The Hateful Eight

Tarantino torna ad omaggiare il western per raccontare la cattiveria umana nella sua forma peggiore

Attesissimo, come tutti i film del geniale ed imprevedibile regista di Tennessee, è arrivato con il fragore che merita nelle sale l’ottavo film di Quentin Tarantino: “The Hateful Eight”. Inizio davvero scoppiettante almeno qui in Italia, grazie soprattutto alla vittoria del Golden Globe per la colonna sonora del nostro Ennio Morricone.

The Hateful eight

The Hateful eight

E nella maestosa meraviglia del 70 mm (a Roma in questo formato è proiettato addirittura nel Teatro 5 di Cinecittà) la storia si dipana con una trama via via sempre più feroce nella steppa del Wyoming, durante l’età dell’oro, dove una diligenza che trasporta un ferocissimo cacciatore di taglie e la sua prigioniera, la ricercatissima Daisy, è costretta a soccorrere prima un soldato nero, fresco di battaglia tra nordisti e sudisti, poi uno sceriffo fresco di insediamento, tutti diretti nella sinistra cittadina di Red Rock. La tormenta di neve obbliga O.B. il conducente di questa sgangherata diligenza e del suo carico umano pericoloso a fermarsi nella locanda di Minnie, che è un’oasi in quel deserto a meno 20 gradi. L’arrivo di questi 5 strani personaggi scombina e disarticola il già instabile equilibrio dentro la locanda, stranamente occupata soltanto da altri energumeni pieni di armi e di cattiveria, dove manca proprio la proprietaria e suo marito.

Da questo momento in poi, in un fittissimo gioco di dialoghi e di sospetti, prigionieri di una tormenta che ucciderebbe chiunque decida di uscire, si scatenerà la parte peggiore di ciascuno di loro, in un crescendo impossibile da narrare ma che tratterrà il fiato per tutti i lunghi 170 minuti di film.

Gli otto manigoldi del titolo (ma sono un po’ di più a guardar meglio) che Tarantino mette in scena, rappresentano in maniera truce e meschina tutto lo scibile del crimine umano, ma come sempre nei film del regista, i suoi personaggi hanno una carica dialettica e umoristica tale da renderli quasi simpatici, divertenti, violenti fino al paradosso da farli apparire (e questa è l’arte di Tarantino) maschere di se stessi.

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Samuel L. Jackson

Breve ma intense riprese esterne fanno da contorno ad una scena claustrofobica dove, tutti chiusi li dentro la locanda nell’attesa che la tempesta si plachi prima che sia troppo tardi, ci si allea e si combatte in una raffica di sequenze continuamente sorprendenti e dallo stile prettamente “Tarantiniano”. Tanti sono i rimandi ai suoi precedenti film, ad esempio per la narrazione a capitoli a “Kill Bill” oppure nella ferocia dei dialoghi e delle situazioni a “Bastardi senza gloria” e soprattutto a “Le Iene” di cui questo film sembra esser il fratello maggiore.

Ed in questo mondo a parte, l’unico appiglio alla storia vera a cui si aggrappano i protagonisti è dato da una lettera di Abramo Lincoln conservata dal più spietato tra gli spietati, il Maggiore Warren, che ha quello sguardo sardonico di Samuel L.Jackson, che guida un cast splendido, con Tim Roth e Michael Madsen che si stagliano un gradino appena sopra gli altri.

Un film non certo per spettatori impressionabili, il sangue, la violenza gratuita scorrerà a fiumi, ma non è questo che ci si aspetta dal più originale dei registi nati dopo la seconda metà del secolo passato?

Mauro Valentini