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CHICCHI DI CAFFÈ di Meri Borriello

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CHICCHI DI CAFFÈ

di Meri Borriello

tratto da Voci Nuove 6

ed. Rapsodia

a cura di Daniele Falcioni

 

Dalla sua finestra poteva vedere due alberelli. Non avevano nulla di speciale, ma erano speciali per lei. Erano anche un po’ miseri, a dire la verità, eppure lei li trovava belli, e li osservava sorridendo tutte le mattine mentre beveva il suo caffè. Ogni tanto li potavano, e questo un po’ la rattristava. Lei immaginava che le radici dei due alberelli fossero intrecciate. Le radici se ne fregavano di chi aveva tanta premura di separarli: aveva letto questa cosa delle radici intrecciate da qualche parte, e da allora l’immagine che quelle parole avevano evocato non l’aveva più abbandonata.

Beveva il suo caffè ogni mattina verso le otto, prima di andare al lavoro, e pensava al suo amico. Erano distanti: tentava di convincersi che lui avesse trovato un’entrata segreta, come quando giocavano a fare gli esploratori, che avesse trovato la porta d’accesso per un mondo pieno di gelato e caffè. Entrambi adoravano il caffè: toglieva quel brutto senso di nausea che saliva su, che invadeva le bocche dopo che l’infermiera aveva inserito l’ago nelle loro vene: piccoli sorsi di caffè freddo rinfrescavano le labbra mentre aspettavano pazientemente che quella tortura avesse fine. Si erano conosciuti così, in una stanzetta asettica, mentre li bucherellavano, ed erano diventati subito amici. Bevevano caffè e mangiavano gelato sciolto: erano le uniche cose che riuscivano a mandar giù in quei momenti. Non avevano la forza di parlare, cercavano di comunicare mentalmente da un lettino all’altro: ridipingevano le pareti di quelle grigie stanzette. Contemplavano la piantagione di caffè che dipingevano indossando cappelli di paglia: proteggevano i loro lunghi capelli, il volto rosso per il troppo sole, i piedi nudi e sporchi di terra.

Per arrivare a quella piantagione dovevano fare un lungo viaggio: erano pirati clandestini imbarcati su navi senza bandiera, sconfiggevano loschi figuri che tentavano di gettarli in mare, che impedivano loro di raggiungere la meta. Quando, invece, non riuscivano ad avere la meglio, nuotavano nelle profondità del mare alla ricerca di tesori nascosti nei fondali. Qualche tesoro li riportava a galla ed erano pronti a salire su un’altra nave, che li avrebbe condotti in una terra sconosciuta che li avrebbe accolti e gli avrebbe permesso di realizzare il loro sogno. Si raccontavano i frammenti di quei sogni qualche ora dopo che l’ago dal braccio era stato tolto ed erano liberi di tornare ad essere umani. A volte ci voleva più di qualche ora per tornare umani, ci volevano giorni interi per recuperare le forze, ma i sogni non si interrompevano mai. Frenavano l’invadenza delle gocce che lentamente penetravano nei loro corpi bevendo caffè per placare la nausea, immergendosi nei potenti chicchi.

Anche quella mattina, Marta sorseggiava caffè ed osservava i due alberelli. Aveva smesso di piovere da poco. D’un tratto chiuse gli occhi, si immerse nel silenzio e vide le radici intrecciate, sentì l’odore della terra mischiato all’aroma di caffè, e la sua mente prese a rincorrere i ricordi. Il suo amico le stringeva forte la mano, aveva il respiro affannato. Avevano corso quasi per tutto il pomeriggio in mezzo alla terra rossa dietro la casa di Maurizio. Andavano spesso a giocare lì la domenica pomeriggio. Non era stato costruito nulla su quel piccolo pezzo di terreno. Correvano avanti e indietro col sole di inizio autunno che li scaldava e creava, solo per loro, frammenti di luci che si incastravano tra le foglie. Registravano tutto con gli occhi mentre correvano, finiva tutto in uno scrigno segreto. Cantavano una canzone, quando si fermavano per riposarsi un pochino; la trovavano un po’ sciocca, ma in fondo credevano al primo verso quando lo intonavano: “Nella notte delle favole / esprimi un desiderio pure tu”.1
Avevano entrambi compiuto dieci anni, passavano tutto il tempo che potevano giocando, inventando storie: stavano bene insieme. Lui era un portento, lei lo guardava ammirata: sentiva le sue labbra aprirsi in un sorriso ogni volta che, osservandolo di nascosto, sapeva di averlo sorpreso a pensare a un nuovo progetto, a un nuovo sogno da realizzare. Sopportava tutto quello che lei non riusciva atollerare, aveva un senso innato dell’umorismo. E, se proprio non si riusciva a ridere in certi momenti, almeno si poteva tentare di sorridere.

Niente sentimentalismi con Maurizio. “La notte è giovane e la vita breve” diceva sempre quando cercavano di farlo andare a dormire distogliendolo dai suoi giochi. E lo sapevano tutti e due quanto fosse vero, ma lui forse lo sapeva di più.
Il sole li stava salutando: dovevano rientrare. Il programma della serata era guardare un film dell’orrore. Lui voleva assolutamente vedere un film con un pagliaccio che dicevano essere spaventoso. Ne parlavano da qualche settimana. Entrarono in casa e se ne fregarono di darsi una pulita, piaceva a entrambi sentire la terra ancora addosso, sui jeans, sulle scarpe. Accendendo la luce, lui le disse: “Dai, lavati almeno le mani e prepara il popcorn”.
“Okay” rispose lei, e continuò: “C’è anche il gelato, lo facciamo sciogliere e ci mettiamo il popcorn dentro?”
Lui non rispose, stava armeggiando con il televisore e il lettore dvd; lei si fermò a guardare l’ingrandimento di una foto appesa al muro: era stata scattata a carnevale l’anno prima. Lui era vestito e truccato come Brandon Lee nel film Il Corvo.

“Sei proprio bello in questa foto” disse mentre andava in bagno. Lui, alzando un po’ la voce per farsi sentire, rispose: “Guarda che io sono sempre bello”. Lei rise mentre si insaponava le mani. Quando rientrò nel salone, dopo aver messo in una padella l’olio e i chicchi di mais, lo trovò intento a leggere degli appunti su un quadernino. Gli si avvicinò e chiese: “Che combini?”

“Contabilizzo i miei guadagni” rispose lui, e lei rise di nuovo perché sapeva del suo piccolo commercio di giocattoli. Ne aveva tanti e non sapeva che farci, così aveva pensato di venderli, improvvisando un mercatino delle pulci sul vialetto di casa.

“Dovresti darti da fare anche tu. So che non hai giocattoli da vendere, ma potresti provare a piazzare quella roba da femmina che sta ammucchiata nella tua camera. Di questo passo, chissà quando potremo dare vita al nostro progetto” disse lui, la testa china su una calcolatrice. “Allora, lo guardiamo questo film?” chiese poi, chiudendo il quadernino. Lei si era risentita un pochino. Esclamò: “Aspettiamo almeno che siano pronti i popcorn!”

Mentre lui borbottava, Marta tornò in cucina per vedere se avessero cominciato a scoppiettare. Stavano scoppiettando. Finì di prepararli, prese anche il gelato e lo mise in due bicchieri, poi portò tutto nel salone.
Maurizio si era sistemato sul divano e aveva poggiato sulle gambe una copertina di lana a quadretti. Guardò Marta e le disse: “Non te la devi prendere se ho sempre fretta”.

Lei gli sorrise, appoggiò tutto su un vecchio tavolino che stava accanto al divano. Si sedette tirando un pochino la coperta per coprirsi le gambe. “Non me la prendo, tranquillo. Non fare il tirchio e dammi un altro po’ di coperta” disse. Dopo essersi sistemata meglio, riprese: “Stavo pensando di fare un salto al mercatino delle pulci vicino casa uno di questi giorni, per vedere di piazzare, come dici tu, le miecianfrusaglie”. Lui annuì, poi fecero silenzio e si concentrarono sul film. Fotogramma dopo fotogramma il film scorreva via. Non avevano paura, non avevano nemmeno voglia di giocare a far finta di aver paura. Peccato non ci fossero altri bambini, pensò lei stiracchiandosi: lo spasso più grande sarebbe stato vederli terrorizzati. Lui, quasi leggendola nel pensiero, spense il televisore e disse: “Mi sto annoiando. Prepariamo del caffè, poi ti insegno a giocare a dama. Mia madre ha comprato una nuova miscela, devi assaggiarla. Forse dovremmo fare un’indagine di mercato per capire cosa manca, quale potrebbe essere l’ingrediente che possa rendere speciale il nostro caffè. Voglio creare una miscela tutta nostra, non so, mi piacerebbe qualcosa che avesse anche un gusto alla vaniglia, oppurealla liquirizia”.

Lei lo ascoltava mentre prendeva la scacchiera che era sotto il mobiletto della tv, poi, rimuginando su quello che aveva detto a proposito di creare una miscela originale, andò in cucina e mise su il caffè. Lui stava finendo di sistemare le pedine sulla scacchiera. Aveva provato a insegnarle a giocare qualche anno prima, quando entrambi, nello stesso periodo, avevano avuto la varicella. Ma forse a causa della febbre, del prurito costante e del talco mentolato sparso dappertutto, lei non era riuscita a concentrarsi, e quindi non aveva imparato quel gioco.

“Te la ricordi la regola numero uno?” le chiese serio Maurizio quando lei fece ritorno dalla cucina. Marta lo guardò confusa, lui continuò: “Non si soffia”. Pazientemente le rispiegò le regole del gioco e lei stavolta sembrò capire. Cominciarono una partita. A un certo punto, lui disse: “Hanno visto di nuovo una macchia. Stavolta è vicina all’intestino. Che dici, dovrei preoccuparmi?”

Lei rimase immobile con la pedina tra le mani, non aveva idea di dove piazzarla. Sapeva cosa significava quella macchia, sapeva anche che non avrebbe potuto raccontargli balle. Così disse l’unica cosa che non potesse tradirla: “Direi di aspettare prima di fasciarci la testa”. Provando a sorridere, continuò: “Anche se ci donassero le fasciature e i turbanti”.

Marta non riusciva a concentrarsi. Disse: “Vado a vedere se è pronto il caffè. Tra un po’ i miei vengono a prendermi. Beviamoci il caffè in santa pace, concentriamoci sul sapore, sull’aroma, altrimenti non riusciremo mai a realizzare il nostro sogno”. Andò in cucina e, come un automa, versò il caffè e lo zuccherò, poi tornò nel salone e passò la tazzina a Maurizio.

Chiusero gli occhi.
I genitori di Marta arrivarono puntuali e la loro serata si concluse. Lei si rigirò tutta la notte nel letto, non riuscì a chiudere occhio: pensava ai loro progetti, al latte freddo che macchiava il loro caffè e i loro sogni.

Passò un po’ di tempo prima che si rivedessero: lui aveva avuto da fare, lo immaginava con i suoi genitori andare da un ospedale all’altro in cerca di nuove risposte. Lei, tra la scuola e tutto il resto, non aveva avuto molto tempo, ma pensava sempre a lui, sperava che si fossero sbagliati, che sarebbe saltato fuori un modo per risolvere il problema, come era già accaduto altre volte. Aveva cercato di non pensare al peggio concentrandosi sul loro progetto: non solo aveva comprato tutte le miscele di caffè che aveva trovato al supermercato, ma prendeva continuamente appunti sul sapore, il colore e la tostatura di ogni miscela che assaggiava.

Arrivò il 15 novembre. I genitori di Maurizio avevano organizzato una festa per il suo compleanno: palloncini colorati, decorazioni per i suoi undici anni, ogni tipo di dolcetto.

Maurizio aveva versato in certe caraffe colorate il caffè, in alcune aveva aggiunto un po’ di gelato alla vaniglia, in altre galleggiavano pezzetti di liquirizia. Pochi giorni prima erano arrivati anche i risultati delle analisi: quella macchia non si poteva far sparire in alcun modo. Tutti lo sapevano, ma lui voleva festeggiare lo stesso, e Marta era d’accordo con lui.

Arrivò il momento di tagliare la torta. Lui si fece scattare una foto col suo cappellino da baseball degli Yankees, le dita in segno di vittoria. Spense le candeline con un sorriso che illuminò tutta la stanza. Il suo papà, la sua mamma, le sue sorelline erano accanto a lui. La sua mamma sembrava aver disegnata sul viso un’eterna preghiera mentre lo guardava, mentre lo stringeva con dolcezza per la foto con la torta. Le sue sorelline si tenevano per mano, aspettavano il loro turno per la foto. Quando anche gli ultimi invitati se ne stavano andando, lo salutò anche Marta e la sua famiglia.

La festa era finita.

Puntuale arrivò maggio con i suoi raggi delicati e i boccioli di rosa. Prima di andare a trovare Maurizio un pomeriggio, Marta e la sua mamma si erano fermate a prendere del gelato. Sulla copertina del quadernino che aveva nella borsa, lei aveva disegnato due chicchi di caffè. Il quadernino conteneva le annotazioni degli ultimi mesi, tutte le osservazioni, i commenti sulle miscele che aveva assaggiato e mescolato. C’era anche una colonnina con il riepilogo dei guadagni ottenuti vendendo le sue cianfrusaglie.

Quando entrarono in casa, lei si sentì mancare vedendo Maurizio sul divano. Si aggrappò al braccio di sua madre, ma lui le sorrise. Si sedette sul divano accanto a lui mentre aspettavano insieme che il gelato si ammorbidisse un po’. Prese un pezzetto della sua coperta, lui sorridendo le disse: “Mi sento molto meglio oggi”. Lei annuì fissando il pavimento, si fece coraggio e mormorò: “Ho portato il mio quadernino: rimarrai stupito nel vedere il lavoro che ho fatto in questi mesi”. Maurizio si girò verso il muro dall’altra parte della stanza e disse: “Magari me lo fai vedere più tardi, okay?”

Lei annuì, ma lui non poté vederla.
Stettero un po’ in silenzio. Lei girava il cucchiaino nel bicchiere pieno di gelato, poi, con voce stanca, Maurizio le domandò: “Ti va un caffè?”
“Sai che non so dire di no al caffè. Vado a prepararlo”.
Lui la fermò con un cenno e le disse: “Lascia, lo prepara mamma. Resta qui con me”. Poi, accarezzando distrattamente un lembo della coperta, le chiese: “Non ti sembra che alcune persone siano ridicole?”

“Io sono ridicola e la cosa mi piace molto!”
Lui la guardò in modo strano e lei capì che non avrebbe potuto usare alcun trucco: doveva fare silenzio. Stavano giocherellando con i loro cucchiaini quando la mamma di Maurizio portò il caffè. Aspettarono un pochino, poi chiusero gli occhi e strinsero le loro tazzine.

Lentamente, scegliendo parole conservate chissà dove, lui le disse quasi in un sussurro: “Prometti che non permetterai a nessuno di dire che siamo dei mostri”. Stringendo di più la tazzina, riprese: “Tutte le porcherie che ci hanno fatto prendere e tutto quello che ci hanno fatto non ci ha reso mostruosi. Siamo come due chicchi di caffè. Probabilmente io rimarrò un chicco verde, mai pronto per la tostatura, oppure sono stato tostato troppo, non lo so. Non siamo mostri. Siamo solo due chicchi di caffè usciti fuori da una piantagione strana”. La guardò mentre lei continuava a stringere la sua tazzina, poi riprese: “Promettimi che non coprirai le tue cicatrici. Ci sono anche io tra quelle linee. Fammi questo regalo: coltiva la nostra piantagione tra quelle linee, inventa nuove storie che si intreccino con la mia. Non dimenticare quello che abbiamo sognato insieme, non dimenticare i nostri viaggi, le nostre avventure”.

Lei voleva piangere, ma sapeva che lui l’avrebbe detestata se lo avesse fatto. Deglutì e disse: “Lo farò. Te lo prometto”. Posò la tazzina sul tavolino e gli sussurrò: “Ti voglio bene”.
“Non sei male per essere una femmina” disse lui, e le strinse forte la mano.

 

1 Libera citazione da La notte delle favole, canzone di Tania Tedesco (Festival di Sanremo 1988).

 

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