Senza coda di Marco Missiroli

Senza coda è l’esordio letterario di Marco Missiroli uscito nel 2005 per la casa editrice Fanucci e ripubblicato da Feltrinelli nel 2017.

Un romanzo breve, poco più di 150 pagine, sufficienti per raccontare la fine dell’infanzia del piccolo Pietro costretto dal padre a compiere delle azioni che non vorrebbe fare.

«Fra tre giorni ci vai da Carmine, a papà?»

E Pietro non può fare altro che obbedire perché è quello il clima che si respira in famiglia, con un padre autoritario, una madre che ha spesso delle strane macchie gialle sulla pelle e degli uomini in divisa di guardia al cancello. Non può fare altro che obbedire e consegnare delle strane lettere bianche a quell’uomo tenebroso dalle reazioni imprevedibili.

 

 

Nel giardino di casa, in una Sicilia mai nominata ma riconoscibile e ben presente, condivide con il giardiniere Nino la sua grande passione di cacciatore di lucertole.

Adora catturare le lucertole per tagliar loro le code che colleziona in grandi barattoli colmi di alcool. È impressionato dall’incredibile strategia di questi animali di lasciare andare la coda quando sentono il pericolo, che è ciò che pian piano capisce di dover fare anche il piccolo Pietro.

Pietro inizia a intuire che non può più restare fermo senza agire, che anche lui, di fronte al pericolo, è costretto a lasciar andare la sua coda e affrontare la situazione.

«Io sono senza coda!» urla Pietro ridendo

Senza coda è un romanzo che lascia convivere tra le sue pagine una incredibile dolcezza e una brutale violenza; è l’incalzante quotidianità fatta di malaffare e di crudeltà, di obbedienza ma anche di consapevolezza.

Missiroli è bravissimo a narrare senza dire, a lasciare intendere senza dichiarare accompagnando il lettore verso il finale che, per quanto sperato, resta comunque inaspettato.

Senza coda si legge in poche ore ma resterà a lungo nella mente di chi legge.




Il salotto sulla laguna e dintorni

Quello che colpisce di Cristiano, calabrese che vive e lavora a Roma oramai da diversi anni, è la sua totale sintonia con i viaggi, che lo porta ad avere uno sguardo ricco, attento e pieno di fascino dei luoghi che visita, e che racconta in maniera speciale. Il viaggio è per lui un bel passatempo, un momento di crescita e di confronto con gli altri assieme alla cucina, per cui è osannato dai suoi amici, specie per le farfalle al salmone con zest di cedro (rigorosamente proveniente dalla Calabria) e la lettura, tra cui i libri su Paesi e culture diversi, dal Marocco al Giappone, da cui prende spunto per i suoi viaggi. Oggi ci porta in giro per Venezia e Padova, visitate lo scorso giugno, dopo aver visto un documentario su alcuni luoghi particolari delle due città venete.

Come nasce questo viaggio

Questo viaggio nasce dopo aver visto un documentario su alcune zone di Venezia  che hanno fomentato la mia curiosità. Sono ritornato in questa città, sebbene vista già tre volte, che ha sempre qualcosa di nuovo con il quale stupirti. In questa occasione l’ho visitata con due familiari: dall’arrivo alla stazione Santa Lucia siamo stati ‘avvolti’ dai turisti e dal caos che regna in questa città tra vaporetti, traghetti e barche private. Per fortuna l’albergo, tranquillo, ci ha fatto un po’ dimenticare il frastuono cittadino.

 Calli, campi e sestieri

Venezia non è Venezia se non si fa il giro in gondola! Infatti è proprio con la gondola che si scoprono gli angoli più belli, quelli meno affollati, quelli pieni di charme, di quel nonsoché che solo questa città sa regalare. Attraversate calli (strade), campi (piazze) e sestieri (quartieri) siamo arrivati a piazza San Marco, il salotto della città e, non essendo riusciti a visitare la Basilica, ci siamo diretti verso Ponte della Paglia, che ha la vista più bella sul Ponte dei Sospiri: vuole la tradizione che sia chiamato così perché era il passaggio dei condannati dalle prigioni al patibolo, e passando da qui sospiravano.

Tante sono state le scoperte che mi ha riservato la città a partire dalla storica seteria Bevilacqua del 1499, con i suoi telai del 1600, fili, velluti, broccati, a testimonianza di come l’aristocrazia e la corte del Doge richiedevano gli abiti fatti con questi preziosi tessuti. La particolarità di questa seteria è il velluto ‘soprarizzo’, un velluto diciamo così tridimensionale, cangiante e unico che solo qui si produce.

 Un salto a Padova

É d’obbligo una visita a Padova, sia per la città, che merita di essere vista, soprattutto per i capolavori che conserva, sia per devozione. Siamo arrivati a Padova verso l’ora di pranzo. Dopo aver mangiato abbiamo raggiunto la cappella degli Scrovegni. Un video ci ha introdotto alla visita: una volta entrati siamo stati estasiati dai colori straordinari, le immagini nitide e una cromia che rende il tutto un mero capolavoro dell’arte italiana. La cappella è stata dipinta da Giotto di Bondone, pittore Toscano innovatore della pittura italiana. L’interno è decorato con un ciclo di affreschi fatti risalire al periodo 1303-1305, per volere della famiglia Scrovegni. L’interno è straordinario, i colori sono intensi e le immagini ancora vivide. Il filo conduttore degli affreschi è la ‘Storia della Salvezza’ divisa in due percorsi differenti: il primo con le Storie della Vita della Vergine e di Cristo; il secondo inizia con i Vizi  e le Virtù, e si conclude con il maestoso Giudizio Universale, antecedente al giudizio michelangiolesco della Cappella Sistina. Terminata la visita, abbiamo visitato la tomba del Santo Taumaturgo Antonio, famoso non solo in Italia, ma in tutto il mondo.

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 Rientro a Venezia, anticipo di alta marea?

Ritornati a Venezia nel tardo pomeriggio ci siamo subito immersi tra le calli illuminate dalle fioche luci che si specchiavano nei canali gonfi (forse a causa dell’alta marea) i quali rendevano la città ancora più suggestiva di quello che normalmente è, e con gli occhi all’insù… come non restare affascinati dai salotti veneziani e dagli splendidi lampadari in vetro di Murano?

Il viaggio è proseguito sotto un’interminabile pioggia, ma noi non ci siamo affatto scoraggiati e siamo andati avanti con ombrelli e poncho! Appena entrati nella Basilica di San Marco, dopo essere stati in fila allietati dall’orchestra che suonava davanti allo storico Caffè Florian sulle note blues di impronta americana,  siamo stati subito avvolti dallo splendore di questo luogo sacro: il pavimento è caratterizzato da diversi tipi di lavorazione, si riconoscono l’opus sectile e l’opus tesselatum, con piccoli pezzi di marmo che danno vita a figure animali e fiori. L’interno è un trionfo di mosaici dorati, lanterne, cappelle, l’architettura segue la tipicità delle chiese bizantini, i mosaici in oro nelle pareti e nelle cupole, rappresentano la parte celeste, mentre i marmi, e le decorazioni nel settore inferiore rappresentano la zona terrena. La Basilica è un luogo unico nel suo genere, come pure la Pala d’Altare, un gioiello unico. È un pala d’altare con circa 250 smalti cloisonnè, su lamina d’argento dorato. E’ l’unico esempio al mondo di oreficeria gotica di tali dimensioni ed anche per la numerosa presenza di pietre, smalti e gemme. La Pala (dal latino palla), cioè stoffa, non è altro che la stoffa usata per coprire e adornare gli altari. Questa è in oro, ma ci sono anche in argento o in broccati ricamati. La pala di San Marco fu ordinata dal Doge Ordelaffo Falier nel 1102 e finita a Costantinopoli. Viene usata solo il girono di San Marco, negli altri giorni viene chiusa in un’altra pala, la Pala feriale, ovvero una teca lignea dipinta.

 Murano, Mazzorbo e Burano

Ci siamo dedicati anche ai dintorni della città, visitando le isole. La prima che abbiamo visitato è stata Murano, una Venezia in miniatura, con i suoi  canali, calli e ponti, ma meno affollati. A Murano è d’obbligo visitare una vetreria poiché è conosciuta proprio per il vetro di soffiato, o vetro di Murano. Ne abbiamo approfittato per pranzare e visitare qualche monumento, come la Basilica dei Santi Maria e Donato (il Duomo di Murano) e fare un po’ di shopping, prima di prendere il traghetto e raggiungere Mazzorbo, un’isola verde e lontana dal turismo di massa, in cui si può passeggiare nella vigna e nel frutteto del WineResort Venissa. L’isola rappresenta un esempio di vigna murata, risalente al 1727. Qui è stato ripiantato un vitigno autoctono, la Dorona, un vitigno a bacca bianca che produce un ottimo vino. L’isola è molto suggestiva, nel silenzio e nel verde con il suo campanile trecentesco di San Michele Arcangelo. Attraverso un piccolo ponte abbiamo raggiunto Burano, dalle mille abitazioni colorate: si racconta che era un modo per i marinai per ritrovare la propria casa. Burano è anche famosa per il merletto ‘Buranello’, lavorato al tombolo. Tante sono state le emozioni che abbiamo vissuto girando per le viuzze, con gli occhi pieni di felicità, cercando l’angolo più bello da immortalare con una foto.Rientrati a Venezia ci siamo goduti gli ultimi spezzoni del viaggio  dal vaporetto, ammirando le luci, la leggera pioggia, l’andirivieni di barchette, vaporetti, taxiwater… un incanto! Prima di riprendere il treno per Roma ci siamo dedicati allo shopping, tra i sestieri di Cannaregio, San Polo e Santa Croce.

La mia prossima meta mi porterà nei Paesi Bassi, alla scoperta delle preziose ceramiche bianche e azzurre della Royal Delf.




UOVA di Hitonari Tsuji

UOVA

Di Hitonari Tsuji

Ed. Rizzoli

 

Titolo brevissimo per un romanzo all’insegna della delicatezza che ci viene proposto in un formato diverso dal solito: il libro è quadrato.

Spiccava nel suo colore giallo in mezzo a tutti gli altri, come non esserne attratti? Come non acquistarlo e leggerlo subito?

 

Era un uomo terribilmente impacciato

e ci mise ben dodici anni per rivelare il suo cuore innamorato.

 

Nonostante l’incipit, la storia che ci viene narrata da Hitonari Tsuji non è una storia d’amore, o almeno non lo è nel senso esclusivo della definizione.

Uova è un romanzo ambientato nel Giappone contemporaneo, il cui filo conduttore è dato dal saper cucinare in modo unico e prelibato le uova. La preparazione attenta e meticolosa delle pietanze ci viene presentata come preliminare al cibo consolatorio e curativo dei malesseri; in semplicità e senza l’utilizzo di stereotipi.

Attraverso la sapiente preparazione di piatti a base di uova Hitonari Tsuji affronta temi come l’amore, la violenza domestica, il bullismo, l’altruismo, la vecchiaia, la malattia: in punta di piedi il protagonista chef Satoij entra nella difficile vita di Mayo e piano piano in quella di sua figlia, cucinando piatti succulenti con le uova.

Lo snodo principale della storia è rappresentato da un locale come tanti chiamato izakaya che in giapponese significa “luogo dove bere e divertirsi”; è proprio qui che Satoij aspetta anni e anni prima di riuscire anche solo ad avvicinarsi e a bere una birra per pochi minuti con la donna di cui è innamorato.

Mayo è una madre sola per essere fuggita da un marito violento, che cresce con dedizione assoluta sua figlia Oeuf, adolescente silenziosa e chiusa all’universo maschile fino all’incontro con Satoij.

Hitonari Tsuji usa le uova anche nella scelta dei nomi: Mayo è tutt’altro che un nome giapponese, semplicemente l’abbreviazione del francese mayonnaise. Stessa cosa per Oeuf, nome scelto in onore del nonno materno che era francese e amava le uova.

Leggendo Uova entriamo in un mondo dove la cura e l’amore messi nella preparazione di pietanze gustose viene usata come un poetico mezzo di espressione di emozioni e sentimenti.

 

Era un piatto dall’aria appetitosa, ricoperto da una dose abbondante di uovo lucente.

Le tre donne non avevano assistito alla preparazione.

Quando lui le chiamò si sedettero e furono servite […]

Non appena tutte e tre assaporarono il primo boccone, si bloccarono e cambiarono espressione.

Quando qualcosa è davvero buono, le persone perdono la parola.

E Satoij lo sapeva.

 

SINOSSI

 

Tutto era iniziato quattordici anni prima nell’izakaya Yururi, di cui Satoij era cliente abituale. Lui se ne stava seduto in fondo di lato, in uno dei quattordici coperti del bancone a forma di ferro di cavallo del locale nel quartiere di Nishi-Azabu e osservava di sottecchi il viso radioso della donna che gli stava di fronte. Che sorriso meraviglioso, aveva pensato, e quello era stato il principio di ogni cosa.

 

Una particolarità: nel libro troviamo descritta anche la ricetta del nostro italianissimo tiramisù

 

 




La Traviata

Oggi vorrei parlare di un’opera, non un’opera d’arte, ma un’opera teatrale.
La traviata è un melodramma (dunque, un’opera) di Giuseppe Verdi del 1853.

Ma dietro questa “opera di…” c’è tanto altro dietro.
Infatti, la storia è quella raccontata da Alexandre Dumas (figlio) nel suo romanzo “La signora delle camelie”. Il testo è stato adattato da Francesco Maria Piave, il termine tecnico è libretto, sulla musica di Giuseppe Verdi.

La prima rappresentazione fu tenuta al Teatro La Fenice nel 1853, ma non ebbe successo. Probabilmente la causa è da additare agli interpreti che poco rispecchiavano i personaggi dell’opera.
Ma, l’anno successivo, il personaggio di Violetta trovò il suo interprete prediletto: Maria Spezia Aldighieri. Il successo fu immediato.

Ma di cosa parla, dunque, La traviata, o anche conosciuta come La Violetta?

Il personaggio principale è, ovviamente, Violetta, una giovane cortigiana di Parigi dalla vita dissoluta e dedita ai piaceri mondani. Questa vita l’ha portata però a contrarre una terribile malattia: Violetta è malata di tisi.

Nel primo atto, Violetta, per dimenticare per un momento la sua malattia, organizza una cena dove conosce Alfredo, un giovane di buona famiglia, innamorato follemente di lei.

Dopo la cena, Alfredo le si confessa. Ma la ragazza, stupita, dubita di poter corrispondere il suo amore e gli regala una camelia, dicendogli di tornare il giorno dopo.
Rimasta sola, Violetta riflette sulla possibilità di potersi innamorare e cambiare vita, ma la risposta le arriva fredda e tonante: no, non può.

All’apertura del secondo atto, invece, vediamo Alfredo e Violetta che vivono felicemente insieme in una casa di campagna, innamorati e sereni.
Capiamo che Violetta ha fatto la sua scelta di cuore e ha deciso di cambiare vita per amore di Alfredo. I due non possono essere più felici.

Ma la felicità durerà poco: durante un’assenza di Alfredo, arriva il padre Germont e, dopo tanti discorsi, convince Violetta a lasciare Alfredo in nome di un bene più alto, un bene comune: la loro disdicevole convivenza, infatti, sta minando il matrimonio della figlia minore, sorella di Alfredo.

Germont supplica Violetta di compiere questo sacrificio, nonostante capisca che i sentimenti di lei nei confronti del figlio siano sinceri.

Violetta, rimasta sola, scrive una lettera d’addio per il suo amato, che proprio in quel momento torna a casa e capisce che qualcosa è successo: Violetta nega, ed arriva, a mio parere il momento più doloroso e straziante.
Violetta canta la famosissima “Amami, Alfredo!”.

Alfredo trova la lettera e va fuori di testa. Va a Parigi, dove sa di trovare Violetta alla festa dell’amica Flora e qui la umilia di fronte a tutti: le urla e le getta i soldi ai piedi. Violetta sviene.
Tutti quanti sono solidali nei confronti della giovane, persino il padre Germont che ha assistito alla scena, ma Violetta perdona Alfredo perché sa che non può capire.

Ecco che si riapre il sipario e l’ultimo atto, il terzo, inizia.
Violetta è costretta a letto, gravemente malata. Le resta ormai poco da vivere.
Le arriva una lettera da Germont che le spiega di aver rivelato tutta la verità ad Alfredo, il quale sta andando a Parigi per chiederle perdono.

Alfredo ed il padre arrivano giusto in tempo per implorare perdono, mentre Violetta muore.




Gli aerostati di Amélie Nothomb

29° romanzo della famosa scrittrice belga pubblicato in Italia dalla Voland

 

Amélie Nothomb è una scrittrice belga figlia di un diplomatico e ha vissuto per lunghi periodi in Giappone, Cina, Stati Uniti e Bangladesh.
Per sua scelta scrive e pubblica un libro all’anno, alle fine di agosto, ed è tradotta e pubblicata in Italia dalla casa editrice romana Voland con la traduzione di Federica Di Lella.

Gli aerostati è il suo 29° romanzo pubblicato a febbraio del 2021. È l’incontro tra una giovane studentessa di filologia, Ange e il sedicenne Pie, dislessico, appassionato di matematica, di armi e di aerostati e figlio unico di una coppia di genitori disfunzionali: il padre presente fino all’inverosimile e la madre anaffettiva e collezionista di porcellane su internet.

 

 

Tutto ha inizio con Ange che accetta l’annuncio del padre di Pie che cerca qualcuno che possa aiutare e sostenere il figlio con le lezioni di letteratura. Da questo avvenimento si snoda l’intero romanzo, breve per numero di pagine, ma intenso e carico di inquietudine per il dialogo serrato e significativo tra i diversi personaggi.

L’elenco dei classici della letteratura che Ange fa leggere al giovane allievo per curarlo dalla sua dislessia sono di notevole spessore: Il Rosso e il Nero, Iliade, L’Odissea, La Metamorfosi, L’idiota, Il diavolo in corpo.

Scelte letterarie che permetteranno all’autrice di creare dialoghi originali e scanzonati tanto che il romanzo di Stendhal diventa il libro «tipico esempio di letteratura per ragazzi» o per «finocchi», oppure Iliade che trova «un libro fantastico. Finalmente una storia che parla di grandi cose!» Per arrivare a definire «Ulisse? Quel verme! Il famoso tranello del cavallo di Troia è un’infamia!» mentre Achille diventa «una caricatura dell’eroe americano».

La capacità di Nothomb di legare a sé il lettore è superba: impossibile iniziare a leggerlo e non correre senza fiato verso la fine. I dialoghi sono una vera e propria scuola letteraria e in finale, non mancano colpi di scena eclatanti tanto che il romanzo sfuma in inaspettate tinte noir.

Sull’intero romanzo aleggia la domanda se la letteratura possa davvero aiutare a vivere, a risolvere delle problematiche se non, addirittura, a innescare delle diaboliche soluzioni:

«Il mio effetto su di lui era stato quello di trasformarlo in un lettore della grande letteratura. La quale tutto è fuorché una scuola di innocenza. Eschilo, Sofocle, Shakespeare, per citare solo alcuni nomi, avrebbero ordinato a un giovane di valore di fare fuori delle carogne simili»

Ange si dà questa risposta e, personalmente, non posso che darle ragione: i grandi classici della letteratura hanno la forza di irrompere con determinazione nella mente umana e talvolta, se non contestualizzati, far anche perdere il filo della ragione.




Il popolo visto con gli occhi di Daumier

Honoré Daumier nacque nel 1808 in Francia e fu un pittore, anzi meglio dire un caricaturista, famoso per le sue vignette di satira politica pubblicate su una famosa rivista d’arte.

La produzione artistica di Daumier si concentra soprattutto sulle figure che abitano la città, ma non i borghesi e gli aristocratici, bensì il proletariato in tutte le sue forme: dai bambini alle lavandaie agli emarginati.

L’amore e l’affetto che Daumier prova per questi personaggi è lampante quasi quanto il fastidio e l’odio che animano le figure dei borghesi.

Daumier incarna quella corrente artistica realista che concentra il suo sguardo sul popolo e che lo raffigura con una vena ironica e dissacrante.

Molte delle sue famosissime caricature fanno sorridere ancora oggi.

Queste figure, dotate delle grandi teste e dai dettagli del volto sproporzionato, sono cariche di vitalità ed energia.

E non rappresentano solamente personaggi pubblici, politici o popolani, ma spesso attacca anche le figure mitologiche a cui la tradizione francese è tanto cara.

Uno tra i numerosi esempi è Ulisse e Penelope: la mitica coppia è qui rappresentata in una dissonante modernità, con le guance rosse ed i cappellini da notte.

Ma Daumier non è solo l’artista della satira e del buonumore, è anche l’artista della denuncia sociale.

In Rue Transonain, del 1834, Daumier riporta un fatto di cronaca nera: durante un arresto, ai primi segni di rivolta, dei poliziotti aprirono il fuoco sui cittadini causando numerose vittime. L’occhio pietoso e commosso di Daumier si concentra su queste figure strappate ai loro letti e lasciate giacere al suolo.

 

 

Anche alcuni tra i suoi dipinti più belli rappresentano la folla ed il basso popolo e sono pieni di un forte senso di partecipazione.
L’occhio di Daumier, sicuramente, non è un occhio freddo ed oggettivo che mira a riportare i fatti avvenuti, bensì è un occhio empatico ed amorevole.
Possiamo notarlo benissimo in due quadri: Il vagone di terza classe (1862) e La rivolta (1860).


Nella prima opera, lo spettatore (e il pittore stesso) sembrano osservare gli abitanti del vagone come se seduti all’interno dello stesso.
Un senso di dolcezza invade il cuore quando lo sguardo si sofferma sul bambino accucciato e sulla donna che allatta.

Se, dunque, guardando questo dipinto ci sentiamo parte della carrozza e condividiamo la stanchezza e la fatica del lavoro, ne La rivolta siamo resi partecipi dei moti rivoluzionari, siamo affascinati da questo personaggio centrale, vestito di bianco, e per suggestione riusciamo a sentire le urla ed il frastuono della gente riunita per protestare.

Honoré Daumier può essere dunque considerato, a pieno titolo, il pittore del popolo. Tutta la sua produzione artistica è schierata politicamente ed è portavoce e giustiziere del popolo.




MESSICO di Ninni Caraglia

Messico

di Ninni Caraglia

tratto dalla raccolta Tortelilini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

L’ospedale aveva sei piani ed era tutto rivestito da vetri specchiati per riflettere le colline di querce e ontani che lo circondavano. Un bianco sentiero contornato da bosso e ginestre conduceva alla reception in stile alberghiero più che di struttura sanitaria. Anche la malattia deve avere la sua parte di bellezza per diminuire il dolore: su questo concetto il dottor Rifkin, fondatore, aveva concepito e costruito il suo ospedale per chi il dolore poteva eliminarlo con trasfusioni di dollari. L’ultimo piano era una top suite, sia per il paziente sia per chi soggiornava per  assisterlo. Il piano sottostante dedicato agli uffici direzionali garantiva la privacy più assoluta; c’erano perfino due ascensori dedicati, uno esclusivo per il paziente ed uno per i sanitari.

La bionda e lentigginosa Linda Janssen era arrivata al Rifkin’s con la sua assistente Ana Sanchez il giorno prima, ovviamente in gran segreto per evitare il clamore della stampa. Linda e Ana erano coetanee, si erano conosciute al college e avevano mantenuto i contatti nonostante le loro vite completamente diverse. Ana era segretaria di direzione nel giornale della sua città: conosceva il mondo e la stampa; i “coccodrilli”, come diceva lei, crescevano in entrambi quei mondi e non solo nella sua Florida. Linda Janssen, bionda e procace, era in ogni foto del gruppo di cheerleader del college. Un sorriso fresco e una bella voce la portarono fino alla televisione: dai programmi per bambini a quelli del mattino, dove il suo sorriso apriva le finestre delle case di quella parte d’America che avevano cominciato a volerle un gran bene. Si ritrovarono quando Ana fu incaricata dal giornale di organizzare un’intervista a Linda. Quell’intervista ebbe molto successo, piacque come piacque a loro ritrovarsi. Decisero, dopo un paio di mesi, di continuare a lavorare insieme. Linda era serena, sapeva di poter contare sulla fiducia di Ana e a loro non interessavano i gossip dei rotocalchi su un presunto loro amore omosessuale. Affiatate ma diversissime nell’aspetto e nel carattere: Linda aveva giurato amore eterno alla sua bellezza e alla sua professione; Ana era di pelle dorata, dono del sole del Messico ai suoi nativi. Le canzoni di Linda risuonavano sempre nello studio di Ana e in mille altri sperduti motel, dove cameriere indaffarate cantavano quelle melodiche canzoni per divagarsi. “Ana, mi porteresti a trovare la tua famiglia in Messico? Ci meritiamo una vacanza”. Da allora, due volte l’anno si rifugiavano in un paesino sulla costa dell’Oceano Pacifico. C’era il giusto tempo per tutto: famiglia, sole, mare e anche il lavoro, visto che Linda aveva cominciato a pubblicare video sui social mentre cantava in spiaggia con i bagnanti. Linda non era abituata a vedersi così abbronzata, si vedeva più bella. Ana non era così amante del sole, quello del primo mattino era il suo vero caffè, poi era meglio lavorare all’ombra di casa.

Mentre disfacevano i bagagli nella suite dell’ospedale, ripensavano a quanti anni erano passati dalla prima vacanza in Messico, ormai la loro gioventù era trascorsa, per entrambe il successo professionale ed economico era al top. Le grandi vetrate del Rifkin’s sembravano membrane osmotiche per la luce del sole, che ora dava l’impressione di disturbarle. Le fronde ondeggiavano ipnotiche, assopite sui bianchi sofà.

Suonarono alla porta. Entrò un dottore con parecchi documenti in mano. “Buongiorno signora Janssen, mi chiamo Leonard Lewis e sarò il suo specialista dermatologo. Le lascio alcuni moduli da compilare e il calendario delle indagini che faremo in questi giorni. Si prenda del tempo per darci un’occhiata, può chiamarmi al 713 a qualsiasi ora”.

“La ringrazio, leggerò tutto subito e la richiamerò presto” rispose Linda stringendogli vigorosamente la mano per salutarlo.

“Ana, per favore, potresti ordinare in anticipo la cena? Così guardiamo insieme questi moduli” chiese sbuffando Linda. “Aggiungi anche una bottiglia di prosecco ben fresco!” aggiunse mentre disponeva sul tavolo i documenti.

“Alcol il giorno prima degli esami?” chiese stupita Ana.

“Ana, per favore! Ho già visto che il primo appuntamento, che fra l’altro è un semplice colloquio, è alle 11, quindi ho tutto il tempo per smaltire una bottiglia di prosecco. Anzi mezza, visto che beviamo insieme. Per favore! Già non dovrei essere qui! Sei stata tu ad insistere”.

Mentre Linda era di spalle, Ana alzò gli occhi al cielo e telefonò alla reception per ordinare.

La bottiglia di prosecco finì presto, Ana leggeva a Linda le domande del questionario anamnestico e poi scriveva subito la sua risposta. Ana evitava domande pensando che l’atteggiamento dell’amica fosse solo normale nervosismo. Due ore dopo telefonarono al dottor Lewis, che le raggiunse subito in stanza. Lewis era alto e ben piazzato, il camice bianco e gli occhiali tondi e dorati risaltavano sulla sua carnagione scura. Anzi, decisamente nera. Linda non era razzista ma quel colore la intimoriva. Ana gli fece cenno di accomodarsi al tavolo.

“Grazie per aver compilato tutto così presto. Leggerò e domani, se ne avrò bisogno, le farò altre domande. Domattina faremo un’epiluminescenza, una radiografia al torace e una biopsia. Se ci sono segnali dubbi faremo anche una tac. Meglio una cosa in più che una in meno, giusto? Tutto chiaro? Domande? Allora ci vediamo domani alle 11 al primo livello sotterraneo, stanza 10. Usi il suo ascensore e stia tranquilla, non la vedrà nessuno, anche se il nostro centralino oggi è andato in tilt per le telefonate dei giornalisti. Vi consiglio di usare la linea telefonica privata a voi dedicata. Buonanotte, signore”. Rimasero entrambe in silenzio sino al mattino successivo. Dopo gli esami del caso, pranzarono di gusto, visto che si era fatto tardi. Il dottor Lewis sarebbe ritornato in serata per parlare di alcuni risultati, quindi c’era tutto il tempo per un riposino.

Squillò il telefono, era Lewis che le invitava nel suo studio.

Il dottore iniziò mostrando la lastra al torace sullo schermo luminoso. “Alcuni linfonodi sul mediastino appaiono ingrossati, Linda”.

“Cosa vuol dire? È un tumore? O sono già metastasi?” chiese lei.

Lewis fece il giro della scrivania e prese le mani di Linda. Le indicò, nell’incavo dorsale tra pollice e indice della mano destra, alcune piccole piaghette rosse. “Linda, con grande probabilità questo è un melanoma. Anche il piccolo neo tra il dito indice e il medio è coinvolto. Faremo una nuova biopsia del tessuto vicino”.

Erano ammutolite da quella notizia.

“Dottore, io mi sento bene! I nei potrebbero essersi ingrossati per il sole e il prurito che la sabbia provoca. Non è possibile. Non ci credo!” insistette Linda.

“Vedremo gli altri risultati nei prossimi giorni e poi decideremo il da farsi. Buona serata, signore”.

Neanche il loro respiro si sentiva in ascensore, ma nella suite esplose la rabbia di Linda verso Ana. “Hai insistito e mi ritrovo in questo casino! È una cazzata! Non è possibile che sia così! Tutta colpa delle tue paure! Io sto benissimo!”

Ana le augurò la buona notte e si ritirò nella sua stanza. Linda ordinò vino e cantò fino a mezzanotte.

Il mattino seguente, Lewis rimase perplesso nel vedere Linda salutare dalla finestra alcuni fan che erano giù all’ingresso dell’ospedale e cantavano sventolando fiori per lei. Era sorridente quando si voltò per ascoltare il dottore.

È molto amata, vedo” disse Lewis accennando un mezzo sorriso.

“Sì! Perché sanno che il mio affetto per loro è sincero. Non fingo”.

Linda si sedette mantenendo la schiena orgogliosamente diritta e non rivolgendo lo sguardo all’amica.

“Sono qui per confermarle la diagnosi di melanoma. Ci sono piccole infiltrazioni linfovascolari che stanno cominciando ad ingrossare altri linfonodi. Tutto parte dalle prime tre dita della mano destra, come confermato dalla risonanza magnetica con contrasto. Abbiamo due strade che possiamo percorrere”. Lewis si fermò per riprendere fiato e concentrarsi sulle brutte notizie conclusive.

Linda si alzò di scatto andando nuovamente alla finestra per lanciare sue foto autografate agli ammiratori urlanti. Chiudendo la finestra disse al dottore: “Qual è la strada più breve?”

“Amputare le tre dita della mano destra per tentare di rallentare l’infiltrazione di cellule tumorali. Prima dell’amputazione ci sarebbero, tuttavia, tre cicli di chemioterapia per cicatrizzare il più possibile”. Lewis si fermò perché aveva visto il volto incredulo delle donne.

“E secondo lei mi faccio tagliare tre dita? Non basta fare la chemioterapia senza tagliare? E se le tagliassero a lei, le dita? No, dottore, questa strada non è per me. Mi prenderò del tempo per pensare, partiamo domani e poi le farò sapere” concluse Linda accendendosi una sigaretta.

“Non aspetti troppo, Linda. Ha il mio numero di telefono, mi chiami” disse lui tendendo la mano, che Linda non volle stringere.

Andarono via prima dell’alba il mattino dopo. Linda non rispose a nessuna domanda e proposta di Ana. Si ritrovarono negli studi televisivi dopo qualche giorno come se nulla fosse accaduto.

 

“Chiama Lewis, partiamo domani” disse Linda quasi senza voce. Si era presentata nell’ufficio di Ana scalza e claudicante. Gli ematomi sotto le unghie e le piante dei piedi ormai rendevano faticoso stare in piedi. Decisero tutto in quel momento: Linda avrebbe fatto con Ana un’ultima intervista. Ana avrebbe organizzato lo studio televisivo con le ultime foto fatte in Messico. Linda, dietro un ampio tavolo, sarebbe stata seduta normalmente nonostante la sedia a rotelle, il piccolo vaso di fiori rossi avrebbe coperto la mano mutilata mentre con l’altra avrebbe salutato in spagnolo il pubblico, una vez mas.

 

foto di Petra by Pixabay




UN ALBERO CRESCE A BROOKLYN

UN ALBERO CRESCE A BROOKLYN

Di Betty Smith

Ed. Beat

 

 

Un albero cresce a Brooklyn è un bel romanzo epico che narra la storia della famiglia Nolan negli anni dal 1912 al 1918 vista dagli occhi di Francie, la primogenita, una bambina di undici anni capace di trovare il bello in ogni cosa.

Betty Smith, pseudonimo di Elisabeth Lilian Werner, mette molto di sé stessa in queste pagine: figlia di immigrati tedeschi nasce e vive a Brooklyn più o meno negli anni da lei narrati.

Nonostante l’imponenza, Un albero cresce a Brooklyn è un libro che scorre, ha un inizio forse un po’ lento ma con il procedere della lettura aumenta e la storia scivola via veloce senza per questo risultare banale o scontata.

Si può dire che il lettore cresca con Francie perché è proprio con lei che ci immedesimiamo, con la sua curiosità forte, con la sua caparbietà e il suo coraggio.

 

Ma Francie era anche qualcos’altro.

Era i libri che leggeva in biblioteca, il fiore nel vaso scuro, l’albero che germogliava irresistibilmente nel cortile, le discussioni violente che aveva con il fratello, che pur amava teneramente.

Era il dolore segreto e disperato di Katie, ed era anche la vergogna di suo padre che tornava a casa ubriaco.

 

Betty Smith con il suo romanzo ci offre un affresco le cui immagini di una Brooklyn formicaio sono ben delineate: strade brulicanti di vita, locali fumosi, vicoli putridi, famiglie operose.

L’atmosfera che pervade il lettore fin dalle prime pagine può forse indurre alla tristezza, se leggendo però riusciamo ad entrare nell’animo della protagonista, ecco che la tristezza si attenua e si trasforma in ottimismo.

Nonostante sia vissuta nei primi del ‘900, Francie potrebbe essere un’adolescente dei nostri giorni, con la sua smania di crescere, le sue paure e i suoi piccoli e grandi segreti.

Ciò che rende unica la nostra piccola donna è la fame di cultura, proviene da una famiglia semi analfabeta ma è perfettamente consapevole dell’importanza della lettura e della conoscenza: vuole imparare e niente e nessuno la fermerà in questo suo proposito.

Se c’è qualcosa forse di debole ne Un albero cresce a Brooklyn è il finale: terminiamo le 570 pagine ma rimaniamo un po’ perplessi, un finale non finale che però permette al lettore di continuare a fantasticare su ciò che la vita riserverà ancora alla piccola grande Francie.

 

Pregò: “Mio Dio, concedimi di essere qualcosa in ogni istante di ogni ora della mia vita.

Fammi essere felice o triste; fa che io abbia caldo o freddo; che abbia poco o troppo da mangiare; che sia vestita elegantemente o con degli stracci; degna di stima o peccatrice.

Ma concedimi di essere sempre qualcosa in ogni istante.

E concedimi pure di sognare quando dormo, in modo che non vi sia un solo momento della mia vita che vada perduto”.

 

SINOSSI

 

È l’estate del 1912 a Brooklyn. I raggi del sole illuminano il cortile dove abita Francie Nolan e le chiome dell’albero, come grandi ombrelli verdi, riparano la sua abitazione. Alcuni lo chiamano l’Albero del Paradiso perché è l’unica pianta che germogli sul cemento e che cresca nei quartieri popolari.

Francie lo guarda contenta perché oggi è sabato ed è un bel giorno a Brooklyn; è ancora una bambina e vive in una famiglia povera che stenta ad arrivare alla fine del mese.

La piccola Nolan è destinata a diventare una donna sensibile e vera, forte come l’albero che, stretto fra il cemento di Brooklyn, alza rami sempre più alti al cielo.

 




L’espressione della passione e del movimento: Gianlorenzo Bernini

Gianlorenzo Bernini, figura preminente del barocco italiano, è celebre per le sue straordinarie opere scultoree che hanno segnato un’epoca e continuano a ispirare gli amanti dell’arte in tutto il mondo.

Tra le sue opere più iconiche spiccano “Apollo e Dafne”, “Il ratto di Proserpina” e “Il David”, ciascuna rappresentante del suo straordinario talento nel catturare l’essenza del movimento e delle emozioni umane.

Apollo e Dafne: Un Momento di Trasformazione Eterna

La scultura di “Apollo e Dafne” di Gianlorenzo Bernini, realizzata tra il 1622 e il 1625, cattura l’intenso momento di trasformazione mitologica tra Apollo e Dafne.

Nella mitologia greca, Apollo, dio della luce e delle arti, si innamora della ninfa Dafne, che per sfuggire al suo amore indesiderato si trasforma in un albero di alloro. Questa metamorfosi è magistralmente rappresentata da Bernini, che dà vita a questa storia attraverso il marmo.

La scena è dinamica e carica di energia, con Apollo insegue Dafne mentre lei si trasforma. Gli sguardi intensi, le pose fluide e le texture dettagliate creano un senso di movimento palpabile.

La pelle di Dafne si trasforma in corteccia, e le foglie spuntano dai suoi arti, un’illusione resa così realistica che si avverte quasi il profumo dell’alloro.

Il Ratto di Proserpina: Un Capolavoro di Emozione e Dettaglio Anatomico

L’opera “Il ratto di Proserpina” è un capolavoro intriso di drammaticità e maestria tecnica. Realizzata tra il 1621 e il 1622, questa scultura cattura il momento in cui Plutone, dio degli Inferi, rapisce Proserpina, figlia di Cerere, per farne la regina degli Inferi.
La scena è pervasa da un’intensa emozione, con Proserpina che esprime terrore e sorpresa mentre è trascinata via.

Bernini dimostra la sua abilità nel modellare la pietra, rendendo il marmo così vivido che sembra fluire come il tessuto.

L’attenzione ai dettagli anatomici, alle pieghe dei vestiti e all’espressione dei volti è straordinaria.
Questa combinazione di maestria tecnica e intensità emotiva rende “Il ratto di Proserpina” un’opera che continua a toccare il cuore degli spettatori.

Il David: Forza, Bellezza e Tensione

Il “David” di Gianlorenzo Bernini è una reinterpretazione unica del celebre soggetto biblico. Questa scultura in marmo bianco rappresenta Davide nel momento precedente il combattimento con Golia.

Bernini cattura il momento di tensione e concentrazione, in cui Davide stringe la fionda, pronto a sfidare il gigante.

La forza e la bellezza fisica di Davide sono esaltate attraverso la maestria nel modellare la pietra.
Le venature e i muscoli del marmo sembrano vibrare di energia. Il volto concentrato di Davide e la sua postura determinata evocano il senso di coraggio e determinazione.
L’opera incarna la lotta tra il bene e il male, la forza e la debolezza, catturando un momento cruciale e iconico nella storia biblica.

In conclusione, le opere scultoree di Gianlorenzo Bernini, quali “Apollo e Dafne”, “Il ratto di Proserpina” e “Il David”, rappresentano la maestria e la genialità di un artista il cui lavoro ha sfidato il tempo.

Attraverso il marmo, Bernini è riuscito a catturare l’essenza del movimento, dell’emozione e della bellezza umana, lasciando un’impronta indelebile nella storia dell’arte. Le sue opere continuano a ispirare e ad affascinare il pubblico anche oggi, dimostrando la potenza senza tempo dell’espressione artistica.




La rivoluzione artistica di Manet

Edouard Manet nasce a Parigi nel 1832 da una famiglia benestante e sin da subito vuole intraprendere la carriera artistica contro il volere paterno. Infatti, il padre stesso, nel 1839 decide di far imbarcare il giovane Edouard in una nave militare verso il Brasile.

Al suo ritorno, Manet riesce a convincere il padre di voler diventare un artista ed entra nell’atelier di Thomas Couture.
Manet è un’artista che ha viaggiato molto (visita l’Italia, la Germania, l’Olanda) ed entra così in contatto con i grandi maestri europei.

Nel 1856 entra nell’Accademia e stringe amicizia con numerosi pittori ed intellettuali francesi, creando così il circolo degli impressionisti (anche se non esporrà mai insieme a loro) insieme a Degas, Pissarro, Monet, Renoir e Cézanne.
Tutti nomi che non hanno bisogno di presentazioni, insomma.

Arriva poi il 1863, l’anno della svolta sia per il piccolo circolo degli impressionisti che per l’intera storia dell’arte: Manet espone Le déjeuner sur l’herbe, La colazione sull’erba al Salon, scatenando uno degli scandali artistici più famosi della storia dell’arte.

La colazione sull’erba


L’opera venne infatti etichettata da subito come “indecente”.
Ma perché? Non erano d’altronde abituati a vedere ritratte su tela bellissime donne nude e Veneri sdraiate sui loro letti?
Certamente, ma la donna ritratta non è una Venere né un personaggio mitologico. Fu questo a fare scalpore: Manet è il primo artista moderno che rappresentò prostitute, zingare e donne del popolo con la stessa bellezza ed eleganza di una Venere.

Dopo essere stata rifiutata al Salon, l’opera fu spostata al Salon des Refusés con un nuovo titolo “Il Bagno”, anche se Manet la soprannominava “Lo scambio di coppie”.

La tela vede protagonisti due uomini ed una donna che, all’aria aperta, fanno colazione, mentre alle loro spalle un’altra figura femminile che si bagna i piedi nel ruscello. La ragazza nuda, dalla pelle candida, è l’unica a rivolgere lo sguardo allo spettatore.
L’intera scena è ambientata in un contesto surreale, un bosco abbozzato e sfumato in netto contrasto con la definizione delle figure.

L’Olympia


Il secondo capolavoro di Manet è un ulteriore affronto alla pittura moderna: stiamo parlando dell’Olympia del 1865.

Se ad un primo colpo d’occhio la figura sdraiata, bellissima, possa sembrare a tutti gli effetti una Venere sul modello della Venere di Urbino di Tiziano, uno sguardo più attento riconoscerà in lei una prostituta dai braccialetti scintillanti e dal cinturino di velluto nero al collo.

Accanto a lei una donna dalla pelle scura le porge dei fiori, mentre in fondo al letto, al posto del fedele cane che appare in ogni opera cinquecentesca, appare un gatto nero.

Con queste due opere Manet dà vita ad una nuova concezione dell’arte: soggetti nuovi, freschi, al passo con i tempi in cui il pittore vive e con una nuova tecnica basata sulla giustapposizione delle diverse zone di colore.

Nel 1879 l’artista è colpito da una malattia che lo accompagnerà sino alla morte, nel 1883.

 




Cuore di serpente di Giovanni Montini

Romanzo dalle tinte noir edito da Bertoni Editore

 

Cuore di serpente è il terzo romanzo di Giovanni Montini edito da Bertoni Editore uscito a settembre 2022 e ambientato negli anni ’70 in una villa al mare del Circeo.

Il protagonista di Cuore di serpente è Giulio, uno scrittore quarantenne, omosessuale e squattrinato che accetta l’invito dell’amica Francesca – un’avvenente redattrice di una testata di gossip, attenta alla linea e alle apparenze – sperando di ritrovare la carica giusta per tornare a scrivere.

Nella bella villa in riva al mare con la sua Olivetti Lettera 22, Giulio incontrerà ciò che non si sarebbe mai aspettato: il fascino passionale della giovinezza nella figura del ventenne Gabriele. Conturbante personaggio figlio di prime nozze del padrone di casa, Andrea, e cresciuto con le amorevoli premure dalla seconda moglie, Francesca.

Lo stile di Cuore di serpente rientra nel genere noir con quel tocco di sentimentale tanto da poterlo definire un “noir sentimentale” e visto che la trama è avvincente, con inaspettati colpi di scena di tutto rispetto e un ritmo narrativo ben studiato, non posso certo procedere con il narrarvi la trama per non togliervi il gusto di girare le pagine. Posso, però, parlarvi dei personaggi e, in primo luogo, del protagonista Giulio, un uomo dolce e timoroso, tenero e poco sicuro di sé che fa fatica a dichiarare al mondo la propria omosessualità e di questo ne soffre in silenzio:

«Tutti nella vita tradiamo, e non solo i nostri partner. Nell’amicizia, sul lavoro, anche i nostri genitori. Io ho tradito la fiducia di mio padre perché gli ho fatto credere che mi piacevano le donne. Da quanto gli ho confessato di essere gay non ci parliamo più, ma io mi sento libero perché gli ho detto la verità. Non lo tradisco più. Ti pare poco?»

E già perché non dichiarare, in fondo, è un po’ tradire e Giulio è così sensibile e vulnerabile che assorbe su di sé questa mancanza di coraggio incupendosi e piegandosi su sé stesso perché «Preferiva soffrire, struggersi per un amore irraggiungibile, solo dal dolore Giulio riusciva a trarre nutrimento, l’unica forma di esistenza

E Giovanni Montini è bravo a evidenziare questo tema come una sotto traccia del romanzo visto che, a mano a mano che la vicenda si ingarbuglia e tiene il lettore legato alle sue pagine, ecco che emerge la difficoltà del coming out nel periodo storico degli anni ’70.

 

 

A rafforzare questa tematica e a fare da contraltare, troviamo il personaggio di Francesca, la padrona di casa, donna arrampicatrice, manipolatrice, pettegola e, soprattutto, falsa disposta a tutto pur di soddisfare la propria sete di soddisfazione personale e professionale.

La figura di Francesca appare sin dalle prime battute contorta e ambigua e, allo tesso tempo, risulta come metafora della società che ci vuole tutti inquadrati in un mondo standard, politically correct e senza sbavature, dove esteriormente si finge di accettare le differenze dell’altro per poi sparlarne e denigrarlo non appena se ne ha occasione.

Cuore di serpente ha due piani di lettura che si alternano con maestria. Se da un lato si segue l’avvicendarsi degli avvenimenti con trepidazione, dall’altra si ha modo di vivere con tenerezza l’improvvisa storia d’amore senza mai cadere nel banale o nel già letto, anche quando si tratta della descrizione di scene di sesso.

Una lettura piacevole e snella che avvince e riporta indietro nel tempo quando non c’erano ancora i cellulari e per telefonare a qualcuno si doveva sperare di trovarlo in casa, quando per scrivere si usavano le risme di carta e il tempo sembrava appartenerci un po’ di più.




Amalia Pica in mostra alla Fondazione Memmo

La Fondazione Memmo

All’interno di un bellissimo cortile a pochi passi da Piazza di Spagna si trova lo spazio espositivo della Fondazione Memmo.

Roberto Memmo diede vita nel 1990 a questa Fondazione, con lo scopo di creare un rapporto diretto tra il pubblico e le opere d’antichità.
Quando, nel 2012, la direzione passò alle nipoti Anna d’Amelio Carbone e Fabiana Marenghi Vaselli Bond, la Fondazione iniziò ad occuparsi esclusivamente di arte contemporanea.

Dal 12 aprile 2022 la Fondazione Memmo ospita la mostra personale di Amalia Pica, artista argentina, curata da Francesco Stocchi.


Amalia Pica a Roma

Amalia Pica nasce a Neuquén nel 1978 e si forma all’Instituto Universitario Nacional del Arte e all’Escuela Nacional de Bellas Artes P.P. (I.U.N.A.), a Buenos Aires. Si trasferisce poi in Europa per studiare alla Rijksakademie van Beeldende Kunsten di Amsterdam.

C’è un elemento, tuttavia, che regola la sua più recedente produzione artistica: il linguaggio.

Amalia è infatti affascinata dal mondo della comunicazione e del linguaggio ed infatti basa la sua mostra su una figura retorica, la catacresi. Le opere inedite esposte alla Fondazione Memmo sono infatti un’ideale prosecuzione della serie Catachresis.

Tutta la mostra si basa dunque su questo “gioco linguistico” nel quale ad ogni oggetto viene associata una parte del corpo umano, come nel caso del “head of the hammer” (la testa del martello), oppure “leg of the table” (la gamba del tavolo) e anche “teeth of the comb” (i denti del pettine) e così via.

Amalia Pica instaura quindi un collegamento con lo spettatore, il quale una volta entrato in possesso della chiave del sistema, piano piano scopre e svela l’identità degli oggetti che ha di fronte – oggetti trovati o comprati nei mercatini romani dalla stessa Amalia – in una sequenza di figure a metà tra l’oggetto e l’umano. Una condizione indefinita.

Ed è da qui che nasce il titolo della mostra: “Quasi”. Quasi proprio perché sono figure in bilico, che aspirano ad una condizione di umanità che però non acquisiranno. Quasi figure.

Sulle ampie vetrate esterne, inoltre, sono presenti i ventuno “modi di dire”, scritti in inglese, che ritroviamo all’interno della mostra.
La mostra termina in 16 ottobre, tra meno di due settimane!