Dopo l’uccisione di George Floyd ho sentito la necessità di leggere un romanzo sull’epopea degli afroamericani e la mia scelta è caduta su La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead perché scritta da un afroamericano e perché vincitore di ben due premi: il National Book Award nel 2016 e il Premio Pulitzer nel 2017.
Il romanzo racconta la storia della schiava Cora che, a soli dieci anni, viene abbandonata dalla madre Mabel in una piantagione della Georgia nel primo Ottocento. Qualche anno più tardi anche Cora tenterà la fuga attraverso gli Stati Uniti in un Sud alle prese con la coltivazione del cotone e un Nord abolizionista; una situazione sociale che sfocerà poi nella guerra di secessione.
«La prima e ultima cosa che diede alla figlia furono delle scuse. Cora dormiva ancora dentro la sua pancia, piccola come un pugno, quando Mabel si scusò per il mondo in cui l’avrebbe fatta nascere. Cora dormiva accanto a lei sul solaio, dieci anni dopo, quando Mabel si scusò perché la stava per abbandonare. Nessuna delle due volte Cora la sentì»
Il libro è scritto molto bene. Ci sono pagine intense e l’evolversi della storia scorre magicamente senza stancare mai il lettore, ma ciò che mi colpito è un crescente e evidente stato di paura di cui è pervaso tutto il libro.
Da una parte c’è la popolazione degli schiavi, terrorizzati dalla violenza che subiscono da parte dei bianchi ma dall’altra è evidente la paura dei bianchi per una eventuale supremazia degli afroamericani che vedono assolutamente più forti e vigorosi della razza bianca e, soprattutto, in un numero sempre crescente.
L’antagonista e cacciatore di schiavi Ridgeway quasi alla fine del romanzo afferma:
«A mio padre piaceva fare i suoi discorsi da indiano sul Grande Spirito, ma dopo tutti questi anni, io preferisco lo spirito americano, quello che ci ha fatti venire dal Vecchio Mondo al Nuovo, a conquistare, costruire e civilizzare. E distruggere quello che va distrutto. A elevare le razze inferiori. Se non a elevarle, a sottometterle. Se non a sottometterle, a sterminarle. Il nostro destino prescritto da Dio: imperativo americano».
Parole che sembrano uscite da un discorso nazista anticipandole di un secolo e che evidenziano quanto fosse essenziale per la sopravvivenza dei bianchi americani di quell’epoca, distruggere, sottomettere e sterminare coloro che potrebbero vincerli « […] però non possiamo permettervi di essere troppo svegli. Nè così in forma da riuscire a correre più veloci di noi».
Dichiarazione che mi fanno venire i brividi e che appaiono alle mie orecchie come un abominio.
Il romanzo La ferrovia sotterranea merita di essere letto e sebbene l’idea di una ferrovia sotterranea sia solo frutto dell’immaginazione di Colson Whitehaed, la vicenda narrata offre interessanti spunti di riflessione.
C’è un popolo strappato dalla propria terra, sottomesso, torturato, schiavizzato che non chiede altro se non il diritto di vivere la propria vita alle stesse condizioni dei bianchi. E se nel romanzo sono raccontate anche le vicende dei tanti uomini bianchi morti perché contrari alla schiavitù, appare evidente il messaggio che il popolo degli afroamericani rivolge ai propri simili:
«Possibile che non lo capisci? I bianchi non lo faranno mai. Dobbiamo farlo noi, da soli»
Forse ha ragione la vecchia Amanda, protagonista secondaria del romanzo, quando afferma che «Il conflitto europeo era senz’altro terribile e violento, ma lei aveva da ridire sul nome. La Grande Guerra era sempre stata quella fra i bianchi e i neri. E sempre lo sarebbe stata»
La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead edito da Edizioni Sur
Social Media Manager e Scrittrice