San Benedetto in Piscinula

 

Un minuscolo angolo di fede medievale a Roma

 

 

Lasciamoci stupire da un luogo davvero inaspettato, tanto piccolo quanto denso di memoria!

A Roma si trovano chiese di ogni formato.

Prevalgono, nella memoria dei turisti e dei romani più frettolosi, le chiese più grandi, quelle che fanno colpo.

Le prime a fare colpo sono le famose Sette Chiese, che compongono un famoso itinerario spirituale e devozionale.

Parliamo delle quattro basiliche maggiori (San Pietro, Santa Maria Maggiore, San Giovanni e San Paolo Fuori le Mura) e delle tre basiliche minori (San Sebastiano sulla via Appia, Santa Croce in Gerusalemme e San Lorenzo Fuori le Mura).

 

A fronte di queste e di numerosissime altre chiese grandiose e ricche di opere d’arte, esistono a Roma molti piccoli angoli di culto quasi nascosti che, una volta trovati, ti accolgono dandoti la sensazione di essere una tua personale conquista.

 

Questo è il caso della minuscola chiesa di San Benedetto in Piscinula.

 

San Benedetto in Piscinula, interno. Foto da AraldidelVangelo

 

 

La chiesa si trova in Trastevere ed è un vero gioiellino.

Come trovarla?

Appena attraversata l’Isola Tiberina, si supera il Ponte Cestio e si raggiunge il Lungotevere.

Di fronte, tra le automobili, occhieggia già un’affascinante prospettiva medievale, che si apre in una piazzetta: piazza in Piscinula.

La piazza, come la chiesa, si chiama così per richiamare un’antica memoria non certissima, forse legata alla presenza, in quest’area, dei ruderi di piscine termali romane.

In un angolo della piazza, la chiesetta si presenta con una modesta facciata neoclassica, ma all’interno ha conservato il suo aspetto romanico e tutta la stupefacente atmosfera di un piccolo oratorio medievale.

La facciata della chiesa romanica fu sostituita prima da una facciata seicentesca e poi da questa neoclassica nel 1844 ad opera della famiglia Massimo e su progetto di Pietro Camporese il Giovane.

In origine doveva esserci qui il nartece, ossia il tipico portico a colonne della chiesa romanica.

Questo angolo di Roma ci riporta alla memoria la storia di San Benedetto da Norcia, fratello di Santa Scolastica.

Egli era nato a Norcia da una nobile famiglia di origine romana, appartenente alla antica gens Anicia, intorno al 480, subito dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente.

Suo padre, Eutropio, ricopriva la carica di Console e Capitano Generale dei Romani nella regione di Norcia, mentre la madre era Abbondanza Claudia de’ Reguardati di Norcia.

Date le nobili origini, Benedetto venne mandato a studiare a Roma, all’età di dodici anni, avviandosi agli studi letterari e giuridici, accompagnato dalla nutrice Cirilla, cui era stato affidato dopo la morte della madre, con la sorella Scolastica

L’esperienza romana fu breve.

 

La città gli appariva corrotta e dissoluta

 

Quindi a diciassette anni se ne andò per rifugiarsi in un territorio della valle dell’Aniene, oggi corrispondente ad Affile.

Di qui in avanti si aprì la sua vicenda gigantesca di monaco santo che lo portò a compiere miracoli, a elaborare la regola monastica benedettina, a fondare monasteri.

Ma tornando agli anni romani, sappiamo che Benedetto abitò probabilmente nella domus Aniciorum, proprietà del padre, in Trastevere.

Sappiamo che la sua giovane fede lo portava a cercare luoghi di preghiera solitari.

Proprio dove ora è la chiesetta di San Benedetto in Piscinula, c’era una piccola cella dove Benedetto si rifugiava in preghiera.

 

Ebbene, la Cella Benedicti c’è ancora ed è conservata presso la chiesa.

Si tratta di un luogo minuscolo e molto stretto cui si accede attraverso un portale cosmatesco.

L’origine della chiesa di San Benedetto in Piscinula è strettamente legata a questa cella.

 

Cella di San Benedetto. Foto da Miaroma.it

 

Nel secolo VIII, accanto a questo santo luogo dove il giovane Benedetto pregava, fu costruito un oratorio.

Nel 1084 l’oratorio subì, come tutta Roma, il saccheggio di Roberto il Guiscardo e poi nel 1192 venne costruita la chiesa romanica, dapprima dedicata alla Madonna e in seguito intitolata a San Benedetto.

Dunque, ecco a Roma una memoria importante e semisconosciuta del passaggio di questo santo tanto antico e tanto importante.

Non si può perdere l’occasione di entrare, come piccoli conquistatori, in questo minuscolo scrigno sospeso nel tempo.




ISOLA TIBERINA: le origini e la vocazione medica nel segno di un dio

L’Isola Tiberina delle origini e la vocazione medica nel segno di un dio

 

Uno degli scorci romani più rappresentati, in disegno, pittura, fotografia, video, è la famosa Isola Tiberina.

Tra storia e leggenda, essa s’impone nell’immaginario comune per la sua insostituibile funzione scenografica.

Ma salta anche all’occhio di ogni osservatore la sua posizione strategica di guado naturale del Tevere.

 


isola-tiberina.-foto da-RomanoImpero.

 

Grazie a tale posizione, l’isola costituì il luogo dei primi rapporti commerciali che favorirono la nascita di Roma.

 

 

La forma di una nave

L’isola prende il nome dal suo fiume, che prima di chiamarsi Tevere, ebbe nomi antichissimi, come Albula, Serra, Tarentum, Coluber, Rumon e infine Tiberinus, che deriverebbe dal nome del figlio di Ascanio e nipote di Enea che qui sarebbe morto.

 

Isola Tiberina. Foto da Vistanet

 

La forma dell’isola è rastremata e snella, lunga 300 metri e larga 80 metri.

Una leggenda narra che l’isola sia sorta sui resti di una nave lì affondata, tra le tante imbarcazioni che anticamente risalivano il corso del fiume per raggiungere dal mare le genti dell’interno, portando le merci più varie.

Proprio per questo in tempi storici le fu data la forma di una nave: i fianchi furono rivestiti di travertino, mentre da un lato c’era la prua e dall’altro la poppa di una nave.

Di questa risistemazione oggi restano pochi resti, molto suggestivi in verità.

Secondo un’altra leggenda, nel 509 a.C., cacciato l’ultimo re, Tarquinio il Superbo, il popolo romano gettò qui le messi dell’Ager Tarquiniorun, covoni di grano sottratti ai possedimenti che i Tarquinii, ormai decaduti, avevano presso il Campo Marzio.

Intorno a questa massa di covoni si sarebbe sviluppata l’isola, che divenne tanto alta da favorire successivamente la conservazione dei cereali in appositi magazzini.

 

La prima menzione dell’Isola Tiberina

 Nonostante l’antichità della frequentazione, stranamente, la prima menzione dell’isola sui documenti antichi risale solo al 292 a.C.

Fu in occasione di una terribile peste a Roma.

Vennero consultati i Libri Sibillini, testi oracolari di antichissima origine.

Seguendo l’oracolo, fu inviata una delegazione in Grecia, a Epidauro, sede del culto di Esculapio, il cui nome greco era Asclepio.

Al ritorno, la nave con la delegazione riportò dalla Grecia un serpente sacro al dio.

All’arrivo, il serpente si tuffò prodigiosamente nel fiume e strisciò sull’isola.

L’evento venne interpretato come la sacra scelta di Esculapio: l’Isola doveva diventare il suo santuario medico a Roma.

Venne così realizzato e dedicato un tempio con un grande porticato e una vasta area santuariale.

 

Isola Tiberina. Foto da Flickr

 

 

Il Santuario di Esculapio

Il Santuario era un vero e proprio centro di cura.

Entro il porticato venivano curati e assistiti gli ammalati, che venivano accolti quale che fosse la loro provenienza.

Tra le cure più comuni si praticava l’idroterapia, facendo bere ai malati un’acqua acidula salutare, grazie probabilmente a una fonte presente sull’isola.

L’altra cura tradizionale era l’incubatio, ovvero la cura del sonno.

Finora gli archeologi non hanno rinvenuto alcuna traccia del santuario, di cui parlano abbondantemente le fonti letterarie.

Probabilmente il tempio si estendeva nel luogo ove ora sorge la chiesa di San Bartolomeo all’Isola.

Nella chiesa è conservato un pozzo medievale, forse riconducibile all’antica sorgente di Esculapio.

Molti buoni motivi sostennero la scelta antica di questo luogo per il culto medico: l’isola si trovava fuori dalle mura ed era quindi adatta a ospitare un culto straniero e a curare malati anche stranieri, anche schiavi.

La presenza di una sorgente assicurava abbondante acqua corrente.

La posizione favoriva l’isolamento in occasione di epidemie.

 

I ponti e la vocazione medica

I primi ponti di accesso all’isola furono realizzati in tempi storici, prima in legno, poi in muratura.

Oggi si giunge all’Isola Tiberina attraversando il Ponte Cestio o il Ponte Fabricio, carichi di storia e di aneddoti.

E incredibilmente si perpetua sull’isola l’originaria vocazione medica attraverso il famoso e stimato Ospedale Fatebenefratelli!




IL SACRO BOSCO DI BOMARZO, IL PARCO DEI MOSTRI E I GATEKEEPERS

IL SACRO BOSCO DI BOMARZO

IL PARCO DEI MOSTRI E I GATEKEEPERS

Proteo Orco Bomarzo
Foto da Elle Decor.it

 

 

Nella provincia di Viterbo esiste un luogo nel quale le favole prendono corpo e si mescolano con la natura.

E’ il Sacro Bosco di Bomarzo e risale al secolo sedicesimo.

Il Parco dei Mostri di Bomarzo

Fu un principe a ideare il Sacro Bosco, detto anche Parco dei Mostri oppure Villa delle Meraviglie: il principe Pier Francesco Orsini, chiamato Vicino Orsini.

Egli volle creare un luogo onirico in cui immergersi “sol per sfogare il core” e lo chiamava semplicemente “Boschetto”.

In tal modo voleva celebrare la memoria della perduta moglie, Giulia Farnese, omonima, ma meno famosa della bella Giulia Farnese, l’amante del papa Alessandro VI Borgia.

Il dolore per la morte della moglie, mescolato a un particolare gusto per l’enigma, per il mistero, diede luogo a una straordinaria creazione, a uno spazio concepito per perdere i punti di riferimento e quasi contraddire le leggi di natura.

L’architetto chiamato a realizzare questo sogno fu Pirro Ligorio

Questi, antiquario e profondo conoscitore delle simbologie alchemiche, incastonò, in un bosco di conifere e latifoglie di circa 3 ettari, un’articolata serie di sculture in basalto.

Il percorso si snoda così tra personaggi, animali mitologici, strani edifici sbilenchi, iscrizioni enigmatiche.

Il bosco si anima di presenze inquietanti e immagini curiose.

Vale dunque davvero la pena fare questa meravigliosa passeggiata di un paio d’ore, immersi nel verde.

Passeggiando, si viene rapiti in un mondo fiabesco, straniante, circondati da sculture che in alcuni casi sembrano dei guardiani posti lì a salvaguardia di segreti e dimensioni esoteriche che si possono conoscere solo quando si è pronti.

Come le due Sfingi, che accolgono il visitatore all’inizio del percorso, rappresentate come donne col corpo di leone.

E come Proteo (o Glauco), il famoso mascherone terrificante

 

Varcare soglie

 Di fronte a questi custodi di pietra ricordiamo che l’uomo su questa terra è chiamato continuamente a “varcare soglie”, nell’infinito procedere sulla strada della sua evoluzione, sia sul piano materiale che su quello spirituale.

Da sempre egli affronta il mare, valica montagne, attraversa deserti e immensi spazi alla ricerca di terre ignote.

In tutte le fasi di passaggio della sua vita, fin da bambino, egli varca soglie di crescita, di evoluzione fisica, mentale, psicologica, materiale, spirituale.

E nei miti, come nelle favole, la conquista, la vittoria, il lieto fine sono spesso ostacolati da mostri, da draghi, da nemici da sconfiggere per giungere alla propria meta: essi sono i guardiani della soglia.

 

Guardiani della soglia

Sfinge
Foto da epoch times italia

 

 

Guardiano della soglia, nel mito, è la Sfinge, che nega l’accesso a piani superiori di coscienza fino a quando non siamo pronti a sciogliere i suoi enigmi.

Guardiano della soglia è il Drago, che nel simbolismo medievale forse non è altro che il nostro sé inferiore.

Sembrano essere guardiani della soglia le tre fiere che Dante affronta nella Divina Commedia, all’inizio del suo viaggio: l’uomo non vede le sue qualità vere finché è attaccato alla sua natura inferiore.

Nel nostro tempo tale meccanismo si perpetua nelle vicende di ogni individuo, ma talvolta alcuni significati vanno purtroppo immiserendosi.

E’ il caso del “Gatekeeper”.

 

 

Il guardiano della soglia
Foto da Scienze astratte.it

Gatekeeper

Il termine “gatekeeper” significa “custode del cancello” e viene preso in prestito da una teoria sociologica elaborata nel mondo anglosassone negli anni Quaranta.

Il concetto è piuttosto ricorrente in questi giorni, soprattutto nel mondo della politica.

Definisce negativamente figure, partiti, movimenti, organizzazioni in grado di raccogliere la protesta, il profondo malcontento della gente, al fine di blandire gli animi promettendo soluzioni.

Con questa strategia, si cerca di neutralizzare le energie del dissenso, distraendo il pensiero dalla ricerca di vere soluzioni per risolvere i problemi.

In questa veste, il gatekeeper opera per convincere i propri interlocutori che i loro problemi sono accolti e verranno risolti.

In tal modo, il pubblico viene distolto dall’”entrare nel cancello”, cioè, dal “varcare la soglia” di una vera coscienza dei problemi, cosa che renderebbe la protesta costruttiva.

Il film “Quarto potere” di Orson Welles offre un potente esempio per comprendere la sottigliezza con cui opera questo sistema, dimostrando come i mezzi di informazione e comunicazione abbiano un potere immenso sulle masse e le possano condizionare e guidare, distraendo o attraendo l’attenzione su temi e problemi, secondo convenienza, in modo anche non troppo nascosto.

Entrare in crisi

Dunque, collegando i diversi piani della nostra riflessione, possiamo dire che il percorso umano è pieno di impedimenti e manipolazioni che ostacolano l’evoluzione della coscienza.

Succede però che nella vita di ciascuno si aprano momenti di crisi, parola molto bella, che significa “scelta, decisione” ed è un segnale necessario per “varcare una soglia” e procedere verso piani più elevati della nostra esistenza.

E’ allora che il guardiano della soglia entra in azione, ci distoglie, ci distrae, ci impaurisce, tenta di neutralizzare la potenza del momento usando mezzi di grande sottigliezza.

Questi momenti, se ben gestiti, possono trasformarci in eroi e regalarci una vita straordinaria.

 

 

 




Le quattro fontane di Roma

Cercare il fresco a Roma tra fontane e fontanelle

 

Conosci le Quattro Fontane di Roma?
Nell’estate rovente, durante l’interminabile ricerca del fresco in città, potresti capitare nelle vicinanze delle Quattro Fontane.
Nonostante l’insopportabile caldo estivo di Roma, migliaia di turisti e di romani non cessano di riempire le piazze e le strade bollenti del centro della Città Eterna. Anche nei giorni più caldi, migliaia di turisti non rinunciano al piacere di una vacanza indimenticabile. Anche nei giorni più caldi, migliaia di romani non possono sottrarsi al dovere di un lavoro a ferie ridotte. E così, cercare il fresco a Roma diventa una parola d’ordine per tutti. E per tutti si attiva un meccanismo straordinario, tipicamente romano.

 

Quattro Fontane, Sovraintendenza Capitolina

 

 

Una mappa tutta romana
Una mappa di canori zampilli rinfrescanti si disegna nella testa e nel cuore di boccheggianti viandanti che, guidati dalle più diverse motivazioni, migrano verso fontane e fontanelle e le popolano. Roma è famosa le sue mille fontane e fontanelle, che oggi sono lì ancora a ricordarci l’abbondanza delle acque che attraversavano la città antica. L’antica Roma si giovava infatti di ben undici acquedotti, cui se ne aggiunsero altri cinque a partire dall’età rinascimentale fino all’età moderna. Dunque, in questi giorni torridi, a gruppi o in solitudine, in tanti cercano il fresco convergendo nei punti focali di questa rete, di questa mappa tutta romana.

 

Fontane e fontanelle
Ci si ferma volentieri presso le numerose fontane monumentali, a volte gigantesche, come il Fontanone, cioè la Fontana dell’Acqua Paola, o la Fontana di Trevi, mostra dell’acquedotto Vergine, o la Fontana dei Quattro Fiumi, altra mostra dell’acquedotto Vergine e mille altre fontane d’arte presso cui rinfrescarsi godendo della grande bellezza

Moltissimi si fermano a bere e a bagnarsi anche presso i nasoni, cioè le fontanelle pubbliche in ghisa, dal rubinetto ricurvo come un nasone, che si incontrano a decine presso gli incroci e le strade, dal centro alla periferia.

 

Le Quattro Fontane di Roma
Cercare il fresco a Roma muove così le persone anche verso le famose Quattro Fontane, che si trovano nel quadrivio che da loro prende il nome e costituiscono un organismo vero e proprio. Siamo nel punto di incrocio della Strada Felice con la Strada Pia: sono i nomi originari di due strade che furono intitolate ai papi che le realizzarono.

 

Quattro Fontane; M. Vasi – Catawiki

 

 

Strada Felice
Il papa Sisto V, Felice Peretti, fece costruire la Strada Felice. Questa collegava e collega ancor oggi Trinità dei Monti, la magnifica chiesa in cima alla Scalinata di piazza di Spagna, con la basilica di Santa Croce in Gerusalemme, passando per la basilica di Santa Maria Maggiore. Il nome originario di Strada Felice è oggi sostituito da tre nomi, in quanto la lunga strada fu suddivisa nel tempo in Via Quattro Fontane, Via Sistina e Via Agostino Depretis.

 

Strada Pia
La Strada Pia prende invece nome da papa Pio IV, Giovanni Angelo Medici di Marignano e fu realizzata per collegare il Palazzo del Quirinale, che era sede del Papa, con la omonima Porta Pia. Dopo l’Unità d’Italia il nome originario di Strada Pia venne sostituito da due nomi, in quanto la strada fu divisa in due tratti: Via XX Settembre e Via del Quirinale.

 

Prospettiva dalle Quattro Fontane
Il centro dell’incrocio, spesso assolato e anche molto trafficato, offre una particolare prospettiva. Per vederla bene ti devi mettere proprio al centro dell’incrocio, facendo molta attenzione al traffico. Guardando verso l’orizzonte delle quattro arterie stradali, si possono vedere allineati in lontananza tre obelischi e la facciata interna della michelangiolesca Porta Pia. Lungo l’asse della Strada Felice vedrai da una parte l’obelisco Sallustiano di Trinità dei Monti sul Pincio e dall’altra quello Liberiano di Santa Maria Maggiore sull’Esquilino. Lungo l’asse della Strada Pia vedrai da un lato l’obelisco della Fontana dei Dioscuri sul Quirinale e dall’altro capo, il lato interno di Porta Pia. Questo è anche il punto di unione di ben tre rioni di Roma: Trevi, Monti e Castro Pretorio.

 

Un po’ di storia
Costruite tra il 1588 e il 1593, le Quattro Fontane erano alimentate dall’Acquedotto Felice, l’ex Acquedotto Alessandrino restaurato da papa Sisto V, Felice Peretti.
Questo papa, giovandosi del talento del grande architetto Domenico Fontana, ci ha lasciato eredi della cosiddetta “Roma Sistina”, un vasto progetto di ottimizzazione e monumentalizzazione degli spazi che cambiò per molti versi il volto della città. Tra gli scopi del papa c’era quello di consentire la distribuzione dell’acqua nei vari rioni di Roma, a beneficio del popolo. Dunque, l’incrocio delle Quattro Fontane era strategico per tale progetto e di lì nacque l’idea di utilizzare le costruzioni che già si trovavano ai quattro angoli per realizzare quattro nicchie entro cui collocare quattro fontane. Per amore della simmetria, si pensò a due figure maschili e due figure femminili e in particolare a due fiumi e a due divinità.

 

Procediamo in senso orario
La Chiesa di S. Carlino, capolavoro del Borromini, mostra sul muro che affaccia su via delle Quattro Fontane l’iscrizione che indica il castellum aquae dell’Acquedotto Felice, per la riserva, la decantazione e la distribuzione dell’acqua. Sull’angolo troverai la fontana col Fiume Tevere, sul lato del Rione Monti. All’angolo del Palazzo Mattei-Albani-Del Drago ti aspetta il Fiume Arno. Eccoci alla Fontana di Giunone all’angolo del Palazzo Volpi-Galloppi, per concludere con la Fontana di Diana, all’angolo del Giardino Barberini. Da notare che le fontane furono eseguite a spese dei proprietari dei terreni limitrofi in cambio di concessioni gratuite dell’Acqua Felice. Varie ipotesi ancora sono aperte riguardo agli autori: ci sarebbe un autore per ogni coppia di analogo soggetto,

Gli studiosi pensano a Domenico Fontana, a Pietro da Cortona per la Fontana di Diana, a una collaborazione del Bernini per i fondali delle nicchie delle Fontane di Giunone e del Tevere.

Di certo, l’esperienza di questo spettacolare angolo barocco ti rimarrà negli occhi e nel cuore, nonostante i caldi bollori di questa torrida estate.




MINERVA TRITONIA

Minerva Tritonia V sec. a.C. Wikicommons

 

La Minerva Tritonia

 

Fascino arcaico e sensuale al Museo Archeologico Lavinium

 

Se stai al mare sulle coste di Torvaianica o se ti aggiri in zona per i più diversi motivi, potresti provare

un’emozione forte e sensuale, arcaica e terribile percorrendo solo pochi chilometri.

Sì, un incontro speciale è pronto per te se ti recherai presso il Museo archeologico Lavinium, a Pratica di Mare, presso Pomezia.

Varcando la soglia del museo, ti accorgerai ben presto di essere entrato in uno scrigno preziosissimo, i cui tesori meritano tutti di essere conosciuti e approfonditi.

Ma il particolare fascino arcaico e sensuale che ti colpisce è tutto concentrato in lei e da lei promana.

 

Lei, Minerva Tritonia

Lei è Minerva, ovvero la greca Pallade Atena, dea della Sapienza e della Strategia bellica, dea protettrice e terribile al tempo stesso.

Lei è qui che aspetta il solerte turista così come il pigro bagnante, il fine studioso come la famiglia di passaggio, le scolaresche come i gruppi in visita culturale, per lasciare in ciascuno il segno di un incontro indimenticabile.

Si tratta di una statua chiara in terracotta con tracce di colore, del V sec. a.C.

È chiamata Minerva Tritonia perché al fianco, la accompagna un tritone, elemento molto raro nelle rappresentazioni di Minerva, che si riferisce a una leggenda poco nota, secondo cui la dea sarebbe stata allevata vicino a un fiume chiamato Tritone.

 

Minerva Tritonia. Ass.Rotta di Enea

 

Virgilio

Il particolare del tritone ci riporta al poeta Virgilio.

Egli nell’undicesimo libro dell’Eneide ci dona i bellissimi versi di invocazione alla dea, chiamandola

“Armipotens, praeses belli, Tritonia Virgo”, cioè “Vergine Tritonia, potente di armi, dea della guerra”.

Gli occhi di Virgilio, mentre cercavano l’ispirazione per creare l’Eneide, che scrisse tra il 26 e il 19 a.C., devono aver visto proprio questa statua di Lavinium, che si presenta con il tritone, suo rarissimo attributo.

 

Ventisei secoli di vita

Realizzata nel V sec. a.C., la Minerva Tritonia ha oggi 26 secoli.

Fu a lungo regina del suo santuario che qui sorgeva per accogliere i cosiddetti

riti di passaggio:

fanciulli e fanciulle lasciavano qui la loro infanzia, simboleggiata da giochi e oggetti da bambini, per accedere all’età adulta, al matrimonio, alla fecondità sotto lo sguardo e la protezione della dea.

Circondata da moltissime statue ex-voto, Minerva venne infine sepolta in un deposito votivo, quando il santuario fu abbandonato, per ragioni sconosciute.

Finchè, alla fine degli anni settanta, fu ritrovata in pezzi, insieme ad altre circa cento statue conservate nel medesimo deposito e fu accuratamente restaurata dalla professoressa Maria Fenelli, che da poco ci ha lasciato.

Una targa, posta quest’anno, in occasione del 17° anniversario dell’apertura del Museo archeologico Lavinium, ci riporta proprio le commosse parole di Maria Fenelli in merito al ritrovamento della Minerva Tritonia:

“La statua è entrata nella mia vita la mattina di un sabato di ottobre 1977, quando ne sono emersi dalla terra i primi frammenti e non ne è più uscita.”

 

Minerva Tritonia, gorgoneion. picasa

 

Fantastici dettagli

Ora onoriamo Minerva Tritonia osservando i fantastici dettagli, che rappresentano i tipici attributi della dea.

Ha un alto elmo imponente.

Indossa una corazza ornata da squame, con al centro il gorgoneion, cioè la testa della gorgone medusa.

Reca un grande scudo ovale profilato da serpenti, quadrupedi e uccelli e inciso esternamente da crescenti lunari.

E’ fasciata da un sensuale chitone (antica veste leggera) che scende in fitte pieghe fino ai piedi calzati da sandali.

Il tritone, al suo fianco, ci richiama la virgiliana Tritonia Virgo di cui abbiamo parlato.

E così, come Virgilio, hai l’onore anche tu di riporre nella tua memoria una delle più belle emozioni che ci possa regalare un mondo così arcaico e quasi del tutto perduto.




Lo strano caso dell’extraterrestre che è in te

Desta l’extraterrestre che è in te

Incontri ravvicinati con l’implacabile, aliena bellezza del Fontanone di Roma

 

Fontanone in notturna.
Pinterest

 

C’è in noi un’anima “extraterrestre”

Un’anima, cioè, che sa guardare il mondo con occhi nuovi.

Ed è un’anima molto sapiente.

Anche se non ce ne accorgiamo, essa ci abita e sa quando emergere, aprendo il nostro sguardo e lasciandoci poi immersi nello stupore.

 

Lo spirito camminatore

Destare l’extraterrestre che è in noi si può ed è un’esperienza ludica che di questi tempi fa molto bene: ve la consiglio.

Non è poi così difficile: un modo è lasciarsi guidare dal proprio spirito camminatore, che sa sempre come raggiungere, nelle sue vicinanze, un luogo sospeso tra spazio e tempo.

Un luogo eletto, magari conosciuto da sempre, ma da vivere come un’esperienza totalmente nuova.

E noi, sospesi sul cielo di Roma in un’atmosfera straniante, intraprendiamo la nostra esperienza da extraterrestri.

 

Er Fontanone

Siamo sopra Trastevere, presso l’alto colle del Gianicolo, di fronte alla Mostra terminale dell’Acquedotto Traiano-Paolo, chiamata dai Romani “er Fontanone”.

Certo, questo non è proprio un luogo “dimenticato”.

È invece famosissimo: un panorama mozzafiato giace ai piedi di questa spettacolare fontana, voluta dal papa Paolo V Borghese.

 

Fontanone – Mostra/Fontana dell’Acquedotto Traiano-Paolo.
Wikipedia

 

Sospensione spazio-temporale

Entriamo in un vero e proprio vortice di sospensione spazio-temporale…

Come veri visitatori alieni, giriamo lentamente su noi stessi, in preda a un’emozione sconvolgente.

A 360 gradi ci avvolge un’implacabile, superba bellezza, indifferente a ogni umana miseria.

Ci raggiunge, come un’eco lontana, la suggestiva melodia sacra che, nelle prime scene del film “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, sfocia in un tragico epilogo, con il turista giapponese colto da infarto mentre scatta una foto al sublime, indescrivibile scenario di Roma.

Il Fontanone è per sua natura una grandiosa scena teatrale: il simbolo perfetto della Roma papale e barocca.

Il messaggio di un potere ecclesiastico grandioso e temibile arriva chiaro anche all’extraterrestre che è in noi, trasmettendo vibrazioni, suoni, profumi, luci che hanno un sapore eterno.

 

Draghi e aquile

Fontanone. Particolare del Drago, emblema del Papa Paolo V Borghese.
Roma interactive

Draghi e aquile, gli emblemi del papa Paolo V Borghese, si rincorrono ripetutamente sul monumento.

Nel 1612 il papa volle ripristinare l’antico acquedotto di Traiano, che dal 109 d.C. portava l’acqua a Roma per l’approvvigionamento idrico dell’area di Trastevere, partendo dal Lago di Bracciano.

Purtroppo, i condotti antichi erano stati “tagliati” e resi inutilizzabili più volte durante le invasioni dei barbari a Roma, a cominciare dall’assedio del 537 da parte di Vitige, capo dei Goti.

L’antica, crudele regola era infatti questa: se vuoi conquistare una città, la devi assetare.

L’acquedotto, dunque, venne ripristinato dopo 10 secoli e prese il nome di Acqua Paola, dal papa Paolo V.

La realizzazione della grande mostra terminale dell’acquedotto Traiano-Paolo fu affidata agli architetti Giovanni Fontana e Flaminio Ponzio e allo scultore Ippolito Buzio.

L’opera presenta cinque arcate monumentali, incorniciate ai lati da colonne e in alto da una grande iscrizione dedicatoria.

Come per tantissimi monumenti della Roma dei papi, per realizzare il Fontanone furono utilizzati materiali di reimpiego presi da solenni opere della Roma antica ormai decaduta.

I marmi vengono dal Foro Romano e dal Foro di Nerva.

Le colonne in granito giungono dall’antica Basilica di San Pietro.

 

Il Fontanone – uno sguardo dall’interno.
EventiRoma

 

Profumo di pane

Intanto, alle nostre narici aliene giunge un leggero profumo di pane che, incredibilmente, arriva qui in alto, salendo da qualche forno trasteverino.

E’ tempo di tornare terrestri, di lasciarsi alle spalle questa meravigliosa quinta teatrale per scendere verso Trastevere, alla ricerca di un buon pezzo di pizza…

 

 




Il brand di Caravaggio

IL BRAND DI CARAVAGGIO

 

Cos’è il brand?

E che c’entra Caravaggio, il grande pittore vissuto tra il 1571 e il 1610, col concetto di brand?

 

Conversione di San Paolo, Caravaggio.
Foto cosafarearoma.it

 

Brand

Brand è una parola del tedesco antico e vuol dire “fuoco”, evoca l’immagine del “marchiare a fuoco”.

È evidente il collegamento con il termine “marca”. E con il termine “marchio”.

Nel mondo commerciale e imprenditoriale, “brand” è la combinazione di elementi come nome, logo, slogan, storia, valori, comunicazione, reputazione di un’azienda.

Una combinazione costruita in modo consapevole, su cui si gioca la maggiore o minore fidelizzazione del “consumatore”, del cliente.

Brand risponde al concetto di “marca”, che è qualcosa di diverso dal “marchio”.

 

Il marchio si deposita

Il marchio, come sappiamo, è un oggetto molto concreto, che si formula come risultato finale e simbolico di un percorso creativo relativo alla commercializzazione di un prodotto o di un servizio e infine si deposita,

allo scopo di tutelare l’originalità e la proprietà dell’idea, del prodotto, del servizio.

 

Brand e marca sono intangibili

Invece, “brand” e “marca” sono elementi intangibili.

Hanno a che fare con l’immagine che si costruisce di sé, della propria attività, della propria affidabilità, della propria storia, dei propri valori.

Hanno bisogno di molto tempo di sedimentazione e sono in continua evoluzione.

 

Anche tu esprimi un brand

Ora, proviamo a uscire dal piano esclusivamente commerciale e consumistico.

Se mettiamo la questione sul piano squisitamente umano, ti do una notizia: anche tu, sì, proprio tu che leggi, esprimi un brand, che tu lo sappia o no.

E già, perché, umanamente parlando, potremmo dire che in ogni tuo modo di essere, in ogni tuo comportamento, esprimi la tua “sostanza”, i valori in cui credi, come vuoi che ti percepiscano gli altri.

In altre parole, esprimi il tuo “brand”, forse inconsapevole, cioè l’immagine che trasmetti agli altri, la tua credibilità, la tua reputazione.

 

Brand è anima

In ultima analisi, brand è anima.

Infatti, nel mondo aziendale, i brand che funzionano meglio sono quelli più “sinceri”, quelli che riescono a “parlare” al consumatore dei valori, dei più alti obiettivi di un’impresa.

I brand che funzionano meglio sono quelli che esprimono brillantemente l’anima dell’uomo, della donna, delle donne e degli uomini che guidano l’azienda, che ne portano avanti le idee.

 

Michelangelo Merisi da Caravaggio

Se brand è anima, allora possiamo accorgerci del brand di Caravaggio.

Pictor praestantissimus, ovvero, il pittore più prestante della sua epoca, è un artista estremamente riconoscibile e non solo per i suoi cultori.

La vita di Caravaggio fu un succedersi di vicende maledette,

ma anche di fortunati incontri con veri e propri mecenati, affascinati dalla sua arte.

Eppure né l’adulazione, né le avversità, né gli eccessi, né la fuga cui fu costretto negli ultimi anni della sua vita, inseguito dalla pena di morte, riuscirono mai a distrarlo dal suo rigore pittorico, geniale e rivoluzionario.

Avrebbe potuto, per interesse o per disperazione, seguire strade espressive molto più comuni e tirate via.

Ma il suo brand si è imperiosamente imposto su ogni necessità.

Gli era impossibile venir meno all’istanza profonda di dare sempre voce all’autenticità, cercando l’equilibrio tra l’esplosione creativa e la disciplina pittorica.

Se ti fai un minimo di occhio, riconoscerai un quadro di Caravaggio tra mille.

 

Come nel set di un film

 

La vocazione di Matteo, Caravaggio.
Foto cosafarearoma.it

 

Il tempo di Caravaggio era il tempo della Controriforma, di una Chiesa che commissionava quadri di storia sacra capaci di elevare gli animi e suscitare sentimenti commoventi.

L’artista rispose a tale richiesta senza mai adagiarsi su moduli espressivi già noti.

Si oppose così all’accademismo corrente, generando una pittura diretta, rivoluzionaria, espressa dal vero, con un naturalismo che ti coinvolge, come il set di un film drammatico, qualsiasi età tu abbia.

Non è solo stile, ma rigorosa scelta pittorica, felice immediatezza “fotografica”, immersione fulminea, brutale, senza concessioni o abbellimenti dentro scene nutrite dell’anima di Caravaggio, della sua esperienza, fatta di contrasti e di travagli, di intensa ricerca di sapore, odore, colore, piacere e dannazione.

 

Come uno scatto rubato

L’effetto di ogni suo quadro somiglia allo scatto di una foto ante litteram, lo scatto rubato nel momento più significativo del dramma in atto, con una inedita trattazione della luce, ottenendo effetti drammatici per mezzo del chiaroscuro, con un violento contrasto di ombre e luci quale si trova solo nelle cantine o alla luce artificiale.

L’effetto, inoltre, era spesso dissacrante: i contenuti sacri dovevano riflettersi in azioni vere e rispecchiare la vita popolare, fatta di piedi sporchi, espressioni di dolore, luci oblique.

Caravaggio dipingeva “alla prima”, senza analitici disegni preparatori, con la visione completa maturata nell’intimo e fissata di getto sulla tela.

Riuscì così a rigenerare l’arte del suo tempo.

Tale intenso realismo, così diverso dal metodo pittorico allora in voga, ebbe una portata enorme in tutta l’Europa.

 

Ritratto di Caravaggio, Ottavio Leoni.
Foto aboutartonline.com

 

Se sei a Roma…

 

La Madonna dei Pellegrini, Caravaggio.
Foto cosafarearoma.it

 

Se sei a Roma, non ti sarà difficile seguire le orme di Michelangelo Merisi da Caravaggio, specchiandoti in molti suoi capolavori, esposti in chiese e musei.

Per citare solo le chiese, ecco il tuo facile itinerario.

Nella chiesa di San Luigi dei Francesi, vicino a Piazza Navona, c’è la Cappella Contarelli, con tre dipinti: la “Vocazione di San Matteo”, il “Martirio di San Matteo” e “S. Matteo e l’Angelo”.
Alla fine di Corso Rinascimento, dalla parte di Piazza delle Cinque Lune, trovi la Chiesa di Sant’Agostino, dove è la “Madonna dei Pellegrini”, conservata nella prima cappella a sinistra, proprio vicino all’ingresso.
Presso la Basilica di Santa Maria del Popolo, a Piazza del Popolo, ti aspetta la Cappella Cerasi, dove sono la “Conversione di S. Paolo” e la “Crocifissione di S. Pietro”.



Scoperta archeologica a Santa Palomba

 

 

L’area archeologica presso S. Palomba, vista dall’alto. Foto SABAP

 

Ci fa piacere segnalare quanto riportato dal sito della Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio per l’Area metropolitana di Roma e per la Provincia di Rieti, alla sezione news, in merito al recentissimo ritrovamento archeologico, venuto alla luce nei mesi di gennaio e febbraio 2022, durante i lavori di adeguamento di un cavalcavia ferroviario della linea Roma-Formia, presso la stazione di Pomezia (RM).

Si è palesato un contesto finora completamente ignoto, databile tra il I sec. a.C. e il V sec. d.C.

Riportiamo quanto riferisce la Soprintendenza.

“Le indagini condotte da archeologi e operai della società Eos Arc S.r.l., sotto la Direzione Scientifica della Soprintendenza, nella persona del funzionario archeologo Francesca Licordari, hanno permesso di indagare stratigraficamente una vasta porzione di questo contesto, che si estende ben oltre i limiti dell’area di scavo, in terreni di altre proprietà.

Gli elementi più antichi sono un asse viario realizzato direttamente nel banco geologico e chiaramente riconoscibile grazie alla presenza di solchi carrai, e una serie di strutture murarie, di cui si conservano le fondazioni e pochi lacerti di quello che doveva essere l’elevato di incerta funzione, ma probabilmente parte di un complesso ben più grande, forse una villa rustica, che si estendeva nei terreni circostanti. Le strutture sono riferibili a diverse fasi di vita di questi edifici e disegnano chiaramente almeno due ambienti, in un primo momento separati da una grande area aperta, successivamente chiusa da un’altra struttura muraria.

Dopo l’abbandono delle strutture, e forse con l’edificio principale ancora parzialmente in uso, l’area è stata occupata da una necropoli solo parzialmente esplorata, che ha restituito un totale di 17 sepolture.

Si tratta di tombe di diversa tipologia che coprono un periodo di circa due secoli, tra il III e il V sec d.C., con la presenza di almeno un inumato di fede cristiana, come testimoniato dal ritrovamento di un anello con cristogramma.”

 

 

Di seguito, il link al sito della Soprintendenza.

http://www.sabap-rm-met.beniculturali.it/it/238/news/1950/rinvenute-evidenze-archeologiche-i-sec_-a_c_-v-sec_-d_c_-nei-pressi-della-stazione-ferroviaria-di-pomezia-rm




Sebastião Salgado. Amazônia (al MAXXI, Roma fino al 25 aprile)

Sebastião Salgado. Amazônia

 

Un pellegrinaggio immersivo

tra le braccia della grande Madre

 

MAXXI_Salgado: Rio Jutaí. Stato of Amazonas, Brasile, 2017.

 

 

 

La mostra fotografica “Amazônia” è ospitata presso il MAXXI, in via Guido Reni a Roma.

Vi sono esposti, con un effetto di grande suggestione, gli scatti potenti di Sebastião Salgado, grandissimo fotografo e ricercatore che per più di 6 anni ha viaggiato nell’Amazzonia brasiliana, per documentare un mondo vivo e palpitante, primordiale e fragile.

 

La mostra è stata prorogata fino al 25 aprile 2022.

Una buona ragione per non perdervela, se non ci siete già stati.

 

Piomberete in un’atmosfera straniante, ancestrale e avvolgente, lasciando per strada la luce romana ed entrando tra le curve pareti del MAXXI per raggiungere la Galleria 4.

Nella penombra, grandi foto in bianco e nero pendono dal soffitto e sembrano segnalare un percorso al visitatore. Oppure no…

Sceglierete di non seguire alcun percorso e vi lascerete condurre in modo destrutturato all’interno di un mondo estatico.

 

MAXXI_Salgado: Rio Negro. Stato di Amazonas, Brasile, 2019

 

 

Sogno di un paradiso non ancora perduto, il percorso si fa anche sonoro, con un sommesso e pervasivo concerto di suoni reali, raccolti nella foresta stessa da Jean-Michel Jarre.

Frusciano alberi, cantano uccelli e verseggiano moltitudini di animali, accompagnati dal fragore delle acque che scendono dalla cima delle montagne.

È maestoso e fragilissimo, questo immenso ambiente naturale, un ecosistema al quale siamo legati come da un cordone ombelicale.

Per poter cogliere le reali dimensioni della foresta, che occupa un terzo del continente sudamericano, ci soccorre l’osservazione dallo spazio.

E siamo al cospetto di un vasto manto verde, sottilmente ricamato dal corso di lenti fiumi dalle linee curve e sinuose.

Il Rio delle Amazzoni attraversa la foresta e costituisce il 20% dell’acqua dolce di tutta la Terra con i suoi circa 1.100 affluenti, riversandosi infine nell’Oceano Atlantico.

Per milioni di anni, qui, un potente ciclo naturale ha perpetuato se stesso e la vita sul pianeta.

E, come silenziosi custodi, gli indigeni popolano l’ambiente e respirano con noi in questa mostra, presenti in fotografie davvero iconiche.

 

MAXXI_Salgado_Amazonia

 

Straordinaria, tra le mille suggestioni offerte dalle didascalie,  è l’immagine dei cosiddetti “fiumi volanti” o “fiumi atmosferici”.

Sono veri e propri fiumi, ma volano. Sono “fiumi aerei” carichi di umidità, che si estendono su gran parte del continente sudamericano, garantendo un magico equilibrio biologico .

La Foresta appare come un “Oceano verde” e l’infinità dei fenomeni che la abitano è in grado di influenzare i modelli climatici dell’intero pianeta.

 

MAXXI_Salgado: Anavilhanas, isole boscose del Río Negro. Stato di Amazonas, Brasile, 2009

 

Purtroppo, il fenomeno tutto umano della deforestazione sta minando l’immensa foresta pluviale, soprattutto ai suoi margini.

All’interno, le terre indigene e i parchi nazionali restano per ora più protetti.

Come in un pellegrinaggio immersivo quanto artificiale, proviamo a immaginarci nell’abbraccio di questa grande Madre, amorevole e selvaggia.

È il momento del rispetto, del silenzio, del risveglio, una volta per tutte.




Il culto di Mitra e il Mitreo di Marino

Il culto di Mitra e il Mitreo di Marino

 

Perché la guerra?
La visita di uno straordinario mitreo ci richiama alla terribile domanda

Mitreo di Marino, Tauroctonia (Mitra uccide il toro). Foto di Marion Weber

La domanda – Perché la guerra? – è un elemento di continuità che lega l’essere umano a se stesso attraverso generazioni, secoli, millenni.
È una domanda antica e moderna.
Sorge continuamente in questi giorni ed è sorta in occasione della recente visita guidata che ho svolto al Mitreo di Marino.

Il Mitreo di Marino, un ritrovamento stupefacente sepolto da 18 secoli
A Marino, comune dei Castelli Romani, è rimasto sepolto per 18 secoli un mitreo, luogo di culto del dio Mitra databile al II sec. d.C.
Venuto alla luce per caso nel 1962, venne usato come cantina per la vendita del vino, fino al suo definitivo riconoscimento, che lo ha poi reso oggetto di una complessa e contorta vicenda lunga quasi 60 anni, prima di venir valorizzato come merita.
Il mitreo ha la caratteristica struttura di un corridoio, la cui parete di fondo è dipinta con il dio Mitra che uccide il toro.
Questa rappresentazione è ricorrente nei mitrei, spesso come scultura, rilievo, mosaico, ma abbiamo solo tre casi al mondo di mitrei dipinti.
E il mitreo dipinto di Marino ha il migliore stato di conservazione: per la brillantezza dei colori e la completezza della composizione costituisce un unicum a livello mondiale.

 

Mitreo di Marino, Dadoforo. Foto di Marion Weber

 

Chi è Mitra?
Mitra è una divinità di origine indo-iranica e persiana legata al Sole. 
Secondo il mito, nasce il 25 dicembre in una grotta, emergendo dalla roccia, simile alla luce che indora le creste dei monti al mattino. E’ perciò detto “petrogenito”.
E’ protagonista di un patto sacro di collaborazione tra l’uomo e il cosmo che richiede la costruzione del bene e l’uccisione delle forze avverse.

E’ un dio antichissimo che cavalca i secoli e, attraverso la conquista di Alessandro Magno, raggiunge la Grecia ellenistica e infine Roma, rigenerandosi con nuove caratteristiche. 

Il culto di Mitra, tra il primo e il quarto sec. d.C. si espande gradualmente su tutto il territorio dell’Impero romano, fino ai più lontani confini. 
Proprio in quegli anni nasce e si espande il Cristianesimo, che assorbe moltissimi caratteri del Mitraismo e alla fine lo soppianterà. Ma di questo argomento complesso e di tanti altri temi connessi parleremo un’altra volta.

Il culto di Mitra è seguito da ogni classe sociale dell’Impero e anche i soldati, lontani dalle loro terre, vi trovano conforto e senso, vi trovano un’identità. Vediamo perché.

 

Mitra si diffonde moltissimo tra le legioni antiche romane
La domanda – Perché la guerra?- serpeggia persino tra le legioni dell’antico Impero romano, soprattutto quelle poste a presidio degli immensi confini dell’Impero stesso. 
Infatti, l’esercito di Roma non è più quello delle origini, il luogo compatto dell’orgoglio romano “d.o.c.”, il cui nucleo era in grado di creare un forte senso di appartenenza e di invincibilità. 
I soldati in grandissima parte non sono più romani, nè italici, ma vengono ormai dalle lontane province, sono di nascita iberica, africana, numidica, gallica, macedone, trace… 
Roma raggiunge con l’imperatore Traiano, nel 117 d.C., la sua massima estensione e per secoli è impegnata principalmente a difendere i suoi sterminati confini.  
Le sue legioni sono dislocate in luoghi davvero lontani e i soldati si sentono sempre più soli e sempre meno motivati, hanno bisogno di qualcosa che li tenga uniti e coesi.

Queste esigenze, particolarmente tra I e IV sec. d.C., si coagulano intorno all’antichissimo culto di Mitra.

Il culto di Mitra
Si tratta di un culto iniziatico (vi si entra per gradi), misterico (si trasmette da bocca a orecchio, in modo segreto e senza testi scritti di riferimento), riservato ai soli uomini.
Mitra porta la luce nel mondo e stringe un patto sacro di amicizia con il Sole e con gli uomini per la vittoria del bene sul male, attraverso un combattimento che porta alla pace finale.
Mitra uccide il Toro cosmico, simbolo della natura animale e della forza incoercibile di Madre Natura, per irrorare la terra col suo sangue e renderla feconda.
Il Toro cosmico abbattuto rappresenta la vittoria delle forze del Bene contro le forze ostili che ostacolano l’ascesa dell’uomo alla dimensione divina.
Mitra è il dio del patto sacro tra l’ordine cosmico degli astri e l’ordine interiore dell’uomo, cui è richiesto di essere retto e di operare per il bene.
Il seguace, attraverso sette gradi d’iniziazione, trova la strada per imitare Mitra e per partecipare all’ordine cosmico nel rispetto del patto sacro.
Miles, cioè soldato, è il terzo grado iniziatico nel percorso dell’adepto. Ecco un elemento di forte identità per i legionari romani…
Il culto si svolge nel mitreo, luogo di culto sotterraneo in forma di grotta, illuminato da fiaccole.

I mitrei
I mitrei sono ambienti sotterranei dove si pratica il culto, riproducendo la grotta dove sarebbe nato Mitra. Sono numerosissimi in tutto il territorio imperiale: se ne trovano in Italia, Francia, Austria, Germania, Inghilterra, Asia, Africa e moltissimi altri luoghi.
Solo a Ostia ne sono stati rinvenuti ben 18. A Roma se ne ipotizzano fino a 2000, anche se ne sono stati ritrovati 7.
Ogni mitreo è frequentato da un piccolo gruppo di adepti con a capo un pater, che è colui che ha raggiunto il settimo grado del percorso iniziatico.
Molti imperatori in questo periodo sono fedeli a Mitra e incoraggiano moltissimo l’espandersi del culto tra i legionari, poiché colgono l’importanza di tale forza spirituale per la coesione dei loro soldati.

 

La recente visita al Mitreo di Marino. Foto di Marion Weber

Ma, ieri come oggi, alla domanda – Come stai, soldato? Come ti senti dentro? –, si continua a rispondere con
un’altra domanda: -Perché la guerra?-

E no, non c’è risposta, non ci può essere.

(N.B.: Prossima visita sabato 23 aprile ore 16,30, prenotazione obbligatoria al 3488464099)




Ricordo della Professoressa Maria Fenelli

Maria Fenelli, la mia professoressa “Laser”

 

La Prof. Maria Fenelli. Foto Canale10.it

 

Negli anni 1980 – 1984, iscritta alla facoltà di Lettere con indirizzo archeologico dell’Università di Roma “La Sapienza”, conobbi e seguii passo passo la Professoressa Maria Fenelli, allora assistente del Prof. Ferdinando Castagnoli, con il quale sostenni gli esami di due annualità di Topografia di Roma e dell’Italia antica.

Diversi anni più tardi sarebbe stata lei la titolare di quella prestigiosa cattedra universitaria.

In occasione dei miei due esami, molte domande me le fece proprio Maria Fenelli, che aveva tenuto per noi studenti i seminari tematici di approfondimento.

Con lei partecipai anche a due campagne di scavo a Lavinium, presso Pratica di Mare.

La Fenelli ci ricordava spesso l’anziano Prof. Castagnoli come il giovanotto in lambretta che realizzò una straordinaria ricerca sul campo di ricognizione prima di giungere all’identificazione della mitica città di Lavinium.

 

Ferdinando Castagnoli in ricognizione a Lavinium. Foto repertorio

 

Il 1958 segnò l’inizio di quell’avventura archeologica, dovuta anche alla coraggiosa sperimentazione della fotografia aerea applicata alla ricerca archeologica, che il giovane Castagnoli intraprese con il forte sostegno del grande prof. Giuseppe Lugli, proprio sul territorio di Pratica di Mare.

Chiamavo “Laser” la prof. Maria Fenelli, perché andava sempre dritta al punto.

Dotata fin da giovane di una intrinseca autorevolezza, lasciava però trasparire il suo entusiasmo.

Mi ha fatto conoscere “di persona” cosa vuol dire il rigore della ricerca topografica e la relazione con quello che lei chiamava “l’imponderabile”, cioè il dipanarsi di un filo a volte casuale, per cui si giunge a compiere scoperte altrimenti inimmaginabili.

Il concetto venne da lei richiamato anche durante una cerimonia svoltasi nel 2008, in ricordo del prof. Castagnoli, al quale venne dedicata una targa scultorea presso il Museo archeologico Lavinium.

La Fenelli ci ricordò quanto il museo fosse stato fortemente auspicato dal Professore, come un sogno che si realizzò poi solo nel 2005.

Tra le sue numerose attività topografiche e archeologiche, Maria Fenelli ha diretto a lungo la ricerca archeologica su Lavinium, giungendo anche al ritrovamento della stipe votiva del Santuario di Minerva e alla ricomposizione delle statue, a cominciare dalla straordinaria e iconica statua di Minerva Tritonia.

 

 

Minerva Tritonia, statua in terracotta policroma, V sec. a.C. Museo Archeologico Lavinium. Foto Ass. Rotta di Enea

 

Quando mi venne affidato l’incarico temporaneo come direttore scientifico del Museo archeologico Lavinium, nel 2011, ebbi modo di parlarne con lei.

Confesso di averla aspettata a lungo alla Sapienza, all’uscita da un convegno, in attesa che si liberasse per un minuto. Fu gentile e si ricordò di me.

Ecco la scena: lei, sguardo “laser”, io intimidita. Le chiedo due parole di incoraggiamento, ricordandole rapidamente quanto mi senta ancora irrimediabilmente “allieva”.

Dritta al punto, mi dice che, se è per questo, non si smette mai di essere allievi. Poi mi sorride e mi stringe la mano come augurio. Grazie, Prof.

 




Aguas de março (Acqua di marzo)

Marzo: per gli antichi romani era il mese dedicato al dio Marte

 

I venti di guerra che spirano in questi giorni, si incontrano con questo mese di marzo, mese che per gli antichi romani era dedicato al dio Marte.
Romolo, fondatore di Roma e figlio dell’incontro del dio stesso con la vestale Rea Silvia, secondo il mito, volle onorare il padre dando il suo nome al primo mese dell’anno cosiddetto romuleo.

 

 

Marte, il greco Ares, Mars in latino, era il dio della guerra, del risveglio guerriero, sotto il segno maschile dell’aggressione, atto imprescindibile in una visione bellica delle relazioni umane, dettato dalla profonda convinzione che se tu non attacchi, sarai attaccato.

Le antiche popolazioni latine e poi Roma facevano risuonare attraverso i loro territori il ritmo e la danza dei Salii, sacerdoti appartenenti a un collegium sacro a Marte il cui nome trae la sua etimologia da “saltus, salire” che significa danzare. E percuotendo gli scudi sacri (ancilia), i Salii davano inizio alla processione di marzo, danzando a piccoli salti, destando un entusiasmo bellico nel popolo e dando così inizio alla stagione della guerra.

 

foto romanoimpero.com

 

Queste antiche percussioni belliche sono memorie che profondamente segnano ancor oggi corpi e coscienze, le quali seguono imperterrite il richiamo di una natura belligerante e fatalmente perdente su tutti i fronti. Ma, abbassando il volume fino a farlo tacere, vorrei adesso opporre e far crescere dentro di noi un altro ascolto, una dolcissima bossa nova, una splendida canzone, per me irresistibile.

Aguas de março è considerata una delle più belle canzoni brasiliane, sia per la musica che per il testo, che rappresenta una metafora della vita. L’autore è Tom Jobim, che la scrisse nel 1972. Occorre tener presente che marzo, per il Brasile è un mese di piogge tropicali che introducono l’autunno. Sono piogge anche brevi, ma decisamente torrenziali, causa di grossi allagamenti.
Si dice che Tom Jobim, ritirato ancora a fine estate nella casa di campagna per motivi di salute, si trovò ad abbozzare il testo di questa canzone su un sacchetto del pane, preso dalla dolce malinconia e dall’intimità che sa provocare l’acqua che cade, il suo ritmo dolente, il suo suono amico e nostalgico.
Così Tom provò a riprodurre la magia di quel suono universale, che lega tutti noi a una memoria ancestrale e che è in grado di suscitare una comunione cosmica tra tutti gli esseri viventi.
Youtube e lì per voi, se volete entrare nell’ascolto del formidabile duetto che Jobim registrò con Elis Regina, che nel panorama brasiliano è stata veramente regina negli anni ’60 e ’70, dotata di una voce e di una capacità interpretativa indimenticabili.

 

foto openspotify.   com

 

Purtroppo a soli 36 anni Elis morì avendo assunto una potente dose di cocaina mista a barbiturici. Ma noi ritroviamo la sua vitalità e la sua soavità in questa magistrale interpretazione insieme a Jobin, con il quale ha saputo ricreare il tintinnio delle gocce di pioggia, talora pesanti, talora delicate, apparentemente interminabili.

Il testo è affascinante, dicevamo una metafora della vita: tutto fluisce e compare e scompare attraverso piccole immagini spezzettate, fonte di piccole, grandi emozioni. La pioggia di marzo fluttua così come una promessa di vita, come un gioco tenero in cui gesti, avvenimenti, personaggi fantastici fluiscono come in un racconto. Come nella favola bella con la quale ci si addormentava da bambini mentre fuori pioveva.

 

Bello questo suono. Ecco il testo e la traduzione di questa meravigliosa canzone.

 

É pau, é pedra, é o fim do caminho
É um resto de toco, é um pouco sozinho
É um caco de vidro, é a vida, é o sol
É a noite, é a morte, é um laço, é o anzol
É peroba no campo, é o nó da madeira
Caingá candeia, é o matita-pereira
É legno, é pietra, é la fine della strada
É un resto di tronco, é (qualcuno) un po’ solo
É un pezzo di vetro, é la vita, é il sole
É la notte, é la morte, é un laccio, é l’amo
É un albero (1) in un campo, é il nodo del legno,
Caingá candela, é il Matita-Pereira (2)(3)
É madeira de vento, tombo da ribanceira
É o mistério profundo, é o queira ou não queira
É o vento ventando, é o fim da ladeira
É a viga, é o vão, festa da cumeeira
É a chuva chovendo, é conversa ribeira
Das águas de março, é o fim da canseira
É flauto, tuffo dalla sponda del fiume
É il profondo mistero, è il volere o non volere
É il vento che soffia, è la fine della discesa,
É la trave, il vuoto, la festa del tetto (4)
É la pioggia che cade, l’incontro con il ruscello (5)
Delle piogge di marzo, é la fine della fatica
É o pé, é o chão, é a marcha estradeira
Passarinho na mão, pedra de atiradeira
É uma ave no céu, é uma ave no chão
É um regato, é uma fonte, é um pedaço de pão
É o fundo do poço, é o fim do caminho
No rosto um desgosto, é um pouco sozinho
É il piede, é il suolo, è la marcia forzata,
Uccellino nella mano, sasso lanciato con la fionda
E’ un uccello in cielo, è un uccello a terra,
E’ un ruscello, è una fonte, è un pezzo di pane
E’ il fondo del pozzo, é la fine della strada,
Sul viso il disgusto, é (qualcuno) un po’ solo
É um estepe, é um prego, é uma conta, é um conto
É um pingo pingando, é uma conta, é um ponto
É um peixe, é um gesto, é uma prata brilhando
É a luz da manha, é o tijolo chegando
É a lenha, é o dia, é o fim da picada
É a garrafa de cana, o estilhaço na estrada
É o projeto da casa, é o corpo na cama
É o carro enguiçado, é a lama, é a lama
É um passo, é uma ponte, é um sapo, é uma rã
É um resto de mato na luz da manhã
São as águas de março fechando o verão
É a promessa de vida no teu coração
É una spina, é un chiodo, è una punta, é un punto,
É una goccia che cade, è un conto, è un racconto
É un pesce é un gesto, è argento che brilla
É la luce del mattino, é il mattone che arriva
É un falò, é il giorno, é il punto finale,
É una bottiglia di liquore (6), una fenditura nella strada (7)
É il progetto della casa, é il corpo nel letto,
É la macchina bloccata, é il fango, é il fango
É un passo, é un ponte, è un rospo, é una rana,
É un po’ di erbacce nella luce del mattino (8)
Sono le piogge di marzo che chiudono l’estate, (9)
É la promessa di vita nel tuo cuore
É uma cobra, é um pau, é João, é José
É um espinho na mão, é um corte no pé
São as águas de março fechando o verão
É a promessa de vida no teu coração
É un serpente (10), é un bastone, é João, é José,
É un taglio nella mano, é una ferita nel piede
Sono le piogge di marzo che chiudono l’estate,
É la promessa di vita nel tuo cuore
É pau, é pedra, é o fim do caminho
É um resto de toco, é um pouco sozinho
É um passo, é uma ponte, é um sapo, é uma rã
É legno, é pietra, é la fine della strada
É un resto di tronco, é (qualcuno) un po’ solo
É un passo, é un ponte, è un rospo, é una rana,
É um belo horizonte, é uma febre terçã
São as águas de março fechando o verão
É a promessa de vida no teu coração
É pau, é pedra, é o fim do caminho
É um resto de toco, é um pouco sozinho
É pau, é pedra, é o fim do caminho
É um resto de toco, é um pouco sozinho
É un bell’orizzonte, é una febbre terzana
Sono le piogge di marzo che chiudono l’estate,
É la promessa di vita nel tuo cuore
É legno, é pietra, é la fine della strada
É un resto di tronco, é (qualcuno) un po’ solo
É legno, é pietra, é la fine della strada
É un resto di tronco, é (qualcuno) un po’ solo