La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead

La ferrovia sotterranea, l’epopea degli afroamericani e dei bianchi.

Dopo l’uccisione di George Floyd ho sentito la necessità di leggere un romanzo sull’epopea degli afroamericani e la mia scelta è caduta su La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead perché scritta da un afroamericano e perché vincitore di ben due premi: il National Book Award nel 2016 e il Premio Pulitzer nel 2017.

Il romanzo racconta la storia della schiava Cora che, a soli dieci anni, viene abbandonata dalla madre Mabel in una piantagione della Georgia nel primo Ottocento. Qualche anno più tardi anche Cora tenterà la fuga attraverso gli Stati Uniti in un Sud alle prese con la coltivazione del cotone e un Nord abolizionista; una situazione sociale che sfocerà poi nella guerra di secessione.

 

«La prima e ultima cosa che diede alla figlia furono delle scuse. Cora dormiva ancora dentro la sua pancia, piccola come un pugno, quando Mabel si scusò per il mondo in cui l’avrebbe fatta nascere. Cora dormiva accanto a lei sul solaio, dieci anni dopo, quando Mabel si scusò perché la stava per abbandonare. Nessuna delle due volte Cora la sentì»

 

Il libro è scritto molto bene. Ci sono pagine intense e l’evolversi della storia scorre magicamente senza stancare mai il lettore, ma ciò che mi colpito è un crescente e evidente stato di paura di cui è pervaso tutto il libro.

Da una parte c’è la popolazione degli schiavi, terrorizzati dalla violenza che subiscono da parte dei bianchi ma dall’altra è evidente la paura dei bianchi per una eventuale supremazia degli afroamericani che vedono assolutamente più forti e vigorosi della razza bianca e, soprattutto, in un numero sempre crescente.

L’antagonista e cacciatore di schiavi Ridgeway quasi alla fine del romanzo afferma:
«A mio padre piaceva fare i suoi discorsi da indiano sul Grande Spirito, ma dopo tutti questi anni, io preferisco lo spirito americano, quello che ci ha fatti venire dal Vecchio Mondo al Nuovo, a conquistare, costruire e civilizzare. E distruggere quello che va distrutto. A elevare le razze inferiori. Se non a elevarle, a sottometterle. Se non a sottometterle, a sterminarle. Il nostro destino prescritto da Dio: imperativo americano».

Parole che sembrano uscite da un discorso nazista anticipandole di un secolo e che evidenziano quanto fosse essenziale per la sopravvivenza dei bianchi americani di quell’epoca, distruggere, sottomettere e sterminare coloro che potrebbero vincerli « […] però non possiamo permettervi di essere troppo svegli. Nè così in forma da riuscire a correre più veloci di noi».

Dichiarazione che mi fanno venire i brividi e che appaiono alle mie orecchie come un abominio.

Il romanzo La ferrovia sotterranea merita di essere letto e sebbene l’idea di una ferrovia sotterranea sia solo frutto dell’immaginazione di Colson Whitehaed, la vicenda narrata offre interessanti spunti di riflessione.

C’è un popolo strappato dalla propria terra, sottomesso, torturato, schiavizzato che non chiede altro se non il diritto di vivere la propria vita alle stesse condizioni dei bianchi. E se nel romanzo sono raccontate anche le vicende dei tanti uomini bianchi morti perché contrari alla schiavitù, appare evidente il messaggio che il popolo degli afroamericani rivolge ai propri simili:

 

«Possibile che non lo capisci? I bianchi non lo faranno mai. Dobbiamo farlo noi, da soli»

 

Forse ha ragione la vecchia Amanda, protagonista secondaria del romanzo, quando afferma che «Il conflitto europeo era senz’altro terribile e violento, ma lei aveva da ridire sul nome. La Grande Guerra era sempre stata quella fra i bianchi e i neri. E sempre lo sarebbe stata»

 

 

 

La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead edito da Edizioni Sur




Riccardino, l’ultimo libro di Andrea Camilleri

A un anno dalla morte di Camilleri, la Sellerio Editore pubblica il suo ultimo romanzo

 

«Riccardino è l’ultimo romanzo con il commissario Montalbano, lo pubblichiamo a un anno esatto dalla morte di Andrea Camilleri. Desideriamo così onorare uno scrittore, una figura pubblica e una persona straordinari

Queste le parole inserite come note dalla Sellerio Editore all’ultimo lavoro di Andrea Camilleri “Riccardino” uscito il 16 luglio in tutte le librerie italiane e inserito nella Collana “La Memoria” ideata da Elvira Sellerio con Leonardo Sciascia

Andrea Camilleri è stato uno scrittore, un regista, uno sceneggiatore e anche un insegnate dell’Accademia di Arte Drammatica dove, tra i suoi allievi, ha studiato anche Luca Zingaretti da tutti conosciuto come il Commissario Montalbano.

Ed è proprio grazie alla figura di questo commissario di Polizia di Vigata che il pubblico ha iniziato a conoscere e apprezzare Andrea Camilleri.

L’affetto e l’ammirazione per Camilleri è così tangibile che al Cimitero acattolico di Roma dove è sepolto, vengono lasciati quasi ogni giorno messaggi di affetto, sigarette e tanti piccoli oggetti per portare all’amico di tutti noi, un pezzo della sua amata Sicilia.

«Ho smesso di fumare, Maestro, ma non di leggere. Mai. Grazie per l’immenso piacere che ci hai dato con i tuoi romanzi» questo uno dei pizzini d’amore di cui Angelo Melone parla nel bellissimo articolo apparso sul numero 188 di Robinson, l’inserto settimanale dedicato alla letteratura e alla cultura.

Già perché alla fine Andrea Camilleri è entrato nella vita di tutti noi. Impossibile non ricordare le introduzioni alle puntante di Montalbano, con quella sua parlata lenta e scandita, con quell’uso così meticoloso e parsimonioso della lingua italiana da restarne sempre affascinata e cosa dire della sua meravigliosa interpretazione dell’indovino cieco al Teatro greco di Siracusa con Conversazione su Tiresia

 

“Da quando non vedo più, vedo meglio”

 

In finale a Riccardino ci sono alcune note dell’autore; ve ne trascrivo solo un piccolo stralcio che, a mio avviso, caratterizzano la grande verve, l’entusiasmo e la grande vitalità del Maestro

 

«Poi nel novembre del 2016, a 91 anni compiuti,

sorpreso di essere ancora vivo e di avere ancora voglia di scrivere

ho pensato che fosse giusto “sistemare” Riccardino

 

Ebbene sì, lui, il Maestro, si sorprende di essere ancora vivo e con tanta voglia di scrivere ed è con questa vitalità contagiosa che mi appresto a leggere questa sua ultima fatica.

 

Poco importa la trama effettiva del romanzo: so che ritroverò la sua grande ironia, la sua capacità di stupirci con colpi di scena e la sua incredibile maestria di ispezionare la mente umana, con questo dialetto vigatese da lui stesso inventato che, ormai, è entrato a far parte di tutti noi.

 

E adesso, “non scassare i cabasisi” che si inizia a leggere Riccardino.




Home Staging: cos’è e come funziona

Intervista all’architetto Donatella Di Antonio, Home Stager di Pomezia

Si definisce Home Staging l’insieme di modifiche, preparazioni e migliorie che vengono realizzate negli ambienti principali di un’immobile con l’intento di renderlo appetibile al maggior numero di persone cosi da essere venduto nel minor tempo possibile e alle migliori condizioni.

L’Home Staging è apparsa negli USA già agli inizi degli anni ’70 ma è approdata in Italia solo da qualche anno, sicuramente grazie al contributo di alcuni programmi televisivi americani che ne dimostravano l’efficacia mettendo gli spettatori davanti alla incredibile differenza tra il prima/dopo di un appartamento dopo il tocco di un Home Stager.

Per saperne di più su questa tecnica di grande interessante per coloro che sono in procinto di vendere un immobile, abbiamo rivolto alcune domande all’architetto Donatella Di Antonio che svolge la sua professione a Pomezia.

 

Lei è la prima Home Stager di Pomezia. Quando ha avuto l’intuizione che specializzarsi in questa disciplina fosse la cosa migliore per la sua professione di architetto?

L’intuizione è arrivata un pomeriggio di 4 anni fa, durante un momento di lavoro ero intenta a cercare su internet informazioni sull’interior design e tra i vari Link di google mi attirò un frase che riguardava L’home staging.

Home Staging… E… che cos’è? Sono rimasta allibita, non avevo mai sentito parlare di Home Staging e incuriosita iniziai a cercare informazioni più dettagliate. Trovai alcune informazioni presso una scuola di formazione di Milano e una di Roma, e capito il funzionamento dell’home Staging pensai subito che era uno strumento di marketing immobiliare potente.

In cosa consiste l’Home Staging?

L’Home Staging consiste nell’allestimento, che possiamo definire “scenografico”, di ogni singolo ambiente della casa in vendita. La cura per i particolari e l’uso di materiali e tessuti che non sono nell’ottica di un arredamento classico, bensì si cerca di ricreare un’ambiente caldo, accogliente e pulito, che tramite un servizio fotografico professionale comunichi le potenzialità della casa al possibile acquirente. Il vantaggio? Vendere casa in tempi rapidi e al giusto prezzo. Quest’ultimo è fondamentale per la vendita, perché il prezzo di vendita deve essere in linea con i prezzi di mercato correnti.

I numeri dell’Home Staging in Italia sono forniti per il 2019 dalle associazioni di categoria e dalla Banca d’Italia dai quali emerge una permanenza media di un immobile sul mercato di 212 giorni, e appena 48 giorni la permanenza di un immobile sul mercato post Home Staging, ovvero si passa da 7,06 mesi senza Home Staging a circa 1 mese e mezzo di permanenza sul mercato dell’immobile e in molti casi anche di una sola settimana post Home Staging.

 

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Quale tipo di utente è più incline a rivolgersi alla tecnica Home Staging: le agenzie immobiliari o il proprietario dell’immobile?

Il tipo di utente che è più incline a rivolgersi ad un professionista di Home Staging, per mia esperienza, sono gli investitori immobiliari, a seguire le agenzie immobiliari, mentre rimane più difficile da raggiungere il proprietario dell’immobile che ancora oggi è un po’ diffidente e non ha ben compreso le potenzialità di marketing dell’Home Staging.

Secondo lei, come sta reagendo il mercato alla tecnica Home Staging?

Il mercato immobiliare sta reagendo lentamente, in quanto tutte le novità sono precedute da una certa diffidenza, ma noto con piacere che le fotografie immobiliari sono migliorate negli ultimi mesi, perché gli operatori del settore iniziano a comprendere l’importanza delle immagini in un settore come quello immobiliare in continua evoluzione.

Crede che, con l’ampio utilizzo che viene fatto delle piattaforme social e del linguaggio visual, anche il settore dell’accoglienza, come B&B, Case Vacanze, Alberghi, possano aver bisogno di un Home Stager per veicolare la propria immagine?

Si! Credo che, con l’ampio utilizzo delle piattaforme social e del linguaggio visual, anche il settore dell’accoglienza, come B&B, Case Vacanze, Alberghi, hanno bisogno di un servizio di Home Staging, perché l’immagine è fondamentale per battere la concorrenza e non cadere nella battaglia dei prezzi a ribasso. In più i proprietari delle strutture possono sviluppare la loro attività extralberghiera e acquisire nuovi clienti.

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Quali percorsi formativi sono necessari per qualificarsi come Home Stager?

L’Home Staging è una professione relativamente recente e ci sono dei percorsi formativi tramite le associazioni di categoria, scuole online e scuole specifiche per il settore. Si trovano prevalentemente al Nord Italia, ma di recente anche a Roma.

Quali caratteristiche, secondo lei, sono necessarie per potersi avvicinare alla nuova professione di Home Stager?

Le caratteristiche necessarie per potersi avvicinare alla nuova professione di Home Stager è la passione per un lavoro apparentemente facile, ma nel suo iter è complesso e articolato, perché l’home stager non si limita al progetto di allestimento, ma deve farsi carico di reperire il materiale, scegliere i complementi di arredo e poi trasportare il tutto presso la casa da allestire. L’allestimento ha una durata che varia da un giorno a due giorni o anche una/due settimane, questo in funzione della casa e dalla complessità dell’allestimento. Ci sono varie operazioni da fare a seconda della tipologia di casa, che può essere arredata, semi arredata e vuota. Quindi prima di proseguire per la strada di Home Stager bisogna comprendere bene come si svolge il lavoro da più punti di vista, da quello formativo a quello fiscale, perché è sempre bene avere chiaro il quadro economico.

Spero che l’Home Staging si diffonda in tempi brevi in Italia perché la cura della casa in ambito immobiliare è fondamentale per la vendita in tempi brevi e al giusto prezzo.

 

Ringrazio l’arch. Donatella Di Antonio per l’esaustiva intervista che ci ha permesso di conoscere un aspetto nuovo del settore immobiliare e vi invito a visitare il suo sito qui se avete intenzione di vendere bene e presto il vostro immobile.

 

 




Taglio del nastro parco a tema Roma World

Nuovo parco a tema di CineCittà World

È stato inaugurato sabato 11 luglio il nuovo parco a tema di CineCittàWorld, “RomaWorld” alla presenza di un folto numero di giornalisti che hanno approfittato dell’invito allargato anche ai propri figli per far vivere in anteprima un luogo che sarà di sicuro la gioia di tutti i bimbi.

RomaWorld è un parco a tema che «non ha né giostre e né attrazione ma che si basa sulla vita reale di 2000 anni fa offrendo ai visitatori la possibilità di immergersi in un reale villaggio dell’antica Roma» queste le parole cariche di orgoglio di Stefano Cigarini, amministratore delegato di Cinecittà World SpA.

La nuova struttura si trova proprio accanto al parco dei divertimenti del Cinema e della TV nell’area di Castel Romano sulla SS 148 tra Pomezia e Roma.

«In tre anni dall’inaugurazione abbiamo quadruplicato il numero dei visitatori e “RomaWorld” è il primo progetto turistico in Italia post Covid-19 a dimostrazione della voglia di ripartire del tessuto imprenditoriale italiano» ha così sottolineato il dott. Cigarini prima di dare il via all’apertura ufficiale di “Roma World” con il taglio del nastro.

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Oltrepassata la porta, protetta da una guarnigione di soldati romani, l’avventura nel parco ha inizio; il percorso a piedi è piacevole ed è oltremodo rilevante rendersi conto come sia stata data grande attenzione alla salvaguardia dell’ambiente: il sentiero in terra battuta si apre all’interno di un bosco di sugheri, accompagnati dal frinire delle cicale, in un’area di quasi 5 ettari fino ad arrivare al centro di un vero e proprio villaggio con accampamento di legionari.

Tutte le costruzioni sono realizzate in legno e non vi è traccia alcuna di cemento, plastica o qualsiasi altro materiale lontano anni luce dal glorioso impero romano. Ottimo.

L’area è davvero ben strutturata: senatori, schiavi, gladiatori, mercanti, matrone, legionari e contadini vivono e camminano tra i visitatori offrendo davvero un’atmosfera magica.

La taberna, l’anfiteatro, l’area con i falchi addestrati, le bighe di Ben Hur trainate da coppie di cavalli, lo spazio con gli animali da cortile, la vendita degli schiavi al migliore offerente, l’area con il percorso di guerra, il mercato con la vendita di artigianato che riproduce il più fedelmente possibile oggetti di uso all’epoca romana, dal vasellame agli indumenti, dalle armi ai giochi per bambini.

L’atmosfera è davvero congeniale e sono certe farà la gioia di tantissimi bambini perché chi non ha mai sognato di poter, anche se solo per poche ore, vivere l’atmosfera del grande impero romano?

Unica nota stonata in un contesto così ben studiato, la pulizia dell’ampia area del parcheggio che meritava almeno un taglio dell’erba.

Va bene voler affrontare l’avventura di un villaggio dell’antica Roma ma almeno, quando si esce dalla macchina, sarebbe stata cosa gradita non dover evitare di inciampare in erbacce alte e invadenti. Ma sono certa che sia stato solo mancanza di tempo.




La strada che va in città di Natalia Ginzburg

Primo romanzo breve di Natalia Ginzburg

La strada che va in città è stato pubblicato per la prima volta nel 1942 con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, e scritto nel periodo in cui Natalia Ginzburg ha seguito il marito Leone Ginzburg al confino in Abruzzo per motivi politici.

È un romanzo breve e traccia già i temi cari alla Ginzburg che si ritroveranno nei libri successivi e in Lessico famigliare, il libro per il quale vinse il Premio Strega nel 1963: la famiglia con le incomprensioni e i dissidi; le differenze sociali e il desiderio di scalare uno status sociale; le grandi disparità tra campagna e città; l’irrequietezza interiore del personaggio femminile.

Ne La strada che va in città la scrittura asciutta è priva di fronzoli, imperniata su dialoghi scarni, diretti e veloci che, nella loro essenza, riescono a tratteggiare l’animo dei protagonisti con tale maestria da percepire in modo tangibile la disarmante e cruda realtà.

 

La storia è quella di Delia: giovane diciassettenne che vive in campagna, a qualche chilometro dalla città che lei raggiunge quasi ogni giorno percorrendo a piedi la strada che va in città ed è talmente insofferente all’ambiente familiare da dichiarare con estrema serenità di odiarla:

Si dice che una casa dove ci sono molti figli è allegra, ma io non trovavo niente di allegro nella nostra casa.
Speravo di sposarmi presto e di andarmene come aveva fatto Azalea […]

Odiavo la nostra casa. Odiavo la minestra verde e amara che mia madre ci metteva davanti ogni sera e odiavo mia madre.
Avrei avuto vergogna di lei se l’avessi incontrata in città.

Delia desidera cambiare la propria vita e crede di poterlo fare con un buon matrimonio, ma è una figura femminile che vive lontana da tutto ciò che la circonda, quasi priva di sentimenti, non riuscendo a lasciarsi andare né alla gioia e né al dolore; una giovane donna confusa, circondata da un’apatia imbarazzante la quale, anche quando riesce a raggiungere un diverso status sociale sposando il figlio del medico della città, non riesce ad esserne felice.

Sembra essere una donna priva di strumenti; percepisce la possibilità di essere felice, soddisfatta e appagata in un orizzonte lontano ma non conosce come fare affinché ciò possa accadere e si dondola nel suo quotidiano priva di speranza.

 

Ho amato molto la figura di Delia. Mi sono immaginata quante donne abbiano vissuto e sognato una vita diversa in un periodo in cui la donna non era altro che il focolare della casa, buona soltanto a mettere al mondo dei figli e, nella migliore delle ipotesi, quell’oggetto da esibire accanto all’uomo di successo

La disarmante freschezza della scrittura della Ginzburg ci porta nell’atmosfera del mondo femminile, dei loro drammi, delle aspettative, dei sogni e delle delusioni lasciandomi immaginare quanto abbiano patito e lottato al punto che vorrei, metaforicamente, abbracciarle tutte.

 




Viaggi di un giorno: l’Orto Botanico di Roma nel cuore di Trastevere

Se c’è una cosa che il lockdown ci ha insegnato è di osservare il mondo, giusto fuori dalla finestra di casa, per viaggiare in un solo giorno verso luoghi che non abbiamo mai curato più di tanto, forse proprio perché troppo vicini a noi.

Un luogo che merita certamente una visita è l’Orto Botanico di Roma, uno dei Musei del Dipartimento di Biologia Ambientale della Sapienza Università di Roma.

Ubicato nel tessuto urbano nel quartiere di Trastevere sul Colle del Gianicolo, ha una estensione di circa 12 ettari suddivisi in aree tematiche con diverse serre ben curate, ma è un luogo che può essere piacevolmente visitato anche senza guida, per il solo piacere di immergersi in una natura maestosa e sorprendente.

La collezione dei bambù è una delle più ricche d’Europa con oltre 70 specie diverse ma a prescindere dal nome di ciascuna, camminare in un bambuseto è una esperienza che merita da sola la visita. La luce del sole filtra con difficoltà dall’alto e la diversità delle tonalità di verde dei fusti ammalia quanto la sensazione di fresco che si percepisce sentendosi circondanti da queste canne altissime, dritte e silenziose.

Gli antichi reperti delle terme di Settimio Severo che fanno capolino nella parte alta del parco non stupiscono i romani abituati a convivere con la presenza onnipresente delle vestigia romane, eppure non si può fare a meno di pensare che stiano benissimo qui, nel parco, appena al limite con il resto della città

Gli alberi di alto fusto rinfrescano, dominano e ridimensionano il nostro essere esseri umani e fermarsi per lasciarsi andare al solo senso del tatto, chiudendo gli occhi, è un viaggio nel viaggio che lascia una sensazione tattile unica nel suo genere. Provare per credere!

Alberi che formano dei rifugi, con intrecci di rami che sembrano vere e proprie opere d’arte come la piante ibrida del pepe sotto la quale si ha la conferma come la natura sia l’unico grande artista della Terra.

L’Orto Botanico ha molteplici sezioni: dal giardino Giapponese, alla Serra Tropicale, dal Giardino dei Semplici alle Piante Acquatiche, dal Giardino degli Aromi alla Valletta delle Felci, fino alla Serra Corsini con una notevole collezione di succulenti.

Qualunque sia il tipo di pianta che vi affascina di più, il consiglio è di visitare l’Orto Botanico come un vero e proprio viaggio sensoriale: un viaggio nell’ascolto della grandezza e della bellezza della Natura nel cuore di Roma

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Orari di apertura e indicazioni sul sito Orto Botanico di Roma




Il vecchio che leggeva romanzi d’amore di Luis Sepùlveda

Luis Supùlveda è stato uno scrittore cileno venuto a mancare da pochi mesi in Portogallo a causa del Covid-19. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore è il libro, pubblicato nel 1989, attraverso il quale Luis Supùlveda è entrato a tutti gli effetti nella scena letteraria mondiale.

Ho scelto questo libro perché è una scrittura scorrevole, una trama insolita e il numero esiguo di pagine lo rende perfetto da gustarselo sotto l’ombrellone.

Il protagonista del libro è Antonio Josè Bolivar, un uomo vedovo e colono mancato che sembra vivere ai margini della foresta amazzonica ma che in effetti respira in perfetta simbiosi con la foresta stessa che rappresenta l’altro protagonista indiscusso del romanzo.

Nella foresta vige il rispetto per tutti i suoi abitanti; Antonio avrà modo di conoscerla e apprezzarla vivendo insieme agli indigeni shuar fino al punto di entrare in perfetta sintonia con loro, di sottostare alle loro leggi e di subirne anche le conseguenze quando ne infrangerà le regole.

Antonio teme e rispetta la natura che lo circonda e appare da subito molto forte il contrasto tra le leggi della foresta e gli uomini che vivono nel villaggio di El Idilio: uomini disposti a tutto per i soldi, privi di sentimenti, aridi e disincantati. Ma Antonio è diverso.

Antonio Josè Bolivar sapeva leggere, ma non sapeva scrivere. […]
Leggeva lentamente, mettendo insieme le sillabe, mormorandole a mezza voce come se le assaporasse,
e quando dominava tutta quanta la parola, la ripeteva di seguito.
Poi faceva lo stesso con la frase completa, e così si impadroniva dei sentimenti e delle idee plasmati sulle pagine.

 

Già, Antonio è diverso e lo si noterà ancora di più quando sarà costretto ad unirsi alla caccia di un tigrillo che gira pericolosamente attorno al villaggio uccidendo tutti gli uomini che incontra.

Le pagine che descrivono la lotta con il tigrillo sono magistrali e, da sole, meritano la lettura de Il vecchio che leggeva romanzi d’amore.

 

Antonio Josè Bolivar si tolse la dentiera, l’avvolse nel fazzoletto, e senza smettere di maledire il gringo primo artefice della tragedia,
il sindaco, i cercatori d’oro, tutti coloro che corrompevano la verginità della sua Amazzonia,
tagliò con un colpo di machete un ramo robusto, e appoggiandovisi si avviò verso El Idilio, verso la sua capanna,
e verso i suoi romanzi, che parlavano d’amore con parole così belle che a volte facevano dimenticare le barbarie umane.

 

SINOSSI

Il vecchio Antonio José Bolivar vive ai margini della foresta amazzonica equadoriana. Vi è approdato dopo molte disavventure che non gli hanno lasciato molto: i suoi tanti anni, la fotografia sbiadita di una donna che fu sua moglie, i ricordi di un’esperienza, finita male, di colono bianco e alcuni romanzi d’amore che legge e rilegge nella solitudine della sua capanna sulla riva del grande fiume. Ma nella sua mente, nel suo corpo e nel suo cuore è custodito un tesoro inesauribile, che gli viene dall’aver vissuto “dentro” la grande foresta, insieme agli indios shuar: una sapienza particolare, un accordo intimo con i ritmi e i segreti della natura che nessuno dei famelici gringos saprà mai capire.




Le assaggiatrici di Rosella Postorino

 Premio Campiello 2018

Le assaggiatrici di Rosella Postorino è un libro d’invenzione ispirato alla vera storia di Margot Wolk, una delle assaggiatrici di Adolf Hitler nella caserma di Krausendorf, a due passi da La Tana del Lupo, il quartier generale del Führer, zona nascosta e mimetizzata all’interno della foresta.

La protagonista è Rosa Sauer, una giovane berlinese in fuga dalla città che vive insieme ai suoceri per salvarsi dai bombardamenti e che attende con trepidazione il ritorno del marito Greg dal fronte. Viene scelta, insieme ad altre nove ragazze, per assaggiare quotidianamente i pasti preparati per Hitler.

La paura entra tre volte al giorno, sempre senza bussare,

si siede accanto a me, e se mi alzo mi segue, ormai mi fa quasi compagnia.

Le assaggiatrici di Postorino

Rosa proviene da una famiglia che disapprova in modo esplicito il regime nazista eppure di fronte alle violenze e ai soprusi del regime nazista ha la meglio l’istinto di sopravvivenza.

La chiave di lettura de Le assaggiatrice è, senza dubbio, il conflitto tra bene e male, l’ambiguità delle pulsioni umane e l’istinto di sopravvivenza.

Rosa vive un profondo senso di colpa per non ribellarsi allo stato in cui vive. Mangia ogni giorno quei bocconi aspettando la morte quando tutto attorno a lei è solo morte, fame e povertà.
Lei è sia vittima che carnefice. Vittima perché è costretta a assaggiare il cibo preparato per Hitler ma allo stesso tempo carnefice perché lei lavora proprio per Hitler.

Alcune pagine sono di grande drammaticità ma scritte con tale grazia da non cadere mai nella banalità. Mi hanno colpito i paragrafi in cui si parla dela situazione dei soldati tedeschi al fronte i quali, spesso, pur di non eseguire gli ordini crudeli impartiti dall’alto, preferisco suicidarsi. Pagine che mi hanno fatto riflettere sulla brutalità del regime, sulle difficoltà di coloro che, pur odiando tale regime, si sono visti obbligati ad accettare per sopravvivere a dimostrazione che in guerra non ci sono mai né vinti e né vincitori.

In fondo in un regime totalitario non c’è soltanto uno stato di oppressione inflitta ma anche la costrizione ad uno stato di collusione con il regime stesso.

Perché, da tempo, mi trovavo in posti in cui non volevo stare, e accondiscendevo, e non mi ribellavo,

e continuavo a sopravvivere ogni volta che qualcuno mi veniva portato via?

La capacità di adattamento è la maggior risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana.

 

 

SINOSSI

La prima volta in cui Rosa Sauer entra nella stanza in cui dovrà consumare i suoi prossimi pasti è affamata. “Da anni avevamo fame e paura,” dice. Siamo nell’autunno del 1943, a Gross-Partsch, un villaggio molto vicino alla Tana del Lupo, il nascondiglio di Hitler. Ha ventisei anni, Rosa, ed è arrivata da Berlino una settimana prima, ospite dei genitori di suo marito Gregor, che combatte sul fronte russo. Le SS posano sotto ai suoi occhi un piatto squisito: “mangiate” dicono, e la fame ha la meglio sulla paura, la paura stessa diventa fame. Dopo aver terminato il pasto, però, lei e le altre assaggiatrici devono restare per un’ora sotto osservazione in caserma, cavie di cui le ss studiano le reazioni per accertarsi che il cibo da servire a Hitler non sia avvelenato.

Nell’ambiente chiuso di quella mensa forzata, sotto lo sguardo vigile dei loro carcerieri, fra le dieci giovani donne si allacciano, con lo scorrere dei mesi, alleanze, patti segreti e amicizie. Nel gruppo Rosa è subito la straniera, la “berlinese”: è difficile ottenere benevolenza, tuttavia lei si sorprende a cercarla, ad averne bisogno. Soprattutto con Elfriede, la ragazza più misteriosa e ostile, la più carismatica.

Poi, nella primavera del ’44, in caserma arriva un nuovo comandante, Albert Ziegler. Severo e ingiusto, instaura sin dal primo giorno un clima di terrore, eppure – mentre su tutti, come una sorta di divinità che non compare mai, incombe il Führer – fra lui e Rosa si crea un legame speciale, inaudito.

Con una rara capacità di dare conto dell’ambiguità dell’animo umano, Rosella Postorino, ispirandosi alla storia vera di Margot Wölk (assaggiatrice di Hitler nella caserma di Krausendorf), racconta la vicenda eccezionale di una donna in trappola, fragile di fronte alla violenza della Storia, forte dei desideri della giovinezza. Proprio come lei, i lettori si trovano in bilico sul crinale della collusione con il Male, della colpa accidentale, protratta per l’istinto antieroico di sopravvivere. Di sentirsi, nonostante tutto, ancora vivi.




Febbre di Jonathan Bazzi

Esordio letterario candidato al Premio Strega 2020

Non sempre è facile mettersi nei panni di un altro ma la scrittura dinamica di Jonathan Bazzi riesce a catturarti e farti sentire sulla pelle l’ansia di un bambino e di un uomo nel sentirsi diverso e inadatto.

La storia è strutturata in capitoli che alternano l’infanzia del protagonista e il suo presente in una storia autobiografica che ha coinvolto lettori e critica di Febbre tanto da essere uno della magica dozzina candidata per il Premio Strega 2020.

Se in un primo momento il reale protagonista sembra essere la sconvolgente scoperta di essere sieropositivo, in effetti ciò che colpisce è quella sottile e costante patina di sentirsi sempre diverso da qualcosa, dai propri sogni, dalle prospettive future, dalle aspettative.

Diverso e confuso in un mondo che sembra correre e affaccendarsi senza mai osservare davvero l’anima di Jonathan. Fin dalla prima infanzia, il protagonista non si sente mai adeguato.  La separazione dei genitori, il continuo cambio di scuola, la sua balbuzie, questa Milano vicina ma in effetti lontanissima.

Sono cresciuto a Rossano, cap 20089, un paese piccolo ma neanche poi tanto, all’estrema periferia sud di Milano, costruito in mezzo alla campagna che costeggia il Naviglio, in direzione Pavia.

Tutta la crudeltà di una vita vissuta ai margini, non solo rispetto alla sua omosessualità, ma rispetto all’ambiente che lo circonda e che appare muto e lontano davanti alla sua esigenza di essere compreso e protetto.

Un ragazzo che cresce da solo, con un padre che si dimentica di andarlo a prendere, una madre impegnata nel lavoro e che preferisce non frequentare più la scuola pur di non leggere ad alta voce ma è lo stesso ragazzo che riesce, poi, a terminare gli studi con voti eccellenti proprio perché durante quel primo isolamento entra in contatto con la parte più intima di sé stesso e sarà proprio quella sua forza interiore ad aiutarlo a seguire, senza indugio, la sua strada.

Una forza d’animo capace di sostenerlo nel decidere di dichiarare apertamente di essere malato di HIV e che proprio nell’accettazione della sua malattia e dell’uomo che è diventato che si arriva a definire Rossano il veleno e l’antidoto chiudendo in qualche modo un cerchio.

Bazzi ha una scrittura sintetica, asciutta e diretta, quasi fossero delle pennellate di pensiero. I suoi pensieri arrivano in modo potente e senza tanti fronzoli. Gli aggettivi sono precisi, sintetici perfetti e la lettura coinvolge al punto di sentire a pelle i brividi della febbre.

Con Febbre Jonathan Bazzi è al suo primo romanzo ed è tra i 12 finalisti per il Premio Strega 2020.

 

Febbre di Jonathan Bazzi

Il Colibri di Veronesi

La nuova stagione di Ballestra

L’apprendista di Gian Mario Villalta

Ragazzo italiano di Gian Arturo Ferrari

Città sommersa di Marta Barone

Giovanissimi di Alessio Forgione

La misura del tempo di Gianrico Carofiglio

Almarina di Valeria Parrella

Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli

Breve storia del mio silenzio di Giuseppe Lupo

Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio

 

 

SINOSSI

Jonathan ha 31 anni nel 2016, un giorno qualsiasi di gennaio gli viene la febbre e non va più via, una febbretta, costante, spossante, che lo ghiaccia quando esce, lo fa sudare di notte quasi nelle vene avesse acqua invece che sangue. Aspetta un mese, due, cerca di capire, fa analisi, ha pronta grazie alla rete un’infinità di autodiagnosi, pensa di avere una malattia incurabile, mortale, pensa di essere all’ultimo stadio. La sua paranoia continua fino al giorno in cui non arriva il test all’HIV e la realtà si rivela: Jonathan è sieropositivo, non sta morendo, quasi è sollevato. A partire dal d-day che ha cambiato la sua vita con una diagnosi definitiva, l’autore ci accompagna indietro nel tempo, all’origine della sua storia, nella periferia in cui è cresciuto, Rozzano – o Rozzangeles –, il Bronx del Sud (di Milano), la terra di origine dei rapper, di Fedez e di Mahmood, il paese dei tossici, degli operai, delle famiglie venute dal Sud per lavori da poveri, dei tamarri, dei delinquenti, della gente seguita dagli assistenti sociali, dove le case sono alveari e gli affitti sono bassi, dove si parla un pidgin di milanese, siciliano e napoletano. Dai cui confini nessuno esce mai, nessuno studia, al massimo si fanno figli, si spaccia, si fa qualche furto e nel peggiore dei casi si muore. Figlio di genitori ragazzini che presto si separano, allevato da due coppie di nonni, cerca la sua personale via di salvezza e di riscatto, dalla periferia, dalla balbuzie, da tutte le cose sbagliate che incarna (colto, emotivo, omosessuale, ironico) e che lo rendono diverso.
Un libro spiazzante, sincero e brutale, che costringerà le nostre emozioni a un coming out nei confronti della storia eccezionale di un ragazzo come tanti.

Un esordio letterario atteso e potente.




Fare impresa al tempo del Covid-19

Intervista a Daniele Santini di Velletri e la sua idea della Domus Pinsa Frost.

In un periodo così difficile come il lock down per il Covid-19 diventa difficile pensare che ci sia anche chi riesca a ingranare e, addirittura, dar vita ad una nuova realtà imprenditoriale. Nel momento in cui tutto il comparto della ristorazione si trova costretto a chiudere i propri locali, a mettere in cassa integrazione i dipendenti e a fermarsi sul divano in attesa degli eventi ecco che emergono figure come quella di un imprenditore di Velletri: Daniele Santini.

Imprenditore da generazioni, Daniele Santini ha di sicuro la ristorazione nel DNA. Titolare e founder del marchio registrato Domus Pinsa, con tre locali dislocati tra Roma e Velletri, ha avuto la tempra non solo di non abbattersi ma di modificare le sorti della propria azienda.

Come ha avuto l’idea di iniziare una nuova avventura proprio quando tutto era fermo?

Credo che tutti gli imprenditori abbiano più di una idea nel cassetto che, per svariati motivi, non sono sono stati in grado di attivare. La stessa cosa è capitata a me. Circa due anni fa avevo pensato di ampliare la distribuzione della Domus Pinsa attraverso il canale del gelo ma ciò significava nuovi investimenti, ampliamento della produzione e l’incognita del risultato. Tutte variabili che mi avevano, al momento, fatto desistere.

Si potrebbe affermare che per lei il Covid-19 è stato l’impulso per una nuova realtà imprenditoriale?

Certamente sì. Restando sul divano ho iniziato a rimuginare su cosa avrei potuto fare per rispondere alle esigenze del mercato in piena Corona Virus, soddisfare il desiderio dei miei clienti di continuare a mangiare la Domus Pinsa e inventarmi qualcosa per ridurre l’enorme perdita subita per il Covid-19.

Cosa potevo inventarmi? Così, pensa e ripensa, ho ritirato fuori un’idea di qualche anno fa e mi sono messo a sperimentare. Sentivo che per Domus Pinsa Frost poteva essere il momento giusto.

Ci presenta la Domus Pinsa Frost?

La Domus Pinsa Frost è una pinsa precotta, abbattuta a -40 gradi, sigillata e etichetta che ha bisogno solo di circa 10 minuti di cottura nel forno di casa per sprigionare tutto il sapore e il profumo della pinsa gustata nei nostri locali.

In pratica segue le stesse fasi di produzione della classica Domus Pinsa: preparazione dell’impasto con un mix di farine selezionate rigorosamente no OGM, una laboriosa e lunga lavorazione fino a 72 ore, lavorazione manuale del panetto per essere steso e farcito. Il segreto è stato studiare e valutare il tempo perfetto nei nostri forni affinché, sommato al tempo di cottura nei forni di casa, il risultato non togliesse nulla alle pinse servite da noi.

Ottimo. E quali canali ha utilizzato per promuovere la Domus Pinsa Frost?

Nella fase iniziale ho consegnato personalmente il prodotto a parenti, amici e clienti affezionati: avevo assolutamente bisogno di un riscontro sincero della qualità della pinsa nella versione Frost

Ho raccolto le loro critiche come una ricchezza, e solo quando mi sono sentito soddisfatto del risultato ho proseguito con promuoverla sui canali social. Per fortuna da anni ho sempre investito nel digital marketing e questo mi ha permesso di avere una community attenta e attiva, soprattutto su Facebook.

E il successo non si è fatto attendere.

Diciamo che sono soddisfatto della risposta dei clienti che hanno compreso da subito i vantaggi della Domus Pinsa Frost.

Quali sono i punti di forza della Domus Pinsa Frost?

Averla nel congelatore significa risolvere la cena quando si è stanchi e non si ha idea di cosa mangiare oppure, meglio ancora, soddisfare il desiderio di una pinsa ogni volta che si vuole e non sottostare sempre agli orari e ai giorni di apertura dei nostri locali. Una Domus Pinsa Frost ti permette di pinsare quando vuoi!

Quale consiglio si sente di dare ai suoi colleghi ristoratori?

Ciascuno di noi è diverso e bisognerebbe contestualizzare la realtà di ciascuno ma sono convinto che il vero imprenditore ha un istinto naturale di riuscire a guardare al domani anche sotto angolazione che gli altri, in quel momento, non vedono.
Il consiglio che mi permetto di dare è quello di studiare ciò che succede attorno, comprendere le esigenze e le difficoltà del mercato e pensare ciò di cui il mercato stesso ha bisogno.


In poche parole non stancarsi mai di osservare e di mettersi in gioco.




Maternità e Abruzzo: leitmotiv di Donatella Di Pietrantonio

La scrittura nuova, schietta e coinvolgente di Di Pietrantonio.

Donatella Di Pietrantonio vive a Penne, in Abruzzo dove svolge la sua professione primaria di odontoiatra pediatrico ma è conosciuta nel mondo dell’editoria per il grande successo di critica ricevuto con i tre libri pubblicati, l’ultimo dei quali L’Arminuta, edito da Einaudi le è valso il premio Campiello 2017. Gli altri suoi due romanzi sono Mia madre è un fiume del 2011 edito da Elliotedizioni e Bella Mia edito nel 2013 sempre di Einaudi.

Ho scoperto questa scrittrice per caso l’estate scorsa. Navigavo su Instagram quando rimasi colpita dal volto enigmatico di una donna fotografa in bianco e nero che volgeva uno sguardo profondo e intenso verso un punto lontano; la curiosità di sapere cosa stesse pensando e osservando mi ha aperto le porte del mondo raccontato da Donatella Di Pietrantonio.

Un mondo dove la terra nativa, l’amato Abruzzo, è onnipresente come reale protagonista, con le sue tradizioni, i suoi dialetti, le credenze popolari e la sua energia vitale e testarda ma è anche un mondo dove il significato della maternità diviene il filo conduttore capace di prendere per mano il lettore sin dalle prime pagine.

Una scrittura delicata, poetica e a tratti cruda e crudele che ci racconta le diverse angolazioni del significato di maternità. Se in Bella Mia la protagonista Caterina, dopo la tragica perdita della sorella gemella nel terremoto dell’Aquila, si vede costretta suo malgrado a fare da madre al nipote rimasto semi orfano, in L’Arminuta, (in dialetto La ritornata) troviamo la maternità vista dagli occhi di una bambina di tredici anni che da un giorno all’altro scopre di non essere la figlia delle persone con cui è crescita e si trova restituita alla sua vera famiglia. Situazione che la farà sentire orfana di due madri viventi.

Questo aspetto della maternità si apre sin dal suo primo romanzo Mia madre è un fiume, dove l’io narrante è la figlia che tiene per mano la madre affetta da una malattia che le toglie la memoria e in quel suo prendersi cura di lei emerge un rapporto di odio e amore celato da tempo.

Madre. Figlia. Sorella. Diverse angolazioni per far emergere il difficile rapporto tra madre e figlio attraverso una capacità di scrittura che, spesso, diventa poetica, riuscendo a svelare il pensiero più intimista del protagonista tanto da indurre il lettore a fermarsi per riflettere, considerare, soppesare.

La bravura di Di Pietrantonio è proprio quella di avvicinare ai conflitti generazionali con tale maestria da commuovere e arricchire nello stesso tempo e, anche quando le storie portano con sé perdite e lutti, emerge sempre una grande energia vitale che affonda le radici nel passato per proiettarle nel futuro.

 

«Mi sono seduta per terra, con il mento sulle ginocchia. Gli occhi mi bruciavano nello sforzo di contenere le lacrime. Lei è rimasta in piedi, con il cesto pieno appeso a un braccio.

Doveva essere mezzogiorno, sudava in silenzio. Non è riuscita a muovere l’unico passo che ci separava dalla consolazione.» tratto da L’Arminuta.




Made in Pomezia – Amministrazione Comunale vicina ai produttori locali

In piena Fase2 della pandemia Covid-19 l’Amministrazione Comunale lancia “Made in Pomezia” una piattaforma di beni e servizi locali per la tutela delle produzioni del territorio pometino attraverso l’utilizzo di un marchio dedicato.

L’idea è importante perché mai come in questo momento di rinascita si rivela vincente puntare sul territorio e sulla capacità di fare sistema tra gli imprenditori. Per rialzarsi non c’è soluzione migliore se non quella di attingere a ciò che già esiste sul territorio per sostenerlo, rafforzarlo e incrementarlo.

Dal profilo istituzionale Facebook del Comune di Pomezia le parole del vice Sindaco Simona Morcellini affermano come «Durante gli incontri che stiamo facendo con le realtà del territorio è emersa l’esigenza di creare una vera e propria piattaforma dove poter far dialogare tutti i produttori di beni e servizi locali. È nostra intenzione tutelare il tessuto produttivo del territorio e supportarlo al meglio durante questo delicato momento di riavvio economico. Da qui l’idea di creare un marchio dedicato, “Made in Pomezia”, al fine di dare valore a quanto creato nella nostra città.» Dichiarazione che evidenzia il lavoro di ascolto e attenzione che l’amministrazione comunale sta attivando verso il tessuto imprenditoriale della città.

Ascoltare e fare sistema sono due elementi essenziali affinché questa Fase2 possa riattivare la capacità produttiva dell’intero territorio.

Di sicuro tutti stiamo aspettando la firma del tanto discusso Decreto Rilancio senza il quale, purtroppo, sia gli imprenditori che i commercianti e anche le Pubbliche Amministrazioni, restano fermi in stand-by.  Nel frattempo, però, noi cittadini abbiamo la possibilità di attivare piccole mosse quotidiane che, aggiunte le une alle altre, possono fare la differenza oggi e nel prossimo futuro.

Da giovedì 7 maggio, per esempio, è stato riaperto il mercato di Coldiretti in piazza San Benedetto da Norcia, autorizzata esclusivamente per la vendita di generi alimentari, e predisposta con le dovute misure di sicurezza di distanziamento che ci permette di acquistare i prodotti locali direttamente dal produttore. Un appuntamento settimanale del giovedì da non perdere.

Inoltre, tutti i giorni, sono aperti piccoli negozi di carne, pesce, alimentari, frutta e verdura e di pasta fresca che non solo ci permettono di mangiare prodotti di qualità ma che hanno bisogno del nostro sostegno per combattere la diffusione della grande distribuzione.

Non dimentichiamoci che entrare in una bottega e sentirsi chiamare per nome ha un valore tale da rendere la città una comunità e un luogo vivibile per noi e i nostri figli. Senza la ripresa delle piccole attività commerciali non avremo neanche più le città.

E per finire una nota: negli ultimi post Facebook del Comune di Pomezia, sono apparsi dei nuovi hashtag: #Pomeziariparte #Torvaianicariparte

Emblematici e di buon auspicio. Usiamoli perché si riparte sempre tutti insieme per vincere.

 

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Per essere inserito nel portale Made in Italy vai sul sito http://www.comune.pomezia.rm.it/madeinpomezia e segui le istruzioni riportate, basta una mail.

L’elenco sarà pubblicato sul nostro sito istituzionale e sarà costantemente aggiornato in base alle richieste pervenute.