Maurizio.

Chiusero gli occhi.
I genitori di Marta arrivarono puntuali e la loro serata si concluse. Lei si rigirò tutta la notte nel letto, non riuscì a chiudere occhio: pensava ai loro progetti, al latte freddo che macchiava il loro caffè e i loro sogni.

Passò un po’ di tempo prima che si rivedessero: lui aveva avuto da fare, lo immaginava con i suoi genitori andare da un ospedale all’altro in cerca di nuove risposte. Lei, tra la scuola e tutto il resto, non aveva avuto molto tempo, ma pensava sempre a lui, sperava che si fossero sbagliati, che sarebbe saltato fuori un modo per risolvere il problema, come era già accaduto altre volte. Aveva cercato di non pensare al peggio concentrandosi sul loro progetto: non solo aveva comprato tutte le miscele di caffè che aveva trovato al supermercato, ma prendeva continuamente appunti sul sapore, il colore e la tostatura di ogni miscela che assaggiava.

Arrivò il 15 novembre. I genitori di Maurizio avevano organizzato una festa per il suo compleanno: palloncini colorati, decorazioni per i suoi undici anni, ogni tipo di dolcetto.

Maurizio aveva versato in certe caraffe colorate il caffè, in alcune aveva aggiunto un po’ di gelato alla vaniglia, in altre galleggiavano pezzetti di liquirizia. Pochi giorni prima erano arrivati anche i risultati delle analisi: quella macchia non si poteva far sparire in alcun modo. Tutti lo sapevano, ma lui voleva festeggiare lo stesso, e Marta era d’accordo con lui.

Arrivò il momento di tagliare la torta. Lui si fece scattare una foto col suo cappellino da baseball degli Yankees, le dita in segno di vittoria. Spense le candeline con un sorriso che illuminò tutta la stanza. Il suo papà, la sua mamma, le sue sorelline erano accanto a lui. La sua mamma sembrava aver disegnata sul viso un’eterna preghiera mentre lo guardava, mentre lo stringeva con dolcezza per la foto con la torta. Le sue sorelline si tenevano per mano, aspettavano il loro turno per la foto. Quando anche gli ultimi invitati se ne stavano andando, lo salutò anche Marta e la sua famiglia.

La festa era finita.

Puntuale arrivò maggio con i suoi raggi delicati e i boccioli di rosa. Prima di andare a trovare Maurizio un pomeriggio, Marta e la sua mamma si erano fermate a prendere del gelato. Sulla copertina del quadernino che aveva nella borsa, lei aveva disegnato due chicchi di caffè. Il quadernino conteneva le annotazioni degli ultimi mesi, tutte le osservazioni, i commenti sulle miscele che aveva assaggiato e mescolato. C’era anche una colonnina con il riepilogo dei guadagni ottenuti vendendo le sue cianfrusaglie.

Quando entrarono in casa, lei si sentì mancare vedendo Maurizio sul divano. Si aggrappò al braccio di sua madre, ma lui le sorrise. Si sedette sul divano accanto a lui mentre aspettavano insieme che il gelato si ammorbidisse un po’. Prese un pezzetto della sua coperta, lui sorridendo le disse: “Mi sento molto meglio oggi”. Lei annuì fissando il pavimento, si fece coraggio e mormorò: “Ho portato il mio quadernino: rimarrai stupito nel vedere il lavoro che ho fatto in questi mesi”. Maurizio si girò verso il muro dall’altra parte della stanza e disse: “Magari me lo fai vedere più tardi, okay?”

Lei annuì, ma lui non poté vederla.
Stettero un po’ in silenzio. Lei girava il cucchiaino nel bicchiere pieno di gelato, poi, con voce stanca, Maurizio le domandò: “Ti va un caffè?”
“Sai che non so dire di no al caffè. Vado a prepararlo”.
Lui la fermò con un cenno e le disse: “Lascia, lo prepara mamma. Resta qui con me”. Poi, accarezzando distrattamente un lembo della coperta, le chiese: “Non ti sembra che alcune persone siano ridicole?”

“Io sono ridicola e la cosa mi piace molto!”
Lui la guardò in modo strano e lei capì che non avrebbe potuto usare alcun trucco: doveva fare silenzio. Stavano giocherellando con i loro cucchiaini quando la mamma di Maurizio portò il caffè. Aspettarono un pochino, poi chiusero gli occhi e strinsero le loro tazzine.

Lentamente, scegliendo parole conservate chissà dove, lui le disse quasi in un sussurro: “Prometti che non permetterai a nessuno di dire che siamo dei mostri”. Stringendo di più la tazzina, riprese: “Tutte le porcherie che ci hanno fatto prendere e tutto quello che ci hanno fatto non ci ha reso mostruosi. Siamo come due chicchi di caffè. Probabilmente io rimarrò un chicco verde, mai pronto per la tostatura, oppure sono stato tostato troppo, non lo so. Non siamo mostri. Siamo solo due chicchi di caffè usciti fuori da una piantagione strana”. La guardò mentre lei continuava a stringere la sua tazzina, poi riprese: “Promettimi che non coprirai le tue cicatrici. Ci sono anche io tra quelle linee. Fammi questo regalo: coltiva la nostra piantagione tra quelle linee, inventa nuove storie che si intreccino con la mia. Non dimenticare quello che abbiamo sognato insieme, non dimenticare i nostri viaggi, le nostre avventure”.

Lei voleva piangere, ma sapeva che lui l’avrebbe detestata se lo avesse fatto. Deglutì e disse: “Lo farò. Te lo prometto”. Posò la tazzina sul tavolino e gli sussurrò: “Ti voglio bene”.
“Non sei male per essere una femmina” disse lui, e le strinse forte la mano.

 

1 Libera citazione da La notte delle favole, canzone di Tania Tedesco (Festival di Sanremo 1988).

 




ADAGIO di Silvia De Felice

Adagio

di Silvia De Felice

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

Rapsodia Edizioni

 

Catastrofe può essere un virus, un terremoto, una guerra, ma può essere anche un amore finito male, un sogno infranto, una malattia o la morte; la catastrofe, qualunque ne sia la natura, cambia la nostra vita e la stravolge per sempre.

 

Mentre l’Adagio suonato dalla London Philarmonic Orchestra riempiva morbido la stanza illuminata dal sole, Elizabeth posò la tazza di tè sul tavolino, appena in tempo perché non cadesse. Da diverse settimane, ormai, le mani le tremavano tanto da non riuscire quasi a controllarsi, fece piano, non voleva turbare i sonni tranquilli di Mila. La gatta le riscaldava le gambe e l’anima, mentre lei osservava per l’ennesima volta quei campi verdi e sconfinati, quei cespugli di rododendro dove da bambina tante e tante volte si era nascosta con Arthur e John. Era abituata a stare da sola; in un’epoca in cui le massime aspirazioni di una donna erano il matrimonio, una famiglia numerosa e un marito, lei al contrario gestiva la sua vita senza dipendere da nessuno. Era sempre stata di corporatura robusta, ma era ben proporzionata, e aveva un viso molto femminile, incorniciato da folti capelli color del rame. La debolezza che provava ormai da tempo le aveva tolto quel sorriso con cui ammaliava le persone. La malattia negli ultimi mesi la stava logorando e presto, anche solo per nutrirsi, avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di qualcuno, e questo lei non lo avrebbe mai accettato né permesso.

“Cara, vecchia amica mia” disse, rivolgendosi alla gatta, “quando ero giovane pensavo che avrei girato il mondo, e invece sono rimasta qui. Credevo nel grande amore, e quando arrivò Marc ero sicura che fosse lui, quel grande amore. Erano svanite tutte le mie manie di indipendenza, pensavo solo a lui, vivevo nell’attesa del suo ritorno, pendevo dalle sue labbra. Stenti a crederlo, vero? Eppure è così: ero capace di costruire una staccionata, dipingere la facciata di casa, smuovere pietre enormi per creare aiuole di fiori. Invece con lui perdevo le forze, ero una stupida donnetta innamorata. Sapessi, cara la mia gattona, sapessi di cosa la tua padrona è stata capace, tanto tempo fa…”

Finita la musica, Elizabeth era rimasta sulla sua vecchia bergère ormai logora ad aspettare il tramonto del sole, dopo di che si era sforzata di preparare la cena. Ormai non aveva più fame, mangiava per abitudine e per dare, con i pasti, un ritmo alle sue lunghe giornate. Quando iniziarono a cantare i grilli, fece il giro della casa per controllare che porte e finestre fossero chiuse, spense le luci e salì in camera da letto, confidando in un sonno senza incubi. La sua era, purtroppo, una speranza vana. Da parecchio un unico incubo disturbava il suo riposo notturno. La scena era sempre la stessa: si trovava al buio, sulle scale che portavano giù in cantina, lei scendeva, gradino dopo gradino, e tremava sempre di più, il flebile rumore che le pareva di sentire aumentava fino a diventare un rantolo. Quando poi arrivava in fondo, e faceva per aprire la porta e accendere la luce, qualcosa o qualcuno le si avventava addosso e all’improvviso si svegliava, madida di sudore.

La mattina dopo, Elizabeth venne svegliata dalla gatta che voleva uscire, quasi non riusciva a ricordare cosa avesse fatto la sera precedente, cosa avesse mangiato per cena e a che ora si fosse messa a letto. Sorrise laconicamente al pensiero che anche la sua memoria, sinora fin troppo pronta, stesse perdendo colpi. Con grande sforzo si mise seduta sulla sponda del letto, fece tre grossi respiri e si alzò in piedi. Il risveglio era il momento peggiore della giornata, il suo corpo provato si rifiutava di obbedirle e i dolori erano tanti. Con il passare dei minuti i suoi muscoli si scaldavano e le fitte causate dai movimenti divenivano più sopportabili. Scese la scala che portava al pianterreno tenendosi aggrappata al corrimano, alla fine del quale era appoggiato il bastone che le permetteva di camminare.

Elizabeth entrò in cucina e aprì la portafinestra che dava sul giardino per far uscire Mila, la temperatura era gradevole e decise di servire la colazione in veranda. Una colazione speciale! Mise a scaldare l’acqua per il caffè e lentamente preparò la tavola: apparecchiò con la tovaglia bianca e le tazze in porcellana che le aveva lasciato sua madre, poi tirò fuori dal forno un dolce preparato con fatica il giorno prima e prese dal cassetto della madia le posate in peltro. Fiori non servivano: i cespugli di rose del suo giardino erano stracolmi di boccioli, avrebbero fatto da contorno anche senza reciderli, il loro profumo arrivava fino alla veranda. A breve sarebbero arrivati Arthur e John, ma lei aveva bisogno di riprendere fiato: quelle piccole attività le avevano tolto le forze. Quei due uomini per lei erano più che fratelli, eguali nell’affetto che le dimostravano sempre, ma così diversi nel corpo e nello spirito. Arthur era mingherlino, aveva lo sguardo curioso e la mente sempre alla ricerca del perché della vita. John, un omone dai pochi capelli, aveva un sorriso tenero e lo spirito di chi sa che la vita non finisce con la morte.

Elizabeth si appoggiò dolorante sul dondolo lasciandosi andare ai ricordi. In pochi attimi ritornò a quando era poco più di una bambina, l’estate alle porte e le scuole appena finite. Stacey’s Lane era una stretta strada privata che portava alla grande casa dove viveva con sua madre; Arthur e John abitavano a poche centinaia di metri. La  mattina, appena si svegliava aveva un unico pensiero:  vestirsi, mangiare un paio di biscotti e uscire a giocare con i suoi compagni di avventure. S’incontravano quasi tutti i giorni, a volte portavano qualche panino e rimanevano fuori fino al tramonto, con buona pace delle loro mamme, che avevano smesso da tempo di sfinirsi per chiamarli, tranquille che, al più tardi per cena, li avrebbero rivisti.

Il rumore di una macchina la svegliò da quel leggero dormiveglia a cui si era abbandonata. I suoi uomini erano arrivati, non voleva farsi trovare semisdraiata sul dondolo. Si sbrigò ad alzarsi non facendo troppo caso alle fitte che avvertiva, si sistemò i capelli d’argento e andò loro incontro sorridendo.

“Che belli che siete!” disse felice mentre li abbracciava.

“Elizabeth, mia cara, come stai?” le chiese John.

“Bella sei tu, come sempre!” fece Arthur, tendendendole la mano.

Entrarono e si diressero sulla veranda che dava sul giardino dietro casa. I due uomini avevano la sua stessa età, ma sembravano più giovani, il fardello che portavano nel cuore era meno pesante di quello di Elizabeth, e non aveva tra l’altro minato il loro fisico. Si sedettero intorno al tavolo apparecchiato ed Elizabeth servì loro il caffè.

“Devo ammettere che mentre vi aspettavo mi sono quasi appisolata sul dondolo” disse loro, ridendo, e aggiunse: “Ho sognato quando ci siamo ritrovati qui il giorno in cui siete ritornati a Wanborough, e tutti i segreti che mi avete rivelato”.

“Mi sembra ieri che la mattina appena alzati ce ne scappavamo a gambe levate da casa per avventurarci nei campi” proseguì John, mentre sbocconcellava il dolce. E aggiunse: “A te proprio non piacevano le bambole, preferivi le avventure e inventavi sempre viaggi fantastici!”

“Vero” si intromise Arthur, “partivamo con gli zainetti pieni di cibo, e le nostre mamme neanche si preoccupavano: sapevano che saremmo ritornati prima di buio. Sono stati anni bellissimi, peccato essere diventati grandi”.

“John, ricordi quanto rimasi stupita quando a Oxford decidesti di dedicare la tua vita a Dio e poi tornare proprio qui, a Wanborough, per essere la nostra guida spirituale?” domandò Elizabeth, e aggiunse: “Quando vidi che portavi quella catena con il crocefisso, rimasi senza parole. Proprio non me lo aspettavo”.

“Già” ammise l’amico sorridendo, “avevi una faccia!”

“E quando vi raccontai che avevo una storia d’amore con un uomo?” proseguì Arthur, “Ve lo ricordate? Calò un silenzio di tomba, ebbi paura che non mi avreste più voluto bene, e invece siete stati splendidi, volevate addirittura conoscerlo, che lo portassi qui a Wanborough. Figuriamoci! Ci avrebbero banditi tutti quanti, se non addirittura lapidati”.

I tre si guardarono sorridendo. La primavera inoltrata, il verde dei campi seminati, i fiori e il canto degli uccelli fecero da sottofondo per qualche minuto alla colazione e ai loro pensieri.

I due uomini aspettavano pazienti, la loro amica aveva qualcosa da dire, ma non volevano forzarla. Sapevano che era qualcosa di importante.

“Che ne dite se facciamo una passeggiata?” propose Elizabeth.

“Te la senti?” le chiese John.

“Sì” rispose la donna, e aggiunse: “Con voi al mio fianco, posso affrontare tutto”.

Arthur le prese uno scialle e s’incamminarono lenti verso i campi dove erano stati centinaia di volte da bambini. Lui aveva scoperto lì la sua passione per la medicina. Osservava curioso tutti gli insetti e i piccoli animali, se ne trovava di morti li apriva con il suo coltellino e cercava di scoprire il segreto della vita.

I tre camminavano piano, lei faceva un po’ fatica, le fitte le toglievano il fiato. Ma sopportava in silenzio, voleva godersi quei momenti. I suoi due cavalieri chiacchieravano, erano molto conosciuti e stimati nel villaggio; un medico e un sacerdote, in tanti si rivolgevano a loro per curare malattie del corpo e dello spirito. Anche Elizabeth non era da meno: negli anni di prosperità che erano seguiti al secondo dopoguerra, lei era stata una delle prime insegnanti di quel piccolo borgo, che pian piano era diventato un paese; quanti ne aveva cresciuti di bambini! Molti, poi, se ne erano andati, ma tanti erano rimasti, e quando la incontravano non scordavano mai di ringraziarla per la pazienza con cui si era dedicata a loro.

Dopo un po’ di cammino arrivarono al grande albero che si trovava quasi alla fine della proprietà. Era incredibile come ancora fosse perfettamente visibile l’incisione a forma di cuore con all’interno due lettere: una E e una M.

Nonostante nessuno di loro avesse fatto il minimo accenno a quel cuore, Elizabeth ebbe un sussulto, John la strinse e Arthur la guardò con tenerezza. La donna sfiorò quelle lettere e i ricordi riaffiorarono.

“Il giorno che ho conosciuto Marc ho subito pensato che fosse l’uomo della mia vita, quando poi l’ho rivisto la seconda volta ne ero già perdutamente innamorata. Come ho potuto essere così cieca e sorda da non capire che mostro fosse? Qualunque storia mi propinava io gli credevo, e perdonavo, aspettavo, speravo” iniziò a ricordare la donna. “Mi ripeteva in continuazione che era il lavoro a tenerlo lontano da me, che presto avrebbe sistemato tutto e sarebbe rimasto. Ogni volta che ripartiva mi diceva che sarebbe stata l’ultima, dovevo solo avere pazienza, avremo presto costruito la nostra famiglia. Gli ho sempre creduto, fino a quel maledettissimo giorno in cui si rivelò per quello che effettivamente era: un maledetto bugiardo”.

Elizabeth con un filo di voce ricordò ai suoi amici della mattina in cui lei gli aveva aperto la porta di casa. Era felice, fremeva nel dirgli della bella novità: dopo diverse settimane di ritardo del ciclo, aveva scoperto di essere incinta. Era sicura che questo suo regalo avrebbe finalmente convinto Marc a fermarsi a Wanborough, lui l’amava e un figlio sarebbe stato il coronamento della loro storia d’amore.

“Credetemi, quando gli  comunicai la notizia, si trasformò: gli tremavano le mani, lo sguardo era diventato cupo e la voce roca. Un gelo mi avvolse all’improvviso, ebbi un capogiro mentre lui sbraitava, e persi i sensi”. Raccontava quei fatti come se i suoi due compagni di vita non sapessero già, come se non fossero a conoscenza della catastrofe che di colpo si era abbattuta su di lei. Mentre parlava, John le passava delicatamente le dita tra i capelli d’argento, e Arthur le teneva stretta la mano. Era una donna forte, lo era sempre stata, tranne quel giorno in cui le terribili parole pronunciate da quello che pensava essere l’amore della sua vita l’avevano abbattuta. Elizabeth aveva telefonato ai suoi due amici, che erano subito accorsi e l’avevano trovata seduta a terra, gli occhi pieni di lacrime, tra le gambe una pozza di sangue. Arthur l’aveva visitata e il responso l’aveva quasi annientata: non solo era stata abbandonata dall’ uomo che amava, ma aveva anche perso suo figlio. Elizabeth non voleva più vivere. I giorni successivi erano stati molto difficili, lei si rifiutava di mangiare e bere, voleva solo dormire. I due amici avevano cercato in tutti i modi di consolarla, le parlavano di come avrebbe trovato un altro uomo, migliore, che l’avrebbe amata veramente. Lei non li ascoltava, aveva lo sguardo perso nel vuoto e a volte nel sonno, sentivano che si disperava, mormorava scuse incomprensibili. Dopo giorni di digiuno, accudita da Arthur e John, Elizabeth aveva ripreso a nutrirsi e in poche settimane si era ristabilita. All’inizio dell’anno scolastico, Elizabeth era stata pronta a riprendere il lavoro. Dentro di lei, però, era rimasto qualcosa che l’avrebbe corrosa per sempre, un segreto che non aveva potuto rivelare a chi le aveva sempre voluto bene. L’insegnamento e le gratificazioni dei suoi studenti l’avevano aiutata a vivere, ma un male si era insinuato dentro di lei, subdolo, lento, inesorabile.

Gli anni a venire erano in qualche modo trascorsi: John spesso andava a Londra per incontrare i suoi superiori, voleva rinnovare la canonica e aveva bisogno di fondi. Arthur, invece, a Londra non era più tornato; soltanto in quella città avrebbe potuto continuare la sua storia d’amore, ma ciò lo avrebbe obbligato a lasciare Wanborough e anche Elizabeth. Non ne avrebbe mai avuto il coraggio, aveva quindi soffocato i suoi desideri fino, in parte, a dimenticare.

“Cosa avrei mai fatto senza di voi? Mi avete aiutata senza battere ciglio, mi avete protetto e dato da mangiare affinché non mi lasciassi morire, mi avete consentito di continuare a vivere”.

“Era il minimo che potessimo fare per te” disse John, e proseguì: “Se solo avessimo avuto il coraggio di dirti cosa sospettavamo di lui quando ce lo facesti conoscere, forse…”

“Dai, sediamoci un po’, sei stanca, riprendi fiato” disse Arthur, e l’aiutò a sedersi sul prato, poi ad appoggiarsi con la testa sulle sue gambe. La giornata era splendida, Elizabeth aveva bisogno di parlare, di liberarsi, e i suoi due amici erano gli unici che potevano capirla e rasserenarla.

I tre erano seduti sul prato sotto il grande albero quando iniziò a cadere una fine pioggerella primaverile.

“Andiamo a casa prima che diluvi” disse John.

“Sì, va bene” rispose Arthur. Si rivolse a Elizabeth dicendo: “Mia cara, su, alzati”.

La donna obbedì, ma quando era quasi in piedi una fitta lancinante la fece piegare in due; la prontezza dell’amico impedì che cadesse. Arthur guardò John, erano impalliditi entrambi. Sapevano molto bene della malattia, sapevano che le condizione di Elizabeth si sarebbero aggravate molto quasi all’improvviso, senza alcun preavviso; sapevano che da un momento all’altro la loro amica avrebbe perso forze e conoscenza, ma non erano ancora pronti a lasciarla andare. Il medico aveva interpellato decine di specialisti, scritto lettere, consultato testi di medicina sperimentale; le risposte avute non avevano lasciato spazio alla speranza. C’era, inoltre, un fatto molto importante che incideva sull’evolversi implacabile della malattia, era un fatto che loro non riuscivano in pieno a comprendere: Elizabeth era stanca di vivere e non lottava.

Dopo qualche minuto lei sembrò essersi ripresa, e con un sorriso disse: “Ragazzi, torniamo in veranda, altrimenti ci bagneremo. Io ora sto bene, datemi le vostre braccia per camminare meglio”.

Si diressero verso casa. Fecero appena in tempo ad arrivare che venne giù un forte sgrullone. Il temporale durò poco, e le gocce d’acqua sospese nell’aria, aiutate dai raggi del sole crearono uno splendido arcobaleno. Elizabeth si era accomodata sul dondolo, la gatta sonnecchiava e lei ammirava quei sette colori nel cielo. Arthur e John le sedevano vicino su due poltroncine in vimini un po’ consunte; aspettavano che lei parlasse. In cielo ora splendeva un bel sole, le rose profumavano e le foglie dei cespugli splendevano bagnate. A chi avesse osservato da fuori, quella scena sarebbe parsa quasi un quadro di Monet.

Dopo un po’ Elizabeth guardò amorevolmente i suoi due uomini e disse: “Lo so che non volete, lo so che non siete pronti, ma io lo voglio. Io sono pronta. Ho resistito e lo sapete, l’ho fatto per voi, perché mi volete tanto bene e non volevo farvi soffrire. Ma ora basta, sono stanca, sono ancora lucida, ma non so fino a quando potrò esserlo. Sono stata un peso per voi per gran parte della nostra vita, non voglio esserlo più. Prima, al grande albero, ho creduto fosse arrivato il momento, non riuscivo a respirare, la vista mi si era annebbiata e le gambe non reggevano più. Io, Elizabeth, la vostra Elizabeth, non diventerò un vegetale che anela un soffio di vita sulle vostre spalle. No, non lo diventerò!”

Arthur e John non riuscivono a proferire parola, la guardavano con gli occhi gonfi, deglutivano per non far uscire le lacrime. Elizabeth prese Mila sulle sue ginocchia. Accarezzandola maternamente, continuò: “Arthur, caro amico mio, hai portato quello che ti avevo chiesto?”

John ebbe un brivido, appoggiò con forza entrambe le mani sulle ginocchia per fermare il tremolio delle sue gambe. Il medico mormorò un sì debolissimo. Qualche settimana prima, quando ancora riusciva a camminare più a lungo, Elizabeth era andata allo studio di Arthur, aveva aspettato che i suoi pazienti fossero andati tutti via, ed era entrata. Cercando di apparire serena e ferma più che poteva, aveva chiesto al suo amico medico di aiutarla a morire. Lui aveva fatto finta di non capire, poi si era opposto, l’aveva implorata e supplicata, ma lei era stata irremovibile. Gli aveva chiesto qualcosa che potesse farla andare in un sonno profondo dal quale non si sarebbe più svegliata. Nel momento in cui gli aveva detto che si sarebbe rivolta a sconosciuti se lui non l’avesse aiutata, Arthur aveva ceduto. L’aveva riportata a casa ed era corso in canonica: non poteva portare quel peso da solo. Lui e John avevano fatto insieme tutte le ricerche per riuscire ad avere quanto richiesto dalla loro amica, e avevano trovato qualcosa che l’avrebbe addormentata tranquillamente come avrebbe fatto un qualsiasi normalissimo sedativo, ma lei non si sarebbe più svegliata.

Nelle settimane successive, Elizabeth sembrava quasi migliorata; andavano spesso a Stacey’s Lane e la trovavano sempre fuori in giardino: una volta che tagliava le rose appassite dai cespugli, un’altra che leggeva un libro sul dondolo con Mozart, Bach o Chopin in sottofondo, un’altra ancora che si azzardava a passeggiare quasi fino al grande albero. Lei li accoglieva sorridente, sembrava felice; Arthur e John non potevano sapere che le fitte erano sempre più frequenti, che le gambe di Elizabeth cedevano e le mancava il respiro. In loro presenza, Elizabeth era stata bravissima a fingere. Arthur e John non sapevano che nel suo passato era successo qualcosa che lei non aveva mai confidato a loro due. Un pomeriggio, però, li aveva chiamati al telefono e li aveva invitati a colazione per il giorno successivo. Alla fine della chiamata, aveva detto ad Arthur: “Porta con te ciò che ti ho chiesto”. Lui aveva tremato e capito. La mattina, quando era passato alla canonica per prendere John, non aveva avuto neanche la forza di salutarlo, lo aveva guardato sofferente e non c’era stato bisogno di parole.

“Elizabeth, cara, vuoi salire in camera da letto? Ti aiutiamo noi” disse John ad un certo punto, con un filo di voce.

“No, voglio rimanere qui in veranda, sul mio dondolo. Desidero che il mio ultimo sguardo prenda tutto insieme, una fotografia di ciò che più ho amato nella mia vita: voi due, i cespugli di rose e anche quelli in fondo di rododendro, Mila, i prati dove siamo stati tanto felici”. Poi proseguì: “Nel cassetto della scrivania troverete una lettera: ho lasciato a voi questa casa e la proprietà, vorrei che ne creaste un rifugio per giovani donne sole con un bambino da crescere, donne che come me si sono illuse o sono state ingannate dall’amore, ma al contrario di me hanno potuto far nascere la creatura che avevano in grembo”.

Fece poi un gran respiro e aggiunse: “Quando non ci sarò più, dovrete scendere in cantina, spostare quel vecchio divano marrone che era di mia madre e sollevare le assi del pavimento. Troverete un tappeto, arrotolato, ve ne dovrete liberare subito. Avvolti in quel tappeto ci sono i resti di colui che mi ha rovinato la vita”.

I due uomini balzarono in piedi. Erano senza parole. Gli occhi spalancati, non riuscivano a credere alle loro orecchie.

“Ma che dici, Elizabeth!” urlò Arthur. La gatta corse via, impaurita.

“Che tappeto? Di quali resti parli? Che cosa stai dicendo?” chiese John mentre stringeva in maniera convulsa il crocefisso che portava al collo.

“Sedetevi” disse lei, “vi porto un po’ d’acqua e vi racconto”.

I due uomini si guardarono, erano smarriti, poi la seguirono con lo sguardo e aspettarono che tornasse in veranda con dei bicchieri e una caraffa. Continuarono a fissarla, sbigottiti, senza proferire parola e portandosi l’acqua alla bocca in modo meccanico. Ad entrambi tremavano le mani. Elizabeth si sistemò sulla poltrona e iniziò a rivelare quanto aveva taciuto per anni e anni.

“Il giorno maledetto in cui rivelai a Marc di essere incinta, dopo aver ascoltato le sue accuse e sopportato tutta la sua ira, l’ho aggredito quando si era ormai girato per uscire per sempre da casa mia. Non mi ero neanche resa conto di aver preso in mano l’attizzatoio che era appoggiato al camino. Mentre era di spalle, l’ho colpito con tutta la forza che potevo. Non lo uccise il colpo in sé, ma il fatto che Marc, cadendo, aveva sbattuto la testa sul gradino. Passato un primo momento di disperazione, non so in che modo trovai la forza per avvolgerlo nel tappeto dell’ingresso e trascinarlo per le scale fino alla cantina. Qui c’erano delle assi del pavimento che avrei dovuto sistemare da anni, ma non lo avevo mai fatto. Questo mi tornò utile: le spostai, sotto c’era spazio a sufficienza per nascondere un cadavere. E così feci. Mi ricordai che avevo conservato dei sacchetti di calce avanzata da alcuni lavoretti svolti in precedenza. Misi un po’ di quella calce intorno, sopra e sotto al tappeto che avvolgeva il corpo. Lo sforzo era stato tale che, una volta tornata di sopra, ebbi delle fortissime fitte al ventre. Dopo pochi istanti sentii del liquido colarmi tra le gambe. Riuscii a telefonarvi prima di accasciarmi sul pavimento, proprio dove poi mi avete trovata”.

Arthur e John erano ancora senza fiato, si guardarono smarriti per qualche istante, poi le si avvicinarono e l’abbracciarono forte. Elizabeth si lasciò stringere per qualche istante, poi si sciolse dal loro abbraccio, li guardò con affetto e disse: “Ora è giunto il momento. Aiutatemi ad andarmene”.

 

foto da Comfreak by Pizabay

 




LA STANZA DEI BOTTONI di Cristina Cortelletti

La stanza dei bottoni

di Cristina Cortelletti

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Marco contrasse il viso stanco allo stridio della serranda che finiva di avvolgersi nel cassonetto. Doveva lubrificare le guide di ferro, pensò, l’avrebbe fatto l’indomani. Erano le 19,30 e aveva promesso a Sara di cucinare le linguine al limone per cena.
Dalle vetrate in fondo al capannone si intravedeva in tutta la sua bellezza l’ultimo crepuscolo di settembre, e Marco si incantò a guardare le sfumature rosa. Penetravano la spessa coltre di polvere che ricopriva i vetri. Quel frammento di natura era una di quelle cose per cui valeva la pena trattenersi al lavoro fino a tardi.

Sulle pareti in penombra le crepe avanzavano inesorabili, rendendo la superficie una scorza avvizzita. Marco s’incupì constatando che le mura non mentivano, stava invecchiando anche lui. Il capannone, insieme alla portineria e alla torre quadrangolare, faceva parte di un vecchio polo industriale, costruito negli anni Sessanta. Un’unica grande costruzione comprendente tre edifici a schiera, con mura portanti comunicanti; all’interno del capannone c’erano quattro grandi pilastri sui quali poggiavano le capriate in cemento a sorreggere la copertura curva. Sulla parete destra erano posizionati i macchinari principali per la produzione, compresa la grande pressa che occupava un terzo del capannone e invadeva parzialmente il camminamento pedonale: bisognava avanzare a zig zag.

Marco avanzò a naso, l’odore dell’olio da taglio impregnava l’aria in corrispondenza della cesoia, sulla quale lampeggiava la piccola luce rossa che era tornato a spegnere. Notò sul pavimento le due chiazze nere che aveva dimenticato di pulire. Le schivò, sperando che dopo la riparazione che lo aveva impegnato tutta la giornata, il macchinario non perdesse più olio. Gli borbottò lo stomaco e si ricordò delle linguine che aveva programmato di cucinare per cena. Avrebbe fatto una sorpresa a Sara.

Marco accelerò il passo, girò la manopola, il led si spense e nel capannone tutto assunse un aspetto dormiente. In quel momento sentì l’ululato sommesso della colonna sonora de Il Buono, il Brutto, il Cattivo, abbassò lo sguardo verso la parete in fondo al capannone e vide lo spiraglio di luce che filtrava dalla piccola fessura vicino al pavimento. La stessa feritoia dalla quale proveniva la musica.

“Ciao Tuco” gridò Marco tendendo inutilmente l’orecchio, difatti non ebbe risposta. Marco guardò l’orologio, non aveva molto tempo, ma decise comunque di passare in portineria a salutare Tuco. Aveva soprannominato Tuco uomo nuvola perché era impercettibile, sfuggente e soprattutto indecifrabile. Aveva avuto il posto di custode notturno, in quanto unico candidato con un requisito fondamentale: non dormire mai. Di lui si diceva che era stato membro dell’Agenzia, designato all’effrazione di siti potenzialmente pericolosi e poi congedato per disturbi mentali. Dopodiché era scomparso.

Marco costruiva serrature di sicurezza antiscasso e Tuco rappresentava l’antagonista per eccellenza; fu così che tra i due iniziò una fortissima competizione. Marco s’era imposto di costruire delle serrature che resistessero all’abilità manuale di Tuco. Di giorno le realizzava e la sera le lasciava in portineria. Tuco le testava e poi la mattina, prima di andare via, le metteva in un sacchetto che appendeva al portone del capannone. I primi tempi Marco trovava nel sacchetto tutte le serrature divelte, e impegnò tutto il suo ingegno per costruire ingranaggi sempre più sofisticati e combinazioni cifrate che le rendessero inattaccabili. Fino a quando una mattina trovò nel sacchetto tutte le serrature intatte, guadagnandosi l’apprezzamento di quell’introverso e nebuloso custode. Sorrise, ripensandoci.

Da qualche mese aveva iniziato a lavorare sull’idea di Tuco, e non aveva più orari. Sara condivideva lo stesso entusiasmo, ma ultimamente si lamentava dell’ossessione che lui rasentava per quel progetto. Un’idea ardita per lei, ma non per Marco, che s’era messo alla prova per vincere la sfida più difficile di tutte: quella con se stesso.

S’incamminò senza esitare verso la porticina di servizio sul retro del capannone, superò il tavolo da lavoro, scantonò la pila di pallets che, come tutto, intorno alle pareti si ergeva fino al soffitto a volta. Si fermò subito dopo la pressa.
“Tuco!” disse, provando a girare la maniglia della porticina.

“Cosa vuoi?”
“Finire il lavoro” rispose, pentendosi immediatamente.
Sara stavolta non l’avrebbe perdonato. Il tono della musica si affievolì. Qualcosa nella porta scattò diverse volte, il battente girò cigolando sui cardini e si aprì. Lo investì un’aria satura di canfora e dell’inconfondibile odore dei fagioli al sugo in barattolo della Star. Marco detestava i cibi in scatola, rabbrividì.
“Credevo non venissi stasera” disse Tuco.
“Voglio finire il lavoro prima che arrivino gli ospiti” rispose Marco.
Tuco gli fece cenno di stare zitto.
“Gli uomini si dividono in due categorie, quelli con la pistola carica e quelli che scavano; tu scava!” riecheggiò la voce di Clint Eastwood.
Illuminato dalla luce calda della lampadina, Tuco sembrava più smilzo e più vecchio, teneva la testa sprofondata fra le spalle e lo sguardo incollato alla TV. Tra la barba rada e incolta facevano capolino delle piccole briciole, e tutto intorno c’erano mosche e tafani. Un duello tra desolazione e solitudine.
“Non hai una bella cera” disse Marco.
“Sono appena uscito dall’ospedale”.
“Ho sentito dire che ti hanno tolto un pezzo di fegato”.
“No… è andata bene”.

L’aveva scampata per un pelo. Gli spari rimbombarono, il Biondo aveva reciso con una pallottola la corda al collo del Cattivo, che saltava sul cavallo e scappava.
Tuco vedeva tutte le sere lo stesso film. Spinse verso Marco una scatola di legno piena di sigarette.

“Prendi” disse.
“No” rispose Marco, facendo un cenno con la mano. Aggiunse: “Ora no”.
Tuco si sedette davanti al contenitore di latta pieno zeppo di fagioli al sugo, senza distogliere lo sguardo dal televisore.
“È ora di cena” disse portandosi il cucchiaio alla bocca.

“Finiremo stasera?” chiese Marco.
Non ebbe risposta. Poteva farcela, pensò, picchiettando l’avampiede a terra; in fondo tutto era pronto, sarebbero bastati pochi minuti e avrebbe raggiunto Sara. La lentezza lo metteva a dura prova: sin da quando aveva imparato a camminare, a Marco piaceva correre. Per lui il tempo che passava infruttuoso era sprecato. Mentre aspettava che Tuco finisse, si guardò intorno. La portineria non aveva finestre e in tutte le pareti, grezze e aggredite da colature giallastre, si annidavano tante varietà di insetti, soprattutto falene. Restò sorpreso nel vedere che, mentre tutto ciò che riempiva la stanza era interamente ricoperto di polvere e briciole, il pavimento era pulito nonostante fosse usurato.
Cercò con gli occhi la fessura sul muro e poi puntò lo sguardo in basso sulla parete in fondo, dove c’era l’armadietto arrugginito, e la vide. La fessura era comunicante con il suo capannone in prossimità di quella che aveva definito la stanza dei bottoni, precisamente l’area tra la pressa e la troncatrice.
Tutte le sere da quella fessura filtrava la musica di Morricone che si diffondeva nel capannone, rimbalzava sulle pareti e si amplificava nella volta. Le note degli ottoni e dei violini si espandevano fino a riempire tutta l’aria. Tuco non poteva essere un burbero animale se la musica lo afferrava a tal punto, pensò.
“Ecco, prendi” disse Tuco versando il caffè nelle solite tazze.
“Buono come sempre” rispose Marco sorseggiandolo. “Dobbiamo sbrigarci” proseguì, “ci resta poco tempo”.
Tuco, con fare calmo, accese una sigaretta e soffiò il fumo, che salendo scomparve nell’oscurità; prese la lista sulla parete di fianco al televisore e fece cadere a terra la puntina con la quale era fissata. Marco si chinò per raccoglierla e vide una nuova fessura sul muro, identica all’altra. “Accidenti!” esclamò tirandosi su a fatica.
“Cosa ti preoccupa?” chiese Tuco.
“Inizio ad essere vecchio per queste cose, e non dormo da troppe ore”.
“Non lamentarti” disse Tuco, “non è tardi”.

Pigiò il tasto del VHS sul telecomando e sullo schermo comparvero numerosi lepidotteri che volavano al rallentatore. Entrambi osservarono lo schermo, si scambiarono un’occhiata e annuirono.
“Ti aspetto di là” disse Marco aprendo la porticina.

Rientrò nel capannone, le sfumature incupite del tramonto avevano ceduto al buio; attese che gli occhi si abituassero e si diresse verso la pressa, dopo pochi passi si trovò nella stanza dei bottoni. L’odore di muffa si era intensificato negli ultimi giorni. Sulla parete comunicante con la portineria erano fissati degli argani a manovella, ai quali erano collegati dei cavi di acciaio che si allungavano verso il soffitto e si incanalavano nelle piccole carrucole ancorate alle travi. Ogni cavo scendeva parallelamente alla parete e si fermava ad una altezza diversa dagli altri. Alcuni terminavano con una lamina di acciaio, altri con una molla fissata ad un piccolo moschettone. Marco scrutò il marchingegno tenendo in mano la pulsantiera del comando a motore e corrugò la fronte, qualcosa non gli tornava. Per un attimo si scoraggiò. Lo scosse il pensiero di quanto avesse lavorato per trasformare il marchingegno degli ingranaggi da un progetto teorico in realtà tangibile.

Si focalizzò nuovamente sulla parete, ripassò mentalmente lo schema del circuito raccomandandosi ad ogni singola vite, alla quale aveva affidato una grande responsabilità: non allentarsi. Aveva scongiurato il rischio di mandare in frantumi l’ingranaggio, ma gli ospiti erano furtivi e si mostravano in giro raramente; mentre di notte erano alacri lavoratori, di giorno era difficile capire cosa facessero: un sabotaggio non era da escludere.

Quando Tuco aveva iniziato il lavoro di guardiano notturno, gli ospiti erano già lì, e in tre mesi era riuscito a studiarne le abitudini, condividendo con loro il cibo, la musica e le notti. Poi un giorno propose l’azzardato progetto a Marco, che accettò senza pensarci. Da quel giorno ci si erano dedicati, impegnando tutte le loro conoscenze per riuscire a realizzare un’opera di straordinaria architettura.

Marco strofinò le mani umidicce sul gilet, le tempie rigonfie scandivano i battiti.
“Ora ho capito” esclamò Marco ad alta voce, tenendo d’occhio la parete.
Lasciò la pulsantiera, prese quattro tavolette di legno e fissò su ognuna un rocchetto di plastica che avvolse con del filo di rame; prese due piccoli magneti, li forò e li mise all’interno di ogni rocchetto, poi fece passare trasversalmente nei fori un tondino di ferro, che collegò con il mastice alle manovelle di tutti gli argani. Si asciugò la fronte con il dorso della mano. “Giusto in tempo” disse con le labbra socchiuse, e inspirò soddisfatto.
“Tuco!” gridò Marco.
Tuco guardò l’orologio, selezionò sulla TV il fermo immagine con decine di falene immobili che riempirono lo schermo e mise il telecomando in tasca. Gettò nel secchio il barattolo vuoto dei fagioli, prese una tazza, la riempì di acqua e canfora, e la posizionò sul pavimento davanti alla fessura che stava sulla parete in fondo alla stanza. Si diresse verso la porticina, si voltò per accertarsi che tutto fosse a posto ed entrò nel capannone.

La lucetta calda della portineria che filtrava dalla fessura nel capannone si rifletteva sulla lamiera argentata della pressa, diffondendo un fioco bagliore nella stanza dei bottoni. In quel luogo tutto prendeva forma e vita. Le due pareti laterali erano tappezzate di disegni e bozzetti di miniature, oggetti che Marco aveva realizzato artigianalmente, pezzi unici nei quali aveva infuso la sua passione. Aveva sperimentato un’infinità di materiali per creare, e alcuni avevano dato risultati davvero magici. Tutt’intorno giravano ricordi. Ogni progetto generava in Marco un’energia incredibile che trasferiva negli oggetti costruiti, rendendoli testimoni di se stesso, in grado così di trasferire l’eredità della sua storia al futuro, certo che Sara avrebbe fatto tutto il possibile affinché ciò accadesse.

Tuco aveva già visto quei disegni, ma rimase ancora una volta affascinato. Ad un tratto sentirono i misteriosi rumori muoversi nella parete dove era stato costruito il marchingegno. Era arrivato il momento, Tuco si avvicinò e scrutò l’ingranaggio che risaltava sulla decadente parete scura. “Avevo utilizzato dei motorini elettrici” specificò Marco. “Che stupido… ora dovrebbe essere perfetto”.

“Sono delle piccole dinamo” osservò Tuco, facendo una smorfia di apprezzamento.
“Sì. Meno rumore faremo e più alte saranno la probabilità di successo” rispose Marco. Ripassò mentalmente tutte le funzioni, diede un’ultima lubrificata alle ruote delle carrucole e si accertò che i cavi fossero ben saldi.
Si posizionarono entrambi a circa due metri dalla parete. Un fremito scosse Marco, come se fosse parte del circuito.
“Vai, accendi”.
Tuco, impassibile, abbassò la levetta dell’interruttore e una cascata di luce proveniente da centinaia di micro lampadine alogene si diffuse sulla parete. Marco regolò l’intensità con il varialuce mentre Tuco, accanto alla pressa, si era preparato a girare due manovelle. Marco afferrò le altre due e iniziarono a girarle.

I cavi in tensione stridettero e, piano piano, si avvolsero alle bobine manovrate dagli argani; alcuni cavi tirarono su le lastre in acciaio fissate alle loro estremità, scoprendo così le numerosissime crepe sul muro. I cavi con i moschettoni sollevarono una specie di sipario in pvc trasparente che, una volta steso, rivestì l’intera parete come una pellicola di cellophane. L’idea della pellicola era venuta a Sara, che nella vita faceva la scenografa. L’utilizzo di questo materiale si era rivelato un ottimo compromesso. Il pvc stabilizzato, oltre ad essere malleabile e quindi facilmente arrotolabile, era molto resistente e, soprattutto, trasparente. Avevano creato un sistema per sovrapporre una finta parete sulla parete esistente.
Le travi del soffitto scricchiolarono, Marco e Tuco smisero di girare le manovelle e tutto il marchingegno si fermò. Restarono fissi a guardare in silenzio. Le crepe si intersecavano e formavano una fitta rete di gallerie comunicanti, un labirinto scavato nel muro; cunicoli contorti che sbucavano in altri cunicoli, una specie di sistema circolatorio interno alla parete.

“Eccole” sussurrò Tuco.
Finalmente le videro. Migliaia di falene brulicavano velocemente in ogni direzione, correvano nei caotici tragitti; attratte dalla luce alogena si mostravano a loro, contenute dalla pellicola che ne evitava la dispersione e le manteneva nelle loro caverne. Le falene entravano e uscivano, andavano e venivano, salivano e scendevano nel groviglio inestricabile multiviario.

“Guarda” disse Tuco, “sapevo che ne sarebbe valsa la pena”. E pensò che così doveva essere il giardino magico di Armida, ma senza piante: tanti involuti percorsi, per nascondersi e riprodursi. Nelle fenditure più in alto, sostavano immobili le mosche delle mansarde, forse migliaia, pronte a ibernarsi per tutto l’inverno. Erano vuote, invece, le crepe e le tane più in basso, quelle alla base della parete, comprese le due fessure comunicanti con la portineria.

Marco non era esperto di insetti, ma era impossibile distogliere lo sguardo dal lavoro di quei rispettabili ingegneri alati. Se potessero parlare, pensò, svelerebbero come possa esserci un’ordine in tanto caos. Avrebbe voluto che Sara fosse lì.
Decisero tacitamente di passare alla fase successiva, e spensero le lucette alogene. Attesero pochi secondi per abituarsi alla penombra della stanza dei bottoni, poi si concentrarono per intercettare qualsiasi movimento sulla parete, ancora rivestita con la pellicola trasparente. Marco distolse lo sguardo per arrotolarsi le maniche della maglietta; lo fece lentamente e senza fare rumore. Il sudore colava come se lo stessero strizzando. Si voltò a guardare Tuco, che era completamente preso dal tentativo di focalizzare gli insetti.

Perlustrarono la parete centimetro per centimetro, crepa per crepa, tutto il labirinto di gallerie ora pareva disabitato. Tutto sulla parete era immobile. Si avvicinarono ancora di più con movimenti sincroni, come se si fossero messi d’accordo.
“Gli insetti non possono essersi dissolti” disse Marco.

Dalle fessure in basso a terra filtrava la luce della portineria.
“Ecco, ora è perfetto” disse Tuco.
“Che succede?” chiese Marco.
Tuco si girò di scatto e si avviò a passo svelto verso la porticina, urtò la troncatrice e dalla tasca gli cadde il telecomando della TV. Improvvisamente la musica di Morricone si diffuse ovunque. Marco restò immobile a fissare la porticina.

“Tuco!” gridò, ma non ebbe risposta.
Bloccò i quattro cavi in prossimità delle manovelle, cercando nel buio un fermo appropriato per tenere ben saldo il telo che rivestiva l’intera parete.
“Accidenti, non vedo niente!” esclamò. “Ci si mette pure la musica…”

Nella confusione non riusciva a pensare. Si guardò intorno, afferrò un puntale e bloccò il tiro. S’incamminò verso la portineria, ormai conosceva a menadito ogni centimetro del capannone, e aprì la porticina.
“Shhh”sussurrò Tuco alzando le braccia sopra la testa, “vieni a vedere”.

Marco, piantato sulla soglia, sgranò gli occhi: tutta la stanza era piena zeppa di insetti, migliaia di falene volavano unite in un vortice. Una fioca luce intermittente tagliava il buio della stanza. Tanti lampi di luce biancastra venivano continuamente spezzati dagli insetti, che si inseguivano in un girotondo forsennato. Tuco aveva stampato sul viso un ghigno, pareva nutrirsi di soddisfazione da ogni poro.

“Diamine, che succede?” gridò Marco.
“Shhh” ripetè Tuco. “Tutto è come previsto” disse accennando appena il labiale.
“Dove ho sbagliato?” insistette Marco scuotendo la testa.
“È una straordinaria evasione di massa” gridò Tuco più forte della musica.
Le falene giravano sulle note in una veloce spirale, abbagliate dalla luce artificiale, insieme alle mosche e ai tafani che compivano numerose giravolte. Tutti gli insetti danzavano in una combinazione perfetta di acrobazie. Un innocuo battito d’ali aveva sortito l’effetto sperato da Tuco, che aveva scovato il tesoro sepolto nella parete e finalmente adesso era lui a muovere i fili. “Vedi? Con un semplice inganno di luce li ho dirottati” disse Tuco, compiaciuto.
La soddisfazione eccessiva per aver portato a termine il progetto si era trasformata nell’arrogante ingordigia di accaparrarsi il merito e il bizzarro bottino. Marco non era superstizioso, ma in quel momento gli balenò il pensiero che quelle creature potessero essere veramente portatrici di sventure. Lo fissava confuso.
“Sbrighiamoci, usciamo da qui” disse Marco ad alta voce.
“Ancora non hai capito!” gridò Tuco. “Non vuoi proprio vedere?”
“Non ora. Presto, usciamo” ribatté Marco.
“Troppo, troppo tempo…” disse Tuco. “Non va bene fare le cose per troppo tempo”.
Non dormiva da un pezzo, perché aveva l’idea che se avesse chiuso gli occhi si sarebbe perso nelle tenebre. Dal primo giorno che era stato assunto e per tutte le 733 notti che seguirono aveva ascoltato il brulicare degli insetti, ininterrottamente dal tramonto all’alba. Aveva studiato le loro abitudini e vulnerabilità; non avendo altro a cui valesse la pena dedicare del tempo, si era intestardito sull’idea di stanare quelle creature della notte che tanto gli somiglivano. Non ci volle molto a convincere Marco che, stuzzicato dalla strana e bizzarra idea, si era messo subito all’opera. Così ogni sera che Marco era rimasto al lavoro, Tuco aveva rubato con gli occhi le tecniche e i metodi che l’altro adottava per costruire oggetti. Aveva imparato ad usare tutti gli attrezzi e gli utensili da lavoro e aveva memorizzato i prontuari, la tenuta e la resistenza di infiniti materiali. Che Marco fosse un abile e intraprendente artigiano, era un fatto che volgeva a suo vantaggio, un colpo di fortuna. Lo avrebbe utilizzato per sfogliare la parete e portare alla luce gli insetti.

“Vecchio pazzo. Forza, facciamole uscire!” gridò Marco, dimenando le braccia nell’aria fitta di falene.

Tuco era al centro della stanza, i capelli arruffati gli spiovevano sulla fronte e la sua faccia aveva assunto un’aria sinistra. Teneva i denti serrati e non batteva ciglio. Lui non era l’uomo con la pistola carica, come il cattivo del film. Lui aveva scavato per tutta la sua insulsa e monotona vita, e lo aveva fatto sempre nello stesso identico modo, senza il coraggio di impugnarla e premere il grilletto. Finalmente poteva essere un bastardo, come suo padre e il padre di suo padre. Improvvisamente andò verso di lui e lo fissò, erano uno di fronte all’altro, e in quel lasso di tempo sospeso Marco vide riflessa negli occhi di Tuco un’invocazione di sfida. Non riusciva a spiegarsi cosa stesse succedendo né perché, ma sostenne comunque lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore. Avrebbe potuto raccogliere la sfida, com’era nella sua natura, si sarebbe messo in gioco e ne sarebbe uscito vittorioso, ma non lo fece. Afferrò Tuco per un braccio e tentò di trascinarlo verso la porticina, ma lui con uno strattone si liberò dalla presa e si diresse a passo deciso verso la televisione. Interruppe la musica.

Improvvisamente dal soffitto si sentì uno stridio ferroso che si mescolò al fervido battito d’ali delle falene. Il tetto della portineria si aprì e i raggi lunari si diffusero nella stanza. Gli stessi raggi che prima erano intermittenti, ora erano continui. Le falene, attratte in una vorticosa danza, intrecciavano giochi di luce. Era meraviglioso, eppure un brivido lo attraversò. Tuco pigio il tasto ‘on’ sul telecomando e sulla parete iniziò a sollevarsi un telo trasparente.

“Mio Dio, è identico all’altro!” esclamò Marco. “Sì”.
“Perché l’hai fatto?”
“Per me”.

“Non capisco” disse Marco.
“Vai di là e accendi le lucette” disse Tuco, agitando una mano nell’aria.
Marco obbedì e andò nel capannone.
Tuco pigiò un altro tasto e il soffitto si chiuse; fu subito buio. In pochi secondi gli insetti rientrarono nelle caverne della parete, attratti dalla luce proveniente dalla stanza dei bottoni. Poi azionò nuovamente il sipario, che scese e rivestì la parete impedendo agli insetti di uscire. Si lasciò cadere a terra, esausto.
Marco rientrò, accese la luce e restò a bocca aperta nel vedere tutto il lavoro che Tuco aveva fatto: un macchinoso congegno. Nella testa gli frullavano tante domande. Lo vide seduto a terra, con la sua giacca impolverata e la testa china sulle ginocchia. Non aprì bocca e restò ad osservare la stanza. Tutto era stato costruito in modo che si potesse celare nel buio dell’alto soffitto e mimetizzare con la parete: un sipario nel sipario. Si appoggiò allo stipite e la mente

ricreò i tre mesi di lavoro, le immagini scorrevano silenziose in un involontario susseguirsi di istantanee; si sentì rinfrancato e accennò una mezza domanda: “Allora è per questo che…”, si interruppe abbassando lo sguardo. Non ora, pensò, non è il momento. “S’è fatto tardi. Devo andare” disse Marco, dirigendosi subito dopo verso la porta.

Tuco alzò la testa e i loro sguardi si incrociarono. Marco sorrise, annuì e uscì. A Tuco piacque la considerazione silenziosa di Marco, che sarebbe andato a casa e avrebbe raccontato a Sara dello straordinario successo del loro lavoro. Le avrebbe parlato per un po’ di quel vecchio pazzo, se lei avesse voluto ascolarlo. Ci avrebbe almeno provato, ma forse Sara non gli avrebbe creduto.




COSA HAI COMBINATO IN MIA ASSENZA? di Laura Avati

Cosa hai combinato in mia assenza?

di Laura Avati

tratto da Voci Nuove

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

“Non so se ho fatto bene ad accettare l’invito di Luca, non vorrei dargli false speranze, ma di certo non potevo perdere questa occasione” pensava Eleonora, come al solito in ritardo, camminando di fretta sui tacchi a spillo, che sui sampietrini la facevano sembrare ubriaca. Aveva impostato l’indirizzo sul cellulare per evitare di girare a vuoto. “Il civico è questo” pensò, ed entrò esitante in un piccolo locale desolato, a metà tra un negozio di cianfrusaglie cinesi e un kebab. “Lo sapevo, si è vendicato quello stronzo” disse a denti stretti Eleonora. Era disorientata, il forte odore di spezie le dava la nausea mentre un paio di indiani stavano friggendo delle verdure. Nel vederla suonarono un campanello.

Da quella che sembrava una cella frigorifera uscì un uomo talmente inamidato che le sembrò di avere di fronte Lloyd, il barista fantasma di Shining. “Posso aiutarla, signorina?” disse con voce cavernosa. “Avevo un appuntamento con un mio amico, ma credo di aver sbagliato indirizzo” rispose e sorrise, imbarazzata, Eleonora. Si avviò verso l’uscita.

“O forse no, si accomodi signorina Eleonora” rispose l’ipotetico Lloyd, spostandosi dalla porta e facendole segno di entrare.
Eleonora si ritrovò in un ripostiglio pieno di scope, stracci, detersivi e secchi ammucchiati. “Ma dove diavolo sono capitata? E come fa a sapere il mio nome?” si chiedeva, impaurita e un po’ preoccupata, mentre Lloyd apriva una seconda porta e ad Eleonora sembrò di aver varcato le porte di Narnia. Una cappa di fumo di sigarette e sigari rendeva l’atmosfera ancora più misteriosa, ma il locale era davvero particolare ed affascinante come le avevano raccontato le sue amiche. Sulla destra, un tavolo con una macchina da cucire Singer anni Cinquanta fungeva da tavolino per una coppia di giovani, e la debole fiamma di una candela illuminava un angolo in fondo alla stanza, facendo risaltare una carta da parati con disegni geometrici in rilievo di velluto nero; al centro della sala c’era un pianoforte a coda e un’affascinante ragazza bionda che suonava musica jazz.

Sdraiato su una chaise lounge in fondo al locale, Luca sorseggiava il suo drink; appena vide Eleonora le andò incontro. “Ormai pensavo non venissi più” le disse, dandole un bacio sulla guancia.
Un cameriere con straccali, coppola scozzese e baffi rigirati all’insù li fece accomodare su vecchie poltrone in legno di un cinema, in una zona riservata del locale. Eleonora si sentiva a disagio perché era finalmente riuscita ad entrare al Jerry Thomas, lo speakeasy più famoso di Milano, dove solo su invito di altri tesserati potevi accedere. Stavolta aveva dovuto accettare l’invito di Luca, che più volte aveva declinato sempre con scuse più o meno credibili: quell’uomo non le piaceva molto, era sempre molto misterioso e sulle sue.

Eleonora era nervosa, ma decise di godersi la serata e chiese la carta dei cocktail: era su carta riciclata e usurata, il che le dava un’aria antica, vissuta. Pensò a quante mani l’avevano sfogliata prima di lei; abbozzò un sorriso e sulle guance le si formarono le due fossette che piacevano tanto a Luca.

“Questo posto è fantastico, meglio di come lo immaginavo, a parte l’entrata enigmatica…” disse Eleonora, e aggiunse: “Un po’ mi ero spaventata, ad essere sincera”.
“Sì, è vero, ma mai giudicare dalle apparenze!” rispose Luca.

“Anche tu mi hai sorpresa, stasera: non hai il doppiopetto!” disse Eleonora osservando Luca, che indossava jeans attillati, camicia bianca, giacca di lino azzurra e una pashmina blu al collo che faceva risaltare ancora di più i suoi occhi verdi.
“Non sono in servizio”.

“Mi puoi consigliare qualcosa, visto che qui sembri di casa?”
“Io non bevo cocktail, non mi piace il miscuglio di sapori, preferisco il whisky. Questo giapponese è fantastico, il mio preferito” rispose Luca, mandando giù un altro sorso.
Dopo aver letto tutti i cocktail disponibili e i loro ingredienti, Eleonora decise per un “Improved Aviation”, un cocktail a base di gin e liquore alle viole.

Per una ventina di secondi ci fu un silenzio pesante e imbarazzante, poi per fortuna Lloyd le portò il suo cocktail, servito in una coppa di cristallo con dentro una viola e una scorza di limone.
“Grazie” disse Luca al cameriere, dandogli una pacca sulla spalla. Eleonora ebbe l’impressione che fossero vecchi amici.

“Allora, Luca, raccontami qualcosa. In fin dei conti, si può dire che non so niente di te”.

“Non c’è molto da dire su di me, ho avuto una vita abbastanza normale” rispose Luca. “La cosa più interessante che mi è capitata è stata trasferirmi a Milano e iniziare a lavorare alla New Pack”.
“Cosa ti ha spinto a trasferirti?”

Luca si irrigidì e, dopo averci pensato un po’ su, disse: “Discutevo sempre con mio padre, il mio piccolo paese mi stava stretto”.
Eleonora gli confessò di aver avuto una sola storia importante, con un uomo più grande di lei, finita molto male perché aveva scoperto che era sposato e con dei figli. Luca le confessò cinicamente di essere stato fidanzato più volte, niente di serio, e che non aveva mai sofferto per una donna. Continuarono a chiacchierare e a raccontarsi, finché Lloyd si avvicinò e li avvisò con gentilezza che a breve avrebbero chiuso.

“È stata proprio una bella serata, grazie per avermi invitata” disse Eleonora salutando Luca all’uscita del locale.
“Grazie a te per aver finalmente accettato il mio invito, cominciavo a pensare di non aver nessuna chance” rispose lui.

“Vorrei sdebitarmi con te, magari invitandoti a cena. Che ne dici?” disse Eleonora. “Solo se cucini tu” rispose Luca.
“Ok, ci sto. Ci vediamo in ufficio, buonanotte e grazie ancora” disse, e si allontanò soddisfatta.

Per un po’ di giorni, in ufficio Luca ed Eleonora non si incontrarono: lui era in trasferta all’estero, tuttavia si spedirono qualche e-mail. Quando Luca le fece sapere che era di nuovo a Milano, Eleonora lo invitò a cena da lei. Lui accettò e lei iniziò subito a pensare al menù: voleva stupire Luca con una delle sue ricette speciali, ma non sapeva i suoi gusti e la cosa le metteva ansia. Decise per un filetto di maiale in crosta con mele e prugne, la ricetta che meglio le era riuscita al corso di cucina per single, per cui lo chef le aveva fatto i complimenti.

Luca arrivò puntuale. Entrando rimase sorpreso dal calore e dall’atmosfera che si respirava in quella casa. Notò subito la particolarità del lampadario: era una ruota di bicicletta fissata al soffitto dalla forcella, con le lampadine inserite nel tubolare. “Metti qui il giacchetto” disse Eleonora, indicando l’appendiabiti ricavato da rami inseriti in una cornice incollata al muro.

“Ti ha aiutata un architetto ad arredare casa?”
“No, sono tutte mie creazioni: amo il bricolage e i materiali di recupero. Credo che questi siano per me!” disse Eleonora, prendendo dalle mani di Luca un mazzo di fiori e una bottiglia di vino.
“Sì, scusami, ero stato distratto dalle tue opere d’arte” rispose Luca, adesso rapito da un’altalena attaccata al soffitto il cui seggiolino era stato ricavato da una mezza botte. “Mettiti pure comodo sul divano, dieci minuti e la cena è pronta”.
Anche il divano era una chicca: un assemblaggio armonioso di pallets e comodissimi cuscini beige a righe marroni. Luca, vergognandosi, non poté fare a meno di fare i confronti con il suo divano, ricoperto di cartoni di pizza, lattine di coca-cola e vaschette del take-away.
“Hai davvero talento e buon gusto, Eleonora, credo che ti ingaggerò per sistemare la mia topaia” disse Luca sorridendo, mentre la padrona di casa arrivava dalla cucina con due calici di vino bianco.
“La cena è pronta, ci possiamo mettere a tavola” disse Eleonora, che era un po’ in ansia. Aggiunse: “Ho preparato il mio cavallo di battaglia, spero ti piaccia”.
Il cavallo di battaglia era impiattato molto bene e aveva un profumo davvero invitante. Altro che quei piatti della rosticceria! pensò Luca mentre mangiava lentamente per assaporare al meglio il suo filetto.
“Non solo sei una bravissima arredatrice, sei anche un’ottima cuoca” le disse. “Grazie, sono contenta che ti sia piaciuto. E invece qual è la tua specialità?”

“Il pollo arrosto con le patate del fast food sotto casa, sono bravissimo a comprarlo e a mangiarlo” rispose Luca, guardando Eleonora che rideva. “Per non parlare della pizza e del sushi consegnato direttamente a casa” continuò Luca, “credo di aver acceso il gas di casa solo per fare il caffè”.

“Non ci credo” disse Eleonora, ridendo di gusto.
“Sediamoci sul divano, così finiamo il vino e stiamo più comodi” disse lei sprofondando nei cuscini.
Come delle vecchie pettegole, avevano parlato molto durante la cena, soprattutto di lavoro e dei colleghi, e l’avevano fatto senza risparmiare nessuno!
Eleonora a un certo poggiò ingenuamente una mano sulla gamba di Luca. Inaspettatamente lui si alzò e disse che si era fatto tardi, doveva andare via perché l’indomani aveva una trasferta a Milano. I saluti, frettolosi e freddi, lasciarono Eleonora perplessa.
La trasferta di Luca fu più lunga del previsto e, dopo qualche settimana, Eleonora seppe che si era licenziato dalla New Pack, senza dare il preavviso e senza nessuna spiegazione, lasciando tutti i colleghi molto sorpresi. Lei aveva provato a contattarlo, ma non c’era stato modo: sembrava sparito nel nulla.

“Questo posto è sempre bello ed enigmatico; sono anni che lo frequento e ogni volta noto un nuovo particolare che mi colpisce” disse Eleonora ai suoi amici, osservando una lampada ricavata da una bottiglia di rum e sorseggiando uno dei suoi drink preferiti del Jerry Thomas. Una donna al bancone del bar la stava fissando già da un po’: Eleonora non la conosceva, ma in lei aveva qualcosa di familiare e non riusciva a capire se e dove l’avesse vista prima. Seduta su una poltrona da barbiere con i cuscini un po’ rigidi, Eleonora non riusciva a stare ferma, si muoveva nervosamente, ma la scomodità della poltrona non era l’unico motivo della sua inquietudine: quella donna la turbava. Chiese a Lloyd se la conoscesse, lui rispose: “È una vecchia cliente”. Eleonora prese il suo boulevardier e si avvicinò al bancone del bar. “Ci conosciamo?” chiese alla donna misteriosa. Notò che da vicino era ancora più bella, aveva gli occhi verdi e penetranti.

“Ciao Eleonora” rispose la donna. “Sì, ci conosciamo. Sono… anzi, ero Luca” rispose la donna tutto d’un fiato.
Eleonora sgranò gli occhi, non riusciva a parlare. Bevve un sorso del suo drink sperando che la aiutasse. “Luca?” disse, incredula.

“Sì…”
“Forse è il caso di parlare un po’, ma non qui e non stasera” disse Eleonora, continuando a fissare il suo amico e non credendo ai suoi occhi.
“Mi potresti preparare un’altra cenetta, magari, e ti prometto che questa volta non scapperò” rispose Luca.
“Ok, domani sera, l’indirizzo lo conosci”.

L’indomani, Eleonora cucinava nervosamente e stavolta non per paura che le sue pietanze potessero non piacere, ma perché non le era mai capitata una situazione del genere e non sapeva come comportarsi.
Eleonora accolse il suo ospite con un sorriso imbarazzato.

“Ciao, chiamami Arianna” disse il suo ex collega.
Eleonora non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: il suo viso, che già da uomo aveva dei lineamenti dolci, adesso le sembrava ancora più bello. Indossava un tailleur rosso fragola con pantaloni che facevano risaltare le gambe lunghe e armoniose, e poi scarpe con tacco non esagerato; gli occhi verdi, sempre bellissimi, erano messi in risalto da una matita blu e dal mascara, e un filo di rossetto evidenziava le labbra sicuramente rifatte: Arianna era bellissima. Eleonora si guardò di sfuggita allo specchio e si sentì, in confronto, la brutta copia di Cenerentola.
Iniziarono a cenare, “Mi sono sempre sentita uno, nessuno, centomila…” fece Arianna.
“Perché non me ne hai parlato?” chiese Eleonora.
“Volevo farlo quella sera a cena, ma quando hai poggiato la tua mano sulla mia gamba…”
Eleonora si sentì mortificata e si scusò. Prese la mano di Arianna, che stavolta non reagì allontanandola, e restarono in silenzio.

“Non mi dici niente?” chiese Arianna.
“Sì, ti dico che ho bisogno di bere qualcosa di forte” disse Eleonora, capendo che non era certo il momento di fare domande. “Ti va un whisky?” le chiese.
“Sì, grazie, anche se non avrai il mio preferito” disse Arianna, sorridendo e lasciando andare la mano di Eleonora.
“Ho sempre pensato che in te c’era qualcosa di diverso: eri più sensibile rispetto agli altri uomini che avevo conosciuto, più attento ai particolari, gentile…” disse Eleonora, mentre serviva da bere alla sua ospite.
“Cosa hai combinato in mia assenza?” chiese Arianna.
“Vediamo un po’: ho costruito altri pezzi d’arredamento, ho cambiato la macchina e mi sono fidanzata con un uomo di cui sono molto innamorata e che tu devi assolutamente conoscere” rispose Eleonora.
“Questa sì che è una bella notizia!” esclamò Arianna. “Da quanto tempo state insieme?”
“Da quasi tre anni. Si chiama Teodoro, e credo proprio che sia quello giusto! Aspetto solo l’anello e la proposta di matrimonio”.
Chiacchierarono a lungo prima di salutarsi e darsi appuntamento al Jerry Thomas per il venerdì successivo.
Eleonora decise di fare una sorpresa ad Arianna: le voleva far conoscere Teodoro, era sicura che si sarebbero piaciuti.

Arianna era seduta al bancone del bar a chiacchierare con Lloyd. Quest’ultimo, appena vide Eleonora, fece un gesto con la testa alla sua vecchia cliente per indicarle che era arrivata la sua amica. Arianna si girò e, come se avesse visto un fantasma, iniziò a sudare freddo.

“Ciao cara, ti presento il mio Teodoro” disse Eleonora facendo le presentazioni. “Piacere, Arianna” rispose lei, con lo sguardo basso.
Arianna voleva fuggire da quella situazione imbarazzante: Teodoro era stato un suo cliente quando era già fidanzato con Eleonora e, soprattutto, questo era accaduto prima dell’operazione. Teodoro guardò per tutta la serata Arianna insistentemente: c’era qualcosa in quella donna che lo indisponeva, ma non riusciva a capire cosa né perché. La serata non fu certo un successo.

“Che ne dici di Arianna?” chiese Eleonora al suo fidanzato mentre, abbracciati, tornavano a casa.
“Simpatica, ma un po’ scontrosa” rispose lui.
“Sì, stasera era un po’ strana in effetti”.

Arianna era seduta ancora al bar. Chiese un whisky doppio e, torturandosi nervosamente le mani, pensava a cosa avrebbe pensato di lei Eleonora se avesse saputo. Prima dell’operazione aveva fatto di tutto per potersi mantenere. Aveva dovuto lasciare il lavoro, le cure e i trattamenti erano costosi, e quel poco che aveva messo da parte era finito presto. Doveva dirglielo? Eleonora avrebbe accettato e capito? Sarebbero rimaste amiche? Del resto, lei che colpa aveva…

Teodoro, nel frattempo, non riusciva a dimenticare gli occhi di Arianna e aveva cominciato a far caso ad alcune coincidenze. Cominciò a sudare. Decise di tornare al Jerry Thomas, nella speranza di trovare ancora Arianna e chiarire il suo sospetto: su, non poteva essere Luca, era molto tempo che non riusciva più a contattarlo; inoltre, alcuni suoi amici gli avevano detto che era sparito.

Arrivò all’entrata ma, non essendo socio del locale, i ragazzi indiani in cucina non lo facevano entrare. Teodoro cominciò ad innervosirsi, poi passò ad insultare i due ragazzi. Ad un tratto, Arianna uscì da quella che sembrava la porta di una cella frigorifera. Vedendo Teodoro in quelle condizioni, si spaventò.

“Adesso mi dici chi sei!” urlò Teodoro, che si era lanciato contro Arianna come per aggredirla. I due ragazzi indiani cercarono di fermarlo, ma non riuscivano a staccarlo da Arianna.
“Si può sapere cosa vuoi da me?” fece lei.

“Solo sapere chi sei: sei Luca, vero?”
“Sì, ero Luca…”
“Sei tornato per rovinarmi la vita! Vero, brutta puttana?”

In quel momento uno dei due ragazzi indiani colpì con un bastone la testa di Teodoro, che si accasciò a terra. Arianna riuscì a scappare e a prendere un taxi, arrivò a casa che ancora tremava per la paura e per la rabbia.
Il telefono svegliò Eleonora in piena notte. “Pronto?” rispose lei con un filo di voce. “Eleonora, sono Arianna. Ti devo parlare. Sei sola?”

“Sì. Che succede? Ti senti male?” chiese Eleonora, che intanto s’era messa a sedere sul letto.
“Più o meno. Posso venire a casa tua?”
“Sì, certo. Ti aspetto”.

“Cosa hai fatto? Cosa sono quei segni sul collo?” chiese Eleonora ad Arianna appena la vide.
“Non so da dove cominciare, Eleonora. È stato… Teodoro, mi ha aspettata all’uscita del Jerry Thomas e mi ha aggredita”.

“Non ti credo, è impossibile!” fece Eleonora, a cui venne da piangere. Prese a camminare nervosamente avanti e indietro.
“Forse non lo conosci bene neanche tu” disse Arianna.
“Teodoro mi ama, e io amo lui. Non ti permetterò di parlare male di lui”.

“Ho fatto male a venire qui. Chiedi al tuo caro Teodoro la verità e poi decidi tu stessa a chi credere” disse Arianna prima di andarsene. Eleonora era spaventata. Provò a chiamare Tedoro, ma il telefono era spento, probabilmente già dormiva. Riprovò varie volte, ma fu inutile. Si rimise a letto, tuttavia non riuscì più ad addormentarsi. La mattina successiva, Eleonora fece una doccia fredda e bevve un caffè forte prima di uscire per andare a lavorare. Accese come sempre la radio della macchina, già sintonizzata sulla sua stazione preferita. Una notizia data al giornale radio le provocò uno spasmo: una donna era stata mortalmente aggredita nel parco vicino a casa sua; grazie alle telecamere di sorveglianza, l’aggressore era stato riconosciuto e arrestato. Non avevano dato le generalità della vittima e neanche dell’aggressore. Eleonora, inebetita, provò a chiamare per l’ennesima volta Teodoro, ma il cellulare era ancora spento. Provò a chiamare Arianna, ma il telefono squillò a vuoto più e più volte.

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“Aspetto Godot, papà” di Meri Borriello

Aspetto Godot, papà

di Meri Borriello

a cura di Daniele Falcioni

tratto da antologia Voci Nuove

ed. Rapsodia

Marlene spingeva la carrozzina di suo padre faticosamente sotto il sole rovente di luglio. Non aveva mai odiato tanto l’estate come quell’anno. Si stavano allontanando velocemente dall’ospedale.
“Qui è pieno di gente che gioca a fare dio, non li sopporto, spingi più in fretta questo affare. Andiamo via da questo inferno” disse stancamente lui.

“Certo, papà” rispose lei in tono obbediente; poi, per alleggerire la tensione, continuò: “Almeno non hai dovuto far fuori noi della famiglia per averne una; te lo ricordi quel film… come si chiamava? El cochecito, mi sembra. Te ne regalo una motorizzata, promesso, papà”.
“Bel film. Ma non ho voglia di scherzare adesso. Portami via da qui, torniamo a casa, ci vediamo un altro film. Sei mesi? Vorrei sapere dove hanno letto la mia data di scadenza. Resisto solo per contraddirli, questi quattro sapientoni imbalsamati”.

Marlene rimase in silenzio per qualche istante, poi dolcemente disse: “Papà, pensa a quelle medicine che ti hanno proposto di prendere”. Sperava che il padre acconsentisse a provare le cure sperimentali.
“Non ho voglia di parlarne. Quella roba ti toglie la dignità. Non ho nessuna intenzione di prenderla”.

Il padre aveva alzato la voce e cominciato a gesticolare nervosamente; alcuni passanti incuriositi li guardavano. Lei sperò che quello sfogo avesse fine presto. Il suo desiderio fu esaudito: suo padre si interruppe.
A un tratto, però, disse: “Ho la bocca che va a fuoco, prendiamo un gelato al limone. Però facciamo in fretta, voglio tornare da tua madre, portiamo del gelato anche a lei. E una rosa. Ecco, là, guarda quella, è perfetta; fammi il favore: arrampicati e prendila”.

Suo padre sorrideva contento. Lei provò a dissuaderlo: “Papà, è un giardino privato. Non si potrebbe…”
Lui la interruppe stizzito: “Fai come ti ho detto, i fiori sono di tutti! Che diamine, quasi non sembri mia figlia! Tutto questo perbenismo chi te l’ha insegnato? Prendi la rosa e andiamocene. Al diavolo anche il gelato”. Sbuffò alzando gli occhi al cielo.

Lei si sentì mortificata, ma cercò di non darglielo a vedere. Si fermò e scavalcò il muretto; sperò che nessuno la vedesse, non avrebbe avuto la pazienza per giustificarsi. Staccò la rosa gialla che le aveva indicato il padre, poi tornò da lui più velocemente che poteva.
“Ce l’hai fatta, brava”. Lei gli baciò la guancia ruvida, poi poggiò la rosa sulle sue ginocchia. La misero in una bottiglietta con un po’ d’acqua, poi lei lo aiutò a salire in macchina e partirono per far ritorno a casa.

Fecero il viaggio di ritorno in silenzio. Quando suo padre chiuse gli occhi per riposare un po’, lei cercò di perdersi nel suo mondo, tentava di aggrapparsi alle sue fantasie, ma questa volta proprio non ci riusciva. Provò a sentire un po’ di musica, ma tutto le dava la nausea: la voce del dj, i brani tutti identici che passavano senza sosta su ogni stazione, tutte quelle stupide pubblicità. Le dava fastidio persino intravedere le famiglie nelle altre auto. Molti tornavano dal mare: abbronzati, affamati. Li immaginava con i capelli ancora umidi, il sale addosso, felici per la bella mattinata trascorsa. Com’era accaduto del resto anche a lei tante volte. Le sembrava una vita fa. Non era mica colpa loro se lei ora stava di merda!

Suo padre si risvegliò quando spense il motore. Erano a casa. Sua madre li aspettava. Non appena lo vide, stanco ma sorridente mentre le porgeva la rosa, lo abbracciò.

Suo padre fece un cenno a Marlene, che si avvicinò: “Lasciaci un po’ soli. Ti aspetto nel mio studio tra un paio d’ore. Devo farti vedere una cosa”.
“D’accordo papà, io vado a riposare un po’. Ci vediamo più tardi”.
Era stanca, non vedeva l’ora di buttarsi sul letto.

Tornò da suo padre che era pomeriggio inoltrato, la canicola era scemata e lei riusciva a respirare e a pensare più lucidamente. Lo trovò nel suo studio, con una scatola tra le mani.
“Ce ne hai messo di tempo! Bene, ora sei qui, veniamo al punto” disse, e le tese la scatola di legno. Marlene la prese: era liscia, di un marrone chiaro, la avvicinò al suo viso. “Ha un buon odore, papà. Dove devo metterla?”

“Da nessuna parte. Devi intagliarla”.
Lei lo guardò perplessa, lui continuò: “Lo so che non sei brava in queste cose, però bisogna che tu lo faccia per me. Voglio lasciarla a te e alle tue sorelle, e voglio che la intagli esattamente come dico io. Ci sono degli scalpelli e un coltellino nella mia cassetta degli attrezzi, prendili e comincia a lavorare”.
Marlene provò a replicare, ma poi le parole le morirono in gola e fece come le aveva chiesto il padre.
“Che cosa devo incidere, papà?”
“Tanto per cominciare, il simbolo dell’infinito. Non è difficile. E poi le nostre iniziali”.
Marlene disegnò numerose volte la base per poter iniziare ad intagliare. Alla fine fu soddisfatta, prese il coltellino e cominciò ad affondarlo nel legno.
Passò almeno un’oretta, stava sudando. Si fermò un attimo. Le facevano male le mani, i pezzetti di legno erano sparsi dappertutto. Non aveva voglia di continuare ad intagliare un bel niente, voleva solo rimanere in silenzio e godersi suo padre. Non si accorse di fissarlo fino a quando lui non le disse: “Non guardarmi, continua ad intagliare, devi imparare a distaccarti da tutto. Continua ad intagliare con pazienza e decisione. Non sei mai stata paziente, ma devi imparare ad esserlo”. “Non voglio imparare, papà” rispose lei con la voce che le tremava.
“Devi. Verrà fuori un lavoro bellissimo, ne sono sicuro”. Poi, sorridendo riprese: “Socchiudo un po’ gli occhi. Mentre intagli, ripetimi quel monologo che devi portare a teatro. Non me ne sono dimenticato”.
Lei sorrise e disse: “Ho un pezzo comico fortissimo, papà”, ma il padre la interruppe bruscamente: “Voglio che mi reciti l’altro monologo. Smettila di fare il pagliaccio”.
Marlene prese fiato, poi lentamente cominciò a snocciolare le parole del monologo: “Nascere fu la sua morte. Le parole sono poche, morenti per di più. Pronto per il coperchio avvenire. Dalla culla al lettino in poi. Per tutto il tempo. Rimbalzato andata e ritorno…”(2)
Suo padre la interruppe: “Va bene, va bene. Però lo carichi troppo, lascia andare le parole, hanno già il loro peso, non serve che le carichi. Altrimenti diventi patetica. Beckett è assenza, non piagnisteo. Continua”.
Marlene, stringendo con forza il coltellino tra le mani sudate, continuò: “Di funerale in funerale. Tremila notti. Nato di notte. Stanza sempre più buia. Anni di notte. Niente che si muova da nessuna parte. Solo e andato”.
Il padre la interruppe di nuovo: “Molto meglio di prima, la voce però deve essere piena, non di testa, non sei un’isterica, mantieni la voce bassa”.
Marlene riprese cercando di modulare la voce meglio che poteva: “Solo e andato. Mi dico che la terra si è spenta, benché io non l’abbia mai vista accesa. È facile andare. Quando cadrò, piangerò di gioia”.

(2) Qui, come in seguito, si tratta ovviamente di Samuel Beckett, Un pezzo di monologo (n.d.c.).

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Guardò suo padre, che aveva chiuso di nuovo gli occhi, lo chiamò in sussurro: “Papà?”
Lui socchiuse gli occhi, poi le disse: “Ora è quasi perfetto. Ricorda di tenere sotto controllo la voce. Ripetimelo ancora”.
Marlene intagliava e recitava. Si costrinse a continuare ancora e ancora, anche se le veniva da vomitare.
Finì di incidere la scatola che era quasi l’una di notte; suo padre era andato a dormire, ma lei aveva continuato il suo lavoro imprecando e a tratti calmandosi, ma era riuscita a portare a termine quello che il padre le aveva chiesto; questo solo contava.
La scatola rimase nello studio per mesi, poi una mattina di marzo il padre le chiese di prenderla. Marlene entrò nella camera dei suoi genitori, c’erano anche le sorelle; sentiva un vuoto terribile, tremava mentre passava la scatola alle sorelle. Non riusciva a cogliere nessuna parola, le sembrava di essere immersa in un mondo irreale. Guardava fuori dalla finestra, il suo sguardo si perdeva oltre i grigi palazzi, oltre quel cielo così azzurro.
“Che fai? Perché fissi il vuoto?” le chiese il padre. Lei continuò a guardare oltre la finestra, poi dopo un po’ rispose: “Aspetto Godot, papà”.
“Tanto lo sai già che non arriverà” le disse il padre in un soffio di voce. Lei si avvicinò al letto, gli strinse la mano e gli accarezzò la fronte sudata. Anche la madre e le sorelle si erano avvicinate. Seguirono tutte e quattro in silenzio i suoi ultimi respiri. Poi ci furono solo ore concitate. Ricordando gli avvenimenti di quegli ultimi lunghi giorni, Marlene, come se fosse un oggetto magico con chissà quale potere, continuava a rigirare tra le mani il suo portachiavi. Era una piccola clessidra. La sabbia scivolava da una parte all’altra, e lei pensava a quanto fosse veloce il tempo, e a quanto potesse dilatarsi senza senso proprio come in quel momento. Guardò le persone riunite intorno a quel loculo. Vide il volto provato di sua madre, le sue sorelle in un angolo, gli occhi rossi e persi nel vuoto, e una serie di personaggi, le mani giunte, le braccia conserte, che in quel momento avevano per lei volti anonimi.
Era una bellissima giornata, il sole primaverile batteva sul suo viso, sentiva il vento leggero che entrava nella sua camicetta e le accarezzava le braccia. Si sentiva in colpa nel provare piacere per quei raggi solari e quel vento, che sembrava volessero farsi spazio nel suo vuoto.
C’era un odore insopportabile di fiori; si voltò e li vide in un angolo ammucchiati, c’erano delle fasce con incisi sopra dei nomi che non riconosceva. Con amore, con affetto, con stima. Robaccia che si stava già decomponendo, come tutti loro, del resto. Perché bisognava coprire l’odore della morte? Erano più disgustose tutte quelle rose, gerbere, lilium, orchidee recise e profumate fino alla nausea che l’odore della morte!
La voce del prete che cominciava a sciorinare le sue litanie richiamò la sua attenzione. A suo padre probabilmente quella nenia senza senso non sarebbe nemmeno piaciuta. Ebbe l’impulso di girarsi per dirglielo, ma lui non c’era. Non ci sarebbe stato mai più. Si fece forza pensando alla legge di Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Che cazzata. Lei voleva la forma esatta, precisa di suo padre. Non voleva una sua trasformazione. Voleva rivedere lo stesso viso, sentire le stesse identiche inflessioni della sua voce, non voleva qualcosa che lo ricordasse anche solo vagamente. Lei stessa era una trasformazione di suo padre, pensò guardando le sue mani, ma questo non le bastava in quel momento.
Guardò il prete nel suo abito talare, lui era eternamente in lutto, aveva rinunciato ad ogni forma di vita. Beato lui, pensò guardando il crocifisso di legno, la piccola Bibbia che teneva tra le mani e la stola viola che ricadeva su quell’abito nero.
Non riusciva a respirare, detestava quei fiori, e tutta quella gente non le permetteva di rinchiudersi nel suo angolo segreto. C’era sempre qualcuno che arrivava a stringerle la mano, a dirle:

“Condoglianze. È la vita”. Fanculo. Al prossimo individuo che avesse pronunciato quelle parole probabilmente avrebbe dato una testata.
Decise di allontanarsi per non creare imbarazzo e dolore alla madre e alle sorelle, già provate da tutto il resto. Sapeva che anche loro non sopportavano tutte quelle persone. Avrebbe voluto cacciare tutti via, e rimanere solo loro quattro chiuse a schermarsi a vicenda in quel dolore.

Vide una coppia di amici di famiglia, potevano avere al massimo una sessantina d’anni, si tenevano per mano. Sperò che sua madre non li vedesse: lei aveva appena perso il compagno della sua vita, non avrebbe più potuto prendergli la mano. Le aveva stretto le mani per l’ultima volta solo poche ore prima, ma erano ormai fredde, non era la stessa cosa.

Allontanandosi notò una panchina di marmo bianca, si sedette per calmarsi. Era lucida, con delle piccole venature nere, stava sotto un albero che non capiva di che specie fosse. Ma chi se ne frega, pensò, erano tre giorni che non dormiva, non aveva poi molta importanza riconoscere la sua specie. Era un bell’albero, con i rami carichi che quasi scendevano a posarsi sulla fredda panchina e le restituivano un po’ di colore in mezzo a quelle tristi lapidi con le foto di volti dalle storie sconosciute. Accarezzò la corteccia, voleva sentire qualcosa di ruvido sotto le sue mani, poi si sedette e accese una sigaretta.

Le venne da ridere. In quella circostanza nessuno le avrebbe detto che non doveva fumare. Era uno di quei momenti in cui chi sta provando dolore è autorizzato dagli altri a fare qualsiasi cosa. Cercò di non ridere, ma non ci riusciva, pensava che anche suo padre avrebbe trovato divertente questa cosa. Si coprì il viso con i capelli: se qualcuno l’avesse guardata in quel momento, avrebbe sempre potuto simulare un finto pianto. Proprio non ci riusciva a piangere. Era come se dentro non avesse più niente che potesse far uscire le lacrime. Si sentiva in colpa anche per questo. Guardò la sigaretta, magari se l’avesse spenta sulla sua pelle le lacrime sarebbero uscite. Aspirò di nuovo, poi la gettò e la vide rotolare sulla terra rossa oltre le sue scarpe nere.

Di nuovo il vento venne ad accarezzarla, e portò con sé anche il profumo e il polline dei fiori di campo. Seguì il percorso delle particelle di polline che volavano lontano, quasi a voler raggiungere le bianche nuvole. Sentiva una strana dolcezza dentro in quel preciso momento; non si sentiva quasi più in colpa provando piacere per la vita che le scorreva dentro, anche se il suo stomaco si stringeva in una morsa glaciale se solo ripensava all’immagine di suo padre. Le sembrava che lui fosse seduto accanto a lei. Chiuse gli occhi. Sentiva il sole che voleva poggiarsi sulla sua mano, la allungò tentando di prendere un raggio.

Riaprì gli occhi e vide sua madre in mezzo a quegli sconosciuti. Si era voltata e la guardava, sorridendo appena un po’. Le sorrise anche lei. Non l’aveva mai amata tanto come in quel momento. Poi vide un suo amico che tirava fuori da una custodia logora una tromba. Il sole si appoggiava sul suo ottone lucido e sembrava che la chiamasse. Lentamente si alzò. E andò avanti.

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LA MORTE DELLA LUNA di Silvia Zaccari

La morte della luna

di Silvia Zaccari

tratto dall’antologia Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

edito da Rapsodia edizioni

 

“Deve essere più spaventosa. Cerca di inarcarle di più la bocca, come se stesse facendo un ghigno. Guarda. Con lo scalpello segna le rughe sulle guance e sotto gli occhi, così”.

Il padre di Carla diede un colpo sul pezzo di legno levigato, poi un altro e un altro ancora. Così facendo, scolpì su quel volto rigido un’espressione terrificante.

 

Erano le otto di sera quando Carla prese il bus. Di solito usciva prima dal magazzino dove lavorava con il padre. Facevano maschere di legno per spettacoli teatrali.

Carla salì sul bus con un’insolita ansia, ma non le diede peso, o meglio, pensò che fosse a causa della consegna che avevano l’indomani: una compagnia teatrale molto famosa sarebbe andata da loro a provare le maschere per la messa in scena de La morte della luna.

A testa bassa fece cadere gli spicci nel bussolotto, strappò il biglietto e andò verso il retro del bus a sedersi vicino a un signore. L’uomo, sulla sessantina, corpulento, indossava un cappello nero molto ingombrante e una giacca color prugna di velluto. Era freddo, quella sera, ma non così tanto, pensò Carla. Mise le mani nella borsa per prendere il libro che stava cercando di finire da tempo. Fu subito interrotta: “Signora, lo sa che questo autobus non si fermerà?” disse l’uomo con il cappello nero.

“Perché?” rispose lei.

“Perché non c’è nessuno che lo guida e nessuno che può fermarlo”.

Il tizio non si voltò a guardarla e fece una risatina compiaciuta, quasi maligna. Carla si sporse per osservare il posto di guida, ma non riuscì a vedere nulla. Sembrava però che nessuno stesse guidando il bus. Impallidì e si alzò di scatto.

“Non può fare niente, signora. È così ogni volta”.

“Ogni volta?”

“Certo. Ogni volta che lui decide di entrare”.

“Lui chi?”

“Beh, lui…” disse l’uomo, e diresse lo sguardo verso il posto di guida.

Carla si guardò intorno.

“Lei ha deciso di salire, nessun altro lo ha fatto. Siamo soli. Avrebbe dovuto essere più accorta. Ormai è tardi”.

Carla strinse le mani attorno alla tracolla della borsa.

“Senta, lei sta solo cercando di spaventarmi. Non so perché, ma è proprio quello che sta facendo. E poi non credo a quello che dice”.

“E allora perché si è subito sporta per controllare che ci fosse davvero qualcuno alla guida?” disse l’uomo con il cappello nero.

Carla si era innervosita. Decise di scendere. Si mosse verso la parte anteriore del bus, dove le luci erano spente e si riflettevano i fanali delle auto che correvano in strada. Passo dopo passo, iniziò a mettere a fuoco la cabina, il volante, parte del sedile, ma non riusciva ancora a vedere l’autista.

“Signora, torni a sedersi. Non può scendere, non può uscire ormai. Lei ha deciso di salire, e lui prima di lei”.

Carla fece finta di non averlo sentito. Arrivata accanto alla cabina di guida, vide una specie di massa scura fluttuante sopra il sedile. Si mise la mano sulla bocca e fece un passo indietro. La mano si spostò velocemente dalla bocca alla tasca della borsa, in cerca del cellulare. Qualche secondo e Carla aveva già digitato il numero del padre.

“Pronto?”

“Papà, non c’è nessuno, non posso scendere! C’è solo un uomo, ma dice che non si fermerà!”

“Che stai dicendo, Carla? Calmati!”

“Sono sul bus per tornare a casa, ma quell’uomo dice che non si fermerà!”

“Ma che vuol dire? Quale uomo? E perché mai il bus non dovrebbe fermarsi?”

“Papà, non c’è nessuno alla guida del bus!”

Carla sentì una presenza alle sue spalle, poi vide una grande ombra sul vetro. Dietro di lei, l’uomo con il cappello nero era fermo e guardava fuori, come se avesse intenzione di scendere.

“Mi scusi se l’ho messa in allarme, ma lei non uscirà di qui” disse l’uomo, e fece di nuovo quella risatina maligna, che gli segnò le guance. Rivolse lo sguardo verso il retro del bus e suonò il campanello per prenotare la fermata.

“Ha detto che non si sarebbe fermato, mi ha presa in giro!” disse Carla.

“Affatto. Io scenderò comunque” disse l’uomo, e cercò di farsi spazio fra lei e la cabina. Il bus non rallentò.

“Carla, ci sei? Carla?” diceva intanto il padre al cellulare.

Improvvisamente la porta anteriore si aprì con un tonfo, mentre il bus viaggiava veloce. Un forte vento sbatté Carla contro la cabina. Il cellulare cadde sul marciapiede.

L’uomo con il cappello nero saltò giù e sparì nel buio.

 

Carla cercò di rialzarsi. Aveva sbattuto la testa e teneva gli occhi chiusi per il dolore.

“Signora, tutto bene?”

La donna si aggrappò al corrimano e si tirò su.

“Signora, tutto bene? Ha bisogno d’aiuto?”

Carla si voltò verso quella voce e vide un uomo seduto al posto di guida, con una bella giacca azzurra e la camicia color prugna.

“Ehm… no, la ringrazio. Sto bene…” rispose, e andò a sedersi al primo posto libero.

Il bus era abbastanza affollato e tutti la guardavano.

“Mi scusi, signora, a quale fermata deve scendere?” le chiese subito il ragazzino che le sedeva accanto.

Carla rimase in silenzio. “Io dovrei scendere alla prossima” disse il ragazzino.

Carla fece un cenno con la testa, come per dire che aveva capito, ma non fiatò. Passò qualche minuto e il bus iniziò a rallentare. Carla non si mosse.

“Signora, scende anche lei?” le chiese il ragazzino. Carla non aprì bocca, lo guardò e si voltò di nuovo davanti a sé.

Il bus era quasi fermo e il ragazzino si alzò in piedi.

“Signora, dovrebbe alzarsi. Io devo scendere!”

Carla finalmente si alzò, ancora frastornata. Il ragazzino le passò davanti, corse verso la porta centrale e scese. Carla si rimise a sedere e lo seguì con lo sguardo. Non riusciva a capire cosa stava succedendo e, per di più, non ricordava dove era diretta.

Si mise a guardare fuori dal finestrino. Le luci dei lampioni e delle auto correvano veloci. All’interno del bus le voci della gente si mischiavano al rumore del motore. Qualcuno aveva aperto una busta di patatine dietro di lei. Una risata accanto, poi uno starnuto.

Pian piano le voci iniziarono a spegnersi. I rumori stavano cambiando in un modo strano, quasi inquietante. All’improvviso ci fu silenzio. Carla stava ancora osservando fuori. Tutto sembrava normale. I suoi occhi, però, misero lentamente a fuoco il riflesso sul vetro dei passeggeri seduti sul bus: i loro corpi erano svaniti e decine di volti galleggiavano sopra i sedili, avvolti da una strana nebbia. Carla prese coraggio e guardò alle sue spalle. “Non è possibile, sto impazzendo” disse a bassa voce.

Si rese subito conto che conosceva bene quei volti: erano tutte le maschere che fino a quel giorno aveva realizzato con suo padre. Premette il pulsante per prenotare la fermata e si alzò. Il bus continuava la sua corsa, senza rallentare.

“Mi scusi, dovrei scendere!” disse.

L’autista sembrava non sentire. Carla raggiunse la cabina per bussargli al vetro. Alzò la mano, ma la ritrasse subito. La massa nera fluttuante era di nuovo al posto di guida. Come prima, Carla mise la mano nella borsa per prendere il cellulare. Frugò per qualche secondo, ma niente. Guardò all’interno. Rovistò ancora. Niente. Prese la borsa e la capovolse. Cadde di tutto, ma del cellulare nessuna traccia.

“Mi faccia scendere, la prego!” urlò, ma non ebbe alcuna risposta.

Si rese conto che un rumore ovattato le stava facendo vibrare le orecchie: erano le maschere che si erano messe a pulsare ininterrottamente. Sembravano dei grandi cuori di legno. Carla indietreggiò impaurita. Si mise in ginocchio e si coprì la testa con le braccia, come per proteggersi.

 

“Avanti, Gabriele, muoviti!”

“Mamma, non riesco a passare!”

“Non farmi arrabbiare, Gabriele, non c’è nessuno davanti a te!”

“C’è una signora”.

Il bambino si spostò, guardando la madre.

“Accidenti, signora, ha bisogno d’aiuto?”

Carla era ancora in ginocchio. Non riusciva a muoversi. Non voleva alzare la testa e aprire gli occhi.

L’autista, allora, uscì dalla cabina e provò a tirarla su per un braccio.

“Avanti, si tiri su. Ha battuto la testa?”

Carla non rispose.

“Signora, vuole che chiami un’ambulanza?” disse l’autista.

Carla lo guardò senza dire una parola.

“Se vuole possiamo chiamare un familiare. Se mi dà il numero, posso chiamarlo con il cellulare della ditta”.

Carla fece cenno di no con la testa. L’autista tornò a sedersi. Le passarono accanto per scendere la mamma e il bambino, che la fissava incuriosito.

“Come ti chiami?” le chiese il bambino.

Carla sgranò gli occhi.

“Signora, come ti chiami?” continuò lui. Carla non seppe rispondere: non ricordava il suo nome.

La mamma e il bambino scesero. Il bus ripartì e Carla si mise a sedere.

Il quadrante di un orologio da polso attirò la sua attenzione: le otto e quattordici. Era trascorso così poco tempo da quando aveva lasciato il magazzino?

Fuori era buio. Tutti i negozianti, ormai, avevano abbassato le serrande, e la città si preparava ad addormentarsi.

Una fermata, poi la seconda, la terza e così via. Carla rimase sul bus fino al capolinea.

“Signora, questa è l’ultima fermata. Le conviene scendere, perché poi vado a parcheggiare il bus alla rimessa” le disse l’autista.

Carla fece di no con la testa.

“Come vuole. Io però poi non posso accompagnarla da nessuna parte, sono le regole. Ok?”

Carla lo guardò per un attimo e poi si voltò di nuovo verso il finestrino.

 

La rimessa, una struttura simile a un grande chalet di legno, si trovava alle pendici di una montagna scura. Nessun caseggiato nelle vicinanze, solo qualche lampione ad illuminare il piazzale. Il bus si avviò verso il parcheggio numero 14, rallentò e si fermò.

“Signora, siamo arrivati. Ora spengo il motore e le luci, altrimenti non posso andarmene a casa, e gli addetti non possono pulire” disse l’autista.

All’esterno non c’era alcun segno di movimento.

“Dovrebbe scendere, signora”.

L’autista, rassegnato, alzò gli occhi al cielo e girò la chiave nella toppa. Le luci divennero piccoli cerchi neri una dopo l’altra, poi si spense il motore.

“Signora, se non scende adesso rimarrà qui dentro al buio, almeno finché non arrivano quelli delle pulizie. Io me ne vado a casa”.

L’autista prese le sue cose, mise il lucchetto alla cabina di guida e scese, lasciando aperta la porta anteriore. Carla non si mosse. Aveva lo sguardo rivolto alla montagna scura.

 

Non si ricordava da quanto tempo stava camminando, ma Carla non riusciva più a sentire le dita delle mani e dei piedi. La sua borsa era rimasta sul bus. I rami degli alberi, sempre più fitti e scuri, le avevano graffiato il cappotto all’altezza delle spalle e dei fianchi. Era stanca, ma continuava a salire. Non vedeva niente davanti a lei. Ogni tanto, però, riusciva a scorgere la luna fra i rami.

“Dove sei?” disse Carla sottovoce. Strizzò forte gli occhi per mettere a fuoco qualcosa. “Dove sei?” ripeté. Il silenzio e l’oscurità la avvolgevano passo dopo passo.

Un fruscio. Guardò di lato, poi in alto. Un barbagianni lasciava la montagna, diretto a valle.

“Dove sei?” continuava ogni tanto a ripetere mentre camminava.

All’improvviso inciampò in qualcosa di grande e cadde a terra, battendo la testa.

Riaprì gli occhi poco dopo, o così le parve.

“Sei tu?” disse.

Strusciò le mani sulla terra, in cerca di qualcosa. Si spostò carponi verso il punto in cui era inciampata. Le mani tastavano il terreno: piccoli sassi, aghi di larice, pigne, un insetto, ancora sassi e terra. Aghi. Le mani si fermarono su qualcosa di grande, simile a un tronco. Carla mise entrambe le mani su quella cosa e continuò a tastarla. Niente corteccia. Avvicinò il viso. Niente odore di resina, piuttosto un odore acido, quasi di marcio. Si allontanò, ma non staccò le mani.

Quella cosa si mosse appena, lentamente, su e giù, come un polmone stanco. Carla rimase immobile. L’odore si fece molto più intenso. Lei non si mosse, ma la cosa sì, e stavolta le sembrò di avvertire anche una specie di mugolio. Le tremavano le mani per la paura e qualcosa le stava bagnando sempre di più: era qualcosa di viscido. Scivolò e cadde su quella strana creatura, che si divincolò e sparì un attimo dopo, come risucchiata dal terreno.

Carla cercò di pulirsi le mani e il viso, ma quell’odore nauseante era ormai ovunque. Si alzò e riprese a salire.

 

Forse erano passate un paio d’ore da quando Carla aveva ripreso il cammino.

Si voltò a destra, verso la cima della montagna: una piccola luce fiammeggiava più in alto. Carla poggiò le mani sulla roccia che la separava da quella fiammella e si diede una spinta puntando i piedi. Iniziò ad arrampicarsi sulla roccia.

“Finalmente!” disse una voce baritonale.

Carla alzò la testa e vide una sagoma scura e imponente sopra di lei.

“Ti stanno aspettando tutti. Credevano che non saresti più venuta” disse la sagoma scura.

“Tutti?” disse Carla.

“Proprio strana sei. Avrebbero dovuto scegliere un’altra”.

“Scegliere? Chi? Per cosa?”

La sagoma scura si avvicinò alla fiammella. Un grande cappello nero sovrastava il suo ghigno, che Carla era sicura di avere già visto.

“Proprio non ricordi? Sono venuti per te, su questa montagna. E lui è venuto a prenderti proprio questa notte”.

L’uomo con il cappello nero si volse a guardare alle proprie spalle, ma Carla non riuscì a vedere nulla. Un senso di nausea le bloccò la gola: quell’odore pungente era di nuovo vicino. La fiammella si fece più grande, e una grossa risata la mosse da un lato e dall’altro.

“Allunga la mano verso la fiamma” disse a Carla l’uomo con il cappello.

Carla si sporse in avanti e fece come le aveva detto. La luce si spense. Al suo posto comparve una sassifraga bianca e brillante, come di quarzo.

“Raccogli un fiore e annusalo” le disse l’uomo, indicando la sassifraga.

Carla si abbassò, fino a raggiungere uno dei fiori. Lo prese e lo portò al naso. Chiuse gli occhi e respirò a fondo. Un turbine d’aria si sollevò da terra, poco distante da loro, e una risata grassa e cavernosa le fece subito riaprire gli occhi.

“Stanno arrivando!” disse l’uomo con il cappello nero. Il suo ghigno si fece più pronunciato.

“Cos’è quel vortice denso che viene verso di noi?” chiese Carla.

“Vedrai! Lo vedrai molto presto! Ah ah ah” fece l’uomo.

Il vortice si avvicinava. Carla, sempre più impaurita, strinse il fiore che aveva fra le dita. Lo stelo si spezzò e il fiore cadde sulla roccia.

“Venite, fratelli! Venite!” urlò l’uomo con il cappello nero.

Una luna sempre più grande sbiancava adesso il cielo sopra di loro. Carla alzò gli occhi, come in cerca di aiuto. La nube era ormai dietro le spalle dell’uomo con il cappello nero. Carla iniziò a tremare. Chiuse gli occhi per un istante. Quando li riaprì vide decine di maschere che le volteggiavano intorno, mentre la nube iniziava ad offuscare la luna.

“Prendetela, fratelli! Vostra madre è qui. Adesso è vostra!” disse a gran voce l’uomo con il cappello nero.

Le maschere divennero color carbone, quasi invisibili nel buio della notte, schiarite appena dalla nube che le circondava. Si avvicinavano lentamente a Carla, costringendola ad arretrare: la stavano schiacciando contro la roccia. Carla fece un passo indietro, poi un altro. Era in trappola.

Una coltre di maschere di legno scuro si chiuse sopra di lei. La nube scomparve lentamente. La luna prese il colore della notte e fu buio per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 




UNA FORTUITA SERIE DI CIRCOSTANZE di Valentina Pucillo

Una fortuita serie di circostanze

di Valentina Pucillo

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Il garrito dei gabbiani che sorvolavano il porto non accennava a diminuire di intensità, nonostante fosse ormai tarda notte. Dall’angolo in fondo alla biglietteria dove si trovava, schiacciato tra la macchinetta automatica per le foto e il muro da cui si apriva la grande vetrata che affacciava sul porto, Karl sentiva fin troppo bene gli urli acuti dei maledetti uccelli. E li vedeva fin troppo bene, anche. Uno di quelli, enorme, era sceso in picchiata a tutta velocità verso di lui, tanto che Karl aveva temuto che si spiaccicasse contro la finestra e che il vetro andasse in frantumi cadendogli addosso; poi, invece, il gabbiano aveva elegantemente virato verso destra ed era volato via.

Karl aveva il sedere freddo e indolenzito per le ore trascorse rannicchiato sul marmo; la gazzarra orchestrata dagli uccelli rappresentava un ulteriore impedimento a un qualsiasi tentativo di dormire.
“Ci mancavano solo questi uccellacci del malaugurio, per la miseria!” imprecò insofferente Karl: tuttavia, non poteva nascondere a se stesso una certa invidia per la libertà di quelle creature. Comunque, se voleva almeno tentare di riposare qualche istante, doveva trovare una diversa sistemazione.

Decise di alzarsi dall’angolo in cui stava accovacciato, visto che era rimasto completamente solo nella sala spoglia. Sentì con un certo sollievo le ossa indolenzite della schiena e delle anche scricchiolare. Pensò che avrebbe potuto sdraiarsi su una delle panche posizionate lungo il muro dalla parte opposta della stanza; il legno rivestito di stoffa sudicia era probabilmente più comodo della pietra. Sicuramente più caldo. Vagamente inquieto, camminò verso il centro della sala per sgranchirsi le gambe, illuminato dai neon accecanti come un primo tenore sul palco dell’opera. Si chiese perché diavolo non avevano spento le luci, una volta chiusa la biglietteria; la visibilità era comunque assicurata grazie alla forte luce dei fari sulle banchine, e lui si sarebbe sentito più protetto. Tuttavia, si rendeva conto che il suo timore era piuttosto infondato. La sala era vuota, e lo sarebbe stata ancora per svariate ore. Su un cartello c’era scritto che la biglietteria apriva alle sette, e Karl non si aspettava che gli impiegati svogliati arrivassero con eccessivo anticipo. Aveva tutto il tempo per riposare, almeno per qualche ora. Era stanco. Era tanto stanco e aveva bisogno di assopirsi e di non pensare.

Quel pomeriggio, mentre camminava su e giù per il porto tirando calci ai mucchi di corde ammonticchiate agli angoli, Karl si era quasi rassegnato all’idea di dover passare la notte fuori sulla banchina. Non sapeva quanto gli rimaneva in tasca, non aveva neanche voglia di controllare, ma di certo non poteva permettersi di sprecare neanche un centesimo per pagarsi una stanza. Aveva intravisto, sul molo più lontano dal cancello di ingresso, quello che da lontano sembrava una specie di cimitero di container scrostati e abbandonati. Ce n’erano alcuni belli grossi, avrebbe potuto rannicchiarsi in uno di quelli, e magari chiuderlo per ripararsi dalle raffiche di vento marino che, sicuramente, durante la notte era ancora più umido e gelido. Ma aveva cambiato idea quando, all’imbrunire, quello che per tutto il giorno gli era sembrato un posto energico e fremente di attività, aveva assunto una connotazione ambigua. Gli pareva di aver iniziato a notare strani movimenti; personaggi poco rassicuranti dalle facce torve gli lanciavano occhiate malevole.

Alcuni, sembravano clochard che probabilmente stazionavano lì ogni notte; molti, troppi, gli sembravano malviventi che aspettavano il buio per occuparsi dei loro traffici. I grandi porti, di notte, sono luoghi ideali per incontri loschi e scambi illegali, lo sanno tutti. E lui non era certamente un uomo della strada, e sapeva benissimo di non essere neanche così scaltro da potersi trarre d’impaccio in caso di guai. Oltre alla tensione per la situazione, che ancora doveva capire come gestire, aveva iniziato a sentire anche qualcosa di molto simile alla paura. Era perciò tornato a passo svelto alla biglietteria poco prima dell’orario di chiusura e si era nascosto dietro uno di quei cubicoli che scattano fotografie istantanee, che quasi nessuno usa mai perché le foto vengono sempre orribili.

Si sdraiò sulla panca su un fianco, adagiando la schiena dolente lungo lo schienale, e chiuse gli occhi, coprendoli con il berretto. Si assopì, ma non riusciva ad addormentarsi del tutto, infastidito dal rimestio agitato che gli rivoltava lo stomaco. Capì di avere fame. L’ultimo pasto decente che aveva fatto era stato parecchie ore prima, in quella trattoria sulla statale insieme a Ioan, il camionista che lo aveva raccattato lungo la strada, con il quale aveva condiviso un piatto di merluzzo fritto unto e un quarto di vino.

Quel giorno si era messo in cammino, con un pesante zaino sulle spalle, già da prima dell’alba; non sapeva neanche che ora fosse quando, dopo quelle che sembravano ore interminabili, si era fermato in una piazzola dove aveva visto un bagno chimico. Lo aveva trovato chiuso a chiave e aveva imprecato ad alta voce. Il camion si era accostato e l’autista era sceso proprio mentre Karl tirava un calcio alla parete di plastica.

L’uomo che gli stava davanti era tozzo e grosso, con gli angoli della bocca rivolti verso il basso. Gli si era avvicinato con un’andatura strascicata, guardandolo fisso da sotto le sopracciglia folte e gli aveva chiesto, con un marcato accento moldavo: “Tu problema?” “Bagno. Fame” aveva risposto Karl, adeguandosi stupidamente al parlare sgrammaticato del suo interlocutore.

L’uomo aveva indicato il camion. “Sali. C’è bagno e cibo più avanti”.
Una volta saliti sul camion, l’uomo gli aveva detto di chiamarsi Ioan e di essere diretto al porto per la consegna del carico. Poi, per tutto il tempo che avevano trascorso insieme, Ioan era rimasto in un silenzio accigliato. Sempre senza dire una parola, gli aveva fatto cenno di scendere quando erano arrivati davanti al grande cancello di ferro che si apriva sulle banchine, ed era ripartito lasciandolo lì.

Karl si riscosse. Con lo stomaco che reclamava si alzò, sacrificò qualche spicciolo per acquistare un paio di tramezzini al distributore automatico e li inghiottì con foga. Poi si sdraiò di nuovo sulla panca e, rigirandosi continuamente sul legno duro, cadde in un sonno agitato e popolato da sogni inquieti che avevano tutti per oggetto la perdita del suo passaporto. Sognò che un branco di cani rabbiosi lo riduceva a brandelli; sognò che uno sbirro, con un sorriso ambiguo, glielo sequestrava sostenendo che fosse falso; sognò di salire finalmente sulla nave ma, tirando fuori il passaporto per mostrarlo al controllo all’ingresso, questo gli veniva strappato via da una raffica di vento e veniva scaraventato tra le acque luride del porto. Spalancò gli occhi e con il batticuore si tastò la tasca posteriore dei pantaloni, tranquillizzandosi quando sentì lo spessore rigido del prezioso documento.
Rabbrividì per una folata gelida che si era insinuata nella stanza. Saltò in piedi, stropicciandosi gli occhi abbagliati dal neon.

Entrambe le pesanti porte a vetri, sia quella sul lato della strada sia l’altra che affacciava direttamente sul porto, erano state chiuse ermeticamente; fino a qualche istante prima non era entrato all’interno neanche uno sbuffo d’aria, eppure aveva sentito più volte il vento ululare intorno alla stanza. Si guardò intorno, vigile e in tensione, non riuscendo a capire da dove provenisse l’aria. Poi ebbe un tuffo al cuore: la piccola finestra che si trovava dietro alle postazioni degli impiegati era socchiusa. Con immenso sgomento si accorse che c’era una figura nera dietro i vetri. Le dita della figura spuntavano nella fessura tra le due ante. Cazzo, era una guardia? Lo aveva visto? Afferrò convulsamente lo zaino dalla panca e si girò per lanciarsi dietro alla macchinetta delle foto, sperando di riuscire a nascondersi, ma una voce lo bloccò.

“Ehi… ehi tu! Ti ho visto, sai? Sono dieci minuti che ti osservo”.
La voce non era imperiosa né sferzante, come sarebbe invece stata se fosse appartenuta a una guardia della vigilanza privata o, peggio, a un poliziotto; era, piuttosto, un sussurro incalzante. Lentamente Karl si voltò. Rimase quasi a bocca aperta nel trovarsi davanti un ragazzino seduto sulla soglia, con le gambe penzoloni verso l’interno della stanza. Il ragazzino era intabarrato in un vecchio cappotto militare di almeno due taglie più grandi, e sulla sua testa spiccava un cespuglio di capelli arruffati. Non poteva avere più di quindici o sedici anni, e lo osservava con un’espressione guardinga ma non spaventata.

“Chi sei? Lo sai che è vietato stare in questo posto?” chiese Karl, cercando di nascondere la propria agitazione e di apparire più duro di quanto non si sentisse.

“Posso chiedere a te la stessa cosa” replicò il ragazzo con un sorrisetto, per nulla intimorito. “Io sto fuori, sei tu quello dentro a una sala chiusa. E poi io qua ci sto sempre. Non ti ho mai visto. Sei un ladro?” chiese, quasi speranzoso.
“Ma che dici, ragazzino!” rispose Karl allarmato, temendo scioccamente che ci fosse la vigilanza nelle vicinanze. “Cercavo solo un posto dove passare la notte. Prendo la nave domani mattina”.

“Beh, ma da qua partono solo le navi con dentro i container, non quelle con le persone! Hai sbagliato, devi andare dall’altra parte del porto. Là c’è pure una sala d’attesa dove puoi entrare mostrando il biglietto! Vieni, ti ci accompagno…”
“Ragazzino, sto bene qui” rispose Karl freddamente.

“No, no. Non puoi restare qui, ti troveranno!”
Il ragazzino si guardò attorno e iniziò a parlare a raffica: “Una volta c’era un senzatetto che si era addormentato lì per terra, e la mattina dopo, quando sono entrati e lo hanno trovato sdraiato, prima hanno pensato che fosse morto e hanno iniziato a gridare, poi quello si è svegliato e allora si sono messi ancora più paura e hanno chiamato i poliziotti che erano qui fuori, dicendo che c’era un ladro, e allora due poliziotti sono entrati e lo hanno preso ognuno per un braccio e lo hanno portato via trascinandolo e…”
“Smettila di gridare, ragazzino! Se continui a strillare così, certo che mi troveranno! E comunque, credi che non ci abbia già pensato? Vedi quell’angolo laggiù in fondo alla sala, dietro alla macchinetta delle foto? Tra poco mi nasconderò lì, dove sicuramente gli impiegati della biglietteria non andranno mai a guardare, e quando inizierà il viavai di gente sguscerò rapido verso la porta. Non se ne accorgerà nessuno” rispose Karl, con una certa aria di superiorità mista ad orgoglio per la sua trovata.
“Ma no! Non gli impiegati! Quelli non si accorgono mai di niente. Gli impiegati no, ma loro ti vedranno sicuramente” disse il ragazzino con la voce ridotta a un sussurro, fissando Karl dritto negli occhi.
Karl iniziò a sentirsi nervoso. Si guardò intorno di sottecchi, come a cercare qualcuno o qualcosa nella sala. Ma non vide nessuno oltre al ragazzino e al riflesso di se stesso nella vetrata.
Poi si riscosse. Come diavolo pensava di poter affrontare il viaggio che aveva in mente se si lasciava suggestionare dalle sciocchezze di un ragazzino?

“Ehi tu” lo apostrofò seccamente, “adesso mi hai scocciato. Chi è che dovrebbe trovarmi, eh? Ti diverti a prendermi in giro?”
Il ragazzino alzò gli occhi al cielo, come se avesse appena ascoltato la più stupida delle domande. Poi rispose con tono arzillo: “Gli addetti delle pulizie ti vedranno. Chi sennò? Arriveranno tra…” si sporse in avanti per guardare l’orologio al centro della sala, che segnava le quattro meno dieci: “Tra poco più di un’ora. E loro ci guardano, dietro alla macchinetta delle foto”.
Karl rimase impietrito. Come aveva fatto a non pensarci? Era stato davvero un idiota. Certo, aveva con sé i documenti, non era ricercato, sicuramente non ci sarebbero stati problemi a chiarire l’equivoco. Tuttavia sarebbe stato, nella migliore delle ipotesi, estremamente imbarazzante. Nella peggiore… non voleva pensarci, ma potevano essere grosse rogne se ci si metteva di mezzo la polizia. Rifletté brevemente massaggiandosi le tempie. Sì, senza dubbio doveva andare via da lì, e anche alla svelta.
Una ventata di aria gelida fece tremolare la grande vetrata accanto alla porta, e subito dopo grosse gocce di pioggia iniziarono a cadere.

“Ci mancava anche il temporale, dannazione!” imprecò Karl a bassa voce. Si voltò verso la biglietteria. Il ragazzino era ancora lì e lo osservava con curiosità. Era sceso all’interno della stanza e aveva poggiato la schiena alla finestra per tenerla chiusa.
“Senti…” gli disse Karl, titubante, “hai ragione, non posso stare qui. Devi farmi uscire, devo trovare un altro posto dove ripararmi”.
Al ragazzino si illuminarono gli occhi. Gli fece velocemente cenno di avvicinarsi. “Vieni di qua! Dobbiamo per forza uscire dalla finestra. Poi, se siamo fortunati e troviamo aperto il cancello del cantiere navale, tagliamo di là e arriveremo in due minuti dove stanno le navi per le persone, e lì puoi stare nella sala, come ti dicevo!” spiegò il ragazzo, compiaciuto che alla fine la sua idea fosse stata apprezzata.
“Ancora! Ragazzino, diamine, non possiamo andare lì. Non capisci? Non ce l’ho questo fottuto biglietto” ringhiò Karl. Poi aggiunse, più dolcemente: “Puoi aiutarmi a trovare un altro posto?”
Il ragazzo si bloccò e lo guardò a bocca aperta, vagamente inquieto. Sul suo viso confuso si leggeva chiaramente la domanda inespressa: come si può pensare di prendere la nave senza biglietto? Poi si riscosse. Quell’uomo non gli metteva paura come altri uomini che aveva intravisto a volte intorno ai container abbandonati. Fece cenno a Karl di scavalcare la finestra e uscì dopo di lui, facendo attenzione a richiudere le vecchie ante di legno che si incastravano sempre strusciando sul davanzale.

“Vieni con me” disse a Karl, incamminandosi svelto.
Karl lo seguì e gli chiese, stupito, come facesse a conoscere così bene il porto. Quel ragazzino non gli sembrava un delinquentello, ma d’altra parte i porti non sono proprio posti tranquilli e sicuri, soprattutto di notte. Il ragazzino, senza voltarsi, indicò il grosso faro che svettava davanti a loro in lontananza. “Io sto sempre con mio padre. Lui lavora lì”.
Il figlio del guardiano del faro! E chi ci avrebbe mai pensato!? Certo, magari era solo una balla, inventata da quel ragazzino dallo sguardo sagace per fregarlo: il ragazzino era di sicuro più furbo di lui, e troppo a suo agio in un postaccio come quello, di notte per giunta. Poteva tuttavia essere davvero il figlio del guardiano; quella strana situazione avrebbe acquisito senso. Effettivamente, era al faro che si stavano dirigendo. E se il faro fosse stato un covo di farabutti che non aspettavano altro che un pollo da spennare? Karl ghignò desolato tra sé e sé. Bel pollo secco che avrebbero trovato!

Pioveva sempre più forte, e la pioggia si riversava nell’acqua salmastra ruscellando sui ponti delle navi. Karl era zuppo, intriso d’acqua come una spugna; seguiva il passo veloce del ragazzino attraverso le strade che collegavano tra loro i vari magazzini del porto. Gli sembrava di essere in un labirinto, e il fragore del muro di pioggia rendeva scarsissima la visibilità, contribuendo a fargli perdere l’orientamento; non aveva idea di dove fossero e in mezzo a quelle strutture non vedeva più neanche il faro.
D’un tratto, i due sbucarono sulla banchina; Karl fu schiaffeggiato da una raffica di vento bagnato e gelido e si bloccò, imbambolato alla vista delle navi portacontainer scure ed enormi.
“Ehi, muoviti! Fa freddo, sono fradicio, andiamo!” gli gridò il ragazzino, e cominciò a correre in direzione del molo al termine del quale si ergeva il faro. Karl si riscosse e si precipitò dietro al ragazzo, arrancando lungo il molo scivoloso. Cercava di non guardare la massa di acqua nera che incombeva su di lui sia a destra che a sinistra, e di non pensare a cosa sarebbe potuto succedere se fosse caduto sugli scogli ricoperti di alghe viscide che costeggiavano il molo.
Quasi senza che Karl se ne rendesse conto, arrivarono finalmente davanti al faro. Karl, ansimando, poggiò la schiena alla porta di ferro e restò così, immobile, a riprendere fiato; poi guardò interrogativo il ragazzo, in piedi accanto a lui, per nulla provato da quella impetuosa corsa notturna. Cosa sarebbe successo, ora?
“Di’ un po’, ragazzino, e adesso? Non mi farai passare mica tutta la notte qui al gelo?” lo apostrofò Karl piuttosto seccamente.

“Mi chiamo Josef. Puoi chiamarmi con il mio nome, siamo quasi amici, adesso” rispose lui e, presa una vecchia chiave da sotto un masso, aprì la porta e sgattaiolò dentro, lasciando che il battente si chiudesse rumorosamente alle sue spalle.
Karl restò impietrito per qualche istante. Poi, furioso, cominciò a gridare.

“Ragazzino… Josef! Apri la porta! Dove diavolo sei andato?”
La pioggia continuava a infradiciarlo; prese a battere sulla porta e a strepitare improperi, tossendo e starnutendo. Finalmente, la porta si aprì.
“Ragazzino sciagurato! Mi prendi per il culo? Stai cercando di fregarmi? Adesso ti faccio vedere io!” ringhiò Karl alla figura all’entrata. Ma, a guardare bene, Josef non era solo. Accanto a lui c’era un uomo alto e massiccio, con barba folta e rossiccia come la criniera che aveva in testa. L’uomo gli parlò con una voce profonda e autoritaria, ma non minacciosa. “Modera i termini, amico. Questa tua aggressività non ci è gradita. Comunque, a mio figlio hai fatto simpatia. Mi ha detto che avevi bisogno di aiuto e non aveva tutti i torti, sembri piuttosto provato. Sali”. Senza dire altro, l’uomo si voltò e iniziò a salire la ripida scala di ferro. Karl sgusciò dentro mentre Josef gli teneva la porta aperta. Continuando a starnutire, si avviò per le scale stringendosi al petto lo zaino bagnato che conteneva i suoi pochi averi.

La scala portava ad un’unica stanza circolare, arredata con un divano di cuoio e due grosse poltrone; in fondo, c’erano un cucinino con un tavolo, e un bagno. La stanza era illuminata da una luce fioca ed era asciutta e priva di spifferi.
L’uomo accese il bollitore. Riempì tre tazze quando l’acqua fu calda e vi sciolse del caffè solubile. Aggiunse un cucchiaino di miele e un po’ di latte nella tazza che diede a Josef, e nelle altre due versò una generosa dose di brandy, tenendone una per sé e poggiando l’altra sul tavolo, davanti a Karl.
“Togliti quei vestiti zuppi e poi bevi qualcosa di caldo, ne hai bisogno. Lì c’è una tuta, è vecchia ma pulita. Puoi metterti quella” disse, indicando con il mento la porta scrostata del piccolo bagno.
Come un automa, Karl appoggiò lo zaino sulla poltrona e andò in bagno, dove iniziò a cambiarsi lasciando la porta socchiusa. Mentre si infilava i pantaloni di flanella (enormi, ci stava dentro due volte) vide con la coda dell’occhio l’uomo versare nella sua tazza quella che sembrava una polverina bianca, e mescolare. Si precipitò fuori gridando febbrilmente: “Che cavolo stai facendo? Vuoi avvelenarmi?”
Poi abbassò lo sguardo e vide una bustina aperta poggiata sul tavolo.
“È paracetamolo. Ti aiuterà” gli rispose l’uomo senza scomporsi.
Karl prese il bicchiere con mano tremante e si accasciò su una delle poltrone. Dalle finestrelle senza tende lungo tutta la parete vedeva il fascio di luce del faro che appariva e scompariva ipnoticamente.

“Dunque… sei davvero il guardiano del faro, e Josef è tuo figlio. Vivete qui?” chiese a un tratto Karl, nonostante l’imbarazzo e l’ambiguità della situazione.

L’uomo si lasciò andare ad una risata grave, poi disse: “Credo proprio che non si possa dubitare sul fatto che Josef sia mio figlio. Sull’essere guardiano del faro, invece… ormai sono anni che questo mestiere non esiste più. Sembra una definizione da figura mitologica. Adesso per la legge noi siamo operatori nautici”.

Poiché Karl lo guardava interrogativo, l’uomo continuò: “Anni fa il termine guardiano del faro aveva una sua ragion d’essere. Vivevamo nel faro, in simbiosi con il faro. La manutenzione era giornaliera e costante. Oggi con la tecnologia è cambiato tutto. Io e Josef abitiamo in città; veniamo qui un paio di giorni ogni settimana per la pulizia e i controlli ordinari. E da quando il carico di lavoro è diminuito, mi occupo di altri piccoli… affari, ecco, affari di vario genere giù al porto. Oggi, comunque, non avremmo dovuto essere qui. Sei stato fortunato”.

“Fortunato un corno. Sono quasi le cinque del mattino e non so ancora cosa diavolo fare” pensò Karl tra sé e sé. Fissò torvo un punto indistinto nell’oscurità oltre la finestra, ascoltando il borbottio del mare e il respiro pesante di Josef, che si era addormentato sulla poltrona accanto alla sua.

“Ti conviene dormire un po’ prima che faccia giorno” gli disse l’uomo.
Karl era nervoso e, allo stesso tempo, intontito dal miscuglio di liquidi e medicinali che aveva ingurgitato; inoltre, si stava così bene su quella comoda poltrona che la stanchezza prese il sopravvento e gli fece chiudere gli occhi.

Non aveva idea di quanto avesse dormito; dalla finestra vedeva che il cielo, in precedenza nero e senza stelle, si era leggermente schiarito all’orizzonte. Istintivamente allungò una mano verso lo zaino e lo strinse a sé. Subito fu agitato da qualcosa che all’inizio non comprese. Poi capì: lo zaino era aperto, leggero, e aveva una consistenza molle. Era pieno di fogli di giornale appallottolati. Karl si guardò intorno: nella stanza non c’erano più né i suoi vestiti né Josef e suo padre. Era solo e non aveva più la sua roba.

Si era fatto fregare! Povero illuso idiota che non era altro! Ma perché quei due truffatori avevano voluto approfittare proprio di un poveraccio come lui? Maledisse tutto, e si prese la testa tra le mani.
All’improvviso sentì dei rumori provenienti da sopra la sua testa. Scattò in piedi e percorse affannosamente le scale. Nella grande stanza a vetrate al piano superiore c’era la lampada del faro. Josef e suo padre erano lì e trafficavano vicino alle lenti. I suoi vestiti, il portafoglio, il passaporto e gli altri effetti personali erano allineati in bella mostra su un tavolino.

“Cosa…” sbottò Karl.

“Guarda, Karl! Si sta asciugando tutto per bene! Sono riuscito a stendere tutte le banconote e a non far gonfiare di umidità i fogli del passaporto!” esclamò Josef compiaciuto. “Dovrebbe essersi quasi asciugato anche lo zaino: i fogli di giornale assorbiranno tutta l’umidità!” Ancora una volta, Karl chinò il capo, affranto.

“Perdonatemi… io, ecco, credevo che volevate fregarmi. Non sono mai stato molto fortunato nella mia vita. E devo prendere quella nave per l’Australia, la devo proprio prendere a tutti i costi, capite? Ma non so come fare, maledizione!”
Josef guardò suo padre, che a sua volta fissò a lungo Karl con uno sguardo indecifrabile.

“Io non so chi tu sia, Karl, e non so da cosa fuggi e cosa devi andare a fare a tutti i costi in Australia. Ma non mi sembri un disgraziato”.
Karl alzò lo sguardo, speranzoso.
“Facendo i miei… affari giù al porto ho conosciuto molte persone interessanti” disse l’uomo calcando le parole affari e interessanti. “Spesso ci si scambiano favori. Ho tirato fuori dai guai e da situazioni ambigue parecchi operatori portuali. Di recente ho risolto una questione per Abel, un tale che si occupa dei servizi tecnici di bordo e del carico e scarico merci sulle portacontainer. E il caso vuole che questo tizio si imbarcherà come responsabile merci sul mercantile che parte stasera per Brisbane. Non credo avrebbe problemi a farti salire sulla nave come aiutante e a procurarti un visto, purché tu abbia un passaporto in regola e sia incensurato”.

Il corpo di Karl, infilato in quella tuta troppo grande, ebbe un sussulto. Abbozzò un sorriso patetico, passandosi la mano tra i capelli scompigliati.
Intanto si era fatto giorno; il cielo era coperto da uno strato plumbeo e pesante di nuvole, il mare era gonfio e grigiastro; una sottile pioggerella ancora persisteva e dava tutta l’idea che sarebbe durata l’intero giorno.

Josef e suo padre accompagnarono Karl da Abel, un tizio magro e di poche parole che comprese al volo la situazione. Si accordarono velocemente: in cambio di un posto sulla nave, Abel chiese solo che Karl aiutasse nelle attività di carico merci; una volta in Australia, sarebbe sparito dalla sua vista e avrebbe badato da solo a se stesso. Era più di quello che Karl aveva sperato.

“La nave partirà stasera alle nove. La chiave del faro è sempre nello stesso posto; quando avrai finito, torna al faro a riprendere i tuoi vestiti e le tue cose, che per il momento ti conviene lasciare lì. Buona fortuna” disse il padre di Josef a Karl, facendo poi un cenno di saluto con il mento; il ragazzino gli strinse solennemente la mano. Karl li salutò con un sorriso imbarazzato senza trovare le parole adatte. Li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano. Quando furono spariti dalla sua vista, quasi dissolti nella pioggia, gli sembrò assurdo che quei due fossero veramente esistiti e che gli avessero persino servito su un piatto d’argento la soluzione al suo problema. “Eppure sono qui, e staserà partirò!” pensò Karl euforico, e restò stralunato a fissare la gigantesca nave davanti a lui.

Si riscosse sentendo Abel che lo chiamava seccamente e gli indicava una pila di casse, e iniziò a caricarle in un container seguendo le sue indicazioni. Era un lavoraccio faticoso e Karl fu presto stanco, ma allo stesso tempo animato da un miscuglio di eccitazione e gratitudine; pertanto continuò a lavorare come un mulo e senza una parola di lamento fino al pomeriggio inoltrato, quando Abel gli comunicò concisamente che il lavoro di carico era terminato. Gli diede un pass per salire sulla nave e si voltò per andarsene, ricordandogli a mezza bocca di presentarsi puntuale alle otto e mezza. Karl era sfranto, ma si sentiva leggero e vagamente ottimista per la prima volta da giorni: nonostante tutto, si rendeva conto che una fortuita e fortunata serie di eventi lo stava portando sempre più vicino alla sua meta.

Arrivò al faro che era quasi buio. Salì faticosamente la scala di ferro fino alla stanza rotonda. Controllò che nel suo zaino ci fosse tutto e, cercando di ignorare il dolore alle braccia, indossò i suoi vecchi vestiti. Poi si sedette sulla comoda poltrona, dando ai suoi muscoli e alla sua mente la possibilità di rilassarsi.

“Potrei riposare un po’” pensò Karl, “mancano circa due ore all’appuntamento. Potrei chiudere gli occhi… magari solo per qualche istante…” e si assopì, cullato dal mormorio delle onde e dalla pioggerellina che ancora batteva sui vetri.

Si svegliò di soprassalto, con la gola secca e il cuore a mille. Si rese conto che a farlo sobbalzare era stato il suono lungo e grave di una sirena. L’orologio appeso al muro segnava le 20:27. Sentì il sangue defluirgli nelle vene. L’appuntamento era alle 20:30; aveva soltanto tre minuti per raggiungere la banchina, ma quella mattina ce ne aveva messi venti!

Si riscosse, deciso a non perdersi d’animo: non poteva mandare tutto in malora proprio adesso, cazzo! La nave non sarebbe partita che alle 21:00, del resto. Col cuore in gola afferrò lo zaino e si precipitò giù per le scale senza neanche metterlo sulle spalle, poi si lanciò lungo il molo come un forsennato. Ce l’avrebbe fatta, certo che ce l’avrebbe fatta! Poteva già vedere il profilo dell’enorme nave, era lì ferma che lo aspettava. Ci avrebbe messo meno di dieci minuti, pensò continuando a correre come un pazzo.

Forse, nella foga, Karl non vide la corda spessa ammonticchiata su un lato del molo, o forse le sue scarpe usurate avevano la suola troppo liscia per supportare un’altra corsa folle sul suolo bagnato. Quello che è certo è che all’improvviso Karl perse l’equilibrio e rotolò rovinosamente su quegli scogli scivolosi a lato del molo, battendo forte la testa su uno spuntone. L’ultima cosa che i suoi occhi annebbiati videro, prima di perdere conoscenza, fu lo zaino che galleggiava nell’acqua grigia sotto di lui.

Passò del tempo, Karl non seppe stabilire in effetti quanto, prima di rinvenire. Era buio e lui era di nuovo fradicio. Nonostante l’oscurità, poteva intuire in lontananza il nero profilo familiare di una nave mercantile, ormai irraggiungibile all’orizzonte.

foto di Ylanite Koppens da Pixabay