RISO VENERE CON GAMBERI E ZUCCHINE

“UN MESE, UN PIATTO, UNA STORIA…”

LUGLIO

RISO VENERE CON GAMBERI E ZUCCHINE

 

La ricetta che vi propongo, per questo primo mese d’estate, l’ho realizzata una sera in cui mi era stato chiesto di cucinare dei piatti che potessero descrivere una persona.

La sfida è stata da me raccolta con entusiasmo e questo primo piatto racchiude molte delle caratteristiche peculiari dell’ospite che mi aveva fatto la richiesta.

Quest’amico è una persona che mangia pochissima carne, quasi niente direi, da qui l’utilizzo dei gamberi, dovuto anche al fatto che ama molto i crostacei.

Lui non ama i carboidrati, per cui possibilmente primi piatti con riso e preferibilmente venere: questa varietà oggi molto in voga, oltre ad avere un buonissimo profumo, risulta meno lavorata degli altri suoi simili.

Le zucchine infine sono uno degli ortaggi che preferisce, sono di stagione e il loro bel verde crea delle particolari  variegature al piatto.

Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, è una ricetta molto semplice da realizzare, ma di grande effetto al gusto e alla vista.

 

INGREDIENTI per 2 persone:

 

140 gr. di riso venere

2 zucchine romanesche

6 gamberi

limone, aglio, olio evo, sale, pepe, tabasco e prezzemolo.

 

PROCEDIMENTO:

 

Lessare il riso in acqua salata, ci vorranno circa 20 minuti.

Nel frattempo togliere testa e carapace ai gamberi, inciderli con la punta di un coltello ed eliminare il filo nero dell’intestino. Sciacquarli, metterli in una ciotola  e condirli con un pizzico di sale, la scorza grattugiata del limone, un po’ di pepe, qualche goccia di tabasco e olio evo. Tenere da parte.

Grattugiare le zucchine con una grattugia a fori grandi, e saltarle in padella con olio, aglio, sale e pepe; non devono spappolarsi, ci vorranno pochi minuti.

Cuocere velocemente i gamberi sfumando con il succo del limone; spegnete appena si arricciano.

Scolare il riso e unirlo alle zucchine mescolando bene.

Con un coppapasta  impiattare il riso premendo bene, ultimare appoggiandovi sopra i gamberi con molta delicatezza.

Irrorare con il sughetto e decorare con una foglia di prezzemolo.

Il risultato è garantito.

 




STRANE CREATURE di Tracy Chevalier

STRANE CREATURE

di Tracy Chevalier

ed. Neri Pozza

 

 

A cosa si riferisca espressamente il titolo di questo romanzo, arrivati alla fine, ancora non ci è dato saperlo. Strane creature sono quei resti ritrovati nei dintorni di Lyme, oppure le protagoniste stesse, le due cacciatrici di fossili Mary Anning ed Elizabeth Philpot?

Tracy Chevalier, con un tratto delicato, lo stile curato e la scrittura amorevole, che ricorda vagamente la celeberrima Jane Austen, ci lascia dubbiosi.

Certamente agli inizi del 1800 due donne come le protagoniste della nostra storia, risultavano figure stravaganti, da cui tenersi lontano e destinate alla solitudine.

In un’epoca in cui alla donna ben poco era permesso al di fuori delle mura domestiche e lontano dallo sguardo protettivo dei loro familiari, Mary ed Elizabeth erano veramente delle Strane creature, al pari dei loro tanto amati fossili che racchiudevano tracce di esseri non più esistenti.

Tracy Chevalier trae spunto da fatti realmente accaduti e personaggi esistiti e ci regala pagine intense e poetiche, rendendo omaggio a tutte quelle donne che hanno avuto il coraggio di seguire le loro passioni, di sottrarsi al destino assegnato e di liberarsi da obblighi e costrizioni.

 

Sento l’eco di quel fragore ogni volta che trovo un fossile, una piccola scossa che dice:

”Sì Mary,Anning, tu sei diversa dalle altre rocce della spiaggia”.

È questo che vado cercando ogni giorno: il fremito della saetta, la mia differenza.

 

Forte anche il contrasto tra la fede religiosa sull’infallibilità di Dio e la creazione del mondo da un lato, e la scoperta dei fossili che preannunciava la teoria evoluzionistica di Darwin, dall’altro.

Strane creature è un romanzo storico narrato in prima persona alternando i capitoli a seconda che la voce appartenga ad una donna della borghesia medio alta oppure ad una popolana.

Interessante la diversa complessità delle frasi che sottolinea la differente estrazione sociale e l’aver o meno una cultura alle spalle.

Non esiste però divario tra Mary ed Elizabeth, la passione che le accomuna appiana le differenze e le unisce a dispetto delle convenzioni dell’epoca: un romanzo quindi sull’amicizia, quella vera, disinteressata, che non conosce discriminazioni e va avanti nonostante tutto e tutti.

 

Io e Mary Anning siamo a caccia di fossili sulla spiaggia, lei cerca le sue creature, io i miei pesci.

Gli occhi fissi su sabbia e scogli, percorriamo il bagnasciuga, ciascuna con il suo passo.

Mary si ferma e squarcia una pietra per carpirne i segreti.

Io frugo tra l’argilla sperando in qualcosa di nuovo e prodigioso.

Parliamo poco perché non ne abbiamo bisogno e ci perdiamo ognuna nel suo mondo, felici, l’una a due passi dall’altra, insieme nel silenzio.

 

 

SINOSSI

Nel 1811 a Lyme, piccolo villaggio sulla costa meridionale inglese, arrivano le tre sorelle Philpot e la quiete che regnava diventa un lontano ricordo.

Vengono da Londra, sono bizzarre creature, eleganti e vestite alla mda.

Margareth sorprende tutti con i suoi turbanti verdolini, Louise con la sua passione per la botanica ed Elizabeth che se ne va in giro libera ed istruita noncurante degli uomini e delle chiacchiere.

Quest’ultima stringe presto amicizia con Mary Anning, la figlia dell’ebanista, una ragazzina vivace che passa il suo tempo sulla spiaggia dove dice di aver scoperto strane creature dalle ossa gigantesche.




LORO di Roberto Cotroneo

LORO

di Roberto Cotroneo

Ed. Neri Pozza

 

 

I fantasmi non sono soltanto esseri che hanno vissuto nel passato,

possono anche aver vissuto nella nostra fantasia, o nella fantasia di qualcuno.

E sono quelli più pericolosi, perché sono i fantasmi della mente.

 

Sono fermamente convinta che ognuno di noi, popolo di appassionati lettori, ogni tanto debba leggere un libro che parli di…fantasmi!

LORO è una di quelle storie che fanno stare con il fiato sospeso, dal ritmo che sale, ha un momento quasi di stallo, e poi continua a salire fino all’esplosione finale.

Non è una lettura impegnativa, ma la storia è originale e le due piccole protagoniste, due gemelle, risultano subito dei personaggi molto intriganti.

Leggendo questo scorrevole romanzo, non così facile e per niente scontato, ho nutrito dei dubbi su chi fosse effettivamente la voce narrante.

Inizia come una storia tratta da un diario, ma la narrazione in prima persona non ci chiarisce del tutto le idee e sul finale ancora un cambio, si passa alla terza fino all’ultima frase. L’elemento poi che distrae il lettore è la presenza costante delle due bambine, Lucrezia e Lavina, gemelle monozigoti, ovvero identiche.

Ottimi i sopracitati escamotage per impedire che il lettore molli la presa, l’intento dell’autore è infatti proprio quello di causarci pressione: dobbiamo arrivare in fondo, vogliamo capire.

 

E fu lì che ebbi la seconda apparizione, la più lieta.

Fu lì che mi vennero incontro le bambine. […]

Lavinia e Lucrezia erano in tutto e per tutto identiche: vestite uguali, bionde uguali, con la stessa pettinatura, lo stesso braccialetto al polso, gli stessi occhi azzurri presi dal padre.

Vidi il loro sorriso e decisi che quel luogo poteva essere chiamato il luogo del sorriso.

 

Roberto Cotroneo riesce a trasportare il lettore nell’oscurità di quelle che sono le paure di ognuno di noi, lo trascina nel tunnel dove il razionale cede il posto all’irrazionale.

Quasi verso la fine della storia, oltrepassata da un po’ la metà, nel momento in cui il lettore si sente sempre più coinvolto nel susseguirsi incalzante degli avvenimenti, proprio allora, abbiamo un colpo, per me, da maestro: si nominano dei pezzi musicali.

Durante l’esecuzione l’autore scrive che tutti i presenti non possono fare a meno di sobbalzare, incuriosita ho cercato il pezzo su google…non aggiungo altro, perché se leggerete LORO sicuramente troverete e ascolterete quella musica; e non potrete far altro che provare paura.

Concludo queste mie riflessioni con una frase citata nel libro, di Nietzsche:

 

“Quando scruterai in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”

 

SINOSSI

 

Può il memoriale di una giovane donna sconvolgere a tal punto da turbare persino coloro che abitualmente si avventurano nei recessi più oscuri della mente?

Margherita B. narra dei fatti accaduti nel 2018, quando prende servizio stando alle sue parole, come istitutrice presso una famiglia aristocratica, gli Ordelaffi, in una magnifica villa progettata da un celebre architetto alle porte di Roma: la casa di vetro.

Il compito che le viene affidato è prendersi cura delle gemelline Lucrezia e Lavinia.

Nella casa di vetro, tutto sembra meraviglioso quell’estate.




RISOTTO AI GAMBERONI

RISOTTO AI GAMBERONI

“UN MESE, UN PIATTO, UNA STORIA…”

GIUGNO

RISOTTO AI GAMBERONI

 

Nella ricetta che vi propongo, in questo nostro primo mese d’estate, il protagonista, quasi assoluto, è il profumo. Mi viene subito in mente un romanzo recensito da me qualche tempo fa che si intitola proprio così: Il profumo di Patrick Süskind.

Torniamo a noi, il Risotto ai gamberoni non è un piatto esclusivamente estivo, lo potrete realizzare in qualunque mese dell’anno; è molto gustoso, apprezzato quasi da tutti, colorato e piuttosto semplice da realizzare.

La cosa importante quando si prepara questo risotto, è il fumetto di pesce, banalmente chiamato brodo; elemento fondamentale qualunque sia il risotto da cucinare.

Se volete prepararlo con il dado di pesce pronto, fate pure ma il profumo ne risentirà sicuramente, questi preparati industriali hanno tutti lo stesso retrogusto, il vostro piatto non ne beneficerà.

 

 

INGREDIENTI x 4 pers.:

Riso Carnaroli 500 gr.

12-16 gamberoni freschi

1 cipolla dorata

1,5 lt di acqua, una carota, un gambo di sedano, qualche pomodorino

un bicchiere di vino bianco

olio, sale, pepe, prezzemolo

 

PROCEDIMENTO:

Pulite i gamberoni mettendo le teste in una casseruola con l’acqua e gli odori, io le schiaccio un po’ con le dita. Togliete il filo dell’intestino e saltateli velocemente in una padella con poco olio e un po’ di sale; non cuoceteli troppo, si rovinerebbero. Tenete da parte.

Mettete la pentola con acqua, odori e teste sul fuoco e fate cuocere almeno una ventina di minuti, poi filtrate il brodo avendo cura di schiacciare gli ingredienti affinchè rilascino nel liquido tutto il loro sapore. Mantenete il fumetto su fuoco basso per tutto il tempo della cottura del piatto.

Ungete con un filo d’olio la pentola per il risotto, stufate la cipolla tagliata finemente e aggiungete il riso. Fatelo tostare bene e sfumate con il vino bianco. Una volta che l’alcool sarà evaporato, abbassate la fiamma e iniziate la cottura aiutandovi con il fumetto. Aggiungetene un po’ per volta, aspettando che si asciughi prima di rimetterne dell’altro.

Portate a cottura il riso, ma assicuratevi che alla fine non si asciughi troppo e rimanga “all’onda”.

Versate in un vassoio, appoggiatevi sopra i gamberoni con il loro sughetto e finite il piatto con del prezzemolo tritato sottile e un giro d’olio a crudo.

Ultimamente i prezzi del pesce fresco sono lievitati, potete utilizzare anche i gamberoni surgelati, il risultato sarà comunque più che discreto (sceglieteli di taglia grande però).

 

 

 

 




KAFKA E LA BAMBOLA VIAGGIATRICE di Jordi Sierra i Fabra

KAFKA E LA BAMBOLA VIAGGIATRICE

Di Jordi Sierra i Fabra

Ed. Salani Gl’Istrici

 

Novella o romanzo breve? Difficile classificare Kafka e la bambola viaggiatrice nell’uno o nell’altro genere. Se lo cerchiamo su Google lo troviamo inserito tra la narrativa per ragazzi, ma quando poi lo si prende in mano e lo si inizia a leggere, ci rendiamo conto che si tratta di una lettura molto piacevole e, a tratti quasi poetica, per qualunque tipo di lettore, indipendentemente dalla sua età anagrafica.

La sensazione, quando scorrono le prime frasi, è quasi quella di ritrovarsi all’interno di un quadro di Monet: c’è un grande giardino, con piante, fiori, persone che passeggiano…

 

Le passeggiate al parco Steglitz erano balsamiche.

E le mattine così dolci…

[…]

il parco Steglitz pullulava di vita in quell’inizio d’estate.

Un regalo.

E Franz Kafka lo assorbiva come una spugna, lasciando vagare lo sguardo, attingendo energia per l’anima, inseguendo sorrisi tra gli alberi.

 

Jordi Sierra i Fabra costruisce questa storia poetica, partendo da un fatto realmente accaduto a Kafka e raccontato dalla sua ultima compagna di vita,  Dora Diamant.

In maniera molto originale l’autore inventa il postino della bambole e ne fa vestire le vesti ad uno degli autori più importanti della letteratura del Novecento, per lenire il grande dolore di una bambina che ha perduto la sua bambola nel parco.

Jordi Sierra i Fabra con delicate pennellate degne del prima citato Monet, racconta dell’incontro tra l’universo degli adulti e quello dei bambini, e ci fa girare il mondo con gli occhi di una bambola di porcellana.

Franz Kafka è agli sgoccioli della sua vita, la malattia lo sta logorando; la bambina invece ha davanti a sé una vita intera. Il contrasto che viene alla luce dà toni malinconici alla storia, ma l’impegno che il postino delle bambole mette scrivendo lettere fantasiose sul viaggio della bambola Brigida, allo scopo di evitare sofferenze alla sua piccola mamma, ci insegna che al mondo ci sarà sempre qualcuno  che inventerà favole per veder tornare il sorriso negli occhi di un bambino che sta per diventare grande.

Furono fatte numerosi indagini per cercare di trovare quella bambina che ispirò le lettere a Kafka, senza però nessun risultato; Jordi Sierra i Fabra con la sua bella penna, ha dato quindi un volto e un nome alla protagonista di questa commovente novella.

 

I poeti erigono castelli in aria,

i pazzi li abitano,

e qualcuno, nella vita reale, riscuote l’affitto.

 

SINOSSI

 

Durante la sua quotidiana passeggiata al parco, Franz Kafka incontra una bambina, Elsi, in lacrime perché ha perso Brigida, la sua bambola. Colpito dall’intensità di quel dolore, l’autore della Metamorfosi, si inventa una spiegazione per consolare la piccola: Brigida è partita per un viaggio e lui, che è il postino delle bambole, il pomeriggio seguente le recapiterà una sua lettera…

 

 




L’ESTATE DELL’ INCANTO di Francesco Carofiglio

L’ESTATE DELL’INCANTO

di Francesco Carofiglio

Ed. Pickwick

 

 

 

È successo d’estate, molti anni fa.

Tra le nebbie che affollano adesso i miei pensieri di vecchia, una luce rischiara una piccola porzione di mondo.

[…]

Avevo dieci anni, e il mondo stava per affondare nell’abisso.

Ma per me era solo estate e campagna.

La più bella estate della mia vita.

 

 

Queste che precedono, sono le brevi frasi che compongono l’esaustivo e intrigante incipit di un bel romanzo. In pochi istanti, tanti sono quelli necessari a leggerle, il lettore si trova immediatamente catapultato in uno spazio relativamente ristretto dove il tempo pare essersi fermato, e dove il baratro che si sta avvicinando all’insaputa della protagonista, sembra non debba arrivare mai.

Questa storia delicata, intensa e a tratti commovente, ci viene raccontata dalle due voci di Miranda, quella di una bambina di dieci anni, e l’altra, di una donna anziana ottant’anni dopo.

Incredibile come l’autore, Francesco Carofiglio, evidentemente un uomo, riesca a calarsi nei panni, nella testa e nelle azioni di una donna; così tanto che la storia sembra opera di una scrittrice.

L’avvicendarsi e l’intrecciarsi delle due voci della protagonista, creano una dilatazione temporale notevole degli eventi, delle loro cause, delle loro conseguenze.

Uno stile, quello di F. Carofiglio, fluido, dotato di un’accelerazione che costringe lo scrittore a non voler più mollare il libro fino alla fine.

La trama può sembrare ovvia: una bambina che trascorre un’estate felice a casa del nonno in campagna, poco distante da Firenze.

Ciò che però, rende unica questa lettura, è il trasparire tra le righe l’imminenza di avvenimenti tragici che di lì a poco porteranno il mondo in un abisso quasi senza fine.

Abbiamo quindi  ne L’estate incantata, una specie di bolla, con un dentro fatto di sole, avventure, caldo, fantasia e della spensieratezza inconsapevole dell’infanzia.

C’è poi un fuori dato dalla tragicità del conflitto imminente prima, e dalla caducità del susseguirsi fragile dei giorni di una donna molto anziana che recupera immagini di felicità per aggrapparsi ai suoi ultimi batti d’ali.

Miranda bambina, con la mamma, con Lapo, con la lince Luana; e Miranda novantenne, con i suoi ricordi, le sue malinconie, con Nives e Carolina amiche da sempre.

Un duetto avvincente che termina con un finale degno dell’incipit, che lascia il lettore soddisfatto e gratificato da una lettura veramente molto piacevole.

 

 

La nostra vita è una cascata inarcata nel vuoto, lo ha scritto una poetessa di cui non ricordo il nome (1).

Mi chiamo Miranda, e dalla riva dell’isola guardo la tempesta.

Forse questo voleva dire mio padre, forse mio padre lo ha sempre saputo.

Sento le voci intorno, adesso, e una leggerezza inattesa.

Guardo le altre ragazze. Stanno ridendo.

Allora scarto un cioccolatino e lo metto in bocca.

 

 

(1) Antonia Pozzi

 

 

 

 

SINOSSI

 

Estate 1939. Il mondo è sull’orlo dell’abisso, ma Miranda non lo sa quando con la madre raggiunge la tenuta del nonno Villa Ada.

Il bosco misterioso che circonda la proprietà è il palcoscenico perfetto per le avventure estive di Miranda con Lapo, il nipote del fattore.

Ma il bosco è anche il luogo abitato dalle creature parlanti che l’anima di bambina vede o crede di vedere.

Miranda, ormai novantenne, ci racconta la luce magica che rischiara quella porzione di mondo e l’incantesimo di una giovinezza improvvisa.




IL FETTAMISÙ

“UN MESE, UN PIATTO, UNA STORIA…”

MAGGIO: IL FETTAMISÙ

 

 

Sono sempre stata un’amante della buona cucina e del mangiar bene, mi piace molto provare nuove ricette e variare di continuo i pasti di tutti i giorni.

Una cosa però mantengo sempre costante e faccio fatica a cambiare: la colazione del mattino.

Quando mi sveglio, il mio menù prevede sempre: cappuccino e qualche biscotti secco, o un dolce tipo plumcake o al limite del pane tostato con marmellata preferibilmente fatta in casa da me.

Da quando mia figlia Beatrice si è laureata magistrale in Scienza della nutrizione mi sono resa conto che in effetti i pasti che preparo quotidianamente in casa non sono poi così bilanciati.

In primis proprio la colazione, con la conseguenza che dopo neanche due ore arriva implacabile il languorino.

Questo mese vi propongo una colazione diversa, facile, veloce da preparare, bilanciata e soprattutto buonissima: il Fettamisù.

 

 

Ingredienti per una persona:

 

3 fette biscottate integrali o ai cereali

1 vasetto di yogurt magro

polvere di cacao

gocce di cioccolato

burro di arachidi

 

 

Procedimento:

 

Appoggiare una fetta biscottata al centro del piatto, aggiungere 1/3 dello yogurt, spolverizzare con il cacao amaro e qualche goccia di cioccolato.

Proseguire con la seconda fetta nello stesso modo e poi con la terza.

Ultimare aggiungendo sopra un po’ di burro di arachidi colandolo con un cucchiaino come a formare un decoro.

Servite con una tazza di caffè appena fatto.

Avrete così una colazione gustosissima, completa di tutti i macronutrienti, che fornisce il giusto senso di sazietà e appaga moltissimo anche il palato.

Se non amate il cioccolato potete sostituirlo con della frutta fresca e del cocco in scaglie.

La mattina si va sempre di corsa e allora prepariamolo la sera prima, così il Fettamisù si ammorbidirà e somiglierà moltissimo al dolce che tutti conosciamo: il Tiramisù.

 

foto di Beatrice Santin

 

 

 




LA CUSTODE DEI PECCATI di Megan Campisi

LA CUSTODE DEI PECCATI

Di Megan Campisi

Ed. NORD

 

 

Ho sempre amato il genere fantastico. Ricordo ancora da ragazzina quando mi immersi per giorni e giorni nel favoloso mondo di Tolkien. Poi questo tipo di lettura si è diradato, ma ogni tanto ritorna e mi regala ore di evasione totale in un universo che di reale ha veramente poco.

Complice una recente e promettente amicizia, ho deciso di regalarmi un’opera di fantasia iniziando la lettura di quello che si è rivelato essere poi un bel romanzo.

Lo stile fluido ma non banale di Megan Campisi, l’originalità della storia della protagonista e la narrazione in prima persona, hanno fatto sì che mi immergessi completamente e da subito in un mondo lontano.

Non si sa bene se la figura della Mangiapeccati sia realmente esistita, fatto sta che l’autrice la descrive in modo unico, dettagliando nei minimi particolari l’uso antico di volersi liberare dai propri peccati in punto di morte trasferendoli ad un’altra persona.

E quale miglior sistema che confessarli a una reietta peccatrice che se ne farà carico mangiando tutti i cibi associati ad ognuno dei peccati commessi in vita dal moribondo?

 

Sale per l’orgoglio.

Semi di senape per la menzogna.

Orzo per le bestemmie.

C’è anche l’uva, acini rossi e rigonfi, sparsi sulla cassa in pino; ce n’è uno spaccato, con un seme color rubino che sbuca dalla buccia, come una scheggia conficcata nella carne.

[…]

Ci sono anche altri cibi, ma non tanti.

Mia madre non ha commesso molti peccati.

 

La custode dei peccati è il romanzo d’esordio di Megan Campisi e colpisce con una forza travolgente. L’autrice non lesina macabri e ributtanti particolari della vita dei meno abbienti nell’Inghilterra georgiana.

Un romanzo che ci parla di esclusione, emarginazione, condanna all’invisibilità e ad una vita di solitudine per chi non proveniva da un ceto medio, per chi non aveva un’istruzione, per chi veniva colpito da una grave malattia e per chi si macchiava anche di reati minimi commessi per non morire di fame.

I capitoli vengono nominati uno per uno con i cibi associati ai peccati, e man mano che la lettura va avanti la fantasia cede il posto al thriller: gli intrighi più nascosti e i crimini più efferati in nome del potere e dell’ambizione verranno poco a poco alla luce grazie all’acume della giovanissima Mangiapeccati.

L’ascolto delle ultime parole dei moribondi, il cibarsi dei loro peccati, l’osservazione attenta di ciò che circola nei bui corridoi a corte, faranno di May un’eroina, coraggiosa e sempre più consapevole della propria forza interiore.

 

Le Mangiapeccati sono sempre donne, dato che Eva è stata la prima a mangiare un peccato, nella fattispecie il Frutto Proibito.

C’è chi dice che è per questo che tanti cibi associati a peccati sono frutti.

 

Tra leggende e dicerie Megan Campisi ci lascia una fotografia della situazione politica e sociale del periodo, capace di far sì che il lettore riesca facilmente ad immedesimarsi negli usi e nei costumi dell’epoca.

La custode dei peccati è alla fine un piccolo capolavoro di narrativa la cui prosa risulta lineare ed evocativa allo stesso tempo senza utilizzare inutili e pesanti virtuosismi letterari.

 

 

SINOSSI

 

May Owens ha rubato un pezzo di pane e sarà condannata, ma lei non sa che avrà una punzione peggiore della morte per impiccagione. Il giudice ha infatti deciso che May diventerà una Mangiapeccati. Le verrà fatto indossare un collare per essere riconoscibile e le verrà tatuata una S sulla lingua. Da quel momento in poi nessuno le dovrà più rivolgere la parola pena la condanna eterna. La giovane verrà istruita dalla Mangiapeccati anziana a raccogliere le confessioni dei moribondi e a cibarsi dei cibi associati ai loro peccati affinchè essi possano salire purificati al Creatore. Dopo la morte della sua insegnante May si troverà immersa in una serie di intrighi, menzogne e tradimenti che dovrà affrontare da sola con il solo aiuto del suo essere invisibile e inavvicinabile.

 

Foto di Rossana Verardi




ADAGIO di Silvia De Felice

Adagio

di Silvia De Felice

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

Rapsodia Edizioni

 

Catastrofe può essere un virus, un terremoto, una guerra, ma può essere anche un amore finito male, un sogno infranto, una malattia o la morte; la catastrofe, qualunque ne sia la natura, cambia la nostra vita e la stravolge per sempre.

 

Mentre l’Adagio suonato dalla London Philarmonic Orchestra riempiva morbido la stanza illuminata dal sole, Elizabeth posò la tazza di tè sul tavolino, appena in tempo perché non cadesse. Da diverse settimane, ormai, le mani le tremavano tanto da non riuscire quasi a controllarsi, fece piano, non voleva turbare i sonni tranquilli di Mila. La gatta le riscaldava le gambe e l’anima, mentre lei osservava per l’ennesima volta quei campi verdi e sconfinati, quei cespugli di rododendro dove da bambina tante e tante volte si era nascosta con Arthur e John. Era abituata a stare da sola; in un’epoca in cui le massime aspirazioni di una donna erano il matrimonio, una famiglia numerosa e un marito, lei al contrario gestiva la sua vita senza dipendere da nessuno. Era sempre stata di corporatura robusta, ma era ben proporzionata, e aveva un viso molto femminile, incorniciato da folti capelli color del rame. La debolezza che provava ormai da tempo le aveva tolto quel sorriso con cui ammaliava le persone. La malattia negli ultimi mesi la stava logorando e presto, anche solo per nutrirsi, avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di qualcuno, e questo lei non lo avrebbe mai accettato né permesso.

“Cara, vecchia amica mia” disse, rivolgendosi alla gatta, “quando ero giovane pensavo che avrei girato il mondo, e invece sono rimasta qui. Credevo nel grande amore, e quando arrivò Marc ero sicura che fosse lui, quel grande amore. Erano svanite tutte le mie manie di indipendenza, pensavo solo a lui, vivevo nell’attesa del suo ritorno, pendevo dalle sue labbra. Stenti a crederlo, vero? Eppure è così: ero capace di costruire una staccionata, dipingere la facciata di casa, smuovere pietre enormi per creare aiuole di fiori. Invece con lui perdevo le forze, ero una stupida donnetta innamorata. Sapessi, cara la mia gattona, sapessi di cosa la tua padrona è stata capace, tanto tempo fa…”

Finita la musica, Elizabeth era rimasta sulla sua vecchia bergère ormai logora ad aspettare il tramonto del sole, dopo di che si era sforzata di preparare la cena. Ormai non aveva più fame, mangiava per abitudine e per dare, con i pasti, un ritmo alle sue lunghe giornate. Quando iniziarono a cantare i grilli, fece il giro della casa per controllare che porte e finestre fossero chiuse, spense le luci e salì in camera da letto, confidando in un sonno senza incubi. La sua era, purtroppo, una speranza vana. Da parecchio un unico incubo disturbava il suo riposo notturno. La scena era sempre la stessa: si trovava al buio, sulle scale che portavano giù in cantina, lei scendeva, gradino dopo gradino, e tremava sempre di più, il flebile rumore che le pareva di sentire aumentava fino a diventare un rantolo. Quando poi arrivava in fondo, e faceva per aprire la porta e accendere la luce, qualcosa o qualcuno le si avventava addosso e all’improvviso si svegliava, madida di sudore.

La mattina dopo, Elizabeth venne svegliata dalla gatta che voleva uscire, quasi non riusciva a ricordare cosa avesse fatto la sera precedente, cosa avesse mangiato per cena e a che ora si fosse messa a letto. Sorrise laconicamente al pensiero che anche la sua memoria, sinora fin troppo pronta, stesse perdendo colpi. Con grande sforzo si mise seduta sulla sponda del letto, fece tre grossi respiri e si alzò in piedi. Il risveglio era il momento peggiore della giornata, il suo corpo provato si rifiutava di obbedirle e i dolori erano tanti. Con il passare dei minuti i suoi muscoli si scaldavano e le fitte causate dai movimenti divenivano più sopportabili. Scese la scala che portava al pianterreno tenendosi aggrappata al corrimano, alla fine del quale era appoggiato il bastone che le permetteva di camminare.

Elizabeth entrò in cucina e aprì la portafinestra che dava sul giardino per far uscire Mila, la temperatura era gradevole e decise di servire la colazione in veranda. Una colazione speciale! Mise a scaldare l’acqua per il caffè e lentamente preparò la tavola: apparecchiò con la tovaglia bianca e le tazze in porcellana che le aveva lasciato sua madre, poi tirò fuori dal forno un dolce preparato con fatica il giorno prima e prese dal cassetto della madia le posate in peltro. Fiori non servivano: i cespugli di rose del suo giardino erano stracolmi di boccioli, avrebbero fatto da contorno anche senza reciderli, il loro profumo arrivava fino alla veranda. A breve sarebbero arrivati Arthur e John, ma lei aveva bisogno di riprendere fiato: quelle piccole attività le avevano tolto le forze. Quei due uomini per lei erano più che fratelli, eguali nell’affetto che le dimostravano sempre, ma così diversi nel corpo e nello spirito. Arthur era mingherlino, aveva lo sguardo curioso e la mente sempre alla ricerca del perché della vita. John, un omone dai pochi capelli, aveva un sorriso tenero e lo spirito di chi sa che la vita non finisce con la morte.

Elizabeth si appoggiò dolorante sul dondolo lasciandosi andare ai ricordi. In pochi attimi ritornò a quando era poco più di una bambina, l’estate alle porte e le scuole appena finite. Stacey’s Lane era una stretta strada privata che portava alla grande casa dove viveva con sua madre; Arthur e John abitavano a poche centinaia di metri. La  mattina, appena si svegliava aveva un unico pensiero:  vestirsi, mangiare un paio di biscotti e uscire a giocare con i suoi compagni di avventure. S’incontravano quasi tutti i giorni, a volte portavano qualche panino e rimanevano fuori fino al tramonto, con buona pace delle loro mamme, che avevano smesso da tempo di sfinirsi per chiamarli, tranquille che, al più tardi per cena, li avrebbero rivisti.

Il rumore di una macchina la svegliò da quel leggero dormiveglia a cui si era abbandonata. I suoi uomini erano arrivati, non voleva farsi trovare semisdraiata sul dondolo. Si sbrigò ad alzarsi non facendo troppo caso alle fitte che avvertiva, si sistemò i capelli d’argento e andò loro incontro sorridendo.

“Che belli che siete!” disse felice mentre li abbracciava.

“Elizabeth, mia cara, come stai?” le chiese John.

“Bella sei tu, come sempre!” fece Arthur, tendendendole la mano.

Entrarono e si diressero sulla veranda che dava sul giardino dietro casa. I due uomini avevano la sua stessa età, ma sembravano più giovani, il fardello che portavano nel cuore era meno pesante di quello di Elizabeth, e non aveva tra l’altro minato il loro fisico. Si sedettero intorno al tavolo apparecchiato ed Elizabeth servì loro il caffè.

“Devo ammettere che mentre vi aspettavo mi sono quasi appisolata sul dondolo” disse loro, ridendo, e aggiunse: “Ho sognato quando ci siamo ritrovati qui il giorno in cui siete ritornati a Wanborough, e tutti i segreti che mi avete rivelato”.

“Mi sembra ieri che la mattina appena alzati ce ne scappavamo a gambe levate da casa per avventurarci nei campi” proseguì John, mentre sbocconcellava il dolce. E aggiunse: “A te proprio non piacevano le bambole, preferivi le avventure e inventavi sempre viaggi fantastici!”

“Vero” si intromise Arthur, “partivamo con gli zainetti pieni di cibo, e le nostre mamme neanche si preoccupavano: sapevano che saremmo ritornati prima di buio. Sono stati anni bellissimi, peccato essere diventati grandi”.

“John, ricordi quanto rimasi stupita quando a Oxford decidesti di dedicare la tua vita a Dio e poi tornare proprio qui, a Wanborough, per essere la nostra guida spirituale?” domandò Elizabeth, e aggiunse: “Quando vidi che portavi quella catena con il crocefisso, rimasi senza parole. Proprio non me lo aspettavo”.

“Già” ammise l’amico sorridendo, “avevi una faccia!”

“E quando vi raccontai che avevo una storia d’amore con un uomo?” proseguì Arthur, “Ve lo ricordate? Calò un silenzio di tomba, ebbi paura che non mi avreste più voluto bene, e invece siete stati splendidi, volevate addirittura conoscerlo, che lo portassi qui a Wanborough. Figuriamoci! Ci avrebbero banditi tutti quanti, se non addirittura lapidati”.

I tre si guardarono sorridendo. La primavera inoltrata, il verde dei campi seminati, i fiori e il canto degli uccelli fecero da sottofondo per qualche minuto alla colazione e ai loro pensieri.

I due uomini aspettavano pazienti, la loro amica aveva qualcosa da dire, ma non volevano forzarla. Sapevano che era qualcosa di importante.

“Che ne dite se facciamo una passeggiata?” propose Elizabeth.

“Te la senti?” le chiese John.

“Sì” rispose la donna, e aggiunse: “Con voi al mio fianco, posso affrontare tutto”.

Arthur le prese uno scialle e s’incamminarono lenti verso i campi dove erano stati centinaia di volte da bambini. Lui aveva scoperto lì la sua passione per la medicina. Osservava curioso tutti gli insetti e i piccoli animali, se ne trovava di morti li apriva con il suo coltellino e cercava di scoprire il segreto della vita.

I tre camminavano piano, lei faceva un po’ fatica, le fitte le toglievano il fiato. Ma sopportava in silenzio, voleva godersi quei momenti. I suoi due cavalieri chiacchieravano, erano molto conosciuti e stimati nel villaggio; un medico e un sacerdote, in tanti si rivolgevano a loro per curare malattie del corpo e dello spirito. Anche Elizabeth non era da meno: negli anni di prosperità che erano seguiti al secondo dopoguerra, lei era stata una delle prime insegnanti di quel piccolo borgo, che pian piano era diventato un paese; quanti ne aveva cresciuti di bambini! Molti, poi, se ne erano andati, ma tanti erano rimasti, e quando la incontravano non scordavano mai di ringraziarla per la pazienza con cui si era dedicata a loro.

Dopo un po’ di cammino arrivarono al grande albero che si trovava quasi alla fine della proprietà. Era incredibile come ancora fosse perfettamente visibile l’incisione a forma di cuore con all’interno due lettere: una E e una M.

Nonostante nessuno di loro avesse fatto il minimo accenno a quel cuore, Elizabeth ebbe un sussulto, John la strinse e Arthur la guardò con tenerezza. La donna sfiorò quelle lettere e i ricordi riaffiorarono.

“Il giorno che ho conosciuto Marc ho subito pensato che fosse l’uomo della mia vita, quando poi l’ho rivisto la seconda volta ne ero già perdutamente innamorata. Come ho potuto essere così cieca e sorda da non capire che mostro fosse? Qualunque storia mi propinava io gli credevo, e perdonavo, aspettavo, speravo” iniziò a ricordare la donna. “Mi ripeteva in continuazione che era il lavoro a tenerlo lontano da me, che presto avrebbe sistemato tutto e sarebbe rimasto. Ogni volta che ripartiva mi diceva che sarebbe stata l’ultima, dovevo solo avere pazienza, avremo presto costruito la nostra famiglia. Gli ho sempre creduto, fino a quel maledettissimo giorno in cui si rivelò per quello che effettivamente era: un maledetto bugiardo”.

Elizabeth con un filo di voce ricordò ai suoi amici della mattina in cui lei gli aveva aperto la porta di casa. Era felice, fremeva nel dirgli della bella novità: dopo diverse settimane di ritardo del ciclo, aveva scoperto di essere incinta. Era sicura che questo suo regalo avrebbe finalmente convinto Marc a fermarsi a Wanborough, lui l’amava e un figlio sarebbe stato il coronamento della loro storia d’amore.

“Credetemi, quando gli  comunicai la notizia, si trasformò: gli tremavano le mani, lo sguardo era diventato cupo e la voce roca. Un gelo mi avvolse all’improvviso, ebbi un capogiro mentre lui sbraitava, e persi i sensi”. Raccontava quei fatti come se i suoi due compagni di vita non sapessero già, come se non fossero a conoscenza della catastrofe che di colpo si era abbattuta su di lei. Mentre parlava, John le passava delicatamente le dita tra i capelli d’argento, e Arthur le teneva stretta la mano. Era una donna forte, lo era sempre stata, tranne quel giorno in cui le terribili parole pronunciate da quello che pensava essere l’amore della sua vita l’avevano abbattuta. Elizabeth aveva telefonato ai suoi due amici, che erano subito accorsi e l’avevano trovata seduta a terra, gli occhi pieni di lacrime, tra le gambe una pozza di sangue. Arthur l’aveva visitata e il responso l’aveva quasi annientata: non solo era stata abbandonata dall’ uomo che amava, ma aveva anche perso suo figlio. Elizabeth non voleva più vivere. I giorni successivi erano stati molto difficili, lei si rifiutava di mangiare e bere, voleva solo dormire. I due amici avevano cercato in tutti i modi di consolarla, le parlavano di come avrebbe trovato un altro uomo, migliore, che l’avrebbe amata veramente. Lei non li ascoltava, aveva lo sguardo perso nel vuoto e a volte nel sonno, sentivano che si disperava, mormorava scuse incomprensibili. Dopo giorni di digiuno, accudita da Arthur e John, Elizabeth aveva ripreso a nutrirsi e in poche settimane si era ristabilita. All’inizio dell’anno scolastico, Elizabeth era stata pronta a riprendere il lavoro. Dentro di lei, però, era rimasto qualcosa che l’avrebbe corrosa per sempre, un segreto che non aveva potuto rivelare a chi le aveva sempre voluto bene. L’insegnamento e le gratificazioni dei suoi studenti l’avevano aiutata a vivere, ma un male si era insinuato dentro di lei, subdolo, lento, inesorabile.

Gli anni a venire erano in qualche modo trascorsi: John spesso andava a Londra per incontrare i suoi superiori, voleva rinnovare la canonica e aveva bisogno di fondi. Arthur, invece, a Londra non era più tornato; soltanto in quella città avrebbe potuto continuare la sua storia d’amore, ma ciò lo avrebbe obbligato a lasciare Wanborough e anche Elizabeth. Non ne avrebbe mai avuto il coraggio, aveva quindi soffocato i suoi desideri fino, in parte, a dimenticare.

“Cosa avrei mai fatto senza di voi? Mi avete aiutata senza battere ciglio, mi avete protetto e dato da mangiare affinché non mi lasciassi morire, mi avete consentito di continuare a vivere”.

“Era il minimo che potessimo fare per te” disse John, e proseguì: “Se solo avessimo avuto il coraggio di dirti cosa sospettavamo di lui quando ce lo facesti conoscere, forse…”

“Dai, sediamoci un po’, sei stanca, riprendi fiato” disse Arthur, e l’aiutò a sedersi sul prato, poi ad appoggiarsi con la testa sulle sue gambe. La giornata era splendida, Elizabeth aveva bisogno di parlare, di liberarsi, e i suoi due amici erano gli unici che potevano capirla e rasserenarla.

I tre erano seduti sul prato sotto il grande albero quando iniziò a cadere una fine pioggerella primaverile.

“Andiamo a casa prima che diluvi” disse John.

“Sì, va bene” rispose Arthur. Si rivolse a Elizabeth dicendo: “Mia cara, su, alzati”.

La donna obbedì, ma quando era quasi in piedi una fitta lancinante la fece piegare in due; la prontezza dell’amico impedì che cadesse. Arthur guardò John, erano impalliditi entrambi. Sapevano molto bene della malattia, sapevano che le condizione di Elizabeth si sarebbero aggravate molto quasi all’improvviso, senza alcun preavviso; sapevano che da un momento all’altro la loro amica avrebbe perso forze e conoscenza, ma non erano ancora pronti a lasciarla andare. Il medico aveva interpellato decine di specialisti, scritto lettere, consultato testi di medicina sperimentale; le risposte avute non avevano lasciato spazio alla speranza. C’era, inoltre, un fatto molto importante che incideva sull’evolversi implacabile della malattia, era un fatto che loro non riuscivano in pieno a comprendere: Elizabeth era stanca di vivere e non lottava.

Dopo qualche minuto lei sembrò essersi ripresa, e con un sorriso disse: “Ragazzi, torniamo in veranda, altrimenti ci bagneremo. Io ora sto bene, datemi le vostre braccia per camminare meglio”.

Si diressero verso casa. Fecero appena in tempo ad arrivare che venne giù un forte sgrullone. Il temporale durò poco, e le gocce d’acqua sospese nell’aria, aiutate dai raggi del sole crearono uno splendido arcobaleno. Elizabeth si era accomodata sul dondolo, la gatta sonnecchiava e lei ammirava quei sette colori nel cielo. Arthur e John le sedevano vicino su due poltroncine in vimini un po’ consunte; aspettavano che lei parlasse. In cielo ora splendeva un bel sole, le rose profumavano e le foglie dei cespugli splendevano bagnate. A chi avesse osservato da fuori, quella scena sarebbe parsa quasi un quadro di Monet.

Dopo un po’ Elizabeth guardò amorevolmente i suoi due uomini e disse: “Lo so che non volete, lo so che non siete pronti, ma io lo voglio. Io sono pronta. Ho resistito e lo sapete, l’ho fatto per voi, perché mi volete tanto bene e non volevo farvi soffrire. Ma ora basta, sono stanca, sono ancora lucida, ma non so fino a quando potrò esserlo. Sono stata un peso per voi per gran parte della nostra vita, non voglio esserlo più. Prima, al grande albero, ho creduto fosse arrivato il momento, non riuscivo a respirare, la vista mi si era annebbiata e le gambe non reggevano più. Io, Elizabeth, la vostra Elizabeth, non diventerò un vegetale che anela un soffio di vita sulle vostre spalle. No, non lo diventerò!”

Arthur e John non riuscivono a proferire parola, la guardavano con gli occhi gonfi, deglutivano per non far uscire le lacrime. Elizabeth prese Mila sulle sue ginocchia. Accarezzandola maternamente, continuò: “Arthur, caro amico mio, hai portato quello che ti avevo chiesto?”

John ebbe un brivido, appoggiò con forza entrambe le mani sulle ginocchia per fermare il tremolio delle sue gambe. Il medico mormorò un sì debolissimo. Qualche settimana prima, quando ancora riusciva a camminare più a lungo, Elizabeth era andata allo studio di Arthur, aveva aspettato che i suoi pazienti fossero andati tutti via, ed era entrata. Cercando di apparire serena e ferma più che poteva, aveva chiesto al suo amico medico di aiutarla a morire. Lui aveva fatto finta di non capire, poi si era opposto, l’aveva implorata e supplicata, ma lei era stata irremovibile. Gli aveva chiesto qualcosa che potesse farla andare in un sonno profondo dal quale non si sarebbe più svegliata. Nel momento in cui gli aveva detto che si sarebbe rivolta a sconosciuti se lui non l’avesse aiutata, Arthur aveva ceduto. L’aveva riportata a casa ed era corso in canonica: non poteva portare quel peso da solo. Lui e John avevano fatto insieme tutte le ricerche per riuscire ad avere quanto richiesto dalla loro amica, e avevano trovato qualcosa che l’avrebbe addormentata tranquillamente come avrebbe fatto un qualsiasi normalissimo sedativo, ma lei non si sarebbe più svegliata.

Nelle settimane successive, Elizabeth sembrava quasi migliorata; andavano spesso a Stacey’s Lane e la trovavano sempre fuori in giardino: una volta che tagliava le rose appassite dai cespugli, un’altra che leggeva un libro sul dondolo con Mozart, Bach o Chopin in sottofondo, un’altra ancora che si azzardava a passeggiare quasi fino al grande albero. Lei li accoglieva sorridente, sembrava felice; Arthur e John non potevano sapere che le fitte erano sempre più frequenti, che le gambe di Elizabeth cedevano e le mancava il respiro. In loro presenza, Elizabeth era stata bravissima a fingere. Arthur e John non sapevano che nel suo passato era successo qualcosa che lei non aveva mai confidato a loro due. Un pomeriggio, però, li aveva chiamati al telefono e li aveva invitati a colazione per il giorno successivo. Alla fine della chiamata, aveva detto ad Arthur: “Porta con te ciò che ti ho chiesto”. Lui aveva tremato e capito. La mattina, quando era passato alla canonica per prendere John, non aveva avuto neanche la forza di salutarlo, lo aveva guardato sofferente e non c’era stato bisogno di parole.

“Elizabeth, cara, vuoi salire in camera da letto? Ti aiutiamo noi” disse John ad un certo punto, con un filo di voce.

“No, voglio rimanere qui in veranda, sul mio dondolo. Desidero che il mio ultimo sguardo prenda tutto insieme, una fotografia di ciò che più ho amato nella mia vita: voi due, i cespugli di rose e anche quelli in fondo di rododendro, Mila, i prati dove siamo stati tanto felici”. Poi proseguì: “Nel cassetto della scrivania troverete una lettera: ho lasciato a voi questa casa e la proprietà, vorrei che ne creaste un rifugio per giovani donne sole con un bambino da crescere, donne che come me si sono illuse o sono state ingannate dall’amore, ma al contrario di me hanno potuto far nascere la creatura che avevano in grembo”.

Fece poi un gran respiro e aggiunse: “Quando non ci sarò più, dovrete scendere in cantina, spostare quel vecchio divano marrone che era di mia madre e sollevare le assi del pavimento. Troverete un tappeto, arrotolato, ve ne dovrete liberare subito. Avvolti in quel tappeto ci sono i resti di colui che mi ha rovinato la vita”.

I due uomini balzarono in piedi. Erano senza parole. Gli occhi spalancati, non riuscivano a credere alle loro orecchie.

“Ma che dici, Elizabeth!” urlò Arthur. La gatta corse via, impaurita.

“Che tappeto? Di quali resti parli? Che cosa stai dicendo?” chiese John mentre stringeva in maniera convulsa il crocefisso che portava al collo.

“Sedetevi” disse lei, “vi porto un po’ d’acqua e vi racconto”.

I due uomini si guardarono, erano smarriti, poi la seguirono con lo sguardo e aspettarono che tornasse in veranda con dei bicchieri e una caraffa. Continuarono a fissarla, sbigottiti, senza proferire parola e portandosi l’acqua alla bocca in modo meccanico. Ad entrambi tremavano le mani. Elizabeth si sistemò sulla poltrona e iniziò a rivelare quanto aveva taciuto per anni e anni.

“Il giorno maledetto in cui rivelai a Marc di essere incinta, dopo aver ascoltato le sue accuse e sopportato tutta la sua ira, l’ho aggredito quando si era ormai girato per uscire per sempre da casa mia. Non mi ero neanche resa conto di aver preso in mano l’attizzatoio che era appoggiato al camino. Mentre era di spalle, l’ho colpito con tutta la forza che potevo. Non lo uccise il colpo in sé, ma il fatto che Marc, cadendo, aveva sbattuto la testa sul gradino. Passato un primo momento di disperazione, non so in che modo trovai la forza per avvolgerlo nel tappeto dell’ingresso e trascinarlo per le scale fino alla cantina. Qui c’erano delle assi del pavimento che avrei dovuto sistemare da anni, ma non lo avevo mai fatto. Questo mi tornò utile: le spostai, sotto c’era spazio a sufficienza per nascondere un cadavere. E così feci. Mi ricordai che avevo conservato dei sacchetti di calce avanzata da alcuni lavoretti svolti in precedenza. Misi un po’ di quella calce intorno, sopra e sotto al tappeto che avvolgeva il corpo. Lo sforzo era stato tale che, una volta tornata di sopra, ebbi delle fortissime fitte al ventre. Dopo pochi istanti sentii del liquido colarmi tra le gambe. Riuscii a telefonarvi prima di accasciarmi sul pavimento, proprio dove poi mi avete trovata”.

Arthur e John erano ancora senza fiato, si guardarono smarriti per qualche istante, poi le si avvicinarono e l’abbracciarono forte. Elizabeth si lasciò stringere per qualche istante, poi si sciolse dal loro abbraccio, li guardò con affetto e disse: “Ora è giunto il momento. Aiutatemi ad andarmene”.

 

foto da Comfreak by Pizabay

 




L’OTTAVA VITA di Nino Haratischwili

L’OTTAVA VITA

Di Nino Haratischwili

Ed. Marsilio Romanzi

 

Per iniziare a leggere un romanzo che conta 1129 pagine, il nostro animo deve essere particolarmente predisposto.

Dobbiamo essere consapevoli che entreremo dentro la storia: in questo caso una storia che dura un secolo e 8 vite.

Dobbiamo essere pronti a portarne il peso, anche nel senso letterale del termine: un tomo che pesa sulla braccia, è scomodo se si legge a letto, non si tiene aperto da sé e in cui a volte capita di smarrirsi, tante sono le pagine.

Dobbiamo essere cauti ad approcciare un romanzo così voluminoso, perché la lettura durerà giorni e, se ne verremo coinvolti, quando saremo giunti alla fine, ci sentiremo come persi.

 

 

Devo queste righe a un secolo che ha ingannato e raggirato tutti, tutti quelli che speravano.

Devo queste righe a un tradimento di lunga durata, che ha pesato sulla mia famiglia come una maledizione.

Devo queste righe a mia sorella, che non ho mai potuto perdonare per essere volata via quella notte senza ali, a mio nonno, al quale mia sorella ha strappato il cuore, alla mia bisnonna, che ha danzato con me molti pas de deux, a mia madre, che cercava Dio.

 

 

Quella di Nino Haratischwili è una scrittura veramente coinvolgente, ci trascina dentro il Secolo Rosso, periodo lungo e buio dove le 8 vite nascono, muoiono, si incrociano come la trama di un bellissimo tappeto.

Questa metafora utilizzata dalla scrittrice per iniziare il racconto è incredibile. Le 8 vite sono annodate tra loro come i nodi del tappeto che viene riportato alla luce per l’inizio di questa commovente saga familiare.

 

 

I tappeti sono intessuti di storie.

Quindi bisogna conservarli e averne cura.

Anche se questo, arrotolato da qualche parte, è stato lasciato per anni in pasto alle tarme, adesso deve rinascere e raccontarci le sue storie.

Sono certa che qui dentro siamo intessute anche noi, anche se non l’abbiamo mai sospettato.

 

 

Gli avvenimenti storici tra la nascita di Stasia, la prima vita, e quella di Brilka, l’ottava, si susseguono implacabili segnando una famiglia e un popolo.

La lettura di questo romanzo è veloce perché il ritmo è incalzante e lo stile fluido ma non banale; non ci si annoia, mai.

Tra storia e finzione si inserisce un po’ sottotono, sottile e velenoso, un elemento magico e misterioso: la ricetta segreta della cioccolata calda più buona che possa esistere.

Le protagoniste femminili, uno solo è l’attore maschile, creano una storia circolare la cui voce narrante apre e chiude l’anello.

Numerosi i romanzi che mi vengono in mente la cui struttura ricorda molto quella de L’ottava vita: a partire da Via col vento, passando per Cent’anni di solitudine per arrivare a La casa degli spiriti; non ultimo un fuggevole ma chiaro riferimento ad una delle storie d’amore più famose della letteratura: Anna Karenina.

Se riuscirete a non farvi spaventare dalla mole, sono più che certa che amerete moltissimo questo bel romanzo.

 

 

SINOSSI

 

La famiglia Jashi deve la sua fortuna alla ricetta segreta per una cioccolata calda molto speciale. Negli anni a partire dal 1900 fino ad arrivare al 2006, si snodano le tumultuose e drammatiche vicende di Stasia, Christine, Kostja, Kitty, Helene, Darja, Niza e Brilka, le cui vite danzano nel complicato e doloroso scenario del Secolo Rosso.

 

 




FIORI DI ZUCCA VESTITI

“UN MESE, UN PIATTO, UNA STORIA…”

APRILE: FIORI DI ZUCCA VESTITI

 

Credo che per ognuno di noi i fiori siano il simbolo per eccellenza della primavera: colorati e profumati trasformano giardini e terrazze in quadri naturali.

In natura molte sono le varietà di fiori commestibili, i più conosciuti ed utilizzati per numerose ricette, sono i fiori di zucca.

Gialli come il sole e delle giuste dimensioni, ben si prestano a varie cotture nonché a diverse “imbottiture”.

Chi di noi non conosce ed apprezza i classici e rinomati fiori di zucca fritti con ripieno di mozzarella e alici? Questo mese voglio però proporvi una ricetta gustosissima, ma che non pregiudicherà la prossima prova costume: fiori di zucca ripieni di ricotta e menta, vestiti con nastri di croccante pasta sfoglia e cotti in forno.

 

INGREDIENTI:

 

Fiori di zucca appena raccolti  (consideratene almeno 3 a persona)

Ricotta fresca

Menta

Pasta sfoglia rettangolare già pronta

2 uova

parmigiano

sale e pepe

 

PROCEDIMENTO:

 

Vi consiglio di utilizzare i fiori appena raccolti perché avrete meno difficoltà nel togliere il picciolo che si trova all’interno e a farcirli. Lavateli velocemente dopo aver tolto la maggior parte del gambo e le estremità appuntite alla base del fiore, oltre naturlamente al picciolo.

Metteteli ad asciugare su un canovaccio pulito tamponandoli delicatamente.

Preparate la farcia unendo alla ricotta 1 uovo, il sale, il pepe e la menta tritata; aiutandovi poi con un sacco a poche riempite i fiori richiudendoli arrotolando le punte dei petali.

Tagliate a strisce larghe un dito la pasta sfoglia e arrotolatele intorno al fiore ripieno in modo da fare un paio di giri.

Appoggiate i vostri “fagottini” sulla teglia rivestita di carta forno, spennellateli con l’uovo sbattuto, spolverizzateli con il parmigiano e infornate a 200° in forno caldo per una decina di minuti. Non perdeteli di vista perché la cottura è abbastanza veloce e devono rimanere dorati.

Sfornate e serviteli tiepidi, credetemi che riscuoteranno un bel successo!

Non è consigliata la conservazione dopo averli cotti perché la pasta sfoglia si ammollerà presto, potete comunque avvantaggiarvi nella preparazione anche di un giorno conservandoli crudi in frigorifero.

 

 

 




GLI ANNI DIFFICILI di Almudena Grandes

GLI ANNI DIFFICILI

Di Almudena Grandes

Ed. Guanda

 

 

 

Quando gli Olmedo arrivarono nella loro nuova casa, soffiava il levante.

Il vento gonfiava i tendoni di tela fino a staccarli dall’armatura d’alluminio e li lasciava cadere di colpo, un attimo solo, per poi risollevarli, producendo un rumore continuo, sordo e pesante come lo svolazzio di uno stormo di uccelli mostruosamente grandi.

 

L’incipit di questo romanzo ci presenta quello che poi si rileverà essere il trait d’union della storia: il vento.

Il levante è un vento potente, capriccioso, indomabile che può influenzare le vite degli esseri umani; può abbattere le persone, farle volare, cadere e ancora risollevare come i tendoni di tela delle verande.

Almudena Grandes, con la sua penna vigorosa, ci introduce nella vita di due famiglie fuggite da Madrid e dai loro segreti, per rifugiarsi dietro alle mura delle loro nuove case sulla costa.

Una storia intricata e densa questa de Gli anni difficili, i cui ripetuti flash back e cambi di voce narrante, occupano il lettore dalla prima all’ultima frase. La lettura invece, fila via grazie alla potenza narrativa di questa scrittrice madrilena, purtroppo scomparsa da poco tempo.

Il sentimento che permea tutta la storia non è però la vendetta o la paura, come a prima vista potrebbe sembrare.

Ciò che fuoriesce dalle parole dei protagonisti è, in verità, la ricerca di un riscatto, di una rinascita, di una vita che possa regalare serenità ad animi tormentati per troppo e troppo tempo.

 

 

…ma pensava tante volte agli Olmedo, a Sara, alla madre, come a persone isolate in un paese estraneo, in un bosco, su una zattera, in uno di quegli aeroporti complicati e grandissimi […], persone smarrite che solo conoscendosi piano piano a vicenda avevano iniziato a salvarsi…

 

 

Per persone come me che leggono tanti libri, non è difficile trovare rimandi a storie lette: già dall’inizio il vento mi ha fatto pensare ad un libro letto molti anni fa: Chocolat di Joanne Harris. In questa storia il vento del Nord era quello che preannunciava cambiamenti.

Poi, proseguendo la lettura, e iniziando a conoscere la storia di Sara Gomez, la mia mente è andata all’ Arminuta, la cui protagonista è stata sradicata dalla famiglia di origine per essere cresciuta da parenti benestanti. Anche lei verrà poi riportata dai suoi genitori nel complicato momento dell’adolescenza.

Gli anni difficili può risultare a tratti un po’ prolisso e impegnativo, ma l’abbondanza delle descrizione degli stati d’animo ha semplicemente l’intento, ben riuscito, di trasportare il lettore nella mente e nei pensieri dei protagonisti.

 

 

 

SINOSSI

 

Juan Olmedo e Sara Gomez sono due vicini di casa  in un complesso residenziale a Rota, un paese sulla costa di Cadice. Entrambi vengono da Madrid e si sono lasciati alle spalle un passato di amori contrastati e di sofferenza.

Juan ha vissuto un amore impossibile per la moglie di suo fratello dalla quale ha avuto una bambina. Sara, a sua volta, sottratta da bambina alla sua famiglia di origine per essere cresciuta da una famiglia dell’alto borghesia per poi essere rispedita alla casa natale, in cui oramai è un’estranea.

Ma tutto può cambiare.