Le teste (false) di Modì

Nel 1984, a cento anni dalla nascita del grandissimo artista italiano Amedeo Modigliani, viene messa in atto la più grande beffa nella storia dell’arte.

Nella sua città natale, Livorno, tre giovani studenti di storia dell’arte decidono di fare un piccolo scherzo alla città.

In quel momento a Livorno vi era una mostra dedicata al centenario di Modigliani, curata dai fratelli Vera e Dario Durbè a Villa Maria, che tuttavia stava riscuotendo poco successo a causa delle poche opere esposte e dalla penuria di pubblico.

Così, Vera decide di dar credito ad una leggenda secondo la quale Modigliani, prima di trasferirsi a Parigi, buttò alcune delle sue sculture nel Fosso Reale, perché incompreso e deriso dai suoi connazionali.

Iniziarono numerose operazioni di ricerca: tanti livornesi accorsero lungo il Fosso per seguire con ansia le indagini – che tuttavia non portarono a nulla.

A questo punto entrano in gioco i tre amici: Pietro Luridiana, Michele Ghelarducci e Pierfrancesco Ferrucci.
La mente di questo scherzo è Luridiana, il quale, seguendo con curiosità le vicende sulle ricerche delle statue nel fosso, si chiede: E se domani trovassero veramente una testa di Modigliani?

Allora presero martello, cacciavite e trapano elettrico e crearono la prima scultura, gettandola subito dopo nel lungomare.

I ragazzi – confessano – volevano solamente creare qualche ora di scompiglio nella città, nella certezza che un critico d’arte si sarebbe subito accorto della falsità dell’opera.

Dunque, il 24 luglio venne ritrovata una testa. Ma non era quella dei tre amici!

 

Bensì un altro falso, quello del giovane artista livornese Angelo Froglia, che qualche tempo prima aveva buttato nel fosso delle teste false, non per scherzo, ma come gesto di critica nei confronti degli storici dell’arte.

Subito dopo fu trovata la testa falsa di Luridiana.

La gente grida esaltata e meraviglia: ben due teste sono state ritrovate nello stesso giorno!

Vera è entusiasta; il fatto attira anche numerosi storici e critici dell’arte come Giulio Carlo Argan i quali confermano: le teste sono autentiche.

Qualche settimana dopo venne ritrovata una terza testa, opera di Froglia, ed immediatamente le tre opere vennero esposte a Villa Maria nella mostra dei fratelli Durbè.

 

I tre amici, però, non avevano mai avuto intenzione di creare un inganno di tali dimensioni; volevano solamente fare uno scherzo.

Perciò decisero di raccontare tutto quanto attraverso un’intervista pubblicata su Panorama.

I lettori si divisero in due schieramenti: chi riconosceva la genialità dello scherzo e applaudiva l’idea, chi invece, offeso, li critica aspramente.

Successivamente anche Froglia confessa di essere l’autore delle altre due teste.

Si conclude così, con il finire dell’estate, anche la stagione del più grande scherzo (e relativa figuraccia degli storici dell’arte e dei curatori della mostra) della storia dell’arte.




Untitled Film Stills

 

 

Untitled Film Stills (letteralmente: “fermo immagine senza titolo”) è il titolo di una serie di fotografie.

L’autrice, regista e attrice protagonista, di questi scatti è una donna, probabilmente l’artista vivente più famosa al mondo: Cindy Sherman.

Tra il 1977 e il 1980, la Sherman intraprende questo progetto fotografico, raccolto poi in 70 fotografie in bianco e nero.
Nei panni di diverse donne del cinema americano, con riferimento soprattutto al cinema noir degli anni ’50 e ’60 – ma anche il Neorealismo italiano e la New Wave francese – la Sherman dà prova di tutto il suo talento di trasformista.

Aiutata dal collega e amante Robert Longo, la Sherman da vita ad una serie di autoritratti diversissimi tra loro: all’aperto, in appartamento, in primo piano e a figura intera; tutti caratterizzati da un’attenta scenografia ed un’impostazione fotografica molto originale.

 

In ogni scena, Cindy è una donna differente: prototipo e modello di quell’ideale di donna americana tanto in voga al momento.
È casalinga, modella, studiosa e donna tenebrosa: i suoi sguardi sono taglienti e teatrali.

Queste foto sembrano fotogrammi di un film, ma senza alcuna sequenza.

Ma dietro questi ritratti, che sembrano mostrare attraverso giochi prospettici e audaci inquadrature delle belle e talvolta appariscenti donne, si nasconde una critica alla cultura dello sguardo e allo stereotipo femminile.

Infatti la Sherman interpreta degli stereotipi, dei ruoli: l’ostentata finzione mette in mostra proprio questo aspetto.
La simulazione porta alla luce la falsità più di ogni altro elemento. Questo è il lavoro ideologico che sta dietro a questa meravigliosa serie di foto.

Possiamo chiamare questo lavoro frutto di un pensiero femminista? Assolutamente sì.
È il modo in cui la Sherman si batte per affrontare e distruggere ogni stereotipo sulla bellezza femminile.

 

Alcuni scatti mettono in scena donne forti, coraggiose e impavide – l’espressività di Cindy è il fulcro di questa serie – quasi eroine americane pronte a sconfiggere il nemico.
Altri, invece, trasmettono un senso di inquietudine e terrore.
In ambienti oscuri, donne in apparenza vulnerabili e sole sono colte in posizioni di melanconica attesa.

 

 

 

Dal 1983 Cindy Sherman introduce il colore nelle sue fotografie, un chiaro rimando alla figura della pin-up e del clown.
Negli anni il suo talento da trasformista aumenta, anche con l’ausilio del trucco e del digitale.Iniziano a nascere personaggi sempre più inquietanti e mostruosi, dai volti talvolta deformati.

Ancora oggi Cindy Sherman tiene mostre in tutto il mondo, continuando a trasformarsi di volta in volta in personaggi sempre diversi.




Francisco Goya

Francisco de Goya nasce in Spagna nel 1746 e frequenta sin da subito numerosi ambienti artistici, a partire da suo padre che era maestro doratore nelle chiese e successivamente in bottega.

Com’era tipico per ogni artista e letterato europeo, anche Goya parte nel 1770 alla volta dell’Italia, il paese che pochi anni dopo sarà la meta privilegiata per ogni uomo colto.

Al suo ritorno, si trasferisce a Madrid dove comincia la sua carriera da ritrattista e ottiene le prime commissioni per dipinti sacri.

E lì, tra Madrid e Saragozza, vive la sua vita: si sposa, ottiene i primi incarichi importanti, diviene il ritrattista ufficiale

di Carlo IV.

 

A questo periodo appartengono le opere più “classiciste” ed è infatti chiamata “la prima maniera di Goya”.
Ma la situazione in Spagna precipita. E con la guerra non cambia solo la società, ma anche la pittura di Goya.

Nei suoi quadri si sente un movimento diverso, una frenesia e un turbamento molto più profondo di ciò che appare sulla tela.

Tutto diviene più scuro.

E si inaugura, così, il periodo dedicato ai “Disastri della guerra” che comprende incisioni e dipinti.

I suoi dipinti più celebri appartengono a questo periodo, e si fa riferimento ai due dipinti di Maja e al quadro “Il tre maggio 1808”

La Maja vestida e La Maja desnuda

 

Sebbene in Italia e in Francia fossero abbastanza comuni i soggetti nudi, la situazione in Spagna era diversa, forse a causa dell’oppressione esercitata dalla chiesa.

Entrambi i dipinti sono registrati nell’inventario di Godoy; ciò ci fa supporre che la donna rappresentata potrebbe essere la bella Pepita Tudò, giovane amante dello stesso Godoy, oppure la duchessa De Alba.
La donna appare sdraiata su di un letto alla maniera delle tipiche veneri italiane, con la pelle levigata in forte contrasto con la libertà di rappresentazione delle stoffe.

Nel 1815 l’Inquisizione confiscò i due quadri, ma sembra che la bellezza di queste opere d’arte sia sopravvissuta senza conseguenze.

 

 

 

Il tre maggio 1808


Il tre maggio è il giorno in cui la Francia di Napoleone conquista Madrid. Per tutto il giorno, gruppi di soldati francesi passeggiano nella città e fucilano gruppi di patrioti spagnoli.

Goya vuole portare l’attenzione proprio sugli uomini che stanno per morire, circondandoli di luce e lasciando, più indietro, i soldati francesi nell’oscurità, nell’anonimato.
Uno dei corpi già a terra richiama la posizione dell’eroe centrale: braccia aperte, spalancate, quasi un simbolo cristico di sacrificio.

Attorno c’è solo il buio e l’oscurità, che circondano il lieve profilo della città.

 

In vecchiaia, Goya è più prolifero che mai. Racconta ancora gli orrori della guerra e le mostruosità del genere umano (attraverso opere come la celebre “Saturno divora uno dei suo figli”).

Muore nel 1827 di congestione cerebrale all’età di 82 anni, dopo una vita segnata dalla guerra.

 




Il Don Giovanni di Mozart

La figura del Don Giovanni nasce nel 1630 a opera del commediografo Tirso de Molina (1579-1648) nella sua opera in versi El burlador de Sevilla y convidado de piedra e fu creata “come nient’altro che un opera edificante, e svolto senza molta arte, né profondità”.

Il suo Don Giovanni non è tanto il seduttore di cui parleremo in seguito, quanto più un burlador, un ingannatore, un abbindolatore, intento solo a godere “il materiale e momentaneo possesso di questa o quella”.

Il fulcro di quest’opera ruota attorno alla caduta di Don Giovanni culminante nella cena con la statua di pietra, che terminerà con la sua morte.

L’intento morale è chiaro: l’uomo che non si pente dei propri peccati è destinato alla dannazione.

Nel 1787 Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) compose Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, un dramma-giocoso su libretto di Lorenzo da Ponte.

E sarà dunque Mozart ad analizzare e meglio interpretare la figura di Don Giovanni, non più “libertino” pentito come abbiamo visto in Tirso de Molina, bensì diabolus, ovvero colui che separa, che divide.

Ed è proprio in questo atto della separazione che risiede il potere demoniaco di Don Giovanni. Egli tiene separati i suoi nemici, soggiogandoli alla propria volontà, ma è qui che risiede anche la sua debolezza.

Come vedremo più avanti, sarà l’unione dei personaggi sue vittime a segnare la sua rovina.

L’opera è divisa in due atti: nel primo atto Don Giovanni, con l’aiuto del servo Leporello (nelle opere precedenti Sganarello) dopo essersi introdotto nella casa di Donna Anna per sedurla, cerca di scappare via furtivamente ma viene scoperto dal padre di lei, il Commendatore, e scontrandosi a duello con esso, lo uccide.

Donna Anna, insieme al fidanzato Don Ottavio, allora giurano vendetta per la morte dell’uomo.

Successivamente entra in scena Donna Elvira, la moglie abbandonata di Don Giovanni, che dopo aver scoperto la vera natura di Don Giovanni attraverso la famosissima Aria del Catalogo cantata da Leporello decide si impegnarsi affinché egli si penta e si redima.

Nel frattempo, Don Giovanni si imbatte nella festa di nozze di Masetto e Zerlina e decide di sedurre quest’ultima.
Donna Elvira, giunta tempestivamente, salva Zerlina.

Durante il funerale del Commendatore, avviene una disputa tra Donna Elvira e Don Giovanni, e Donna Anna riconosce la voce del suo assalitore in esso.

L’atto si conclude con una festa, dove tutti i personaggi, insieme alla stessa Zerlina, riescono a smascherare la vera natura di Don Giovanni. Da qui in poi sarà per lui la rovina.

Il secondo atto, molto più frammentario, comincia con un inganno teso a Donna Elvira da un Leporello travestito dal padrone, il quale la seduce e la conduce in un posto isolato per approfittarsi di lei. Tuttavia, viene smascherato e accusato dei crimini commessi dal Don Giovanni, che nel frattempo, travestito dal servo, incontra il contadino Masetto e lo picchia.

Entrambi i personaggi riescono a scappare dalle situazioni in cui si vengono a trovare e si ritrovano al cimitero, dove Don Giovanni in tono scherzoso invita la statua, posta sulla tomba del Commendatore, a cena.

Da questo momento comincia ciò che nella tradizione costituiva la parte del Convitato di pietra ovvero il finale dell’opera: la statua si presenta veramente la sera a casa di Don Giovanni, deciso a ricambiare l’invito e di portarlo con sé all’Inferno, se non si pente.

E così sarà.

La casa prende fuoco e viene scossa da terremoti e Don Giovanni muore inghiottito dalle fiamme degli inferi.

Tutti gli altri personaggi accorrono attorno al corpo morto ed insieme cantano un’ultima volta, ma poi si dividono. Ma sappiamo che è proprio nella separazione degli altri che Don Giovanni, il diavolo, vince.

Tuttavia, il finale non sempre ha convinto i critici dell’eterna malvagità che persiste nell’opera anche dopo la morte del protagonista e preferiscono riconoscere nella sua morte il tanto atteso e predicato ritorno a Dio.




La nascita della fotografia

Quant’è facile, per tutti noi oggi, scattare una fotografia?
Basta prendere in mano il nostro smartphone, aprire la camera… et voilà.

Con un solo tocco possiamo immortalare per sempre (ed in digitale!) qualunque momento della nostra vita.
Ma per arrivare a sviluppare questa tecnologia ce n’è voluto di tempo… ma quanto, precisamente?

L’origine della fotografia non sta nella macchina fotografica.Bensì, possiamo ritrovarla in quella che per secoli è stata utilizzata dai pittori di tutto il mondo: la camera oscura.
Il primo a darci notizie su questa camera oscura è Aristotele nel IV secolo a.C.
Viene chiamata “camera” proprio perché agli albori era così, una camera buia, che grazie attraverso un piccolo foro applicato in una parete permetteva all’immagine esterna di proiettarsi nella parete opposta, ma capovolta.

Con il passare dei secoli la camera è diventata una piccola scatola provvista di una parete inclinata che permetteva il ribaltamento dell’immagine.
Per questo non c’è da stupirsi dell’incredibile precisione e nitidezza dei dettagli di Canaletto! Egli faceva infatti uso della camera oscura.

Eppure, a distanza di circa un secolo da Canaletto, ecco che in una cittadina della Francia un certo Joseph Nicéphore Niépce passava le sue giornate a fare esperimenti con una camera oscura.
Il suo obiettivo, infatti, era di “fissare” le immagini proiettate.

Ed un giorno, su una lastra di stagno, dopo otto ore di posa, ecco che si concretizza la vista dal balcone di Niépce.
La prima fotografia della storia è questa: “Vista dalla finestra a Le Gras”, 1827.

Niépce, dopo questa scoperta, entrò dunque in società con Louise Jacques Daguerre, ma morì pochi anni dopo.
Nella nostra storia entra perciò un nuovo protagonista, il carismatico Daguerre, colui che oggi viene riconosciuto come inventore della fotografia.
Perché, infatti, fu il solo Daguerre, nel 1839, a presentare  all’Accademia della scienza di Parigi il famoso “dagherrotipo”.

Il primo dagherrotipo è del 1838, e si chiama “Boulevard du Temple”. A causa dei tempi di posa lunghissimi, le carrozze ed i passanti non restavano impressi sulla pellicola. Si vede solo un via vai di ombre… tranne un piccolo uomo al lato della strada.
O è rimasto così tanto tempo fermo a farsi lustrare le scarpe… oppure è lo stesso Daguerre che, sceso dal suo appartamento, è rimasto fermo per ore!

Ci sono alcune differenze di tipo tecnico che non staremo qui ad elencare, ci basti sapere che il nuovo congegno disponeva di una lastra di rame sensibilizzata con dei vapori di iodio: dopo l’esposizione alla luce, la piastra veniva inserita nella camera oscura e qui fissata attraverso delle soluzioni chimiche.

Dagli anni ’40 in poi è impossibile fermare lo sviluppo della fotografia: arriviamo così in Inghilterra, dove lo studioso William Henry Fox Talbot inventa la calotipia, con un processo di negativo/positivo.
Come funziona questo nuovo meccanismo? Molto semplice, al posto delle lastre di rame utilizzate da Daguerre, Talbot utilizza la carta!

Siamo così arrivati agli inizi del ‘900, quando nascono le macchine fotografiche che tutti noi conosciamo: nel 1902, la prima Reflex; nel 1917 la Kodak.
Sono macchine fotografiche economiche ed accessibili a tutti.
Rappresentano il primo grande cambiamento: se fino alla fine dell’800 la fotografia era di uso comune, certo, ma molto costosa e impegnativa in termini di durata di posa e di scatto, con la nascita delle prime macchine fotografiche (anche portatili) la fotografia diventa un mezzo espressivo inarrestabile.

Basti pensare all’utilizzo che se ne fa nell’ambito del giornalismo e della cronaca; nell’ambito dei viaggi e del turismo.
Insomma, si può parlare di un mondo che diviene globale.




La Santa Sofia di Costantinopoli

La Santa Sofia di Costantinopoli (oggi conosciuta come Hagia Sophia di Istanbul) è un complesso monumentale di infinita bellezza. Si trova al centro di Istanbul e rappresenta il simbolo e l’emblema della religione musulmana.

Ma quanti di voi sanno che in realtà la Santa Sofia nasce come basilica cristiana?
Fu, infatti, fondata dall’imperatore Costantino nel 330 e consacrata da suo figlio Costanzo II nel 360. Questa viene chiamata “Santa Sofia numero 1” … ora vedremo perché.

Tuttavia, era completamente diversa da come appare adesso: anzi, era una normalissima basilica a cinque navate con un grande atrio, se non fosse per le sue dimensioni a dir poco inarrivabili.
Purtroppo della costruzione costantiniana non ci è rimasto nulla, poiché nel 404 un’incendio la distrusse completamente.

Pochi anni dopo, nel 415, viene consacrata da Teodosio II la Santa Sofia numero 2.
Anche questa chiesa aveva la classica forma di una basilica, come la precedente: cinque navate e un atrio, di cui furono ritrovati i resti nel 1935 dall’archeologo tedesco Schneider.

Ma anche questa chiesa bruciò in un incendio: nel 532, durante la rivolta di Nika, il popolo infuriato diede fuoco a tutto il centro di Costantinopoli, che bruciò per giorni.

L’imperatore al potere al momento, Giustiniano, non si diede però per vinto e decise di far costruire la più grande e originale opera architettonica esistente.

Chiamò due grandi scienziati orientali, Antemio da Tralle e Isidoro da Mileto, i quali costruirono la magnifica chiesa ancora oggi esistente, nonostante le innumerevoli modifiche subite nei corsi dei secoli.

I due architetti progettarono una struttura mai vista: un’enorme cupola poggiante su quattro pilastri raccordati da quattro pennacchi (un elemento completamente nuovo!) circondata da gallerie e nicchie ed immersa nella luce.

Molto più tardi, nel 1849, i due fratelli Fossati furono incaricati dal sultano Abdulmecid I (infatti nel 1453 Costantinopoli fu invasa dall’impero ottomano e divenne una delle città più importanti della Turchia, Istanbul) di restaurare quella che era ormai diventata da tempo la moschea più famosa dell’impero.

I Fossati riportarono alla luce i mosaici bizantini e li documentarono attraverso preziosissimi acquerelli, per poi ricoprirli di intonaco. Infatti, per evitare la distruzione di questi importantissimi mosaici (la fede musulmana è aniconica, non permette dunque rappresentazioni grafiche di Dio) decisero di “mapparli” e poi nasconderli.

 

Tra i vari mosaici, spiccano per bellezza e tecnica quelli della calotta absidale: la Vergine in trono con il bambino e l’arcangelo Gabriele.

È possibile datare questi mosaici al IX secolo, quando, dopo un breve periodo di interruzione, chiamato “periodo iconoclasta” nel quale salirono al potere imperatori che condannavano le immagini di Dio e di Cristo, fu reintrodotto il culto ortodosso. Sbocciarono in numerose pareti della chiesa scintillanti mosaici raffiguranti la Vergine, Cristo, Giovanni Battista e anche imperatori!


Spesso, per offrire un omaggio al Cristo, si facevano rappresentare mentre offrivano doni al Salvatore, come nel caso del travagliato mosaico di Costantino IX Monomaco e la moglie Zoe, sul quale gli studiosi stanno ancora varando ipotesi: perché i loro volti sono stati danneggiati?

Furono asportati per essere venduti e poi reinstallati? Vi erano altri imperatori rappresentati prima di loro?

Santa Sofia nasconde tanti misteri e solamente le sue mura, in piedi da secoli, sarebbero in grado di dirceli tutti.

 




L’Edipo Re di Sofocle

Oggi parliamo di un mito famosissimo nell’antica Grecia, il quale ha dato il nome al celebre “complesso di Edipo”.
Ma in quanti sanno qual è la vera storia di Edipo?

Edipo Re è una tragedia composta da Sofocle attorno al 430 e il 420 a.C. ed è unanimemente considerata il suo capolavoro.

Edipo è il re di Tebe, ma la città al momento è devastata da una pestilenza.
Consultando l’oracolo di Delfi, si scopre la causa dell’epidemia: il precedente re di Tebe, Laio, è stato ucciso ed il suo assassino vive in città impunito.

Il morbo, perciò, non libererà la città finché l’omicida non verrà identificato e cacciato.

Edipo vuole indagare per il bene del suo popolo, ma non sa assolutamente cosa lo aspetta.

Egli decide dunque di convocare Tiresia, l’indovino cieco, per scoprire l’identità di quest’uomo.
Tuttavia Tiresia, il quale conosce la verità, decide inizialmente di tacere per evitare numerose sventure. Il re si arrabbia, alza i toni e riesce infine a far parlare Tiresia, che confessa: l’uccisore di Laio è Edipo stesso.

Il Re, furibondo e sicuro di essere vittima di una congiura, lo caccia via.
Ma Tiresia prima di andarsene profetizza: “Questo giorno ti darà la vita e ti distruggerà”. Così sarà.

A questo punto della tragedia entra in scena un personaggio fondamentale: Giocasta, moglie di Edipo e vedova di Laio, la quale consola il proprio marito dicendogli di non credere alle profezie.

Infatti, gli racconta, a Laio era stato predetto che sarebbe morto per mano di suo figlio, quando invece furono dei banditi a ucciderlo sulla strada verso Delfi.

Edipo, per niente consolato, fa convocare il testimone di quell’omicidio. E piano piano inizia a mettere insieme i pezzi della sua storia…

Egli era figlio del re Polibo e principe di Corinto, ma un giorno scappò di casa in seguito ad un oracolo che gli predisse grandi sciagure: avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre.
Per evitare tutto ciò, lasciò la sua casa natale e si diresse a Tebe.

Sulla strada per Tebe ebbe un litigio con un uomo, che uccise.
Questo ricordo provoca in Edipo un enorme turbamento. Possibile che quell’uomo fosse Laio?

Nel frattempo, giunge un messaggero da Corinto con una notizia: re Polibo è morto!
Edipo può dunque tirare un sospiro di sollievo, sapendo di non essere stato l’uccisore di suo padre.

Chiede dunque notizie della madre, ma il messaggero lo conforta dicendogli che non c’è pericolo che egli sposi sua madre, poiché è stato adottato.

Ed egli ne è proprio un testimone, poiché fu lui, quando era un pastore, a trovarlo neonato. Gli fu dato da un servo di Laio.

Giocasta a quel punto capisce tutto e supplica Edipo di smettere con le ricerca. Non essendo ascoltata, disperata, se ne va.

A quel punto arriva il servo di Laio che fa luce su tutta la vicenda.
Laio, essendo venuto a conoscenza della profezia, consegna suo figlio neonato al servo con l’ordine di ucciderlo.
Il servo, però, mosso da pietà, porta il bambino dal pastore.
Tutto coincide.
Il pastore lo porta a Corinto, dove viene adottato dai regnanti; nel viaggio verso Tebe uccide il suo vero padre Laio ed una volta divenuto Re sposa sua madre Giocasta.

Edipo è sconvolto.
Il finale, dunque, è vicino. Ed è tragico.

Giocasta, sconvolta per l’orrore, si toglie la vita ed Edipo, appena trovato il suo corpo, si acceca e si esilia, lontano dalla città che tanto ha amato e alla quale ha portato così tanta disperazione.
Si conclude così una delle tragedie più famosa di sempre.




Gauguin e la Polinesia

La vita

 

Paul Gauguin nacque a Parigi nel 1848. Dopo aver trascorso la sua prima infanzia a Lima, in Perù, si traferisce nuovamente in Francia con la madre, ad Orléans.

Ma la sua permanenza in Francia durerà poco: a diciassette anni si mette in viaggio per mare, girovagando per il mondo.

Terminato questo lungo periodo girovago decide di dedicarsi completamente alla pittura.
Uno dei momenti più importanti della vita di Gauguin è infatti l’incontro con Vincent Van Gogh: i due condivideranno anche un appartamento ad Arles, la famosa casa gialla.

Celeberrima, inoltre, è la vicenda dell’orecchio di Van Gogh, la cui causa sembra esser stato proprio un litigio tra i due!

 

Tuttavia, improvvisamente, Gauguin decide di vendere e liberarsi di tutti i suoi averi per trasferirsi a Tahiti, in Polinesia, alla ricerca di quel “paradiso perduto” tanto agognato.
Il primo soggiorno dura solamente due anni, ma nel 1895 Paul vi si trasferisce per non fare più ritorno.
Infatti lì morì, nel 1903.

 

La Polinesia

 

Possiamo dire che tutta la pittura precedente al periodo polinesiano è attesa e agonia.
E’ solamente

in questi quadri che si sprigiona tutta la vivacità e la vitalità di Gauguin; è in Polinesia che egli ritrova il suo io libero e selvaggio.

I colori accesi, vivaci e brillanti richiamano un’atmosfera magica, così lontana nello spazio e nel tempo da agitare nell’animo dello spettatore i desideri più reconditi e infantili.

Tutti quanti, almeno una volta, guardando un quadro di Gauguin abbiamo pensato “vorrei trovarmi lì”.
E questa è parte della sua magia: creare l’illusione di essere lì, di sentire il caldo ed il vento, i profumi dei frutti e il sole che scotta sulla pelle.

 

 

Ma Gauguin non è  interessato solamente alle atmosfere esotiche e alle donne polinesiane. Egli, piano piano, inizia a scavare in profondità, alimentando sempre di più il desiderio di conoscere ogni tradizione e ogni simbolo di una società così lontana dalla sua.

E anche se apparentemente Gauguin si dedica alla rappresentazione di scene di vita quotidiana, come donne in riva al fiume, sdraiate addormentate o intente ad acconciarsi i capelli, è possibile riconoscere un significato più profondo.

In un certo senso, le donne sono simbolo ed emblema della Madre terra, rappresentate quasi come divinità, pure ed irraggiungibili.

È assente qui ogni tipo di contesto sociale. Queste donne sono libere, selvagge e sempre silenziose.

 

La spiritualità

 

 

Affianco alle numerose tele di carattere quotidiano, ne esistono altre in cui Gauguin inserisce l’elemento cristiano cattolico nella contesto selvaggio e naturale: la ricerca spirituale non si limita perciò solamente nello scoprire le tradizioni e la religiosità indigena, bensì nel riconoscere una sacralità universale: egli arriva ad identificare la Madonna con il bambino in una donna tahitiana con il suo piccolo.

Insomma, Gauguin intende eguagliare tutte le religioni sotto una sola virtù: l’amore.

 

 

 

 

Ma l’opera più complessa, organica e misteriose fra tutte quelle prodotte nel periodo polinesiano è senza dubbio Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?

L’opera va letta da destra a sinistra: numerosi gruppi di figure si succedono uno dopo l’altro, ognuno indipendente ma interconnesso con l’altro. Sono tutti allegorie e metafore dell’esistenza umana e degli stadi della vita.




Auguste Rodin e Camille Claudel

Questa di oggi è una storia d’arte ma anche e soprattutto una storia d’amore.
E’ la storia di Auguste Rodin, il celebre scultore del Il Pensatore e La porta dell’Inferno, e la sua allieva Camille Claudel.

 

 

L’incontro

I due si incontrano nel 1883, quando Rodin viene incaricato di sostituire un suo collega all’Accademia.
Lei è giovane, ha meno di vent’anni, mentre lui è già un rinomato artista di quarantacinque anni.

Dapprima, Camille è sua allieva e modella ma dopo poco tempo diventa la sua amante.
Tra i due non solo nasce un rapporto passionale e affettivo, ma anche una collaborazione artistica: lei è la sua musa, la sua modella, la sua aiutante.
Le loro mani lavorano insieme nella creazione di numerose opere di Rodin.

Purtroppo, però, il loro è un amore segreto: Rodin ha una lunga relazione con Rose Beuret, anche se dalle lettere che lui e Camille si scambiano nel corso degli anni possiamo percepire un immenso e tenero amore.
Rodin arriva addirittura a prometterle il matrimonio, ma questa promessa non sarà mai mantenuta.

Ad un certo punto, però, la loro relazione si rovina e Camille inizia a soffrire la tormentata storia d’amore ma soprattutto l’influenza artistica del suo maestro.
Odia il fatto che la critica la identifica solamente come l’”allieva del Rodin” senza riconoscere il lei il genio autentico.

Tutto questo tormento porta alla rottura definitiva con Rodin, nel 1893.

Da quel momento in poi Camille iniziò lentamente a impazzire, ad essere tormentata da ossessioni e manie di persecuzione, fino ad arrivare alla depressione.
Il suo stato di salute peggiorò a tal punto da essere rinchiusa in un manicomio, dove morì trent’anni più tardi.

Le opere d’amore

 

Le sue prime opere ci raccontano il loro amore: passionale e intenso.

In Il Valzer, i due corpi si fondono in un movimento ritmico e slanciato; vediamo le due figure sbilanciarsi in un taglio drasticamente, mentre dall’altro lato spiccano le due mani intrecciate.
Questa bellissima scultura in bronzo è oggi conservata nel Museo Rodin di Parigi.

Dello stesso periodo è anche Sakuntala.

Diversamente dalla scultura precedente, qui troviamo i due amanti accoccolati in un tenero abbraccio, similmente al Bacio di Klimt. Lei è seduta su un tronco, mentre il giovane è inginocchiato per sorreggerla.

La scultura prende spunto da un mito induista: la giovane Sakuntala si innamorò perdutamente del re Duchamanta, ma i due furono separati per molto tempo. La scultrice raffigura il momento della ricongiunzione tanto attesa, carico di passione e tenerezza.

Le opere della rottura

 

Successivamente, Camille inizia a soffrire tantissimo la situazione sentimentale di Rodin, già impegnato con Rose da molti anni e sempre pieno di amanti. Da questa angoscia che le tormentava il cuore, Camille produce due opere.

La prima è L’implorante.

La giovane figura, nuda, si slancia nello spazio a braccia aperte nella disperata ricerca di afferrare qualcosa. Il suo amante Rodin, probabilmente.

La seconda è l’Età matura. Anche in quest’opera, più complessa e articolata della precedente, ritroviamo la stessa piccola figura in ginocchio protesa nell’afferrare il braccio dell’uomo che al tempo stesso è sopraffatto da un’altra figura, che l’avvolge e gli blocca le braccia.

Con quest’opera Camille raccontare la rottura tra lei e Rodin; il momento in cui lui la abbandona, lasciandola alle sue spalle, con questa spaventosa figura alle sue spalle che sarebbe la compagna Rose.

Tuttavia, come accadde, Camille non riuscì a “trattenere a sé” Rodin, e la loro rottura la porto alla depressione.

 




La Medea raccontata attraverso i vasi

 

Medea: maga e barbara

 

Medea è un’importante e famosissimo personaggio della mitologia greca.

E’ una maga potente e temibile, figlia del re della Colchide, e la sua storia è stata raccontata anche da due dei tre più importanti tragediografi dell’età classica: Sofocle ed Euripide.

Ma la sua fama continua nei secoli, fino ad arrivare alla trasposizione cinematografica di Pasolini.
Insomma, una figura importantissima che vale la pena conoscere.

 

 

Giasone e il Vello d’oro

 

La storia di Medea è però indissolubilmente legata a quella degli Argonauti: Giasone, eroe alla ricerca del Vello d’oro, arriva in Colchide con i suoi compagni, dove incontra Medea.

Lei si innamora perdutamente e fa di tutto per aiutarlo a superare le prove che dividono l’eroe dalla conquista del Vello d’oro.
Addirittura uccidendo il proprio fratello e tradendo il padre per scappare con Giasone.

Infine giungono a Corinto, dove hanno due bambini.
Dopo poco tempo, però, Giasone la abbandona per sposare la figlia del re, Glauce.

Qui inizia il vero dramma di Medea, che nella tragedia di Euripide dura solo una notte.
Il dramma di una donna abbandonata ma decisa a vendicarsi del torto subito. Una donna forte, potente e pericolosa.
Medea non è un personaggio positivo. Ma è un personaggio con cui è impossibile non provare empatia, leggendo i suoi lamenti e i suoi dolori.

 

Medea consegna la veste a Glauce

Ella si trova in un paese sconosciuto, in cui è maga e barbara e disprezzata da tutti, in solitudine, abbandonata dall’uomo per cui era scappata ed esiliata dal re.

 

E proprio in quel momento inizia a covare la sua vendetta. Il suo progetto è quello di umiliare e far pentire Giasone nel modo più assoluto di tutti, ovvero senza prendersela con lui: con le sue capacità di maga, imbeve una veste di veleno e la fa consegnare alla giovane Glauce, la quale muore avvampando in terribili fiamme.
La stessa sorte colpirà anche il padre, corso in suo soccorso per aiutarla.

 

 

 

Medea uccide i suoi figli e fugge sul carro

 

La sua vendetta però non finisce qui. Ed è la parte più dolorosa e tormentata della vicenda, ma Medea non può permettere a Giasone la gioia, in nessun modo.
E così, dopo un lungo strazio, Medea decide di uccidere i suoi due figli.

Dopo aver commesso questo orribile peccato, Medea non può più tornare indietro: invoca un carro trainato da draghi e su di esso saluta e maledice Giasone per sempre.
E poi scompare.

 

 

 

 

 

 

 

Il mito di Medea è tra i più crudeli e tormentati di tutta la mitologia greca, ma le sue vicende così raccontate non fanno trasparire veramente il dramma, l’angoscia ed il tormento che Medea vive dopo l’abbandono di Giasone, il suo grande amore.
Medea è un personaggio dalla complessa psicologia, capace di provare sentimenti così discordati eppure così naturalmente appartenenti all’uomo.
Non è assassina spietata, ma sposa tradita e madre tormentata.

 

 




I Tarocchi del Mantegna

I Tarocchi

 

I tarocchi apparvero attorno alla metà del XV secolo nel nord Italia come carte da gioco.

Erano 78 carte, chiamate “trionfi”, e pare fossero utilizzate come gioco da tavola anche se purtroppo non se ne conoscono le regole.

Solamente nel XVIII secolo i tarocchi acquisirono l’accezione esoterica che tutti noi conosciamo: attraverso lo studio di due francesi, Antoine Court de Gébelin che li fece risalire all’antico Egitto ed Eliphas Lévi, che invece li ritenne originari della Cabala ebraica, i tarocchi vennero più generalmente associati all’esoterismo e allo pseudomisticismo.

Tuttavia, non si hanno dati certi sulla loro origine.

 

 

 

I tarocchi più antichi: Andrea Mantegna

 Si sa, però, che i mazzi di carte più antichi a noi pervenuteci risalgano al Rinascimento italiano.

La più antica serie di tarocchi è oggi custodita nella Biblioteca Ambrosiana di Milano: sono i Tarocchi del Mantegna.

Esso rappresenta il caso più antico e più misterioso tra le serie di stampe rinascimentali.
Queste carte sono state generalmente attribuite al pittore Andrea Mantegna, ma recenti studi hanno tolto la paternità all’artista attribuendola però al suo stesso ambiente.

In realtà, nonostante la somiglianza ed il nome attribuitogli, non è un mazzo di tarocchi bensì uno strumento educativo.

 

All’interno di questo mazzo è rappresentato un piccolo cosmo in miniatura e contiene in sé tutta la concezione universale del mondo nell’ottica medievale.

Esso comprende cinquanta carte divise in cinque sequenze, da dieci carte ciascuno, e ad ogni gruppo è associato un tema: le condizioni umane, Apollo e le muse, le arti e le scienze liberali, i principi cosmici e le virtù cristiane ed infine i pianeti, le sfere celesti e Dio.

Si tratta, perciò, di un sistema universale da cui il piccolo uomo si trova integrato del più grande e vasto disegno divino del Signore.

A questo modo, l’uomo che si trovava ad osservare queste carte poteva venire a conoscenza delle più alte virtù umane e del funzionamento dell’universo, così come delle arti e delle scienze.

 

 

 

Ma se l’intento per il quale queste carte furono commissionate fosse stato a scopo didattico, perché sono giunte a noi ritagliate singolarmente come carte da gioco?


E’ possibile supporre che questi particolarissimi tarocchi, unici nel loro genere, fossero stati creati per poter essere utilizzati?

E se sì, quale potrebbero essere le regole di un gioco nel quale i protagonisti sono tutti i sentimenti umani e i massimi sistemi solari?

Non ci sono pervenuti documenti relativi ad altri giochi di carte con il medesimo soggetto: è dunque necessario scartare questa ipotesi.

È possibile, invece, che si volesse tradurre in immagine un tema molto caro al Medioevo, presente anche in Dante, ovvero il microcosmo e il macrocosmo messi in relazione all’interno di un unico universo.




Un caso d’identità: Duchamp e Rrose Selavy

Un caso d’identità

 

Oggi volevo raccontarvi una storia misteriosa: quella di Rrose Selavy.
Chi è questa bella ed elegante donna, dal volto severo e dalle mani delicate?

Non è altri che Marcel Duchamp.

Il suo nome è così celebre che non ha bisogno di presentazioni, né tanto meno di introduzioni biografiche.

Ma, oltre alle sue famosissime opere come Fontana e L.H.O.O.Q., ovvero il famoso ready-made del gabinetto e la Gioconda con i baffi, Duchamp si dedicò a tantissimi altri progetti.

Possiamo dirlo, era un gran burlone. Ed insieme al suo amico e fotografo Man Ray, si divertirono a prendere un po’ in giro in pubblico.

Così, con la collaborazione di Ray, nasce l’idea di Rrose Selavy.

 

La prima foto

 

Duchamp si fa ritrarre da Man Ray vestito e truccato da donna. I due aggiungono poi, con un fotomontaggio, delle mani femminili, probabilmente della moglie di Ray, per rendere più verosimili la foto.

E la mandano in circolazione sotto il nome di “Rrose Selavy”, un divertente gioco di parole che si legge come “Rose C’est la vie”, ma anche come “eros” grazie al suono ripetuto della r iniziale.

Nasce così, nel 1921, l’alter ego femminile di Duchamp.
Ma non finisce qui: Rrose Selavy non si limita ad esistere per l’attimo di una fotografia, anzi, è una donna in carriera.

 

 

 

Il profumo più costoso al mondo

Nasce così Belle Haleine- Eau de Voilette, un ready-made che vuole rappresentare una linea di profumi prodotta da Rrose Selavy.

In alto, vi è un tondo con un’altra foto di Duchamp nelle vesti di Rrose Selavy e sotto il nome del profumo, appunto, “Belle Haleine” ovvero “fresco respiro”.
Dopo la scritta Eau de Voilette possiamo notare la sigla di Rrose Selavy (una R capovolta ed una S) e poi le scritte “New York, Paris”.

Ma lo sapevate che questo profumo è il più costoso di tutti i tempi? L’unica copia esistete è appartenuta alla collezione di Yves Sain-Laurent ed è stato successivamente messo all’asta per un totale di 8,9 milioni di euro.

Duchamp ricercato?

Ovviamente, non è ancora finita l’avventura di Rrose Selavy.

Qualche anno più tardi, nel 1923, Duchamp mette in circolazione una foto, “Wanted: $2,000 Reward”.

In questa fotografia appare Duchamp stesso, di lato e di profilo, con scritto a grandi caratteri “Ricercato. Ricompensa 2,000 dollari.” E sotto una lunga descrizione della personalità ricercata, ovvero:
“Per informazioni che conducano all’arresto di George W. Welch, conosciuto come Bull, Pickens, etc.

Ha avviato un’agenzia di intermediazione clandestina a New York sotto il nome di HOOKE, LYON e CINQUER.

Altezza 5 piedi e 9 inches. Peso circa 180 pounds. Carnagione media, occhi normali. Conosciuto anche sotto il nome di RROSE SÉLAVY.”

E così, anni più tardi, Duchamp fa “coming out” e dichiara l’esistenza non di un solo alter ego, ma di molti altri.

Eppure, il nome di Rrose Selavy spicca per ultimo, in maiuscolo, e sancisce per sempre la fine di un grande scherzo artistico.