Un inganno di troppo, il thriller che il pubblico ama

Ormai sono sempre più le serie thriller lanciate da Netflix, che pare attirino particolarmente il pubblico trascinandolo in atmosfere cupe e misteriose.

Ecco, Un inganno di troppo, rilasciata il primo gennaio scorso, è senza dubbio una di queste, diretta da David Moore e tratta dal romanzo omonimo di Harlan Coben. La collaborazione tra lo scrittore e Netflix è infatti ormai ben nota, avendo la piattaforma già adattato e reso celebri diversi suoi lavori, tra cui, tuttavia, Un inganno di troppo si dimostra il più riuscito.

La protagonista, Maya Stern, torna in città dopo una missione militare, trovandosi a dover affrontare due omicidi: quello della sorella Claire e del marito Joe Burkett. Sarà quindi costretta a prendersi cura di sua figlia e allo stesso tempo a indagare sui due casi, turbata ancora dallo stress post guerra.

Nonostante l’attrice principale, Michelle Keegan, non sia molto conosciuta, riesce con la sua interpretazione a portare la grinta e la forza femminili sullo schermo. Vediamo infatti in scena una donna estremamente determinata, che corre dei pericoli e non si ferma davanti a nulla pur di raggiungere la verità e fare giustizia e che non ha paura a premere il grilletto se necessario.

La serie inoltre, è girata interamente in Inghilterra, nonostante il romanzo sia ambientato negli Stati Uniti. Le location utilizzate sono a dir poco mozzafiato, in particolare la grande tenuta della famiglia Burkett era già di gran lunga conosciuta e amata dal pubblico, essendo la celebre abitazione di Thomas Shelby e della sua famiglia in Peaky Blinders, una delle serie più di successo di Netflix.

Tuttavia, la popolarità della serie è certamente dovuta in primo luogo ai numerosi e scioccanti colpi di scena che si susseguono uno dopo l’altro dall’inizio alla fine, ma che raggiungono l’apice negli ultimi due episodi, per questo i più coinvolgenti. Lo spettatore si trova pervaso da interrogativi senza risposta e messo in discussione, ma soprattutto, si trova a rimanere sempre sorpreso tra situazioni ribaltate in continuazione a piacimento del regista.

Dunque, Un inganno di troppo è indubbiamente un titolo valido e si consiglia in particolare a chi, nella sua quotidianità, vuole assumere le vesti di detective e saziare la sua curiosità.

Virginia Porcelli

 

 

 

 




Moustache Cup o Le tazze coi baffi

Per evitare baffi spettinati

 

Nel mio viaggio infinito nel mondo dei libri mi capita sempre più di sovente di fare delle soste seguendo i consigli indicatomi dai libri stessi.

Ero immersa nella lettura del romanzo postumo Julie di Don Robertson edito da Nutrimenti, quando in una frase leggo per la prima volta il termine moustache cup con una postilla in fondo alla pagina che riporta:

Moustache Cup. Oggetto in voga in epoca vittoriana, la “tazza coi baffi” permetteva agli uomini di non far sciogliere col calore la cera che veniva utilizzata per tenere fermi i baffi durante il sacro rito del tè delle cinque. La coppa aveva una fascia a mezzaluna in corrispondenza della parte superiore della bocca. In questo modo, non si sarebbe corso il rischio di rovinare la composizione del barbiere.

Non completamente soddisfatta dalla pur esaustiva definizione inserita dagli editori di Nutrimenti, mi sono messa alla ricerca del come e del perché sia nata l’esigenza di creare una tazza coi baffi.

 

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Pare che tutto abbia avuto inizio durante fase del colonialismo britannico in India. I militari dell’esercito inglese, sempre tutti rasati e con capelli rigorosamente corti, iniziarono a emulare gli uomini locali affascinati da quel loro aspetto virile così da macho.

Purtroppo, per prendersene cura e avere baffi perfetti, era necessario tenerli in piega con l’applicazione di cera così da lasciare i baffi irrigiditi e sempre in posizione garantendo loro che non fossero mai spettinati, almeno fino all’appuntamento delle cinque con l’ora del tè!

Eh già! Alle cinque il tè bevuto bollente rovinava tutti gli sforzi di bellezza a cui si erano sottoposti lasciando i poveri malcapitati nella brutta e esilarante situazione di vedersi colare i baffi ai lati delle guance. Di certo una spiacevolissima situazione per la quale trovò una brillante soluzione un vasaio britannico, tal Harvey Adams.

Nel 1870 brevettò e mise sul mercato la moustache cup con tanto di piattino abbinato. L’idea ebbe così tanta fortuna da oltrepassare la Manica, diventare di gran moda in Europa e arrivare fino agli Stati Uniti tanto che, nel giro di una decina di anni, l’ingegnoso Adams riuscì ad andarsene in pensione.

Inutile dire che la vita delle moustache cup seguì pari pari la moda dei baffi ma soprattutto sopraggiunse la prima guerra mondiale durante la quale si ritenne molto più importante la cura e la salute degli uomini in trincea. Era difficile assicurare loro un perfetto sigillo delle maschere antigas così si preferì di gran lunga tornare a rasarsi con regolarità dicendo addio ai tanto amati baffi e a la mania delle tazze con i baffi scomparve.

Successivamente la moda dei baffi tornò tra gli uomini, ma non quella delle moustache cup per la quale ne resta testimonianza solo nei musei e tra i tantissimi collezionisti in tutte le parti del mondo.

 

 

Curiosità in altri libri

Ho scoperto su Wikipedia che risulta si parli di moustache cup almeno in due testi:

Nell’Ulisse di James Joyce, dove Leopold Bloom beve il suo tè da una tazza coi baffi che ha ricevuto da sua figlia Milly per il tuo compleanno e nel capitolo 9 di Via col vento di Margaret Mitchell, dove Scarlett O’Hara pensa alle tazze coi baffi che ha realizzato per il bazar.

Ora sappiamo che appare anche a pag. 49 di Julie di Don Roberton dove la madre di Julie per dichiarare quanto sia antiquato Gil Mosby gli chiese “se per caso non voleva che uscisse a comprargli una di quelle tazze coi baffi o forse degli elastici per regolare la lunghezza delle maniche della camicia.”




Perché Febbraio si chiama così?

Febbre, maschere e mascherine

Nel calendario romano più antico, febbraio era l’ultimo mese dell’anno, che iniziava a marzo, momento di risveglio della natura e degli uomini al suono delle armi del dio Marte.

Febbraio era dunque dedicato alla purificazione e alla preparazione di un nuovo ciclo, di un nuovo inizio.

In verità, l’origine del suo nome non è poi tanto nascosta… Ebbene sì: come in un gioco, possiamo rinvenire facilmente tra le sue lettere la parola febbre!

Occorre premettere che nell’antica Roma ogni aspetto della vita, anche il più piccolo, era sotto la protezione di una specifica divinità: ci sono quindi decine e decine di culti per noi quasi sconosciuti ma molto praticati dal popolo. Ad esempio, la dea Numeria tutelava e contava i mesi della gravidanza,  la dea Edula aveva in custodia le carni commestibili e la loro conservazione, il dio Redicolo proteggeva il ritorno dai viaggi.

E veniamo così alla dea Febbre, in latino Februa o Febris, che origina probabilmente da Februus, un dio antichissimo etrusco-italico ed è legata alla purificazione dalle febbri, in particolare da quelle malariche.

 

Febbraio – Mosaico dal Museo Archeologico di Sousse

 

In virtù della potenza purificatrice che si attribuiva al fenomeno della febbre, si è concretizzato nel nome Februarius il legame con questa fase dell’anno, segnata da una serie di riti e di feste molto caratteristiche.

Una festa in particolare merita la nostra attenzione: il 15 febbraio si festeggiavano nell’antica Roma i Lupercalia, una solennità celebrata dai Luperci, giovani e giovanissimi romani consacrati, di solito abbigliati con pelli di lupo, in onore della Lupa che aveva allattato i gemelli Romolo e Remo.

Frammento di rilievo con Luperci dal Museo Nazionale Romano

Nel corso della festa essi si raccoglievano nel Lupercale, una grotta ai piedi del colle Palatino, dove sacrificavano un gran numero di capre, tagliavano le pelli in lunghe strisce, dette februa, e poi si slanciavano seminudi in una folle corsa agitando queste fruste e colpendo tutti coloro che incontravano.

Le donne desiderose di gravidanza si esponevano ai colpi, certe del potere del rito, che propiziava la fecondazione.

Nella fase finale dell’Impero romano, quando ormai il Cristianesimo dominava, vari vescovi tentarono di sopprimere l’antica consuetudine pagana, ma nulla si poteva contro la tenacia dei Senatori, i quali attribuivano le pestilenze e ogni altro danno al fatto che si trascurasse la festa dei Lupercalia. La solennità era talmente radicata nella vita dell’antica Roma che si perpetuò anche nei secoli tardi, fino all’anno 468.

Infine pare che il rito sia stato abolito dal papa Gelasio ma tuttora lo si può riconoscere probabilmente nella processione con le candele del giorno della Candelora, il 2 febbraio.

L’evocazione di tali riti ancestrali dal fascino unico ci conducono a considerare legami insospettati tra la febbre e l’infiammazione rossa e calda lasciata dai colpi di februa, le strisce di capra usate come fruste.

E’ poi molto suggestivo pensare alla nostra modernità e al fatto che proprio a febbraio soprattutto capita di venir colti dalle influenze di stagione e da quelle purificanti sudate al caldo del letto.

A proposito: quanta nostalgia per… la solita influenza!

Oggi, immersi come siamo nell’atmosfera pandemica, viviamo mille inibizioni che ci precludono gli abbracci e ci impongono le mascherine.

Mascherine e maschere di Carnevale…

Febbraio è anche il mese delle tipiche atmosfere carnevalesche, che oggi possiamo godere a metà.

Ed emerge, forte più che mai, un desiderio di purificazione, di guarigione sociale, di annientamento del virus, per tornare a danzare scatenati, liberi e senza maschera.

Dott.ssa Maria Cristina Zitelli