Old Boy – C’era una volta Spike Lee
In principio fu un successo, il primo Old Boy, quello del Coreano Park Chan-Wook che a Cannes nel 2004 in una giuria accondiscendente e con un Presidente “perfetto” come Quentin Tarantino fu premiato con il prestigioso “ Grand Prix”, premio non da poco se ( per fare qualche esempio) in questi ultimi anni è stato assegnato a “Gomorra” e “Reality” e che qualche anno prima di Chan-Wook se lo meritò Roberto Benigni per “ La Vita è bella”.
Non crediate per questo che ci si trovasse di fronte ad una grande storia, piuttosto una bella idea, violenta e dalle pretese psicologiche condita da splatter liberamente tratta da un famoso “Manga” giapponese.
Sorprende dunque che ne sia stato pensato quasi nell’immediato un remake, tutto americano, con grande dispendio di energie, scegliendo uno sceneggiatore abituato alle tinte fosche come Mark Protosevich , già script-maker di “The Cell” o di “ Io sono leggenda” e un regista come Spike Lee.
Il risultato è però cosi deludente che non si riesce a credere come un artista come Lee, che ha diretto film quasi perfetti come “La 25esima ora” o “ Malcom X” solo per citarne alcuni si sia gettato anima e corpo in un progetto così poco accattivante.
Joe Doucett è un agente pubblicitario disprezzato e sull’orlo dell’alcolismo e una sera al culmine di una cena piena di rimpianti viene avvicinato da una bellissima ragazza orientale che lo ammalia.
Al suo risveglio, si ritroverà in una stanza che è in realtà una prigione, dove qualcuno l’ha rinchiuso senza spiegargli perché e dove rimarrà per anni, disperato e incredulo, con la sola compagnia di un televisore che manda programmi di fitness e news h24.
Il malcapitato Joe sarà liberato dopo venti anni e pieno di rabbia cercherà di capire in una corsa a ritroso nel tempo chi gli ha rubato i migliori anni della vita così crudelmente.
Un film scollato, disconnesso dal pensiero logico, errori di sceneggiatura elementari, con un protagonista che dopo decenni di detenzione appare all’uscita da quel tugurio quasi ringiovanito e con un fisico da pugile che dovremmo credere costruito in una stanza angusta facendo esercizi fisici copiati dalle conturbanti istruttrici televisive di aerobica, mangiando per anni soltanto ravioli al vapore recapitati dagli aguzzini in un cinese take-away.
Il protagonista Josh Brolin davvero imbarazzante, che appare anche imbarazzato da tanta pochezza narrativa, con la sua espressione migliore recuperata in ogni situazione, sempre la stessa, all’inizio nei panni del venditore di fumo, poi del prigioniero disperato e infine del vendicatore spietato con il vestito buono modello Giorgio Armani.
Nel cast anche un crudele Samuel L. Jackson, a suo agio tra gli psicopatici
carcerieri che dirige in questa prigione “sui generis” e l’inconsistente Elizabeth Olsen che un giorno potrà raccontare ai nipotini increduli di aver avuto un ruolo da protagonista in un film di Spike Lee.
Un film presuntuoso in alcuni passaggi che invece che atterrire lasciano indifferenti e che si consuma come fosse una puntata venuta male di “Smallville“, a cui sembra spesso fare il verso, un passo decisivo verso l’anonimato di un grande regista, che ha accettato di dirigere e co-produrre uno script che bastava leggere una volta per rimandarlo al mittente, che forse aveva un senso se raccontato nella folle cornice del Cinema asiatico di genere, ma che traslato in occidente suscita solo perplessità, stentatamente repressa a colpi di martello sulla fronte e di scontri con mazze da baseball che abbonderanno quando il recluso finalmente liberato cercherà di scoprire quale colpa avrà mai commesso per meritarsi anni di solitudine e di frustrazione incolpevole e per esser rimasto incastrato maldestramente in un film come questo.