Le Demoiselles d’Avignon

Le Demoiselle d’Avignon è uno dei quadri più celebri di Pablo Picasso, universalmente considerato il quadro manifesto del cubismo, la corrente artistica di cui pionieri furono Picasso e Braque.

E’ sicuramente uno dei movimenti artistici più innovativi dell’inizio del ‘900 e rappresenta una frattura netta e definitiva con lo stile pittorico tradizionale, ancorato agli stilemi dettati dagli impressionisti.

 

Già prima di Picasso alcuni artisti, come Seurat, Munch, Van Gogh, ma soprattutto Cèzanne (il quale influenzò più di tutti il modo di vedere di Picasso) iniziarono una ricerca stilistica volta alla scomposizione e alla geometrizzazione dello spazio.

Le figure umane, seppur distorte nello spazio, risultavano comunque verosimili: con questo quadro, non più.

La genesi del quadro è molto lunga: Picasso ci lavorò tantissimo e tantissime, infatti, sono le influenze che si colgono all’interno di quest’opera: una fra tante, l’arte africana.

Nei primi disegni per la progettazione dell’opera lo spazio e le figure risultavano quantomeno tridimensionali, ma a mano a mano assistiamo ad una frantumazione dello spazio fino ad arrivare all’opera completata.

Le protagoniste del quadro sono cinque ragazze, probabilmente personaggi di una casa di tolleranza frequentata da Picasso, anche se i corpi hanno perso ogni valenza erotica.


I loro corpi sono esposti all’occhio dell’osservatore, ma sono frammentati e di diverse colorazioni. Anzi, tutto lo spazio ci appare scomposto geometricamente e disomogeneo.

I colori sono contrastanti: il rosa della carne è stagliando su uno sfondo bianco-azzurro.

Le due ragazze centrali hanno uno sguardo riconoscibile e rivolto verso lo spettatore, poi, come già detto, le due ragazze a destra richiamo le maschere di tradizione africana molto amate da Picasso, mentre la ragazza di sinistra ricorda uno stile egizio con il suo occhio centrale ed il profilo laterale.

Ai loro piedi, una piccola natura morta su un tavolo che indirizza il suo angolo proprio verso le figure.




Il popolo visto con gli occhi di Daumier

Honoré Daumier nacque nel 1808 in Francia e fu un pittore, anzi meglio dire un caricaturista, famoso per le sue vignette di satira politica pubblicate su una famosa rivista d’arte.

La produzione artistica di Daumier si concentra soprattutto sulle figure che abitano la città, ma non i borghesi e gli aristocratici, bensì il proletariato in tutte le sue forme: dai bambini alle lavandaie agli emarginati.

L’amore e l’affetto che Daumier prova per questi personaggi è lampante quasi quanto il fastidio e l’odio che animano le figure dei borghesi.

Daumier incarna quella corrente artistica realista che concentra il suo sguardo sul popolo e che lo raffigura con una vena ironica e dissacrante.

Molte delle sue famosissime caricature fanno sorridere ancora oggi.

Queste figure, dotate delle grandi teste e dai dettagli del volto sproporzionato, sono cariche di vitalità ed energia.

E non rappresentano solamente personaggi pubblici, politici o popolani, ma spesso attacca anche le figure mitologiche a cui la tradizione francese è tanto cara.

Uno tra i numerosi esempi è Ulisse e Penelope: la mitica coppia è qui rappresentata in una dissonante modernità, con le guance rosse ed i cappellini da notte.

Ma Daumier non è solo l’artista della satira e del buonumore, è anche l’artista della denuncia sociale.

In Rue Transonain, del 1834, Daumier riporta un fatto di cronaca nera: durante un arresto, ai primi segni di rivolta, dei poliziotti aprirono il fuoco sui cittadini causando numerose vittime. L’occhio pietoso e commosso di Daumier si concentra su queste figure strappate ai loro letti e lasciate giacere al suolo.

 

 

Anche alcuni tra i suoi dipinti più belli rappresentano la folla ed il basso popolo e sono pieni di un forte senso di partecipazione.
L’occhio di Daumier, sicuramente, non è un occhio freddo ed oggettivo che mira a riportare i fatti avvenuti, bensì è un occhio empatico ed amorevole.
Possiamo notarlo benissimo in due quadri: Il vagone di terza classe (1862) e La rivolta (1860).


Nella prima opera, lo spettatore (e il pittore stesso) sembrano osservare gli abitanti del vagone come se seduti all’interno dello stesso.
Un senso di dolcezza invade il cuore quando lo sguardo si sofferma sul bambino accucciato e sulla donna che allatta.

Se, dunque, guardando questo dipinto ci sentiamo parte della carrozza e condividiamo la stanchezza e la fatica del lavoro, ne La rivolta siamo resi partecipi dei moti rivoluzionari, siamo affascinati da questo personaggio centrale, vestito di bianco, e per suggestione riusciamo a sentire le urla ed il frastuono della gente riunita per protestare.

Honoré Daumier può essere dunque considerato, a pieno titolo, il pittore del popolo. Tutta la sua produzione artistica è schierata politicamente ed è portavoce e giustiziere del popolo.




L’espressione della passione e del movimento: Gianlorenzo Bernini

Gianlorenzo Bernini, figura preminente del barocco italiano, è celebre per le sue straordinarie opere scultoree che hanno segnato un’epoca e continuano a ispirare gli amanti dell’arte in tutto il mondo.

Tra le sue opere più iconiche spiccano “Apollo e Dafne”, “Il ratto di Proserpina” e “Il David”, ciascuna rappresentante del suo straordinario talento nel catturare l’essenza del movimento e delle emozioni umane.

Apollo e Dafne: Un Momento di Trasformazione Eterna

La scultura di “Apollo e Dafne” di Gianlorenzo Bernini, realizzata tra il 1622 e il 1625, cattura l’intenso momento di trasformazione mitologica tra Apollo e Dafne.

Nella mitologia greca, Apollo, dio della luce e delle arti, si innamora della ninfa Dafne, che per sfuggire al suo amore indesiderato si trasforma in un albero di alloro. Questa metamorfosi è magistralmente rappresentata da Bernini, che dà vita a questa storia attraverso il marmo.

La scena è dinamica e carica di energia, con Apollo insegue Dafne mentre lei si trasforma. Gli sguardi intensi, le pose fluide e le texture dettagliate creano un senso di movimento palpabile.

La pelle di Dafne si trasforma in corteccia, e le foglie spuntano dai suoi arti, un’illusione resa così realistica che si avverte quasi il profumo dell’alloro.

Il Ratto di Proserpina: Un Capolavoro di Emozione e Dettaglio Anatomico

L’opera “Il ratto di Proserpina” è un capolavoro intriso di drammaticità e maestria tecnica. Realizzata tra il 1621 e il 1622, questa scultura cattura il momento in cui Plutone, dio degli Inferi, rapisce Proserpina, figlia di Cerere, per farne la regina degli Inferi.
La scena è pervasa da un’intensa emozione, con Proserpina che esprime terrore e sorpresa mentre è trascinata via.

Bernini dimostra la sua abilità nel modellare la pietra, rendendo il marmo così vivido che sembra fluire come il tessuto.

L’attenzione ai dettagli anatomici, alle pieghe dei vestiti e all’espressione dei volti è straordinaria.
Questa combinazione di maestria tecnica e intensità emotiva rende “Il ratto di Proserpina” un’opera che continua a toccare il cuore degli spettatori.

Il David: Forza, Bellezza e Tensione

Il “David” di Gianlorenzo Bernini è una reinterpretazione unica del celebre soggetto biblico. Questa scultura in marmo bianco rappresenta Davide nel momento precedente il combattimento con Golia.

Bernini cattura il momento di tensione e concentrazione, in cui Davide stringe la fionda, pronto a sfidare il gigante.

La forza e la bellezza fisica di Davide sono esaltate attraverso la maestria nel modellare la pietra.
Le venature e i muscoli del marmo sembrano vibrare di energia. Il volto concentrato di Davide e la sua postura determinata evocano il senso di coraggio e determinazione.
L’opera incarna la lotta tra il bene e il male, la forza e la debolezza, catturando un momento cruciale e iconico nella storia biblica.

In conclusione, le opere scultoree di Gianlorenzo Bernini, quali “Apollo e Dafne”, “Il ratto di Proserpina” e “Il David”, rappresentano la maestria e la genialità di un artista il cui lavoro ha sfidato il tempo.

Attraverso il marmo, Bernini è riuscito a catturare l’essenza del movimento, dell’emozione e della bellezza umana, lasciando un’impronta indelebile nella storia dell’arte. Le sue opere continuano a ispirare e ad affascinare il pubblico anche oggi, dimostrando la potenza senza tempo dell’espressione artistica.




La rivoluzione artistica di Manet

Edouard Manet nasce a Parigi nel 1832 da una famiglia benestante e sin da subito vuole intraprendere la carriera artistica contro il volere paterno. Infatti, il padre stesso, nel 1839 decide di far imbarcare il giovane Edouard in una nave militare verso il Brasile.

Al suo ritorno, Manet riesce a convincere il padre di voler diventare un artista ed entra nell’atelier di Thomas Couture.
Manet è un’artista che ha viaggiato molto (visita l’Italia, la Germania, l’Olanda) ed entra così in contatto con i grandi maestri europei.

Nel 1856 entra nell’Accademia e stringe amicizia con numerosi pittori ed intellettuali francesi, creando così il circolo degli impressionisti (anche se non esporrà mai insieme a loro) insieme a Degas, Pissarro, Monet, Renoir e Cézanne.
Tutti nomi che non hanno bisogno di presentazioni, insomma.

Arriva poi il 1863, l’anno della svolta sia per il piccolo circolo degli impressionisti che per l’intera storia dell’arte: Manet espone Le déjeuner sur l’herbe, La colazione sull’erba al Salon, scatenando uno degli scandali artistici più famosi della storia dell’arte.

La colazione sull’erba


L’opera venne infatti etichettata da subito come “indecente”.
Ma perché? Non erano d’altronde abituati a vedere ritratte su tela bellissime donne nude e Veneri sdraiate sui loro letti?
Certamente, ma la donna ritratta non è una Venere né un personaggio mitologico. Fu questo a fare scalpore: Manet è il primo artista moderno che rappresentò prostitute, zingare e donne del popolo con la stessa bellezza ed eleganza di una Venere.

Dopo essere stata rifiutata al Salon, l’opera fu spostata al Salon des Refusés con un nuovo titolo “Il Bagno”, anche se Manet la soprannominava “Lo scambio di coppie”.

La tela vede protagonisti due uomini ed una donna che, all’aria aperta, fanno colazione, mentre alle loro spalle un’altra figura femminile che si bagna i piedi nel ruscello. La ragazza nuda, dalla pelle candida, è l’unica a rivolgere lo sguardo allo spettatore.
L’intera scena è ambientata in un contesto surreale, un bosco abbozzato e sfumato in netto contrasto con la definizione delle figure.

L’Olympia


Il secondo capolavoro di Manet è un ulteriore affronto alla pittura moderna: stiamo parlando dell’Olympia del 1865.

Se ad un primo colpo d’occhio la figura sdraiata, bellissima, possa sembrare a tutti gli effetti una Venere sul modello della Venere di Urbino di Tiziano, uno sguardo più attento riconoscerà in lei una prostituta dai braccialetti scintillanti e dal cinturino di velluto nero al collo.

Accanto a lei una donna dalla pelle scura le porge dei fiori, mentre in fondo al letto, al posto del fedele cane che appare in ogni opera cinquecentesca, appare un gatto nero.

Con queste due opere Manet dà vita ad una nuova concezione dell’arte: soggetti nuovi, freschi, al passo con i tempi in cui il pittore vive e con una nuova tecnica basata sulla giustapposizione delle diverse zone di colore.

Nel 1879 l’artista è colpito da una malattia che lo accompagnerà sino alla morte, nel 1883.

 




Amalia Pica in mostra alla Fondazione Memmo

La Fondazione Memmo

All’interno di un bellissimo cortile a pochi passi da Piazza di Spagna si trova lo spazio espositivo della Fondazione Memmo.

Roberto Memmo diede vita nel 1990 a questa Fondazione, con lo scopo di creare un rapporto diretto tra il pubblico e le opere d’antichità.
Quando, nel 2012, la direzione passò alle nipoti Anna d’Amelio Carbone e Fabiana Marenghi Vaselli Bond, la Fondazione iniziò ad occuparsi esclusivamente di arte contemporanea.

Dal 12 aprile 2022 la Fondazione Memmo ospita la mostra personale di Amalia Pica, artista argentina, curata da Francesco Stocchi.


Amalia Pica a Roma

Amalia Pica nasce a Neuquén nel 1978 e si forma all’Instituto Universitario Nacional del Arte e all’Escuela Nacional de Bellas Artes P.P. (I.U.N.A.), a Buenos Aires. Si trasferisce poi in Europa per studiare alla Rijksakademie van Beeldende Kunsten di Amsterdam.

C’è un elemento, tuttavia, che regola la sua più recedente produzione artistica: il linguaggio.

Amalia è infatti affascinata dal mondo della comunicazione e del linguaggio ed infatti basa la sua mostra su una figura retorica, la catacresi. Le opere inedite esposte alla Fondazione Memmo sono infatti un’ideale prosecuzione della serie Catachresis.

Tutta la mostra si basa dunque su questo “gioco linguistico” nel quale ad ogni oggetto viene associata una parte del corpo umano, come nel caso del “head of the hammer” (la testa del martello), oppure “leg of the table” (la gamba del tavolo) e anche “teeth of the comb” (i denti del pettine) e così via.

Amalia Pica instaura quindi un collegamento con lo spettatore, il quale una volta entrato in possesso della chiave del sistema, piano piano scopre e svela l’identità degli oggetti che ha di fronte – oggetti trovati o comprati nei mercatini romani dalla stessa Amalia – in una sequenza di figure a metà tra l’oggetto e l’umano. Una condizione indefinita.

Ed è da qui che nasce il titolo della mostra: “Quasi”. Quasi proprio perché sono figure in bilico, che aspirano ad una condizione di umanità che però non acquisiranno. Quasi figure.

Sulle ampie vetrate esterne, inoltre, sono presenti i ventuno “modi di dire”, scritti in inglese, che ritroviamo all’interno della mostra.
La mostra termina in 16 ottobre, tra meno di due settimane!

 




Giacomo Balla e il Futurismo

Quando nel 1909 Filippo Tommaso Marinetti dà vita al movimento Futurista, Giacomo Balla, prontamente, firma il manifesto.

Balla nasce a Torino nel 1871 e studia all’Accademia Albertina di Belle Arti: le sue prime opere seguono il pointillisme di Signac e Seurat, ma quando si trasferisce a Roma – definitivamente, potremmo dire – e conosce Umberto Boccioni, tutto cambia.

Così, per tornare alla frase d’esordio, firma il Manifesto Futurista assieme a Boccioni. Carrà e Russolo.

Cos’è dunque il Futurismo?
Possiamo definirlo il più importante movimento d’avanguardia italiano del Novecento.

Nato dall’idea di Marinetti di rinnegare il passato ed aspirare ad un rinnovamento dell’uomo proiettandosi nel futuro (da qui il nome Futurismo), è una corrente che si sviluppa e si diffonde in tutti i campi, dalla letteratura al teatro, dall’architettura al cinema.

Ma è soprattutto nella pittura e nella scultura che ritroviamo i capolavori dei più importanti esponenti del Futurismo.

I suoi principi fondanti sono l’esaltazione dell’audacia, del movimento, della velocità, del coraggio e della modernità. Si dice che Marinetti abbia tratto ispirazione a seguito di un incidente nel 1908: mentre guidava la sua automobile, per evitare due ciclisti sterzò bruscamente e finì in un fossato a causa dell’alta velocità.

 

Nel 1912 si tenne la prima mostra dei pittori futuristi a Parigi alla Galerie Bernheim.
Nonostante Balla fosse il più anziano e fosse ormai riconosciuto come un maestro del divisionismo, fu in questo periodo che creò i suoi capolavori.

 

Parliamo di opere come “Bambina che corre sul balcone” e “Dinamismo di un cane al guinzaglio”.

 

Bambina che corre sul balcone è un’opera del 1912.
Con qualche difficoltà, è possibile riconoscere una figura ripetuta in sequenza – più facilmente se si pone l’attenzione sullo stivaletto in basso – quella di una bambina che corre, Luce, la figlia di otto anni di Balla.
Il movimento e la velocità, come abbiamo detto, sono alla base della ricerca futurista: Balla vuole tradurre in pittura un’azione, un gesto, una sequenza di scatti.

Solamente attraverso una visione totale dell’opera è possibile cogliere il tentativo di rappresentazione del movimento, poiché una visione più centrata sul particolare fa sgretolare il senso dell’opera.

Inserito in  un contesto spaziale più organico, invece, è Dinamismo di un cane al guinzaglio, sempre del 1912.

L’elemento dinamico è rappresentato dai piedi della donna e dalle zampe dell’animale, che creano una sequenza ripetuta all’interno di uno spazio circoscritto.
Anche la strada è dotata di un senso di velocità grazie alle spennellate lineari e parallele.
Il movimento è rappresentato, in entrambi i casi, attraverso la registrazione contemporanea dell’oggetto che compie il suo movimento nello spazio.

 

Dal 2021 è possibile finalmente visitare Casa Balla, ovvero la casa dove Giacomo visse a Roma.
Si trova in via Oslavia 39B ed è essa stessa manifesto della corrente artistica a cui Balla dedicò la sua produzione artistica: ogni ambiente è organizzato e dipinto secondo i dettami del futurismo, attraverso pareti dai colori vivaci e dinamici e mobili dai lineamenti spazzati e confusi.
Un capolavoro di design a pochi passi da noi.




Storia di una collezionista: Peggy Guggenheim a Venezia

Oggi parliamo di una donna straordinaria e importantissima per il mondo dell’arte: Peggy Guggenheim.
Forse il nome Guggenheim vi ricorda qualcosa, forse un famoso museo di New York?
Ebbene sì, lo zio di Peggy, Solomon R. Guggenheim fondò nel 1937 la Fondazione Guggenheim, che viene ospitata nel 1943 nel Museum of Non-Objective Painting costruito da Frank Lloyd Wright su richiesta dello stesso Solomon.
La famiglia di Peggy, di origine ebraica e provenienti dalla Svizzera, aveva messo su una bella fortuna grazie all’estrazione di argento e rame, ma il padre il 15 aprile 1912 naufragò sul Titanic.
Peggy si ritrovò in possesso di una cospicua somma di denaro. Cominciò a lavorare in una libreria di New York e a frequentare circoli e salotti dove entrò subito in contatto con le avanguardie artistiche (prima di tutto il dadaismo).
Si trasferì poi a Parigi, dove sposerà nel 1922 Laurence Vail e dove farà amicizia con artisti del calibro di Man Ray e Marcel Duchamp.
Tra le varie opere esposte nella sua collezione ci sono anche quelle di Pegeen Vail: sua figlia. Vicino alle figurine di vetro e ai quadri esposti, c’è una commovente lettera della madre che la ricorda con amore.
Dopo il divorzio da Vail, Peggy decise di viaggiare con i figli per l’Europa.
Piano piano, però, stava iniziando a collezionare numerose opere di artisti più o meno conosciuti (Kandinsky e Tanguy erano allora artisti emergenti).
Tra gli artisti che Peggy aiutò a consacrare alla memoria artistica dei posteri c’è da ricordare sicuramente Jackson Pollock.
È, infatti, da ascrivere a Peggy il merito della sua “scoperta” poiché Pollock espose per la prima volta proprio nella galleria che la Guggenheim aveva aperto a New York per scappare alla guerra in Europa.
Con la fine del conflitto mondiale, tuttavia, Peggy decise di tornare in Europa e scelse per la sua collezione una meta definitiva: Venezia.
È qui che infatti, ancora oggi, sorge il Peggy Guggenheim Museum, uno dei più importanti musei d’arte contemporanea in Italia.
Ho avuto il piacere di visitare questa meravigliosa collezione proprio qualche giorno fa, così da poter allegare alla storia della fantastica vita di Peggy anche il frutto del suo duro lavoro da collezionista.



La persistenza della memoria

La persistenza della memoria è uno dei quadri più famosi di Salvador Dalì, esponente della corrente artistica del Surrealismo nata agli inizi degli anni ’20 a Parigi.

Su cosa si basa il surrealismo?

Quando nel 1900 Sigmund Freud fece pubblicare “L’Interpretazione dei Sogni” il mondo fu rivoluzionato.
Freud diede una chiave d’accesso ad un mondo fino ad ora sconosciuto: l’inconscio.

E la prima metà del ‘900 è caratterizzata quindi da quest’esplorazione della psiche dell’uomo.
Il Surrealismo nasce qui, da questo desiderio di esplorare e portare a galla ed imprimere su tela il caos interiore.

Senza giudizio, senza la presenza dell’occhio “cosciente”: solo l’inconscio.
E la Persistenza della memoria è uno dei capolavori della corrente Surrealista


Il quadro presenta, ovviamente, quelle caratteristiche tipiche della nuova scuola d’espressione: un paesaggio fantastico, oggetti fantastici e irreali in una dimensione non soggetta alle leggi della fisica.Ed eccoci arrivati all’oggetto principe del dipinto: l’orologio.

Il senso di disorientamento è fortissimo, nonostante ciò che ci si presenta davanti gli occhi siano comunque oggetti della vita quotidiana, che ognuno di noi conosce.Ma questi non sono orologi normali, ma sono orologi molli, deformati, a metà tra la condizione solida e quella liquida: danno l’impressione di starsi sciogliendo, in un processo irreversibile.

Uno degli orologi si sta sciogliendo su un oggetto bianco.
All’inizio, sembra essere un grumo senza senso.

Tuttavia si può notare che sembra un volto, soprattutto se lo si guarda di lato. Si possono vedere le ciglia di un occhio chiuso, un naso e altre forme astratte. Questa creatura appare in molti dipinti di Dali ed è il suo autoritratto.

Accanto notiamo l’unico orologio solido di color arancio, con sopra alcune formiche nere, che sembrano divorarlo: queste formiche rappresentano l’allegoria per dell’annullamento del tempo cronologico, inconsistente e reversibile.

Perchè Salvador Dalì ha dipinto questo quadro?

Il pittore stesso rispose a questa domanda confessando di aver preso ispirazione da una fetta di formaggio che si stava sciogliendo al sole.
Questa visione gli ispirò l’idea degli orologi molli che subito dipinse sulla tela. L’immagine che stava dipingendo rappresentava un paesaggio di Port Lligat, in Spagna.

Questo quadro ci trasmette un messaggio molto chiaro: il tempo non funziona come noi pensiamo, nè tantomento la memoria.

E che cos’è, dunque, la memoria se non uno spazio dove ci si può muovere in modo non unilaterale nel tempo?
Nella nostra memoria possiamo tornare indietro ad un ricordo remoto, per poi svilupparlo in sequenza cronologica e poi tornare ancora più indietro: non ci sono leggi.




IL SACRO BOSCO DI BOMARZO, IL PARCO DEI MOSTRI E I GATEKEEPERS

IL SACRO BOSCO DI BOMARZO

IL PARCO DEI MOSTRI E I GATEKEEPERS

Proteo Orco Bomarzo
Foto da Elle Decor.it

 

 

Nella provincia di Viterbo esiste un luogo nel quale le favole prendono corpo e si mescolano con la natura.

E’ il Sacro Bosco di Bomarzo e risale al secolo sedicesimo.

Il Parco dei Mostri di Bomarzo

Fu un principe a ideare il Sacro Bosco, detto anche Parco dei Mostri oppure Villa delle Meraviglie: il principe Pier Francesco Orsini, chiamato Vicino Orsini.

Egli volle creare un luogo onirico in cui immergersi “sol per sfogare il core” e lo chiamava semplicemente “Boschetto”.

In tal modo voleva celebrare la memoria della perduta moglie, Giulia Farnese, omonima, ma meno famosa della bella Giulia Farnese, l’amante del papa Alessandro VI Borgia.

Il dolore per la morte della moglie, mescolato a un particolare gusto per l’enigma, per il mistero, diede luogo a una straordinaria creazione, a uno spazio concepito per perdere i punti di riferimento e quasi contraddire le leggi di natura.

L’architetto chiamato a realizzare questo sogno fu Pirro Ligorio

Questi, antiquario e profondo conoscitore delle simbologie alchemiche, incastonò, in un bosco di conifere e latifoglie di circa 3 ettari, un’articolata serie di sculture in basalto.

Il percorso si snoda così tra personaggi, animali mitologici, strani edifici sbilenchi, iscrizioni enigmatiche.

Il bosco si anima di presenze inquietanti e immagini curiose.

Vale dunque davvero la pena fare questa meravigliosa passeggiata di un paio d’ore, immersi nel verde.

Passeggiando, si viene rapiti in un mondo fiabesco, straniante, circondati da sculture che in alcuni casi sembrano dei guardiani posti lì a salvaguardia di segreti e dimensioni esoteriche che si possono conoscere solo quando si è pronti.

Come le due Sfingi, che accolgono il visitatore all’inizio del percorso, rappresentate come donne col corpo di leone.

E come Proteo (o Glauco), il famoso mascherone terrificante

 

Varcare soglie

 Di fronte a questi custodi di pietra ricordiamo che l’uomo su questa terra è chiamato continuamente a “varcare soglie”, nell’infinito procedere sulla strada della sua evoluzione, sia sul piano materiale che su quello spirituale.

Da sempre egli affronta il mare, valica montagne, attraversa deserti e immensi spazi alla ricerca di terre ignote.

In tutte le fasi di passaggio della sua vita, fin da bambino, egli varca soglie di crescita, di evoluzione fisica, mentale, psicologica, materiale, spirituale.

E nei miti, come nelle favole, la conquista, la vittoria, il lieto fine sono spesso ostacolati da mostri, da draghi, da nemici da sconfiggere per giungere alla propria meta: essi sono i guardiani della soglia.

 

Guardiani della soglia

Sfinge
Foto da epoch times italia

 

 

Guardiano della soglia, nel mito, è la Sfinge, che nega l’accesso a piani superiori di coscienza fino a quando non siamo pronti a sciogliere i suoi enigmi.

Guardiano della soglia è il Drago, che nel simbolismo medievale forse non è altro che il nostro sé inferiore.

Sembrano essere guardiani della soglia le tre fiere che Dante affronta nella Divina Commedia, all’inizio del suo viaggio: l’uomo non vede le sue qualità vere finché è attaccato alla sua natura inferiore.

Nel nostro tempo tale meccanismo si perpetua nelle vicende di ogni individuo, ma talvolta alcuni significati vanno purtroppo immiserendosi.

E’ il caso del “Gatekeeper”.

 

 

Il guardiano della soglia
Foto da Scienze astratte.it

Gatekeeper

Il termine “gatekeeper” significa “custode del cancello” e viene preso in prestito da una teoria sociologica elaborata nel mondo anglosassone negli anni Quaranta.

Il concetto è piuttosto ricorrente in questi giorni, soprattutto nel mondo della politica.

Definisce negativamente figure, partiti, movimenti, organizzazioni in grado di raccogliere la protesta, il profondo malcontento della gente, al fine di blandire gli animi promettendo soluzioni.

Con questa strategia, si cerca di neutralizzare le energie del dissenso, distraendo il pensiero dalla ricerca di vere soluzioni per risolvere i problemi.

In questa veste, il gatekeeper opera per convincere i propri interlocutori che i loro problemi sono accolti e verranno risolti.

In tal modo, il pubblico viene distolto dall’”entrare nel cancello”, cioè, dal “varcare la soglia” di una vera coscienza dei problemi, cosa che renderebbe la protesta costruttiva.

Il film “Quarto potere” di Orson Welles offre un potente esempio per comprendere la sottigliezza con cui opera questo sistema, dimostrando come i mezzi di informazione e comunicazione abbiano un potere immenso sulle masse e le possano condizionare e guidare, distraendo o attraendo l’attenzione su temi e problemi, secondo convenienza, in modo anche non troppo nascosto.

Entrare in crisi

Dunque, collegando i diversi piani della nostra riflessione, possiamo dire che il percorso umano è pieno di impedimenti e manipolazioni che ostacolano l’evoluzione della coscienza.

Succede però che nella vita di ciascuno si aprano momenti di crisi, parola molto bella, che significa “scelta, decisione” ed è un segnale necessario per “varcare una soglia” e procedere verso piani più elevati della nostra esistenza.

E’ allora che il guardiano della soglia entra in azione, ci distoglie, ci distrae, ci impaurisce, tenta di neutralizzare la potenza del momento usando mezzi di grande sottigliezza.

Questi momenti, se ben gestiti, possono trasformarci in eroi e regalarci una vita straordinaria.

 

 

 




Un mondo di fantasia (e follia): Bosch

La vita di Hieronymus Bosch, pittore fiammingo che visse a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento, è incerta e misteriosa.

Di lui si hanno poche notizie e molte leggende.

Per inquadrare bene lo stile di Bosch basta dire una cosa: le sue opere furono fonte di ispirazione per il Simbolismo, l’Espressionismo e il Surrealismo.
Dunque, uno stile fantastico, ricco di simboli e allegorie, che attinge alla tradizione medievale e alle miniature.

 

L’opera più celebre e decantata di Bosch è sicuramente il Trittico de Il Giardino delle Delizie.

Quest’opera è datata tra il 1480 e il 1490, nell’apice della maturità artistica dell’artista.

È composta da tre tavole richiudibili che rappresentano, in ordine: il giardino dell’Eden, il giardino delle delizie e l’inferno.

Il trittico chiuso, invece, svela un’immagine diversa: la nascita del pianeta Terra.

 

Nella prima tavola, quella rappresentante il Paradiso, troviamo Dio tra Adamo ed Eva.
Lo spazio che li circonda è un rigoglioso giardino popolato da strani e numerosi animali, con al centro una particolare struttura rosea, in asse con la figura – anch’essa rosata – di Dio.
E’ la Fontana della Vita.

Tutti gli animali, in un modo o nell’altro, rappresentano una virtù o un vizio. Sono presenti animali comuni, esotici e di fantasia, la cui interpretazione però è alquanto difficile.

Il pannello centrale è il più grande.
L’ambiente ricorda quello della tavola precedente, un giardino con delle fonti d’acqua, ma è fittamente popolato da nude figure di uomini e animali.

Si passa da un’ambientazione spirituale e di quiete, ad una carica di erotismo e sensualità.

 

 

E’, ad un primo impatto, sconvolgente.
Le figure sono ammassate e sovrapposte nello spazio ristretto della tela quadrata, ma possiamo dividerle in fasce orizzontali a partire dal livello inferiore:
nella prima fascia sono presenti gli uomini; in quella mediana invece vi è un anello di animali attorno ad un laghetto tondo; mentre il livello superiore è composto dal panorama all’orizzonte, con questi strani edifici rosa e azzurri.

Dal basso verso l’alto, le figure diminuiscono e finalmente si respira un po’ di quiete nella sezione superiore.

L’ultimo pannello è completamente diverso dai precedenti.
Una fortissima contrapposizione è data dall’utilizzo dei colori: dal verde del prato si passa al nero tetro della notte.

 

Anche questo pannello si può leggere dal basso verso l’alto, con lo stesso effetto di diradamento delle figure. Ma qui non so

no i piaceri carnali ad essere rappresentati, bensì la loro punizione infernale.
Quest’ultimo mondo è costituito da figure macabre e tormentate, sofferenti, antropomorfe e mostruose.

 

Possiamo notare, però, in mezzo a tutte queste figure, un’alta concentrazione di strumenti musicali: per questo motivo la tavola è nota con il nome di “Inferno musicale”.

 

Riguardando adesso l’opera, per un ultima volta, ci rendiamo conto di come sia estremamente attuale e vicina alle correnti artistiche di inizio Novecento, e di quanto artisti come Salvator Dalì siano stati influenzati da questo mondo fantastico e mostruoso di Hieronymus Bosch.




Le teste (false) di Modì

Nel 1984, a cento anni dalla nascita del grandissimo artista italiano Amedeo Modigliani, viene messa in atto la più grande beffa nella storia dell’arte.

Nella sua città natale, Livorno, tre giovani studenti di storia dell’arte decidono di fare un piccolo scherzo alla città.

In quel momento a Livorno vi era una mostra dedicata al centenario di Modigliani, curata dai fratelli Vera e Dario Durbè a Villa Maria, che tuttavia stava riscuotendo poco successo a causa delle poche opere esposte e dalla penuria di pubblico.

Così, Vera decide di dar credito ad una leggenda secondo la quale Modigliani, prima di trasferirsi a Parigi, buttò alcune delle sue sculture nel Fosso Reale, perché incompreso e deriso dai suoi connazionali.

Iniziarono numerose operazioni di ricerca: tanti livornesi accorsero lungo il Fosso per seguire con ansia le indagini – che tuttavia non portarono a nulla.

A questo punto entrano in gioco i tre amici: Pietro Luridiana, Michele Ghelarducci e Pierfrancesco Ferrucci.
La mente di questo scherzo è Luridiana, il quale, seguendo con curiosità le vicende sulle ricerche delle statue nel fosso, si chiede: E se domani trovassero veramente una testa di Modigliani?

Allora presero martello, cacciavite e trapano elettrico e crearono la prima scultura, gettandola subito dopo nel lungomare.

I ragazzi – confessano – volevano solamente creare qualche ora di scompiglio nella città, nella certezza che un critico d’arte si sarebbe subito accorto della falsità dell’opera.

Dunque, il 24 luglio venne ritrovata una testa. Ma non era quella dei tre amici!

 

Bensì un altro falso, quello del giovane artista livornese Angelo Froglia, che qualche tempo prima aveva buttato nel fosso delle teste false, non per scherzo, ma come gesto di critica nei confronti degli storici dell’arte.

Subito dopo fu trovata la testa falsa di Luridiana.

La gente grida esaltata e meraviglia: ben due teste sono state ritrovate nello stesso giorno!

Vera è entusiasta; il fatto attira anche numerosi storici e critici dell’arte come Giulio Carlo Argan i quali confermano: le teste sono autentiche.

Qualche settimana dopo venne ritrovata una terza testa, opera di Froglia, ed immediatamente le tre opere vennero esposte a Villa Maria nella mostra dei fratelli Durbè.

 

I tre amici, però, non avevano mai avuto intenzione di creare un inganno di tali dimensioni; volevano solamente fare uno scherzo.

Perciò decisero di raccontare tutto quanto attraverso un’intervista pubblicata su Panorama.

I lettori si divisero in due schieramenti: chi riconosceva la genialità dello scherzo e applaudiva l’idea, chi invece, offeso, li critica aspramente.

Successivamente anche Froglia confessa di essere l’autore delle altre due teste.

Si conclude così, con il finire dell’estate, anche la stagione del più grande scherzo (e relativa figuraccia degli storici dell’arte e dei curatori della mostra) della storia dell’arte.




MINERVA TRITONIA

Minerva Tritonia V sec. a.C. Wikicommons

 

La Minerva Tritonia

 

Fascino arcaico e sensuale al Museo Archeologico Lavinium

 

Se stai al mare sulle coste di Torvaianica o se ti aggiri in zona per i più diversi motivi, potresti provare

un’emozione forte e sensuale, arcaica e terribile percorrendo solo pochi chilometri.

Sì, un incontro speciale è pronto per te se ti recherai presso il Museo archeologico Lavinium, a Pratica di Mare, presso Pomezia.

Varcando la soglia del museo, ti accorgerai ben presto di essere entrato in uno scrigno preziosissimo, i cui tesori meritano tutti di essere conosciuti e approfonditi.

Ma il particolare fascino arcaico e sensuale che ti colpisce è tutto concentrato in lei e da lei promana.

 

Lei, Minerva Tritonia

Lei è Minerva, ovvero la greca Pallade Atena, dea della Sapienza e della Strategia bellica, dea protettrice e terribile al tempo stesso.

Lei è qui che aspetta il solerte turista così come il pigro bagnante, il fine studioso come la famiglia di passaggio, le scolaresche come i gruppi in visita culturale, per lasciare in ciascuno il segno di un incontro indimenticabile.

Si tratta di una statua chiara in terracotta con tracce di colore, del V sec. a.C.

È chiamata Minerva Tritonia perché al fianco, la accompagna un tritone, elemento molto raro nelle rappresentazioni di Minerva, che si riferisce a una leggenda poco nota, secondo cui la dea sarebbe stata allevata vicino a un fiume chiamato Tritone.

 

Minerva Tritonia. Ass.Rotta di Enea

 

Virgilio

Il particolare del tritone ci riporta al poeta Virgilio.

Egli nell’undicesimo libro dell’Eneide ci dona i bellissimi versi di invocazione alla dea, chiamandola

“Armipotens, praeses belli, Tritonia Virgo”, cioè “Vergine Tritonia, potente di armi, dea della guerra”.

Gli occhi di Virgilio, mentre cercavano l’ispirazione per creare l’Eneide, che scrisse tra il 26 e il 19 a.C., devono aver visto proprio questa statua di Lavinium, che si presenta con il tritone, suo rarissimo attributo.

 

Ventisei secoli di vita

Realizzata nel V sec. a.C., la Minerva Tritonia ha oggi 26 secoli.

Fu a lungo regina del suo santuario che qui sorgeva per accogliere i cosiddetti

riti di passaggio:

fanciulli e fanciulle lasciavano qui la loro infanzia, simboleggiata da giochi e oggetti da bambini, per accedere all’età adulta, al matrimonio, alla fecondità sotto lo sguardo e la protezione della dea.

Circondata da moltissime statue ex-voto, Minerva venne infine sepolta in un deposito votivo, quando il santuario fu abbandonato, per ragioni sconosciute.

Finchè, alla fine degli anni settanta, fu ritrovata in pezzi, insieme ad altre circa cento statue conservate nel medesimo deposito e fu accuratamente restaurata dalla professoressa Maria Fenelli, che da poco ci ha lasciato.

Una targa, posta quest’anno, in occasione del 17° anniversario dell’apertura del Museo archeologico Lavinium, ci riporta proprio le commosse parole di Maria Fenelli in merito al ritrovamento della Minerva Tritonia:

“La statua è entrata nella mia vita la mattina di un sabato di ottobre 1977, quando ne sono emersi dalla terra i primi frammenti e non ne è più uscita.”

 

Minerva Tritonia, gorgoneion. picasa

 

Fantastici dettagli

Ora onoriamo Minerva Tritonia osservando i fantastici dettagli, che rappresentano i tipici attributi della dea.

Ha un alto elmo imponente.

Indossa una corazza ornata da squame, con al centro il gorgoneion, cioè la testa della gorgone medusa.

Reca un grande scudo ovale profilato da serpenti, quadrupedi e uccelli e inciso esternamente da crescenti lunari.

E’ fasciata da un sensuale chitone (antica veste leggera) che scende in fitte pieghe fino ai piedi calzati da sandali.

Il tritone, al suo fianco, ci richiama la virgiliana Tritonia Virgo di cui abbiamo parlato.

E così, come Virgilio, hai l’onore anche tu di riporre nella tua memoria una delle più belle emozioni che ci possa regalare un mondo così arcaico e quasi del tutto perduto.