La Grande Bellezza, Il “Napoletano a Roma” trionfa a Los Angeles

E così Sorrentino vince tutto! Dopo il prestigioso Golden Globe e il BAFTA britannico, “The Great Beauty” si porta a casa la statuetta che fu di Fellini, De Sica, Petri, Tornatore, Salvatores e Benigni.

Ma che film è? E come mai è così piaciuto alla critica internazionale?

Molto difficile sintetizzare e relegare dentro schemi prestabiliti questo film, così visionario eppur adeso alla realtà decadente e quasi di fine Impero moderno di Roma.

La grande bellezza” della Città Eterna, tutta sotto gli occhi di uno scrittore o pseudo tale, che tanti anni prima aveva scritto un romanzo di successo e con quel successo si era accaparrato un posto di primo piano nei salotti buoni della ricchissima società capitolina.

E la voce fuori campo, o in controcampo di Jep Gambardella, lo scrittore campano senza talento, riflette, sentenzia, calcola la giusta distanza tra il successo e l’eccesso, con quel sorriso sornione e svuotato, mostrandoci l’effimero in tutto il suo orrore.

Un “Napoletano a Roma” si direbbe parafrasando, che scivola tra feste e locali, tutti pieni  degli stessi ricchi viziati, con tutto intorno a questo mondo pessimi e pessimisti pseudo-artisti, drammaturghi, attori, scrittori del nulla e che cadono ai piedi di questo deprecabile pensatore sfaccendato.

La serie di viste da cartolina di Roma si dipana, si vola con pirotecniche di ripresa di grandissima qualità e di grande effetto, scollandosi via via dalla narrazione, a far da contraltare con tanta “grande bellezza” alla “grande miseria” dei suoi personaggi.

E la Roma vera? Dove si trova? Quella è sempre assente, forse secondo Sorrentino e Umberto Contarello, che hanno scritto il film, è solo appena accennata dietro le parolacce gridate al telefono da cafoni di passaggio, o nel sorriso incartapecorito di Antonello Venditti, che ci regala un cameo di inusitata tristezza.

Davanti a tutto c’è Jep e la sua visione dissacrata e posticcia di questa borghesia disfatta, due occhi i suoi, sfacciati e saccenti, che colpiscono senza pietà queste mezze figure, che sfoggia soldi e dissolutezze morali senza un minimo di amor proprio. Mezza tacca tra mezze tacche.

Sorrentino dopo i voli pindarici e molto apprezzati dell’America di “This must be the place” inciampa ad appena 200 km da casa, cercando di raccontare la caduta della Roma che conta, senza riuscire ad esser mai convincente.

La sua storia si aggroviglia fino alla contorsione, alla ricerca vana di un filo narrativo, per poi cadere sovente nel luogo comune, raccontandoci la penosa voglia di botulino di poveri cristi ricchissimi e fuori dal mondo, o le malcelate contraddizioni di uomini di chiesa, per poi concludere la dissertazione noiosa e saccente di Jep con un serafico (e prolisso) ritratto di una suora in odor di santità con il suo stuolo di parassiti di contorno.

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grandebellezzaservillo2Un film presuntuoso e pretestuoso dunque, che parte facendo il verso a Federico Fellini per poi inciampare nell’imitazione di Wim Wenders, diventando un piccolo tentativo scoordinato di creazione di un “Cult movie”.

Toni Servillo è sempre straordinario nella sua recitazione senza concitazione, che però diventa qui troppo auto referenziata, slegata quasi dal contesto, arrivando al paradosso di un film a servizio del suo attore principale e non il contrario come è d’obbligo nel Cinema. Le sue sigarette e i suoi silenzi compiaciuti sono sempre troppi, come di troppo sono gli ultimi 40 minuti di film, incensati di amore sacro, assolutamente profano.

Molti i personaggi di contorno, piccolissime apparizioni, quasi una ”isola dei famosi” tra alti e bassi, con Iaia Forte e Roberto Herlitzka molto a loro agio negli ondeggiamenti strambi della storia, mentre male malissimo Isabella Ferrari che come al solito finisce la sua performance in una camera da letto e Serena Grandi, su cui il regista indugia senza pietà disintegrandole quel poco di credibilità rimasta.

Carlo Verdone è bravissimo e al cospetto del pigmalione-Servillo regge il confronto, si cala molto bene nel ruolo drammatico e avvilito di Romano, commediografo senza arte nè parte, restituisce una grandissima prova d’attore togliendosi la maschera del comico, mentre lascia senza parole la triste Sabrina Ferilli, sempre fuori luogo, sempre senza vestiti, sempre senza espressione. Servillo prova a scuoterla, a rianimarla con i sali dell’arte, ma niente, la bambola ormai cresciuta rimane pur sempre imbambolata.

Fotografia bellissima di Luca Bigazzi, la “grande bellezza” si esprime soltanto cosi, visivamente, anche la musica è ricchissima, con Lele Marchitelli che scrive partiture romantiche e di grande respiro, che contrastano efficacemente i rumori delle feste mondane, ma tutto il film seppur ben confezionato tracima di saccenza, di prolissa deferenza verso se stesso e il finale che non arriva mai distrugge anche quel poco di appassionato che aveva mostrato nella prima parte.

Un film spiazzante, molto “Americano” e che infatti Cannes non aveva neanche notato, punendo forse quell’edonismo specchiato di un autore presuntuoso che però invece. ha conquistato l’Academy.