L’evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile di Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux di Sara Durantini

Edito da 13Lab Editore nel 2021

 

Il breve saggio di Sara Durantini, L’evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile di Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux, edito da 13Lab Editore nel 2021, è un inno d’amore a tre grandi donne e scrittrici del novecento francese.

Una finestra sulla grande letteratura che fa luce sulla forza dirompente e universale di tre figure femminili che, ciascuna con il proprio stile, hanno segnato con determinazione il cammino della rappresentazione narrativa femminile.

“La lingua inaugurata segna uno spartiacque tra ciò che è stato prima del loro ingresso in società e ciò che è avvenuto (e avverrà) dopo: è una lingua che parla alle donne e delle donne, spiega e converte in parole il sentire femminile, si nutre di spazi e tempi propri. Una lingua libera.”

Sara Durantini divide il suo lavoro in tre macro sezioni approfondendo l’analisi per ciascuna scrittrice, lasciando sempre aperta la mente alle contaminazioni che ciascuna di esse ha avuto da un’energia cosmica che le ha spinte ad aprirsi all’autobiografia come voce intima e ancestrale dell’animo femminile.

Ho impiegato un bel po’ di tempo a leggere questo saggio perché è un continuo stimolo e non ho resistito al desiderio di tornare a sfogliare e rileggere alcuni libri di ciascuna scrittrice. Subito dopo aver terminato la prima sezione dedicata a Colette ho trovato nella mia libreria Hotel Bella Vista e altri racconti; con Marguerite Duras ho rispolverato L’amante e per Annie Ernaux mi aspettava L’altra figlia.

 

 

Che splendida avventura leggere l’analisi di Sara Durantini e subito dopo immergersi nella lettura di un lavoro della scrittrice in esame! È stato come se le pagine si fossero arricchite di sfumature nuove, come se l’animo di ciascuna scrittrice fosse stato messo in risalto e delicatamente sottolineato dai richiami di Durantini.

Ritengo sia fondamentale in ogni lettura che ci si accinge a fare, comprendere e immergersi nel periodo storico, culturale e sociale durante il quale lo scrittore ha messo mano al suo lavoro. E il lavoro certosino di Sara Durantini permette di sviscerare l’elaborazione personale di ciascuna di loro, i percorsi attraverso i quali sono riuscite a esternare con la scrittura, tormenti personali e interiori con tale eccellente bravura al punto da renderli trasposizione universale del sentire femminile.

Argomenti come il difficile rapporto con la figura materna, la sessualità e l’incesto, l’aborto e l’emancipazione femminile erano temi tabù per il periodo storico durante il quale sono vissute eppure tutte e tre, quasi passandosi il testimone, sono riuscite a innescare una escalation liberatoria della scrittura. Partendo da Colette, nata nel 1873 per arrivare a Duras nata nel 1914 e infine a Ernaux nata nel 1940.

La grande capacità di Colette, Duras e di Ernaux di interpretare l’energia femminile attraverso il coraggio di una scrittura autobiografica ci regala opere di una grandezza sopraffina a testimonianza di quanta inarrestabile forza interiore si sia celata dietro il millenario silenzio di ciascuna donna che ci abbia preceduto. Autrici che sono riuscite a seguire quella forza motrice interiore che le ha spinte a trasmigrare le proprie intime emozioni nella scrittura riuscendo a liberare loro stesse e ad interpretare la voce di tutte le donne.

Come specifica Duras in un’intervista rilasciata a Bernard Pivot, è una scrittura corrente che «corre, che ha fretta di afferrare le cose più che dirle […] è una scrittura che è come se corresse sulla crosta, per andare veloce, per non perdere

Scrittura individuale che si trasforma in universale perché i lavori di Colette, Duras e Enaux toccano le corde più intime di ogni donna riuscendo a tradurre i tormenti, le pene, le introspezioni interiori di intere generazioni passate e, oserei dire, future.

“Che il mio corpo, le mie sensazioni, e i miei pensieri diventino scrittura” dichiara Ernaux mentre la scrittura di Colette, secondo Durantini,  assurge “a depositaria della memoria, talismano per superare gli anni”

L’evento della scrittura è un saggio meticoloso e delicato e, soprattutto, un grande omaggio d’amore verso la potenza della scrittura femminile di tre donne che, con la propria vita e il proprio stile, hanno dato voce a chi voce non ne ha.




Tomato Red di Daniel Woodrell

La vita gioca duro quando sei nato dall’altra parte della ferrovia e vivi sull’altopiano degli Ozarks, nel Missouri, nella cittadina di West Table. Un’ambientazione che non regala nulla e, fin dalle prime pagine, segna con fermezza i limiti entro i quali si muovono i protagonisti di Tomato Red di Daniel Woodrell edito da NNEditore

Nascere in una baracca nella zona più degradata della città; vivere a ridosso delle rotaie con il passaggio del treno che ne scandisce il tempo; condividere il quotidiano con chi non ha altra compagnia se non quella dell’alcool e delle droghe; elementi che non permetteno di immaginare nessun altro futuro se non quello che un destino beffardo ha già disegnato per loro.

“Il nostro futuro a West Table è stato deciso e stabilito lo stesso giorno in cui siamo nati […] Perciò un qualsiasi altro posto andrà benissimo”

L’io narrante di Tomato Red è il giovane Sammy Barlach che, dopo una giornata a drogarsi con altri ragazzi, si introduce in un’abitazione ricca per rubare ma i compagni lo abbandonano e finisce per addormentarsi su una poltrona. Sarà svegliato da Jamalee, la ragazza dai capelli rossi, la Tomato Red del titolo, e il fratello Jason. I fratelli Merridew si sono intrufolati nella stessa casa ma non con l’intento di rubare bensì con l’idea di fingersi ricchi e abituarsi a vivere nel lusso e nel benessere. Usciranno insieme da quella casa per dare l’avvio ad una convivenza sconclusionata, claudicante e assurda ma che rappresenta, ciascuno per una caratteristica diversa, quanto di più vicino ad una famiglia i tre possano mai ambire.

Tomato Red potrebbe essere un noir, un giallo o un punto di partenza per un hard boiled come suggerisce la nota del traduttore Guido Calza. In qualsiasi genere lo si voglia inserire nella sua trama è inserita la morte di un personaggio solo che l’evento non è di per sé il fulcro del romanzo  stesso quanto un ulteriore elemento scontato di una vita di inevitabili e ineluttabili sconfitte.
Non è più rilevante risolvere quella morte e scoprire se sia un omicidio, un suicidio, un regolamento di conti o un semplice incidente. Quella morte rappresenta un altro elemento nefasto da aggiungere ad una vita che null’altro può offrire se non quell’appiccicoso degrado e quell’accanita povertà che pervade ogni cosa.

 

 

Daniel Woodrell è abile con il suo stile asettico, immediato e privo di inutili fronzoli a scaraventa il lettore in una realtà così brutale e spietata da non far filtrare alcuna possibilità di riscatto riuscendo ad offuscarne anche il semplice pensiero di un eventuale futuro alternativo. Tutto risulta fermo, immobile, ovvio, scontato e ogni avvenimento non sorprende ma appare come una naturale conseguenza.

Magistrale la sua capacità di trasformare gli oggetti inanimati in elementi integrali e funzionali alla drammaticità della realtà che vivono i protagonisti. Woodrell anima gli oggetti come per addensare ancora di più quelle grate entro le quali i personaggi sono relegati, imprigionati

“La parte peggiore di luglio era piombata sulla città in anticipo, nell’ultima settimana di maggio, e rovinava piani ovunque andasse”

“Avevo parcheggiato di fronte alla chiesa. Era una struttura acuminata, di un bianco lucente, e sembrava pronta a strapazzarmi con prediche, rimproveri e spaventosi passi della Bibbia se solo avessi camminato su quel marciapiede”

“Il caldo aveva reso gli alberi lungo le strade tronfi e avari della propria ombra. Per giunta avevano fatto un accordo con il vento perché non soffiasse, così il valore di quell’ombra era salito alle stelle”

Il mese di luglio, un marciapiede, l’ombra degli alberi. Elementi di contorno ai protagonisti che sembrano delimitarne ancora di più il futuro, posizionati come paletti dei confini entro i quali muoversi, per immobilizzarli al loro posto senza soluzione di continuità.

“Sammy, a te non piacerebbe combinare qualcosa? In futuro? Contare qualcosa?” […] Nah. Io penso solo che tirerò avanti, accumulerò giorni, capisci, fino a quando farò una cazzata così grossa che il futuro verrà disdetto. O magari deciso da qualcun altro al mio posto. Ci sono buone probabilità anche per quello.”

Tomato Red rappresenta un’eccellente presentazione di come la casualità della nascita di un individuo possa determinarne inequivocabilmente il destino. Sintetizza in poco meno di 200 pagine, con scene indelebili quasi fossero fermi immagini, i turbamenti, i timori, i sogni e i turbamenti di qualsiasi generazione che guardi al futuro quando ogni cosa attorno non faccia altro che additarli come falliti, inconcludenti e perdenti.

Tomato Red appare come un manifesto di sconfitta per la cecità della società stessa, malata per il suo sistema automatico di infliggere e condannare senza indugio, incanalando il destino degli esseri umani.
Il romanzo è un grido di dolore che mette in luce l’intima desolazione e disarmante impotenza di chi, semplicemente, vive dall’altra parte della ferrovia.




Le considerazioni di una portinaia e altri racconti di Giovanni Montini

Sei racconti che si dipanano in sei quartieri di Roma

Roma raccoglie e accoglie, innalza e esalta l’animo di ogni viaggiatore che l’attraversi mentre lei, maestosa e onnipresente, si adagia da millenni sugli stessi sette colli. Saggiamente consapevole di come ogni cosa scelga la sua strada naturale, ecco che Roma invita a sorprenderci dalla bellezza dei particolari, dall’energia dei colori e dagli strati temporali che l’avvolgono.

Roma della bellezza ne è la regina, non perché grandi scrittori ne abbiano sempre parlato, ma perché lei del tempo sembra proprio non importarsene.

Roma è il tempo.

In ogni angolo, in ogni tetto, arco, colonna, architrave, balcone, affaccio, cupola, abbaino, ponte o rovina, ecco che Roma appare galleggiare senza tempo sebbene ne sia completamente intrisa. Se si ha la buona creanza di lasciare in albergo ogni tipo di orpello abbandonandosi al piacere di viverla, ecco che Roma è capace di abbracciarti, sussurrarti melodie e entrarti dentro come nessun’altra città è in grado di fare.

La letteratura ha da sempre trovato ispirazione tra le strade e le atmosfere di Roma per ambientare libri di ogni genere, dai romanzi rosa ai gialli, dai thriller ai saggi, dalle poesie alle canzoni ma per parlarvi di Roma ho preferito addentrarmi in alcuni quartieri celandomi dietro la scrittura di Giovanni Montini che di lavoro non fa lo scrittore bensì si occupa da sempre di moda.

Ho scovato Le considerazioni di una portinaia e altri racconti di Giovanni Montini edito da Robin Edizioni casualmente navigando su Instagram e mi ha colpito fin da subito per la sua copertina monocromatica gialla, quel lettering moderno con un carattere senza grazie e quelle sfere rosse come bocche fameliche pronte a raccontare.

Sei racconti che si dipanano in sei quartieri di Roma. Troviamo la storica Trastevere, la Garbatella, l’Ostiense, il ricco e aristocratico quartiere dei Parioli, il cuore del quartiere Monti e in finale la centralissima Stazione Termini.

Cinque storie l’una distinta e distante dall’altra che raccolgono un filo rosso a quattro zampe che scodinzola da una storia all’altra accompagnando e esaltando la reale bellezza di Roma.

Perché Roma è come Peppe: fedele, tenera, generosa, giocherellona, amica. Ti abbraccia riscaldandoti con il proprio affetto ma ha lo sguardo capace di andare oltre, che segue la propria anima, che ascolta sempre e soltanto il proprio cuore e, in virtù del suo carattere, resta integra e fedele solo a se stessa.

Sei racconti che sono magistralmente incastrati per trasformarsi in un giallo e condurre il lettore per mano in un finale a sorpresa.

A Trastevere ci si perde nei vicoli nascosti, bui ma di colpo assolati dove il grande e affollato Viale Trastevere diventa un limite difficile da attraversare perché oltre non se ne conosco i segreti. Ed è vero perché Trastevere è il cuore di Roma, di quella vera, quella che si sente romana da sette generazione, che canta nei vicoli dal sapore antico, dei panni stesi tra le facciate dei palazzi, che ascolta il tuonare del cannone giusto dietro le orecchie, là sul Gianicolo, ogni giorno a mezzogiorno.

La pettegola e sorniona Garbatella con i suoi grandi condomini e la portinaia che si trasforma in detective per sfuggire la noia di un matrimonio senza amore mentre la cruda e dura storia d’amore di Ottavio e Gabriele scelgono come testimone il silenzioso Gazometro, simbolo del quartiere Ostiense, conosciuto come Il Colosseo dei Poveri.

La serenità del dolce mormorio del Tevere che accoglie sulle sue sponde l’impaurita Giuliana, fuggita dalla bellezza del quartiere Monti, incastrata nelle rigide regole della Roma bene che lotta perché «non era il gusto delle cose a determinare la qualità della vita, ma la possibilità di poterlo fare, di poter decidere». Nel suo fuggire e sfuggire l’accoglie l’ultimo degli ultimi, quel barbone senza fissa dimora, che vive Roma come lei non è mai riuscita neanche a sognare.

E infine il quartiere ricco e altolocato dei Parioli dove Giovanni Montini affresca la storia più divertente con la creazione di un racconto basato su un malinteso che coinvolgerà la nonna e le sue amiche del bridge in rocambolesche azioni fuorilegge.

Racconto dopo racconto si attraversano i diversi quartieri di Roma fino a giungere alla stazione Termini. Luogo per antonomasia di arrivi e partenze è il momento in cui Giovanni Montini chiama a raccolta tutti i suoi personaggi offrendo loro la possibilità di andare come quella di restare.
Così, lungo i binari dei treni, tra pesanti valigie, tabelloni di orari, passeggeri in transito e pensieri intimi, si apre il viaggio più bello che si possa fare, quello con noi stessi.

Sarà una bellissima sorpresa scoprire chi tra loro partirà e chi sceglierà di restare a Roma.




La voce delle case abbandonate di Mario Ferraguti

Piccolo saggio della collana Piccola filosofia di viaggio di Ediciclo Editore

 

Viviamo sommersi di parole, circondati da notizie, bersagliati da informazioni e leggere il saggio La voce delle case abbandonate di Mario Ferraguti è un viaggio nel silenzio e nelle storie nascoste tra le mura delle case abbandonate.

Chi non si è mai chiesto, passando accanto ad una casa in rovina, che fine abbiano fatte le persone che la vivevano, dove siano finite quelle storie, quali ricordi siano legati a quelle mura?

Mario Ferraguti ci prende per mano e ci porta ad ascoltare la voce delle case abbandonate, il vento che parla passando attraverso le fessure, le porte spalancate, le finestre aperte, i tetti crollati, dove anche i colori parlano perché lentamente si trasformano e, da vividi e svegli, sembrano addormentarsi e addomesticarsi alla natura prendendo, giorno dopo giorno, i colori della terra, le sfumature tra il rosso e il marrone fino a diventare briciole di passato, fino a tornare alla polvere.

 

La voce delle case abbandonate di Mario Ferraguti edito da Ediciclo Editore

 

E poi ci sono gli oggetti. Tutti quei piccoli oggetti dimenticati e lasciati lì, che hanno atteso per lungo tempo il ritorno dei proprietari per poi rassegnarsi al loro destino e confondersi con le pareti, con la natura, con le voci della casa. Gli oggetti parlano, del loro passato, delle storie che li hanno resi protagonisti, che li hanno visti al centro di un interesse per poi trovarsi riversi sul pavimento per decenni, dimenticati ma non privi di memoria.

La voce delle case abbandonate è un libro piccolo per dimensioni ma intenso per lo stile e la purezza dei sentimenti che ci regala e per la capacità di riportarci, come un violento pugno allo stomaco, a come tutto ciò che ci circonda sia destinato, in modo naturale, al declino, alla fine, alla morte.

Ci sono stanze che si trasformano in isole nel vuoto, luoghi che restano sospesi al nulla, frequentati soltanto da chi sa volare.

È proprio nelle pareti, le ultime a disfarsi e sbriciolarsi, che restano per un tempo più lungo, i ricordi e la voce di chi tra quelle mura è stato felice, ha riso, scherzato, è nato ed è morto. I muri delle case abbandonate meritano rispetto perché raccontano gli ultimi respiri di chi ci ha preceduto e, esattamente come tutti noi, è stato felice, ha sofferto e ora è parte del passato. Vivere per passare oltre, verso quella natura implacabile e bellissima che ci ricorda quanto sia semplicemente meravigliosa la vita.

Le case abbandonate spesso sorridono; danno come una sensazione di bellezza perché loro e tutto quello che c’è attorno a loro sembra che siano diventati vecchi insieme. I sassi, i legni, i vetri, il ferro che hanno addosso si sono trasformati proprio in quelli giusti e finalmente stanno bene, hanno dimenticato ferite e amputazioni di seghe, martelli, fori di chiodi e sono sereni, si lasciano andare al tempo che vuol dire consumarsi adagio.

 

 

La voce delle case abbandonate di Mario Ferraguti
Edito da Ediciclo Editore



Gli invisibili di Pajtim Statovci

Guerra e disperazione. Solitudine e odio. Amore e passione.

 

Gli invisibili di Pajtim Statovci narra la storia di due giovani ragazzi degli anni ’90. Il caso li fa incontrare al tavolino di un bar di Pristina e tra loro scatta il classico colpo di fulmine che li porta a vivere una grande e intensa storia d’amore ma anche ad essere costretti ad essere invisibili agli occhi di tutti perché Arsim e Miloš non solo sono due uomini ma il primo è albanese mentre l’altro è serbo.

Invisibili perché uomini e invisibili perché nemici, eppure la passione e i sogni che uniscono Arsim e Miloš sono semplici e puliti e contrastano con la violenza che alimenta l’odio tra le due culture e la ferocia delle tradizioni che non offre mai una via d’uscita.

Arsim studia per diventare cardiochirurgo mentre Miloš, sposato e con figli, insegue il sogno di diventare scrittore. Si amano dietro la porta del piccolo appartamento di Miloš che diventa così quel luogo magico, fuori dal mondo, dove immaginare quel futuro impossibile.

Non andiamo mai da nessuna parte, nemmeno a fare due passi, non nutriamo speranze di una vita al di fuori di queste quattro mura perché semplicemente non esiste.

Gli invisibili è un romanzo duro, schietto, che lascia intendere come non sia possibile alcun lieto fine laddove i limiti e quello stato di invisibilità nasca dai limiti stessi degli esseri umani. Il genere umano che marchia, per sempre e da sempre, altri esseri umani rendendo di fatto impossibile qualsiasi, se non rara, possibilità di riscatto.

Nel romanzo, ad un certo punto, i due uomini si lasciano per seguire percorsi diversi. Arsim resta a Pristina mentre Miloš, con la famiglia, si rifugia all’estero in un paese non identificato. E anche in questo paese, europeo e “civilizzato” si ritrova la stortura dell’uomo di lasciare nell’invisibilità altri esseri umani perché considerati stranieri, diversi e, quindi, pericolosi.

Ajshe, la moglie di Miloš, nell’affrontare le insegnanti dei figli, reclama con forza la violenza che viene fatta loro di marchiare i normali disagi adolescenziali nascondendoli in una forma di razzismo.

“Gli insegnanti direbbero che gli insuccessi sono dovuti al bilinguismo se la nostra madrelingua non fosse l’albanese?”

Gli invisibili è impostato con le due voci narranti dei protagonisti che si alternano su diversi piani temporali e evidenziate anche da un differente carattere di stampa che sembrano rafforzare ancora di più le distanze.

L’incipit richiama subito alla guerra introducendolo come un altro protagonista del romanzo. Una guerra che non usa solo armi da fuoco ma si delinea in una lotta quotidiana e individuale che soffoca, deride, isola e uccide, in una battaglia continua e difficile di chi tenta in tutti i modi di esprimere sé stesso e raggiungere i propri sogni ma resta imbrigliato, prigioniero a vita, di una gabbia costante che rende l’uomo invisibile agli altri.

“Ho visto uccidere un uomo, ho visto sulla strada il braccio di un soldato, sembrava un luccio cavato fuori dalla terra, ho visto fratelli separati alla nascita, case bruciate ed edifici crollati, finestre sfasciate, stoviglie rotte e roba rubata, tanta di quella roba che non crederesti a quanta ne rimane quando la vita tutt’attorno è presa a calci, anche gli oggetti muoiono quando vengono sottratti al loro proprietario.”

 

 

 

 

Gli invisibili di Pajtim Statovic
Edito da Sellerio Editore – agosto 2021
traduzione di Nicola Rainò




La libertà il tema centrale di Più Libri Più Liberi

Prosegue fino all’8 dicembre la XX edizione della Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria

Nel polo congressuale de La Nuvola a Roma si è inaugurata sabato 4 dicembre Più Libri Più Liberi, l’evento editoriale più importante della Capitale, dedicato agli editori indipendenti italiani e organizzato dall’Associazione Italiana Editori AIE.

Il tema per questa edizione è la libertà, un concetto insito nel nome stesso della manifestazione che sottolinea la grande forza liberatoria dei libri.

Grande affluenza di pubblico durante il fine settimana monitorati da un meticoloso servizio di sicurezza interno per evitare assembramenti sia nell’area ristoro che nell’area espositiva, ma che non è riuscito a dissuadere i tantissimi estimatori di Zerocalcare che non solo hanno acquistato i suoi libri ma hanno preso un numero per ordinarsi in fila e attendere il proprio turno pur di avere una dedica personalizzata.

Di sicuro la serie televisiva Strappare lungo i bordi appena uscita su NetFlix ha portato alla ribalta il talentuoso fumettista romano Zerocalcare. E come dichiara la fascetta sul primo volume pubblicato 10 anni fa e ora ristampato dalla casa editrice Bao

“Diteglielo, a tutti quelli che credevano che sarei durato sei mesi!”

Il successo dei fumetti (o grafic novel usando una anglicismo più di tendenza) e dei manga giapponesi, rivela come il linguaggio sia in continua evoluzione e come diventi fondamentale, per il mondo della cultura e dell’editoria, riuscire a intercettare ciascun segnale arrivi dalla società capace di creare un canale di comunicazione per veicolare il proprio messaggio.

 

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I libri raccontano. Sempre. Sia che parlino attraverso la prosa, i versi o arricchiti da disegni. Ciascun libro mira a identificare, raccontare e veicolare un messaggio, che sia introspettivo, di formazione o di approfondimento.

L’obiettivo primario di eventi culturali come Più Libri Più Liberi è proprio quello di creare un canale connettivo tra prodotto e fruitore, cioè tra casa editrice e lettore.

Quale libro sia il migliore in assoluto, per fortuna, non è dato di sapere.
La presenza nella letteratura di capolavori indiscutibili non è in discussione sebbene solo l’audacia del giornalista Corrado Augias poteva pensare di parlare del libro dei libri, la Bibbia definendolo

per noi laici un manuale di psicologia. Dice più dell’essere umano che non di Dio

invitando a una lettura, anzi rilettura e conoscenza del passato per meglio comprendere e affrontare il presente.

 

 

Davanti all’affollatissima platea dell’Arena Robinson, dialogando con Dario Olivero, responsabile culturale Robinson, Augias non ha perso l’occasione di dichiarare, riguardo la questione dei vaccini, come “Noi siamo un’élite perché siamo qua a seguire due signori che parlano cercando di capirli invece di andare a fare shopping. Noi sappiamo che la Terra è tonda” sottolineando così la necessità di andare oltre la superficie dell’informazione arrivando fino alla conoscenza.

Perché le notizie ci informano ma è solo con un’approfondimento distaccato e pacato che possiamo giungere ad una conoscenza ed è la conoscenza a renderci liberi.

 

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Le occasioni di approfondimento sono molteplici a Più Libri Più Liberi che prosegue il suo ricco calendario fino a mercoledì 8 dicembre.

Prima di avventurarsi calamitati dai tantissimi singoli stand e dagli spazi regionali che raggruppano al loro interno ulteriori case editrici, è consigliabile visionare il meticoloso calendario, (lo trovate qui) che riporta presentazioni di libri, dibattiti, incontri culturali e firma copie e segnarsi gli eventi da non perdere.




A tu per tu con l’autore. Rassegna letteraria dell’Associazione Culturale Tema-Hesperia

Si apre la rassegna con il libro Frammenti di Simonetta

Racani

 

Sabato 4 dicembre 2021 alle ore 18:00 presso La Galleria Hesperia in Via Silvio Spaventa 24/B a Pomezia, prende il via il primo incontro della Rassegna letteraria dell’Associazione Culturale Tema-Hesperia con la presentazione del libro Frammenti di Simonetta Racani.

Modera l’incontro Susanna Lasconi della libreria Booklet di Pomezia.

 

L’ingresso è consentito nel rispetto delle norme COVID attualmente in vigore
email. [email protected]
Per saperne di più sull’Associazione Culturale Tema-Hesperia qui

 

 

Dal sito di Amazon si riporta la sinossi del libro e informazioni sull’autrice.

LIBRO

Margherita, il personaggio di questo libro, è una donna apparentemente normale.Ha formato la sua personalità attraverso vari episodi della sua vita che, mettendo in evidenza le sue contraddizioni, ne hanno talvolta minato le certezze.Forte e sicura con il mondo esterno, critica e incerta nell’intimo, alla continua ricerca di un equilibrio tra ragione e sentimento, tra osservanza delle regole e ribellione, è una donna che vive le sue passioni consapevole delle ferite che le stesse lasceranno e che inevitabilmente contribuiranno ad aggravare il suo dissidio interiore.Ma un evento drammatico l’aiuterà a pacificarsi con il suo vissuto ridefinendo nuove priorità.Questo libro è il viaggio dell’anima e della vita, fatto di salti temporali dall’adolescenza all’età matura che come frammenti di un puzzle si ricompongono per accompagnarci all’epilogo.

 

L’AUTORE

Racani Simonetta, sono nata a Roma il 27 settembre 1959.Diplomata. Ho ricoperto lavorativamente varie posizioni. Sono coniugata e madre di un ragazzo.Sono appassionata di lettura, cinema, musica e arti figurative.Da un paio d’anni faccio parte di un laboratorio teatrale amatoriale.Ho sempre amato scrivere soprattutto poesie e racconti brevi.Questo è il mio primo romanzo.

 




Quello che si salva di Silvia Celani

Il secondo romanzo della scrittrice pometina ci porta nel cuore della resistenza romana

 

Ogni riflessione sui libri che scelgo di proporre mi carica sempre di una grande responsabilità che aumenta ancora di più nel momento in cui l’autore del libro è una persona che conosco. Il rischio di non essere obiettiva è sempre dietro l’angolo.

Per fortuna nel romanzo Quello che si salva di Silvia Celani, edito da Garzanti nel settembre del 2020, la sensazione di essere in bilico tra “dire e non dire” l’ho superato a mano a mano che andavo avanti con la lettura perché la vicenda narrata mi ha letteralmente rapita togliendomi qualsiasi dubbio.

Quello che si salva è un romanzo ambientato a Roma e narra la storia di Flavia e nonna Luli. Due donne, vicine di casa e con età diverse, che instaurano nel tempo un profondo legame di amicizia, molto più stretto e   intimo di un vincolo di sangue.

 

 

Giocando sull’alternanza dei capitoli in diversi piani temporali Quello che si salva ci porta agevolmente avanti e indietro nel tempo, tra passato e presente.

Con nonna Luli, all’anagrafe Giulia, ci troviamo immersi nella Roma del settembre del ’43, con la nascita dei nuclei di resistenza romana ai quali la giovane ventenne si unisce con coraggio contrastando la presenza massiccia e oppressiva dei nazisti e prendendo il nome in codice di Camilla. Pagine intense con svariati personaggi del popolo, coraggiosi e impavidi, pronti a tutto, anche a morire per salvare Roma. Non manca la pagina dell’attentato di via Rasella con il successivo rastrellamento dei tedeschi e l’eccidio delle Fosse Ardeatine o l’episodio dell’uccisione di Teresa, la donna incinta trucidata da un tedesco in Viale Giulio Cesare.

Nel presente, invece, abbiamo Flavia attraverso la quale si snoda la storia del ritrovamento casuale in un negozio di antiquariato di un sevivon, una particolare trottola della tradizione ebraica, che rappresenta il trait d’union tra passato e futuro nella trama del romanzo.

Per la mia particolare predisposizione alle storie del passato, tra le due figure femminili quella che mi ha coinvolta di più è sicuramente la figura di nonna Luli. La sua determinazione, la sua forza e la sua resilienza nel continuare a combattere nel silenzio del proprio dolore anche quando la guerra finisce ma persevera nel ricordo e nel dolore di chi resta, raccontano di una donna dai tratti ben delineati e davvero difficile da dimenticare.

È sarà proprio la grande forza interiore di nonna Luli a sostenere, aiutare e appoggiare la figura di Flavia, con le sue difficoltà a uscire fuori dal guscio famigliare, con i propri timori e i sensi di colpa.

Purtroppo non posso raccontare oltre senza rischiare di anticiparvi troppo della trama, ma posso dichiarare che il ritmo narrativo è ben equilibrato e il desiderio di andare avanti per capire cosa accade alle due donne, fanno di Quello che si salva, un libro da leggere e da regalare perché al di là dell’ottimistico titolo, racchiude una storia vera che è bene tenere sempre a mente: lottare per i propri desideri, per i propri sogni non è mai una lotta vana.

Molto interessante la nota dell’autore a fine libro che ci ricorda come tutti i fatti storici narrati siano realmente accaduti durante l’occupazione nazista della città di Roma, dal settembre 1943 al 4 giugno 1944.

E infine, è proprio grazie al lavoro di Silvia Celani con Quello che si salva che ho scoperto come il palazzo in via Tasso, che durante i mesi dell’occupazione nazifascista di Roma fu sede del Comando del Servizio di Sicurezza delle SS, sotto la guida del colonnello Herbert Kappler, sia oggi la sede del Museo Storico della Liberazione, che sarà sicuramente meta di una mia prossima visita.




Presentazione del libro “Un altro genere di forza” di Alessandra Chiricosta

Presso la libreria indipendente Odradek di Pomezia

Venerdì 26 novembre 2021 alle ore 17:00 presso la libreria indipendenza Odradek di Pomezia ci sarà la presentazione del libro Un altro genere di forza della docente e ricercatrice Alessandra Chiricosta edito dalla casa editrice Iacobelli Editore.

Nel pieno del dibattito sulla violenza di genere, l’autrice ridisegna il maschile e il femminile e con essi la mappa del discorso sulla forza distinguendolo da quello della violenza: perché ci vuole una particolare forza sia non essere “vittime” sia per non esercitare un potere soggiogante.

Seguirà un laboratorio condotto dall’autrice per fare una esperienza pratica di cosa significhi percepire e lavorare sulla forza combattente di un corpo di donna.
Organizzato da Sportello Donne Pomezia e Libreria Odradek
Green Pass Obbligatorio e preferita la prenotazione: 06 91629282
SINOSSI
I maschi sono forti, le donne sono deboli: sembra un’ovvietà che spiega molto dei rapporti tra uomini e donne, di come si sono strutturati e organizzati nel corso della Storia. I forti tendono a combattere e distruggere, i deboli ad accudire e proteggere la vita: così si è creata una dicotomia che fa della forza una via maestra verso la violenza, e della cura una premessa della mitezza e della pace.
Ma siamo sicuri che questa differenza si radichi nella “natura”? E che non sia invece una costruzione culturale, un “dispositivo biopolitico” da smontare per svelare un paradigma che ha limitato fortemente l’esplorazione di altre dimensioni ed elaborazioni di concetti come “femminilità” e “mascolinità”. È il paradigma, non l’oggettività corporea, ad aver articolato le relazioni tra i generi alla stregua di una lotta tra vittima – reale o potenziale – e carnefice – reale o potenziale.
Nel pieno del dibattito sulla violenza di genere – dalle molestie ai femminicidi – in un percorso in più tappe, teorico ed esperienziale, l’autrice ridisegna il maschile e il femminile e con essi la mappa del discorso sulla forza distinguendolo da quello della violenza: perché ci vuole una particolare forza sia per non essere “vittime” sia per non esercitare un potere soggiogante.



Moustache Cup o Le tazze coi baffi

Per evitare baffi spettinati

 

Nel mio viaggio infinito nel mondo dei libri mi capita sempre più di sovente di fare delle soste seguendo i consigli indicatomi dai libri stessi.

Ero immersa nella lettura del romanzo postumo Julie di Don Robertson edito da Nutrimenti, quando in una frase leggo per la prima volta il termine moustache cup con una postilla in fondo alla pagina che riporta:

Moustache Cup. Oggetto in voga in epoca vittoriana, la “tazza coi baffi” permetteva agli uomini di non far sciogliere col calore la cera che veniva utilizzata per tenere fermi i baffi durante il sacro rito del tè delle cinque. La coppa aveva una fascia a mezzaluna in corrispondenza della parte superiore della bocca. In questo modo, non si sarebbe corso il rischio di rovinare la composizione del barbiere.

Non completamente soddisfatta dalla pur esaustiva definizione inserita dagli editori di Nutrimenti, mi sono messa alla ricerca del come e del perché sia nata l’esigenza di creare una tazza coi baffi.

 

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Pare che tutto abbia avuto inizio durante fase del colonialismo britannico in India. I militari dell’esercito inglese, sempre tutti rasati e con capelli rigorosamente corti, iniziarono a emulare gli uomini locali affascinati da quel loro aspetto virile così da macho.

Purtroppo, per prendersene cura e avere baffi perfetti, era necessario tenerli in piega con l’applicazione di cera così da lasciare i baffi irrigiditi e sempre in posizione garantendo loro che non fossero mai spettinati, almeno fino all’appuntamento delle cinque con l’ora del tè!

Eh già! Alle cinque il tè bevuto bollente rovinava tutti gli sforzi di bellezza a cui si erano sottoposti lasciando i poveri malcapitati nella brutta e esilarante situazione di vedersi colare i baffi ai lati delle guance. Di certo una spiacevolissima situazione per la quale trovò una brillante soluzione un vasaio britannico, tal Harvey Adams.

Nel 1870 brevettò e mise sul mercato la moustache cup con tanto di piattino abbinato. L’idea ebbe così tanta fortuna da oltrepassare la Manica, diventare di gran moda in Europa e arrivare fino agli Stati Uniti tanto che, nel giro di una decina di anni, l’ingegnoso Adams riuscì ad andarsene in pensione.

Inutile dire che la vita delle moustache cup seguì pari pari la moda dei baffi ma soprattutto sopraggiunse la prima guerra mondiale durante la quale si ritenne molto più importante la cura e la salute degli uomini in trincea. Era difficile assicurare loro un perfetto sigillo delle maschere antigas così si preferì di gran lunga tornare a rasarsi con regolarità dicendo addio ai tanto amati baffi e a la mania delle tazze con i baffi scomparve.

Successivamente la moda dei baffi tornò tra gli uomini, ma non quella delle moustache cup per la quale ne resta testimonianza solo nei musei e tra i tantissimi collezionisti in tutte le parti del mondo.

 

 

Curiosità in altri libri

Ho scoperto su Wikipedia che risulta si parli di moustache cup almeno in due testi:

Nell’Ulisse di James Joyce, dove Leopold Bloom beve il suo tè da una tazza coi baffi che ha ricevuto da sua figlia Milly per il tuo compleanno e nel capitolo 9 di Via col vento di Margaret Mitchell, dove Scarlett O’Hara pensa alle tazze coi baffi che ha realizzato per il bazar.

Ora sappiamo che appare anche a pag. 49 di Julie di Don Roberton dove la madre di Julie per dichiarare quanto sia antiquato Gil Mosby gli chiese “se per caso non voleva che uscisse a comprargli una di quelle tazze coi baffi o forse degli elastici per regolare la lunghezza delle maniche della camicia.”




Qui tutto è fermo di Matteo Edoardo Paoloni

Romanzo d’esordio ambientato nella Maremma laziale

 

Non si fugge dal tempo che scorre via, qualsiasi sia la distanza che mettiamo tra ciò che rappresenta la nostra casa e ciò che trasformiamo nella nostra casa. Il passato non ci abbandona mai. Possiamo solo confrontarci con esso, confortare le ferite che sanguinano, curarle, perdonare e perdonarsi e tentare di guardare avanti.

Qui tutto è fermo è il primo romanzo pubblicato da Matteo Edoardo Paoloni per la casa editrice La Torre dei Venti.

È la storia di Guido ma potrebbe essere la storia di un qualsiasi ragazzo di provincia che si allontana da casa per studiare all’università, proseguire con un viaggio di studio all’estero, in questo caso a Madrid, e in quella terra straniera trovare la stabilità di un lavoro, di un amore e di un ritmo di vita perfetto tra teatri, bar e amici.

Non è difficile in fondo quando la terra di origine è un paese come Tarquinia, nella Maremma laziale, dove tutti sanno tutto, dove i sogni sembrano non voler prendere il volo e dove i ricordi e le assenze giocano un ruolo troppo doloroso per restare. Non è difficile andare via da un paese dove ci si sente stretti, dove quella cappa di provincialismo sembra frenare ogni ambizione e dove “tutto è fermo”

La vita ti lascia respirare per un po’ per poi bussare alla tua porta, come con quella inaspettata telefonata che annuncia una grave malattia della madre, e allora il ritorno a casa diventa inevitabile.

«Che malattia è?»
«Quello del tempo che passa.»

Il ritmo di Qui tutto è fermo è cadenzato da capitoli brevi, a volte brevissimi, che riportano nel passato aiutando il lettore con stralci in corsivo e offrendo una visuale dell’insieme molto simile ad una trasposizione cinematografica. Si sentono i profumi, si vedono i colori e si ascoltano i silenzi. Inizialmente sembra quasi che il testo stantuffi un po’, ma è solo una sensazione dovuta agli sbalzi temporali tra passato e presente, perché non appena si entra nel ritmo, la lettura è piacevolissima, i dialoghi diventano serrati e si entra serenamente nella mente di Guido.

Non è facile esaltare la propria terra senza mai dire che è bella; ammirare il panorama o soffermarsi sulla fotografia del nonno nella casa ormai disabitata e non ritrovarsi a pensare che lo abbiamo fatto tutti, almeno una volta nella vita; di chiedersi che fine abbiano fatto tutte le persone che abbiamo amato, le persone che hanno abitato una casa, un cortile, che hanno osservato gli stessi tetti di ardesia che osserva Guido dalla torretta.

Non è dalla provincia che si scappa, in fondo, ma da ciò che non riusciamo a perdonare, da ciò che ci graffia ancora sul cuore, da ciò che ci fa male.
Quando ce ne rendiamo conto, scopriamo che quella provincia è sì ferma ma possiede proprio nella sua capacità di cristallizzare il ricordo la sua grande ricchezza, quasi fosse uno scrigno dove raccogliere le gioie più preziose, come la vecchia cassetta VHS con la voce registrata di un vecchio spettacolo teatrale, o un antico amore incontrato per caso in un supermercato.

 

 

O memoria spietata, che hai tu fatto
del mio paese?
Un paese di spettri
dove nulla è mutato fuor che i vivi
che usurpano il posto dei morti.
Qui tutto è fermo, incantato,
nel mio ricordo.
Anche il venti.

Ritorno al paese di Vincenzo Cardarelli




Diari dal carcere di Sepideh Gholian edito da Gaspari Editore

Giovane giornalista freelance iraniana in carcere dal 2018 per difendere i diritti dei lavoratori

 

Ci sono voci che hanno bisogno di essere urlate così da oltrepassare le sbarre di un carcere, varcare i confini iraniani e irrompere nelle case, nelle teste, nell’animo e nei cuori di chi legge.

Leggere Diari dal carcere è prendere il testimone e trasformarsi nella voce di Sepideh Gholian perché a lei e alle altre detenute, è stata tolta anche la forza di urlare:

Ci picchiano da mezzogiorno alle 10 di sera. Temo che non resterò in vita. Dire che sono terrorizzata non basta davvero a esprimere ciò che provo. Sento qualcosa di caldo fuoriuscire dal mio corpo. Resto completamente muta, persino quando mi picchiano non riesco neppure a gemere.

Sepideh Gholian è una giornalista freelance iraniana arrestata nel 2018 perché ha documentato la mobilitazione del sindacato dei lavoratori della raffineria di zucchero Haft Tappeh. È stata detenuta in varie prigioni iraniane, tra cui quella tristemente famosa di Evin, ed ora sta scontando una pena detentiva nel carcere di Bushehr. Nel 2020, approfittando di un periodo di libertà provvisoria, è riuscita a far pubblicare questi diari dal carcere. Per la pubblicazione di questo volume è sotto processo per “diffusione di propaganda e falsità”.

Diari dal carcere raccogliere stralci, sensazioni, brevi descrizioni, illustrazioni e testimonianze di altre donne, di altri dolori, di torture, di morte. È la storia di Sahba, Khulud, Maryam Hamadi, Somayeh Hardani, Zohra Hosseini, Makieh Nisi, Elahe Darvishi, Amineh Zaheri Sari, Sakineh Saguri, Masumeh Saidavi. Donne dai nomi inpronunciabili, alcune morte per impiccagione mentre altre sono in attesa di scontare lunghi anni di detenzione. Sono giovani, giovanissime. Alcune partoriscono in carcere e, in automatico, anche il proprio figlio viene accusato del medesimo reato della madre.

È un volume che trascina negli odori, nella solitudine, nella follia di un regime cieco e totalitario che priva della libertà ma anche della forza di volontà di combattere. Donne private della loro vita e senza alcun futuro.

Ormai, non fa più differenza che una persona sia in prigione oppure no, il solo fatto di vivere in Iran ci rende prigionieri.

Una nazione dove la condizione di inferiorità e sottomissione della donna è una consuetudine perché educate a quello sguardo verso terra, a quel capo chino, a quella continua e peritura tortura psicologica che non lascia via di scampo.

Una nazione intrisa dalla cultura sull’inferiorità delle donne che avvilisce e incupisce al punto da lasciar sognare a Sepideh di quando era a casa, libera, e i suoi fratelli la picchiavano senza alcun motivo, così, di punto in bianco, e di come quelle percosse fossero così forti da farle perdere i sensi.

Una nazione in cui una donna non si libera da quello stato psicologico di sottomissione neanche in punto di morte:

Ogni detenuta donna porta sempre la tortura con sé come un macigno sulle spalle. Ma nel caso di una donna araba detenuta, è come se venisse annichilita sotto la tortura. Emaciata e insanguinata, trascina la tortura con sé attraverso i corridoi del centro di detenzione; persino in punto di morte la tormenta il senso di colpa: che non le fuoriescano i capelli da sotto il velo!

 

Leggere Diari dal carcere non è piacevole perché non è finzione; leggere è quasi un dovere perché è farsi carico del loro silenzio e amplificarlo; leggere Diari dal carcere è dare voce a chi non ha più voce.

 

 

Diari dal carcere è una iniziativa dall’associazione Librerie in Comune di Udine e del festival vicino/lontano, con il patrocinio di Amnesty International Italia e sostenuto da una campagna di crowdfunding sulla piattaforma Ideaginger.it.

Il ricavato della vendita del libro è destinato a coprire le spese legali di Sepideh Gholian e una quota sarà destinata a Amensty International.

Diari dal carcere è pubblicato in prima edizione mondiale da Gaspari Editore ed è un libro che lascia il segno.

 

Gaspari Editore