LA TERRA DELLE MERAVIGLIE

Cristina Cortelletti

La terra delle meraviglie

tratto da Voci Nuove 7

“Zeffirino!” chiamò ad alta voce suo papà per l’ennesima volta.
La voce echeggiava espandendosi per tutta la baia dominata dall’antico promontorio di Capo Vita, che ora era ricoperto di un manto giallo vivo. Le ginestre spinose si srotolavano in un tappeto di gonfi germogli e si spingevano fino ai pendii scoscesi, aggrappandosi con le loro radici alle fenditure delle rocce arenarie. Il vento di levante tirava sull’ameno promontorio e faceva crepitare i fiori, che sembravano farfalle pronte a spiccare il volo.
Il padre di Zeffirino era solito mettersi seduto sull’unico scoglio levigato che emergeva appena dall’acqua ed era cinto da piccoli scogli completamente sommersi. In quel tratto di mare tra la spiaggia e gli scogli, soffiava sia il vento di ponente che quello di levante. Lì transitavano banchi di sugarelli argentati. Il riflesso del sole contro la superficie del mare lo stordiva. Per riuscire a guardare nell’acqua senza strizzare gli occhi, il padre di Zeffirino seguiva lo spostamento della poca ombra che il faraglione gettava sullo scoglio dove egli si era appostato. “Zeffirino! Dove sei?” chiamò di nuovo. La sua voce si mescolò al fragore dell’onda che si sgretolava. Una rivolta di goccioline lucenti sfiorò la sua pelle, procurandogli un piacevolissimo formicolio.
“Eccomi” rispose.
La voce arrivava ogni volta da un punto diverso e non bene identificato. Zeffirino era un instancabile ficcanaso e ogni domenica, mentre il padre munito di santa pazienza raccoglieva i soliti molluschi, lui esplorava il territorio circostante, allungando di volta in volta il raggio d’azione. Era uno spirito libero come la madre, evadeva continuamente nel regno della fantasia, tanto da confondere spesso la realtà con l’immaginazione. Brusco, così era soprannominato dai paesani il padre di Zeffirino, non era un tipo simpatico, ma d’altronde per lui la simpatia non era una priorità. Era figlio di gente all’antica, per intenderci: semplice, se non proprio terra terra, e quanto a introversione era tutto suo padre; un uomo tutto d’un pezzo, gran lavoratore, tenace, molto pratico e per niente affettuoso, come peraltro gran parte dei suoi parenti.
Lo scrosciare dell’acqua sugli scogli metteva a tacere tutto il resto. Brusco riusciva a scrollarsi di dosso la tensione accumulata durante la settimana e a riportare a casa quasi del tutto intatte le sue forze, che andavano diminuendo pian piano ogni giorno che passava. Da qualche mese lavorava al porticciolo di Cavo, come addetto allo scarico delle merci. Era un tipo magro, con grandi occhi neri, un filo di labbra, sempre scapigliato e trasandato, non dava peso a ciò che

indossava, ma sotto quei panni c’erano grovigli di nervi e sottili ma forti muscoli. Incassava bene, nonostante i suoi quasi quattro lustri sembrassero il doppio.
“Zeffirino? Zeffirino, dove sei?” chiamava con tono pacato senza levare lo sguardo dagli scogli, con tutta la calma e la pazienza di cui era dotato. Monitorava gli spostamenti del figlio ascoltando la risposta alla sua chiamata, riuscendo a identificare la sua posizione in base al volume della voce e all’intensità del tono. Così, anche fuori dalla portata della vista, poteva vigilare sul piccolo scavezzacollo.

La giornata volgeva al tramonto e mille colori dal giallo al viola coloravano l’acqua, una leggera folata gli fece rizzare i peli sulle braccia: era ora di rientrare. “Zeffirinoooooo”. “Sono già al grande albero, papà. Ti aspetto qui”.
Brusco scosse la testa accennando un sorriso, prese la cesta, infilò la tracolla e i vecchi sandali di gomma, ormai secca di sale come la spessa e dura crosta della pianta dei suoi piedi. Si incamminò. Avrebbe potuto camminare scalzo sugli scogli di tufo affilati senza sentire dolore, ma le abitudini erano dure a morire, così come i suoi sandali. Imboccò il sentiero che attraversava la lecceta, i grandi alberi ombreggiavano una vasta zona della piccola baia, una delle tante verdi macchie mediterranee dell’isola. Amava il caratteristico odore di verde e sale. Si rivide da bambino a Cavo andare a scuola, sguazzare nell’acqua del mare, andare giù alla grande torre romana a pescare, andare da Ennio il tabaccaio a comprare le cartine per confezionare le sigarette per il nonno Luigi.

“Ehi, ti sbrighi?” gridò Zeffirino, impaziente.
Brusco camminò per un centinaio di metri a passo svelto. Quando giunse in prossimità del grande albero di leccio, vide Zeffirino seduto sulla protuberanza di una delle grosse radici che sbucavano dal terreno. Alzò lo sguardo seguendo i venticinque metri del maestoso tronco che terminava in una folta e magnifica chioma, in questo periodo dell’anno carica di ghiande. Anche lui, da ragazzino, aveva passato ore ed ore ad osservarlo. Era un albero monumentale, aveva centocinquant’anni ed era stato insignito del titolo di Bene Culturale della Natura. I sempreverdi coloravano tutto l’anno l’isola d’Elba, dando l’impressione che lì il tempo si fosse fermato.
Con un balzo Zeffirino fu in piedi. “Era ora! Quanto sei lento!” disse, scandendo le lettere una ad una. Percorsero il sentiero sterrato per circa mezz’ora, poi ne imboccarono un altro che si trovava sulla sinistra della lecceta e la fiancheggiava per un chilometro, fino alla strada dall’asfalto sconnesso che conduceva a Cavo.
Durante il cammino di ritorno, Zeffirino parlava e saltava e correva prima avanti e poi indietro, ininterrottamente: era un fiume in piena. Brusco, invece, con il passare degli anni si era indurito

e sembrava non essere più capace di emozionarsi. Si levò una leggera brezza che fece stormire le fronde, e un fruscio malinconico da quel momento accompagnò il loro cammino.
“Stasera pesce in brodetto” disse Brusco.
“Uffa papà, sempre la stessa cosa”.

“E tu sempre a lamentarti”.
“Sarà, ma io vorrei mangiare un bel pezzo di carne con una di quelle salse americane!” disse, lanciando sassi sul selciato.
L’avrebbe mangiata anche Brusco, ma da quando la miniera era stata chiusa per la protesta e lui lavorava saltuariamente al porto, non potevano permettersi cibi costosi. Si occupava personalmente del figlio e della casa da quando Giulia se ne era andata via di notte, portandosi dietro poche cose e lasciando un biglietto di scuse e di addio.
Zeffirino, un po’ affannato, rallentò il passo e attese il padre. Gli si mise a
fianco. Sentiva lo scricchiolio della grossolana granella di terra schiacciata dalle suole, sincrono con il suo respiro. Fu attratto dal luccichio di quelle briciole di terriccio attaccate ai sandali e pensò a quanto era fortunato a vivere in quel posto; era ‘il prescelto’ per esplorare l’unico pezzo di luna presente sul pianeta Terra.
Raccolse un pugno di quella polvere lunare, la sgranellò fra pollice e indice, poi la porse al padre e chiese: “Da quanto tempo è qui?”
Brusco era di poche parole, ma l’entusiasmo di suo figlio era tale che decise di parlargli di Elba, l’isola fuligginosa. Indicò una roccia piana che era poco più avanti, sotto un piccolo arbusto di corbezzolo; in quel punto i grandi lecci erano stati potati, e alla luce e al calore del sole erano cresciute alcune piante di arbusti cespugliosi, ricchi di fiori e bacche colorate.
Si sedettero sulla tiepida roccia. Brusco notò che era quasi buio, l’umida polvere mineraria rendeva il paesaggio surreale. Era il momento giusto per raccontare: “Devi sapere che questo tratto di costa è denominato costa che brilla, per via della ricca concentrazione di ematite e pirite che fanno luccicare il terreno e le spiagge; e questo, Zeffirino, l’hai già notato. Ma quello che non sai è che la vecchia strada sterrata che corre da Marina a Cavo attraversa il territorio denominato ‘terra del fuoco’. Centinaia di rocce vive di colore giallo ocra tappezzano una striscia di terra che, come una lingua rosso sangue, si allunga e affonda nel mare turchese. Un giardino di fiori minerali, questo è quello che rende magica la nostra isola”.
Fece una pausa, sospirando orgoglioso.
“Continua, papà” lo esortò Zeffirino.
Brusco riprese e raccontò di un passato lungo millenni di duro lavoro, di uomini forti e coraggiosi che varcavano le soglie di luoghi inospitali per estrarne le essenze, raccontò

dell’odore di ferro che dalle narici scendeva nella gola, del sapore di zolfo che, come l’effetto che fanno le cose acerbe e amare, allappava la lingua, della fuliggine che tingeva indelebilmente la pelle di un colore ambra scuro, di come nelle vene del ventre dell’angusta miniera di Rio Albano scorreva il ferro che trasudava dalle pareti in rosse colate.

“Ti sembrerà strano quello che sto per dirti, ma per quanto io ami il mare e l’aria aperta, non ho mai pensato di mollare il lavoro in miniera. Qui è come se dalle viscere della terra la forza della natura, grazie alla mano dell’uomo, venisse alla luce” concluse Brusco.
Zeffirino ascoltava con la curiosità di un piccolo esploratore, fissando la bocca del papà per non perdersi una parola. Brusco proseguì: “In pratica il minatore è come un cacciatore di tesori che sfida la natura esplorando misteriose gallerie sotterranee, strappando dalle viscere della terra le ricchezze nascoste per portarle alla luce e svelarne i segreti”.

Un soffio di vento di scirocco scompigliò il ciuffo di Brusco, che ondeggiò sulla sua testa per poi ricadere sugli occhiali. Zeffirino sorrise, si alzò di scatto e si posizionò di fronte al padre piantando le mani sui fianchi.
“Non voglio andare a casa, papà. Questa notte è speciale e…”

“Neanche a me va di tornare a casa” lo interruppe il padre.
Brusco guardò il cielo e capì che avrebbero potuto farcela.
“Forza, sbrighiamoci! Dobbiamo uscire dalla lecceta finché c’è ancora luce” disse sistemandosi la tracolla.
“Dai papà, per favore, restiamo” supplicò Zeffirino mettendo il broncio.
Brusco lo prese per mano, girarono intorno alla roccia dov’erano stati seduti e ripresero il sentiero che ritornava alla spiaggia.
“Grazie! Grazie papà!” urlò Zeffirino, mostrando un sorriso che scaldò il cuore di Brusco. Il versante orientale dell’isola era pieno di strette piste abitate da un’esuberante vegetazione che, a quell’ora della sera, rendeva più difficile orientarsi. L’aria umida impregnava la pelle con gli aromi del finocchio selvatico, della mortella e della mentuccia, come se la natura profumasse i suoi visitatori, prima di rapirli con la sua magnetica bellezza.
“Non è stato sempre così” disse Brusco stringendo la mano di Zeffirino.
“Di che parli?” chiese Zeffirino.
“Nel 1970 ci fu un grosso incendio che distrusse gran parte di questo splendido universo verde. Ero un ragazzino all’epoca, eppure ricordo ancora come fosse ora quei roghi imponenti. Devastarono brutalmente ettari di vegetazione, incenerendo centinaia gli alberi. Di questa area non restò che una sterile distesa nera dell’odore di resina bruciata. Poi, con la stessa facilità con la quale gli alberi erano bruciati, dai tronchi carbonizzati e dal terreno rinacquero i primi

germogli, pronti a dare nuova vita. Non ci volle molto tempo che la macchia si ripopolò di splendide piante”.
Zeffirino ascoltava e osservava la fitta vegetazione muovendo gli occhi da sinistra a destra e viceversa; ovunque guardasse gli sembrava di scorgere qualcosa o addirittura qualcuno, complici il venticello e la tenue luce del crepuscolo.

Uscirono dalla lecceta e attraversarono la stretta striscia di terreno ricca di arbusti nani e cespugli, prima di affondare i piedi nella nuda spiaggia di sabbia fine e ciottoli minerali. Qua e là i fantastici luccichii dei frammenti di nera ematite e di gialla limonite si fondevano con i vaporosi riflessi verdeazzurri dell’acqua. Si diressero verso nord tenendosi per mano. In fondo davanti a loro c’era l’inconfondibile profilo del promontorio a forma di gobba di cammello, e alle loro spalle il piccolo pontile diroccato.

“Ci siamo quasi” disse Brusco.
Zeffirino teneva il passo, scrutando in silenzio l’immensa distesa d’acqua sulla quale i riflessi del giorno stentavano a rimanere a galla. Strattonò il padre e disse: “Guarda!” indicando con l’indice l’orizzonte.
Basse e dense nubi spezzavano le tenui sfumature violacee e il sole era un sottile segmento di fuoco ad arco sulla linea cobalto del mare; un raggio come una freccia d’oro rossiccio colpì le rocce del promontorio che, per pochi attimi, si tinsero d’una pennellata smeraldo: era l’ultimo raggio di sole prima di inabissarsi.
Restarono immobili a fissare l’orizzonte, con gli occhi pieni di un verde meraviglioso che nessuno dei due aveva mai visto sulla faccia dell’altro.
“Te l’avevo detto, papà. Hai visto? Il raggio verde esiste! È quello del racconto di quel tizio… come si chiama? Quello del Nautilus! Ti ricordi, papà? Me l’hai letto tu”.
“Santo cielo, Zeffirino, quella è una storia di pura immaginazione!”
“Ma l’hai visto anche tu, papà, il raggio verde!”
“Sì. Forse…” rispose Brusco voltandosi verso il mare.

“Dai, su! Andiamo” disse Brusco, cambiando discorso.
Ripresero il cammino verso il promontorio, che ormai era una sagoma scura sullo sfondo blu cenere e si accingeva a smorire nella notte. Brusco procedeva a passo sostenuto.
“Aspettami, papà!” disse Zeffirino intento a guardarsi le spalle. Camminava trascinando prima un piede e poi l’altro sulla sabbia, lasciandosi dietro l’impronta di un binario che ad ogni suo passo si allungava in avanti verso la misteriosa stazione sul promontorio, e dietro scompariva inghiottita dalla notte.
“Ma che fai?” domandò Brusco.

“Lascio una traccia” rispose Zeffirino, alle prese con la sabbia.
“Stanotte ci sarà l’acqua alta e cancellerà tutte le tue tracce” disse il padre scuotendo la testa “E poi, il posto dove stiamo andando lo conosco bene e di sicuro non ci perderemo”.
“Attento papà!”
“Ma cosa…” si interruppe Brusco, che d’istinto si chinò in avanti e per un pelo non si scontrò con un battito d’ali nero pece.
“Mettiti giù, Zeffirino, sono pipistrelli!” gridò agitando le braccia sopra la testa. Zeffirino era come ipnotizzato. Restò in piedi a fissare il volo forsennato di quelle buffe creature tutte orecchie. La notte dell’isola apriva gli occhi ai pipistrelli serotini che tornavano alla luce dai loro nascondigli segreti, e ogni sera al crepuscolo facevano irruzione nella baia svolazzando all’impazzata.
“Uaoooooo!!!” gridò Zeffirino e, essendosi ripreso dallo sbalordimento iniziale, si mise a rincorrere i volatili. Zeffirino correva con le braccia aperte e il viso all’insù, girava e girava in una specie di danza vorticosa, un po’ come il nastro che fanno roteare nell’aria le ginnaste.
Il padre lo guardava e rideva di gusto.
“Papà, fallo anche tu, è divertente!” disse Zeffirino, che non stava più nella pelle.
Per lui di solito quello era il momento migliore della giornata: la quiete si faceva ricca di magici sussurri e l’imbrunire pian piano cancellava le ombre e con esse tutte le sue paure. Zeffirino si fermò, guardò il mare e vide che all’orizzonte si erano accavallati degli spessi e cupi nuvoloni. “Papà, verrà a piovere ?”
“No. Quegli addensamenti che vedi laggiù si formano con la bassa pressione e non sono altro che vapore acqueo condensato che il vento presto spazzerà via. Se sarai paziente, vedrai il meraviglioso spettacolo dei pesci guizzare a galla al ritmo delle onde” rispose il padre. Brusco non era un gran cacciatore di pesci, ma aveva più che una vaga idea di quale fosse il momento ideale per catturarli. Gettò un’occhiata al mare e poi al promontorio, annuì pensando che era la sera giusta.
Dovevano arrampicarsi sul versante est del promontorio fino ad un altezza di dieci metri e attendere il vento favorevole. L’acqua, traboccante di palamite e occhiate, avrebbe regalato loro una rivolta di luci argentate.
“Forza papà, sei lentissimo!” esordì Zeffirino, che nel frattempo era andato più avanti e lo aspettava. “Se mangerò un altro pesce mi cresceranno le squame” bofonchiò guardando il mare, mentre il cielo si andava scolorendo nella notte calda.
D’un tratto in lontananza, sulla superficie dell’acqua, si accese una piccola luce che rischiarava il mare; in quell’istante l’acqua parve ribollire. Colmo di meraviglia Zeffirino urlò:” Eccolo,

papà, eccolo!”
Brusco si voltò di scatto, corrugò la fronte e strizzando gli occhi indagò le acque scure da una parte all’altra, ma non vide nulla.
“Cosa c’è, Zeffirino?” domandò il padre,
“L’ho visto, l’ho visto!” ripetè il figlio, indicando con lo sguardo un punto sul mare.
Brusco si avvicinò e si inginocchiò di fianco a Zeffirino. Con le indicazioni del figlio, si fece guidare al largo a diverse miglia dal promontorio, ben oltre le barriere frangiflutti.
“Non c’è niente nell’acqua, Zeffirino” disse Brusco, dopo aver scrutato più volte. “Dai, su, andiamo!” aggiunse mettendogli una mano sulla spalla.
Zeffirino fissava ancora il mare senza dire una parola. Restarono fermi per un po’ ad ascoltare il fruscio dell’acqua.
“Vedrai, papà, il Nautilus emergerà di nuovo. Il capitano Nemo è rimasto tutto il tempo proprio qui, in questo mare, si vede che gli piace la nostra isola. Sono sicuro che emergerà di nuovo e vedremo il suo inconfondibile sbuffo colorato” disse Zeffirino.
Brusco scosse la testa sorridendo, premette la sua mano sulla schiena del figlio e lo incitò a proseguire.
“Te l’avevo detto, papà. Il capitano è un cercatore di meraviglie, sicuramente sta cercando le perle. Me l’hai detto tu che in questo mare ci sono le sette perle di Afrodite. Non può certo lasciarsi scappare un simile bottino. Non ci resta che aspettare!” esclamò zompettando.
“Non c’è un posto al mondo più bello di questo. Vero papà?”
“Può darsi” rispose Brusco.
Sulla riva erano sparsi alghe e legni trasportati dall’acqua, strappati da qualche tempesta. Incrostati di sale, davano a quel luogo una lucentezza spettrale. Macchie nere tappezzavano il bagnasciuga, erano i marangoni col ciuffo che sonnecchiavano appollaiati sui legni scortecciati, e al passaggio del monello spiccavano un volo sbandato.
Zeffirino continuava a correre senza perdere mai di vista l’orizzonte, dove il cielo e il mare stavano per fondersi nello stesso blu.
Erano arrivati ai piedi del promontorio, l’unico accesso possibile era un piccolo guado sul plutone di antico magma. Un fitto intreccio di rami attorcigliati di liane d’erica ostruiva quasi del tutto il passaggio; Zeffirino lo imboccò e Brusco subito lo seguì. Per aprirsi un varco, costrinse i rami sotto la pressione prima di un gomito e poi dell’altro. S’inerpicarono sulle rocce facendo attenzione a non scivolare. Il suolo era un mosaico di chiari e di scuri, di affioramenti viscosi di terra e di mare.
Il vento aveva condizionato così fortemente la crescita in altezza della vegetazione che i rami

si allungavano rasoterra e si aggrappavano al terreno per sottrarsi al seppellimento, creando informi tappetini legnosi. Il sentiero era scavato nella roccia, tutta picchi e macigni accatastati che salivano su su, come enormi gradoni, mentre le rocce in basso erano trivellate dall’erosione. In quella specie di alveari calcarei, stagnavano gocce dove nuotavano timidamente i gamberetti ciechi.

Gli odori aspri e pungenti della macchia si mescolavano al dolciastro odore del ferro, a sua volta intriso del salmastro che aleggiava sul versante nord-est dell’isola. Scossi dal vento, qua e là i gigli selvatici facevano capolino con la corolla socchiusa. La notte stava per abbassare il sipario come una grande palpebra.

“Sai quanto pesa il mare, papà?” domandò Zeffirino avanzando carponi sul pendio.
“Pensa a quanti pesci, sassi e piante ci sono” proseguì, senza lasciare al padre il tempo di rispondere. “Poi ci sono le navi e i sommergibili…” Intento a calcolare e guardare dove metteva le mani e i piedi, Zeffirino concluse: “Peserà almeno un trilione di tonnellate!”
Negli anfratti delle rocce si annidavano giovani biacchi tutt’occhi e raccapriccianti specie di ragni, bisognava fare attenzione.
“Ci siamo, Dieci metri di altezza” affermò Brusco perlustrando i paraggi.
Si fermarono su una roccia piatta e il caldo vento africo con un suono di strumento a fiato li investì.
“Lasciati spingere, Zeffirino!” gridò Brusco allargando le braccia.
Bisognava entrarci, in quel vento, e a lui mescolarsi per sentirne la forza.
“Non riesco a stare in piedi, papà!” urlò Zeffirino, mentre ruotava la testa in ogni direzione per cercare di sentire da che parte soffiava il vento. Poco dopo, una raffica che tirava da ponente lo colpì in pieno viso: era lo zefiro.
Sotto quelle sferzate, le onde schiaffeggiavano le rocce e si sfrangiavano in una esplosione di cristalli spumeggianti. Dalle fessure degli occhi di Brusco scesero due rigagnoli che gli finirono in bocca, se li riprese inghiottendo i salati ricordi.
“Guarda l’arenile giù in basso, Zeffirino. Quando l’onda sbiancherà al punto giusto, né troppo né troppo poco, solo allora centinaia di guizzi argentati spunteranno a galla a branchie spiegate” disse Brusco.
Curvi sul crinale, padre e figlio guardavano attentamente le onde, di cui al buio si distingueva solamente la biancheggiante spuma. Brusco afferrò Zeffirino e lo portò a sé stringendolo. Poggiò il suo torace sulla schiena del figlio, adesso erano entrambi rivolti verso il mare. Brusco avvolse il figlio con le sue braccia spigolose e si accorse che Zeffirino stava crescendo in fretta. Senza doversi chinare, infatti, riusciva a poggiare il mento sulla testa del figlio. Un velo

nostalgico gli scurì il viso.
Reclinò il capo e lo baciò sulla guancia, lasciando in quel bacio tutte le sue preoccupazioni. Zeffirino accolse tutto il calore dell’abbraccio paterno.
In alto nel cielo fosco s’intravedeva la stella polare, e più in basso le grandi costellazioni di Cassiopea e Andromeda si accendevano a nord di Elba. Zeffirino aguzzò la vista. Laggiù nel buio, da qualche parte dove tutto svaniva, c’era il Nautilus.
“Sai, papà, è sul fondale che sosta il Nautilus carico di tesori, dopo mesi e mesi di viaggi avventurosi in lontani paesi di sogno. Negli abissi dove l’azzurro diventa blu, tra praterie di posidonie e coralli rossi, gialli e bianchi, dove danzano i pesci balestra fra le braccia delle alghe e delle meduse fluorescenti, dove dormicchiano sbuffanti spugne variopinte e vigilano gli ippocampi con la corazza dorata, laggiù sono sepolti antichi velieri e barche mai più tornate, inghiottite dal nulla e custodite dalle giganti tartarughe caretta. Sono scrigni delle meraviglie, pieni di tesori. Il capitano Nemo è un vecchio lupo di mare con un fiuto eccezionale per i bottini più preziosi. Ha superato più di mille tempeste e con il suo misterioso equipaggio ha sfidato e sconfitto le terribili creature delle grotte, enormi mostri dai lunghi e appiccicosi tentacoli, con spine e corna velenose. Nonostante i suoi cento anni, il capitano è ancora forte e astuto”.
Non appena ebbe finito di parlare, sulla superficie dell’acqua si irradiò un chiarore intenso. Il mare sembrava essere illuminato dal basso. Uno sbuffo di nebbiolina verde illuminò l’orizzonte. Brusco e Zeffirino intravidero una massa nera che si dileguava verso ovest. Brusco sprofondò nel magico mondo di Zeffirino: avevano trovato la combinazione per camminare insieme fuori dai sentieri già battuti. Davanti a loro, solo il mare.
Il vento scemò e l’irrequieta massa d’acqua indietreggiando scopriva numerosi granchiolini dalla pelle rugosa che, con le industriose zampette, cercavano di aprirsi una via tra gli scogli. Ora l’acqua era quieta come olio. Zeffirino si era rannicchiato fra le braccia nerborute del padre, che respirava a pieni polmoni quel piccolo miracolo fatto della sua stessa pelle. La manina calda di Zeffirino era nella sua. Il resto non importava.

Cristina Cortelletti, La terra delle meraviglie, in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2020, pp. 109-120.

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