Attorno agli anni ’40 del Novecento, l’artista e critico Jean Dubuffet creò la compagnia dell’”Art Brut”.
Durante la sua maturità, Dubuffet sviluppò una particolare attenzione per l’arte infantile, primordiale, l’arte dei bruti.
Decise di creare questa compagnia per riunire gli artisti che secondo lui aderivano al canone: egli voleva creare un’arte spontanea, non inserita nel circuito artistico e che svincolasse dai presupposti accademici.
Un’arte che è tipica dei malati mentali.
La sua ricerca lo condusse dunque ai manicomi: Dubuffet trovò lì dei personaggi grandiosi, degli artisti a tutto tondo che di storia dell’arte non conoscono nulla, ma che con un foglio davanti sanno creare universi.
Tra i più grandi esponenti dell’Art Brut in senso lato troviamo l’italiano Carlo Zinelli e gli svizzeri Aloïse Corbaz e Adolf Wölfli.
Adolf Wölfli è stato uno dei primi artisti ad essere associato all’Art Brut, se non il maggior esponente di questa inconsapevole corrente artistica.
Il piccolo Adolf ebbe un’infanzia difficile e violenta e già in adolescenza apparirono i primi segni di schizofrenia.
Nel 1895 venne internato nel manicomio di Waldau, dove passerà il resto della sua vita.
In quel luogo egli inizia a disegnare, a scrivere, a decorare le pareti e le porte dell’edificio.
Utilizza qualunque cosa; dalle riviste alle fotografie, dai fogli di carta alle tele.
Sviluppa così in pochissimo tempo uno stile personale e molto originale, caratterizzato da una ferrea simmetria ed una ripetitività della figura.
Il suo mondo è planare, bidimensionale, rappresentato su più piani spesso rappresentati sulla medesima superficie in modo continuo.
Possiamo descrivere la sua intera produzione come un’arte “decorativa”.
Prendendo ad esempio una sua qualunque opera possiamo individuare con estrema facilità tutti i caratteri peculiari di Wölfli.
Egli utilizza colori accesi, vivaci, vibranti, accostati tra loro con estrema armonia.
Il disegno è lineare, ogni macchia di colore è scandita e separata dalla prossima con rigore meccanico.
Wölfli stupisce soprattutto per l’estremo equilibrio compositivo che le sue opere emanano.
Certo, l’elemento ossessivo-compulsivo è presente e di notevole impatto, ma come si potrebbero dire queste opere frutto di un malato mentale invece che di un grande artista?
Sono opere sorprendenti, per le quali Dubuffet si è a lungo battutto per portare alla luce.
Il fatto che siano frutto di malati mentali per lui non contava niente: potevano essere prodotte in tale modo da malati di fegato, come diceva, le avrebbe valutate allo stesso modo.
Ed osservandole ci risulta chiaro il motivo di tanto interesse da parte sua: sono dipinti che nessun altro artista avrebbe potuto comporre perché mancano di quell’elemento di ingenuità e di freschezza, di ossessiva attenzione al dettaglio che solamente un’artista così “speciale” poteva generare.
Nata a Roma il 20 febbraio 1999.
Laurea magistrale in Storia dell’Arte alla Sapienza con 110 e lode e iscritta presso l’Ordine dei Giornalisti.